Matteo Maria Boiardo

orlando

Re- L. Simoni. L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001
Luperini-P. Cataldi-L. Marchiani-F. Marchese. La scrittura e l’interpretazione. Dalle origini al manierismo. Volume primo. Palumbo editore. Firenze. 2000.
VV., La letteratura italiana in Cd-Rom, G. D’Anna editore- La repubblica Edizioni. Milano. 1999.
Guglielmino-H. Grosser. Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994
Gioanola, Storia della Letteratura italiana. Dalle origini ai giorni nostri. Librex editore, Milano, 1992
Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento, Giuseppe Principato editore. Messina-Milano, 1937.

Non vi paia, Signor maraviglioso

Sentir contar d’Orlando Innamorato,

Ch’amor per sua natura è generoso,

E contro a’ suoi ribelli è più ostinato:

Né forte braccio, né core animoso,

Maglia, elmo, o scudo incantato, e fatato,

Né forza alcuna al fin può far difesa,

Che battuta non sia d’amore, e presa.

Il conte Boiardo rappresenta la figura di maggior rilievo dell’umanesimo “estense”, anche se la sua poesia rimane del tutto autonoma, nei temi e nello stile, rispetto alle determinazioni della cultura umanistica, in virtù della predilezione per l’epica cavalleresca e del gusto per la narrativa[1].

Nasce a Reggio nel 1441, nella tenuta di Scandiano del padre conte Giovanni, feudatario del luogo e da Lucia Strozzi; riceve un’educazione umanistica.

Morto il padre nel 1451,  studia sotto la guida del nonno paterno, Feltrino, che insieme allo zio, il poeta Tito Vespasiano Strozzi, lo avvia verso una cultura umanistica, basata sullo studio di scrittori latini e volgari. Alla morte del nonno, è costretto, ancora giovanissimo, ad occuparsi del feudo, ma nel frattempo frequenta le corti di Ferrara, Modena e Reggio, rivelando un carattere estroso, originale, in perfetta sintonia con l’ambiente raffinato e mondano della corte di Lionello d’Este.

Compone versi encomiasti­ci in latino per gli Estensi perché ambisce a diventare poeta di Corte; poco dopo i vent’anni scrive i Carmina de laudibus Estensium e i Pastora­lia, dieci egloghe di tipo virgilia­no, intese a celebrare la virtù del duca Borso[2] e del suo fratello Ercole[3], sotto i quali era possibile pensare alla realizzazione di un’Arcadia padana.

Per Ercole d’Este che si dilettava di letture storiografiche, il giovane Boiardo tradusse le Vite dello storico Cornelio Nepote[4] e, da versioni latine, la Ciropedia di Senofonte[5] e le Storie di Erodo­to, sulle quali imparò a farsi la mano di narratore ampio e avventuroso.

Per Antonia Caprara, la donna di cui si era vanamente innamora­to alla corte reggiana di Sigismondo d’Este, compose intanto la lirica in volgare raccolta negli Amorum libri tres (1469-1471)[6], il maggiore canzo­nie­re del secolo, petrarchesco nelle intenzioni ma molto originale per la tendenza a descrivere vivacemente gli effetti del sentimento amoroso e i suoni e colori della natura.

Nel 1471 seguì a Roma Borso per l’investitura ducale e due anni dopo fu a Napoli come accompagnatore di Eleonora d’Aragona che veniva a Ferrara sposa di Ercole I, al cui servizio il Boiardo si pose.

Per Ercole e per la corte estense mise mano attorno al 1476 (anno in cui entrò a corte come familiare del duca) alla composizione dell’Orlando innamorato, attendendovi anche quando fu nominato capitano a Modena nel 1480.

Tra il 1483 ed il 1487 pubblicò a Reggio Emilia le prime due parti del poema, di ventinove (1483) e trentuno (1487) canti ciascuna, mentre la composizione della terza parte continuò molto a rilento per gli impegni pubblici e per le cattive condizioni di salute, interrompendosi definitiva­mente al nono canto[7] in coincidenza con l’arrivo in Italia delle truppe francesi di Carlo VIII[8], contro i cui sopru­si egli tentò di opporsi in qualità di capitano di Reggio in quel 1494 che doveva essere l’ultimo della sua vita.

Boiardo riprende la poesia dei cantari per nobilitarla affinan­dola al clima colto di corte: la sua non è soltanto una scommessa letteraria, ama davvero la materia e soprattutto quel mondo di lealtà cortesia e valore a cui poteva aspirare la nuova nobiltà.

Il racconto si svolge in tre filoni: quello avventuroso dei viaggi, duelli, battaglie e magie (tipico del ciclo bretone), quello encomiastico, attorno all’amore di Ruggero e Bradamante, mitici[9] capostipiti della famiglia estense, e quello amoroso[10], di gran lunga il più svi­lup­pa­to, tanto da costituire l’epicentro affettivo e strutturale di tutto il poema (e lo stesso titolo è molto eloquente in questo senso[11]).

Il movimento del romanzo infatti è determinato, nel quadro della guerra tra Cristiani e Saraceni, dalle imprese che i paladini compiono per conquistare la bella Angelica, l’irresisti­bile figlia del re del Catai, e le cose sono avventurosamente complicate dalla funzione delle due fontane dell’odio e dell’amo­re, per cui quando la donna è innamorata di una paladino questi la rifugge, e vicever­sa, con un movimento che nella sua apparente meccanicità, riflette bene una condizione reale degli affetti umani, e di quelli dell’autore in particolare.

Riassumere la trama del poema è pressoché impossibile[12], in sintesi si può dire che Angelica arriva a Parigi col fratello Argalia e due giganti suoi servitori, mentre si sta svolgendo un grande torneo a cui partecipa­no più di ventimila cavalieri cristiani e saraceni e a nome del fratello propone una sfida a tutti i cavalieri convenuti: chiun­que lo abbatterà avrà lei stessa in premio, mentre i cavalieri sconfitti diverran­no suoi prigionieri.

Argalia, fidando nella bellezza di Angelica ed in una lancia fatata, medita, per volere del padre, di togliere di mezzo tutti i più validi cavalieri cristiani e saraceni, favorendo così l’inva­sione dell’Occidente da parte dello stesso Galafrone, re del Catai.

Ma il piano non riesce: Argalia viene ucciso da Ferraguto (Ferraù nell’Orlando Furioso) che, per quanto vinto, non accetta di darsi prigioniero, e riesce a sorprendere l’avver­sario mentre questi non è in possesso della lancia fatata; Angeli­ca fugge dal campo cristiano.

Svariati cavalieri cristiani, affascinati dalla sua bellezza, partono al suo inseguimento lasciando sguarnito il campo (per questo Orlando conserverà un “senso di colpa”) mentre l’emiro di Sericana, Gradasso, lo minaccia con centocinquantamila uomini, perché vuol conquistare il cavallo di Rainaldo, Baiardo, e la famosa spada di Orlando, la Durlindana; in questi frangenti arriva a far prigioniero il re cri­stiano, mentre Rainaldo viene rapito dal mago Malagigi.

Astolfo però, grazie alla lancia fatata di Argalia, sbaraglia Gradasso.

Con la fuga di Angelica inizia una serie di avventure in Occidente ed in Oriente, presso Albracca, patria di costei; avven­ture che vedono per la maggiorparte (ma non solo) protagoni­sti Orlando, Rainaldo ed Angelica.

Rainaldo, partito per amore all’inseguimento di Angelica, giunto nella selva Ardenna beve ad una fonte, che per un incan­ta­mento di Merlino, ha il potere di disamorare chi vi si abbevera, come puntualmente accade a Rainaldo, mentre Angelica beve ad una fonte che produce l’effet­to inverso e si innamora di colui che più non l’ama; sarà lei ora ad inseguirlo.

Questi – dopo aver convinto il mago Malagigi a trasportare Rainaldo su un’isola incantata – ed altri personaggi si ritrovano dopo svariate avventure presso Albracca, dove è in corso una guerra tra Sacripante ed Agricane, re di Tartaria, per il possesso di Angelica.

Le loro contese si mescolano a quelle dei cavalieri cristiani: il circasso Sacripante ed Orlando difendono Angelica dagli assalti di Agrica­ne che cinge d’assedio la città di Albracca e che infine verrà ucciso in duello da Orlan­do.

I duelli si moltiplicano, così come le avventure ed i perso­naggi secondari. Abbondano anche lotte con personaggi fantastici come draghi, grifoni, centauri, tori, sirene ecc. e si incontrano palazzi e giardini incantati, maghi e fate.

Rainaldo si sottrae all’incantesimo di Malagigi e va in cerca di Orlando per riportarlo in Francia, ma tra i due scoppia un furibondo litigio.

Frattanto Agramante, re pagano, progetta di invadere la Fran­cia per vendicare la morte del padre, Troiano.

Con lui è Rodamonte, re di Sarza, ma un indovino sostiene che, per sconfiggere i cristiani, è necessaria la presenza di Rugiero, che però è tenuto nascosto dal mago Atlante.

Rodamonte decide ugualmente di salpare da solo per la Francia, mentre si iniziano le ricerche di Rugiero.

Rodamonte, sbarcato in Francia, mette a dura prova gli eserciti cristiani. Più tardi anche Agramante sbarca in Francia con gli eserciti precedentemente radunati e con Rugiero, ritrovato e liberato dalla tutela del mago Atlante, grazie ad un anello fatato che il ladro Brunello riesce a sottrarre ad Angelica e che ha il potere di vanificare gli incantesimi.

Là Agramante, Rodamonte, Mandricardo (figlio di Agramante) e Marsilio, re di Spagna, ingaggiano una guerra contro Carlo Magno, che però è soccorso da Rainaldo, Orlando ed altri paladini, che con Angelica avevano fatto ritorno in Occidente.

Il rapporto tra questi personaggi è però mutato nuovamente, perché Rainaldo, bevendo alla fonte dell’amore, ha ripreso ad amare Angelica, che peraltro si è disamorata di lui (ed anzi lo odia) avendo bevuto a quella opposta.

 Proprio per questo amore vengono ferocemente a duello Rainaldo ed Orlando; Carlo Magno che tiene Angelica prigioniera li separa e promette in sposa Angelica a chi si distinguerà nella guerra contro Angricane (nel frattempo affida Angelica a Namo, duca di Baviera).

 Tutte queste circostanze sono a sfavore dei Cristiani; il poema si interrompe nel momento in cui i saraceni hanno posto l’assedio a Parigi, dove Carlo Magno si è arroccato.

Nel corso di queste ed altre vicende nella parte terminale dell’opera si accenna anche al nascente amore tra Rugiero e Bradamante, destinati a divenire, come già accennato, mitici capostipiti della dinastia estense.

L’originalità del Boiardo sta nella funzione ideale attribuita agli eroi e alle loro avventure, che si fanno portatori di valori umanistici quali la corte, la nobiltà del sentire, l’amore cortese, la grandezza d’animo, che rivalutano la cavalleria scaduta a mero divertimento con il Pulci.

I personaggi derivano come si è visto per la maggior parte dal ciclo carolingio, ma il Boiardo apporta, in altre parole,  varianti notevoli alla loro immagine e psicologia tradizionali.

L’idea, in sé, non è del tutto nuova: già i canterini tendevano a adattare i caratteri degli eroi dei romanzi cavallereschi al gusto dei loro ascoltatori, accentuando gli elementi che potevano colpirne la fantasia.

L’Orlando innamorato comprende una miriade di episodi e una folla di personaggi maschili e femminili.

Un rilievo comune della critica è che il Boiardo non si curi troppo di definire la psicologia dei suoi eroi, preso com’è dal gusto di raccontare le strabilianti e infinite avventure. È un’osservazione solo in parte corretta, che vale soprattutto per la folta schiera dei personaggi minori: ma va detto che neanche questi sono mai ridotti dall’autore a figurine del tutto prive di spessore umano.

I ritratti meglio delineati sono, naturalmente, quelli dei protagonisti: il prode Orlando, che l’amore rende più delicato e gentile, vive quasi in uno stato di stordimento e prova un senso di colpa, perché si lascia distrarre dai suoi doveri di paladino; l’impetuoso Rainaldo è sempre impegnato nelle mille faticose vicende legate alla fuga e all’inseguimento di Angelica.

Gli eroi ideali degli antichi poemi epico-cavallereschi vengono travolti, nell’Orlando innamorato, dal comune destino di innamorarsi tutti, indistintamente, della bella Angelica, e di ingelosirsi l’uno dell’altro.

Diventano quindi uomini come gli altri, soggetti a passioni, a debolezze, a turbamenti.

Resta però la pluralità dei caratteri: alcuni sono guerrieri forti e coraggiosi, come il brutale Agricane, altri sono fanfaroni, come Astolfo, o Gradasso, “cor di drago e membra di gigante”.

C’è chi è falso fino allo spergiuro, come Truffaldino, o decisamente comico, come il furbo nano Brunello, ladro abilissimo, vero campione del furto.

Anche l’indole delle donne è varia. Bradamante (sorella di Rainaldo e promessa sposa di Rugero) è bella, sensibile e modesta ma anche un’indomita guerriera e la pagana Marfisa (sorella di Rugero) è tanto coraggiosa e forzuta da osar prendere un guerriero per l’elmo e gettarlo a terra “come fosse una palla di cotone”; Fiordelisa è una fidanzata fedele (di Brandimarte), Leodilla scalpita per essere stata sposata ad un vecchio.

Su tutte, com’è ovvio, emerge Angelica. Fredda e scaltra, calcolatrice e infida, pronta a valersi della seduzione o delle arti magiche con eguale indifferenza, è anche lei però vinta dalla forza dell’amore, e diventa tenera e sensuale, capricciosa e provocante, decisa a soddisfare in ogni modo la propria passione.

Un fattore costante nel poema è la magia: l’Orlando innamorato è popolato di mostri e di maghi, alcuni dei quali, come Merlino e Morgana, sono tratti dalla tradizione bretone.

Gli incantesimi e le stregonerie si susseguono in modo tale che tutti i personaggi maggiori hanno a che fare, prima o poi, con un evento di magia, e sovente un duello si combatte a colpi di incantesimi.

È un aspetto che induce a riflettere. Non solo gli infedeli lottano con le armi del sovrannaturale, ma anche i paladini, tra i quali lo stesso Orlando: combattere contro un drago, per esempio, anche se non è un evento comune, rientra nell’ordine delle possibilità.

Ne deriva una “normalizzazione” della magia: nell’universo del Boiardo la magia convive con il quotidiano, diventa quasi qualche cosa di “naturale”.

Ma il mondo del Boiardo è anche laico e, di conseguenza, l’uso della magia non è sintomo né di virtù né di perfidia: essa non è strumento del male (come sarà, invece, nella Gerusalemme liberata del Tasso).

Inoltre, la magia assolve a un duplice scopo: è un ingrediente per avvincere il pubblico, per destare la sua curiosità o meraviglia, per divertirlo; ma consente anche all’autore di districare i suoi personaggi da situazioni particolarmente ingarbugliate o paradossali: infatti, proprio perché sovrannaturale, il magico non ha bisogno di giustificazioni plausibili.

Il Boiardo si distacca dai modelli precedenti, e lo fa in modo del tutto consapevole.

I paladini del ciclo carolingio erano consacrati solo alla difesa del re e della fede; i cavalieri della Tavola Rotonda erano mossi dal desiderio d’avventura e si lasciavano coinvolgere in ardenti e a volte fatali passioni amorose.

Anche nei cantari, i paladini erano forti, coraggiosi e leali, e già propensi all’amore; ma restavano rudi, privi della eleganza e nobiltà di comportamento proprie dei cavalieri di Artú.

La prima novità introdotta dal Boiardo è l’unione tra i due motivi della prodezza e della cortesia, ottenuta organizzando la trama intorno agli innamoramenti di Orlando e di tutti i paladini. L’originalità dell’Orlando innamorato non si limita ad un rinnovamento di temi, ma è il frutto di motivazioni ideologiche, che è essenziale ricostruire, per comprendere appieno la novità del poema: il Boiardo interpreta e traduce in forma letteraria un’esigenza propria dell’ambiente in cui vive.

Qui i valori e gli ideali cavallereschi sono non soltanto ancora fortemente radicati nella cultura collettiva, per le condizioni storiche e politiche, ma anche coltivati nella corte, grazie alla presenza, nella biblioteca estense, di un settore romanzesco particolarmente ricco di materiali bretoni e carolingi.

L’ininterrotto prestigio goduto dalla civiltà cavalleresca si incontra ora con le più moderne suggestioni umanistiche, dalle quali prende forma un nuovo modello di individuo virtuoso, che poggia la sua esistenza sull’agire attivo, ma la cui personalità si integra e si completa con le doti dell’educazione e della cultura.

Lo spirito umanista del Boiardo non vede più le differenze pur profonde che distinguevano i due cicli da cui prende ispirazione: ne trae, invece, l’ideale di una civiltà che sa conciliare lo spirito d’avventura con la raffinatezza della vita di corte, il coraggio in guerra con la devozione per la patria, la difesa dell’onore personale con il rispetto della fede. Egli ricompone questi princípi in una visione unitaria, nella quale non si deve ricercare una vana e astratta nostalgia per un passato ormai sepolto.

[1] I grandi cicli epico-cavallereschi del Medioevo francese, sia quello carolingio che quello bretone, avevano incontrato anche in Italia vasta popolarità e larga diffusione, ispirando un numero ragguardevole di scrittori e creando un pubblico che per l’epoca si poteva ben definire “di massa”: libri come il Guerrin meschino o I reali di Francia di Andrea da Barberino, per esempio, erano ormai entrati a far parte della cultura popolare, e insieme ai numerosissimi cantari – in gran parte anonimi -, che si diffondono in Italia soprattutto durante il XIV secolo, offrono i punti di riferimento essenziali per l’elaborazione di un immaginario collettivo destinato a pesare a lungo non solo sulla storia letteraria ma anche su quella della mentalità e del costume. Tuttavia, nella nostra tradizione erano mancati il protagonista e il libro di eccezione, una personalità e un’opera paragonabili, per intenderci, a ciò che in Francia avevano rappresentato Chrétien de Troyes e la Chanson de Roland. I grandi talenti della letteratura italiana avevano preferito dedicarsi ad altri generi, dal poema allegorico alle cronache, dalla lirica amorosa alla novellistica, e anche se tutti avevano attinto a piene mani alla tradizione cavalleresca (basti pensare a tanti episodi della Commedia o, più ancora, al Decameron), nessuno si era dedicato a questo genere in modo univoco e specifico. I motivi stanno probabilmente nella natura aristocratica e selettiva della cultura italiana che, chiusa nel suo recinto classicheggiante, sdegnava le forme più vicine alle tradizioni popolari romanze come era appunto la poesia cavalleresca, considerata una forma d’arte minore. Quando però anche le raffinate corti italiane cominciarono ad appassionarsi alle avventure di cavalieri e paladini, questo genere letterario non poteva non esprimere pure in Italia i suoi interpreti di alto livello. Che ciò sia avvenuto nel corso del XV secolo e segnatamente tra Ferrara e Mantova non è certamente un caso: è questo il periodo in cui la borghesia mercantile, dopo aver prevalso nella dura lotta di potere contro le aristocrazie feudali, cerca una legittimazione e una consacrazione appropriandosi di quella cultura cavalleresca che era stata fino a quel momento espressione del vecchio gruppo dirigente e assumendone in proprio, attraverso la rievocazione letteraria, i valori oramai spenti nella prassi della storia. Per quanto riguarda invece la localizzazione geografica, dobbiamo osservare che il sud-est della Padania era la zona dove meglio che altrove l’eredità della letteratura epico-cavalleresca francese si era potuta incontrare con un volgare italiano ben strutturato e sottoposto a una secolare influenza del modello toscano (non dimentichiamo che uno dei maestri del “dolce stil novo” fu Guido Guinizelli, che era bolognese). L’apertura alle influenze della tradizione francese, la disponibilità di un efficace strumento linguistico e la presenza di un pubblico qualificato sono dunque all’origine della delimitazione territoriale relativamente ristretta assunta in Italia dalla produzione epico-cavalleresca di carattere colto, che trovò appunto la sua prima grande espressione alla corte di Ferrara con Matteo Maria Boiardo.

[2] Signore del ducato di Modena e Reggio dal 1452 e poi  di quello di Ferrara dal 1471.

[3] Governatore di Modena: assai importante anche per la pianificazione urbanistica di ispirazione greco-romana che prende campo nel Rinascimento.

[4] Si tratta della raccolta De viris illustribus (I personaggi celebri) in sedici libri.

[5] Storico e poligrafo ateniese (430 circa – 354 a.C.). Verso il 404 entrò nel numero dei discepoli di Socrate. Ma lo spiccato interesse per le attività pratiche e l’arte militare e l’insofferenza per l’affermarsi della democrazia l’indussero nel 401, a seguire, in qualità di osservatore, i mercenari greci assoldati da Ciro il Giovane in lotta con il fratello Artaserse II. Dopo la cattura per tradimento di cinque dei dieci strateghi greci, egli fu eletto fra i nuovi strateghi. Negli anni seguenti la simpatia per Sparta gli procurò, in data imprecisata, la condanna all’esilio e la confisca dei beni. Le numerose opere pervenute si possono dividere in opere storiche o a sfondo storico, opere filosofiche rievocanti la personalità e l’insegnamento di Socrate (Apologia di Socrate, I Memorabili di Socrate, in cui Socrate è presentato come uomo pio e soprattutto sollecito del bene della patria); e in opere tecniche.

[6] Il titolo è di ascendenza ovidiana ed il libro viene pubblicato postumo nel 1499; il poeta si ispira a Virgilio, ai provenzali e agli stilnovisti pre-Danteschi, Dante, Cavalcanti e soprattutto Petrarca; gli Amorum libri tres sono l’unico canzo­niere petrarchi­sti­co del Quattrocento (180 rime, 60 per ogni libro di cui cinquanta sonetti per libro), sia per la scelta metrica (madrigale, sonetto, canzone, ballata) sia per quella del tema amoroso. Nell’opera il Boiardo coglie e rappresenta con moto spontaneo e schietta sensibilità il fascino paesistico, i ritmi, i colori, i suoni della natura e il senso della vita che in essa si svolge o si proietta e in parti­co­lare l’amore per i sentimenti elementari – nostalgia, dolore, senso del trascorrere del tempo ecc.- che ad esso si riconnetto­no. A differenza del Petrarca in Boiardo, come in Poliziano del resto, è presente la sensualità (luci, colori e suoni); non c’è invece la profondità del Petrarca, né nello stile, né nel conte­nuto; il linguaggio non è infatti sobrio e severo, ma è espansivo e caldo, vivace e colorito, appassionato e descrittivo; nel contenuto si nota un’intima disposizione verso il vitalismo, l’ottimismo e la letizia, che coinvolgono non solo la natura ma anche la donna e l’amore per lei.

L’itinerario descrittivo scelto è petrarchesco: nel I libro si narra della gioia di un amore nascente e ricambiato, nel II la gelosia dell’innamorato che vive la delusione del tradimento, nel III un’incertezza di stato che oscilla tra rinnovate speranze, nostalgici ricordi e un conclusiva meditazione morale (che ha il suo apice nel riconoscimento di un insanabile errore e del conseguente pentimento religioso).

[7] Venne poi pubblicata postumo nel 1495 a Venezia e a Reggio (insieme alle altre due parti). La versione originale, però, scompare dopo la composizione dell’Orlando furioso, e ne rimane solo il rifacimento di Francesco Berni. La riscoperta del testo del Boiardo è merito di Antonio Panizzi, che nel 1830 ne  cura un’edizione uscita a Londra.

[8] E con una celebre ottava in cui si lamenta la situazione dell’Italia messa a ferro e fuoco dalla calata di Carlo VIII.  Questi  (Amboise 1470-1498), re di Francia (1483-1498), figlio di Luigi XI, regnò sotto la tutela della sorella Anna di Beaujeu dal 1483 al 1491. Nel 1491 sposò Anna di Bretagna annettendo alla Francia la provincia della moglie. Nel 1494, dopo essersi assicurato con dispendiosi trattati la neutralità dell’Inghilterra, dell’Aragona e del Sacro romano impero, intraprese appunto una spedizione in Italia, con l’intenzione di conquistare il Regno di Napoli. Nel 1495 entrò vittorioso a Napoli, ma presto gli stati italiani si coalizzarono in una lega antifrancese e lo obbligarono alla ritirata. Carlo VIII morì mentre preparava una nuova campagna militare.

[9] Il capostipite reale della dinastia fu Alberto Azzo II (996 ca. – 1097), che ottenne dall’imperatore il titolo di marchese della città di Este, nei pressi di Padova. Dai figli di Alberto Azzo ebbero origine i due rami della famiglia, quello bavarese e quello italiano.

[10] Di cui l’incarnazione è Angelica, personaggio che è cosa nuova nella tradizione epico-cavalleresca europea.

[11] Esso richiama anche le fonti di ispirazione del Boiardo: il ciclo carolingio e quello bretone.

[12] perché gli episodi si intersecano con estrema frequenza, interrompendosi all’improvviso e ripren­dendosi a distanza, secondo una tecnica narrativa a puntate (c.d. entrelacement) che l’Ariosto perfezione­rà fino al virtuosi­smo.

Angelo Poliziano

poliziano
Re- L. Simoni. L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001
Luperini-P. Cataldi-L. Marchiani-F. Marchese. La scrittura e l’interpretazione. Dalle origini al manierismo. Volume primo. Palumbo editore. Firenze. 2000.
VV., La letteratura italiana in Cd-Rom, G. D’Anna editore- La repubblica Edizioni. Milano. 1999.
Guglielmino-H. Grosser. Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994
Gioanola, Storia della Letteratura italiana. Dalle origini ai giorni nostri. Librex editore, Milano, 1992
Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento, Giuseppe Principato editore. Messina-Milano, 1937.

Come il Petrarca anche Poliziano, che pure ripropone con le Stanze e l’Orfeo le possibilità poetiche del volgare inaugurando la ripresa della poesia italiana dopo un secolo di relativa povertà, affida la sua rinomanza più alle composizioni in latino e agli studi filologici che all’opera in volgare, destinata invece, a dargli un nome di prestigio nella storia letteraria.

Col Poliziano il volgare, debitamente modellato sui modelli classici, ridiventa stabilmente la lingua della poesia, mentre Petrarca viene individuato come punto di riferimento per ogni operazione lirica.

Figlio del grande Umanesimo fiorentino, Poliziano realizza in poesia, ciò che gli altri ingegni artistici del suo tempo realiz­za­rono in altri campi, Botticelli e Michelangelo nella pittura, Donatello nella scultura, Alberti nell’architettura.

Angelo Ambrogini nacque il 14 luglio del 1454 a Montepulciano e dal nome del paese d’origine, debitamente latinizzato, si fece chiamare Poliziano.

Era figlio di un notaio filomediceo e all’età di dieci anni perse il padre, assassinato per motivi politici; ma, dotato di ingegno vivacissimo, P. volle in ogni caso compiere studi adegua­ti alla sua intelligenza e alle sue inclinazioni, trasferendosi a Firenze appena quindicenne.

Qui cominciò a frequentare il celebre Studio e l’Accademia platonica, avendo come maestri Giovanni Argiropulo, Marsilio Ficino, Cristoforo Landino, dai quali apprese le lingue classiche la filosofia platonica.

Nel 1470, a soli sedici anni, cominciò a tradurre in versi latini l’Iliade (libro II e IV[1]), con la speranza di ottenere la protezione di Lorenzo de’ Medici (cui dedica il II e III libro), che infatti non gli fece mancare qualche sovvenzione e nel 1473 lo accolse presso di sé nel palazzo di Via Larga, mentre la traduzio­ne del libro omerico non andava oltre il quinto libro.

Quando Angelo ebbe vent’anni Lorenzo gli affidò l’incarico di “cancelliere” e l’educazione del figlio Piero[2] e da quale momento il poeta iniziò propriamente a far parte della famiglia del suo protet­tore ed amico. Compose in questo periodo la Sylva in Scabiem[3].

Quando il 29 gennaio del 1475 Giuliano, fratello di Lorenzo, vinse un torneo cavalleresco[4], Poliziano iniziò la composizione del poemetto in ottave Stanze per la giostra che rimarrà interrotto al secondo libro[5], per la morte del dedicatario non ancora ventiduenne nella congiura dei Pazzi[6] del 26 aprile 1478 di cui il  poeta è testimone.

Tra il 1473 e il 1478 si colloca la composizione di un primo gruppo di epigrammi, odi ed elegie, il tutto raccolto dopo la morte dell’autore sotto il titolo Liber epigrammaton (Libro degli epigrammi).

Ne emergono doti straordinarie di erudizione e virtuosismo linguistico, alle quali l’autore aggiunge la capacità di assimilare la tradizione lirica classica, e di rielaborarla in forma elegante e chiara, attraverso un’attenta e raffinata opera di selezione del lessico. I temi tradizionali dell’elegia latina e greca si arricchiscono però anche di richiami alla lirica volgare, di echi stilnovistici e petrarcheschi.

Nel 1477 P. stende per il Magnifico l’Epistola proemiale alla Raccolta aragonese[7] ed ottiene il priorato di San Paolo.

Nell’Epistola proemiale alla Raccolta Aragonese, il Poliziano, per bocca di Lorenzo il Magnifico, difende con serrate argomentazioni il volgare illustre, e in particolare il toscano.

Le tesi sono analoghe a quelle che poi sosterrà per il latino: ogni testo va prima considerato nell’ambito storico in cui è stato prodotto, poi messo in relazione con altri testi, in modo da raggiungere sia la conoscenza approfondita di ogni singolo autore sia una visione complessiva della produzione letteraria nelle varie epoche.

Il Poliziano assegna una posizione di netta superiorità ai due “soli”, Dante e il Petrarca, dei quali “meglio essere giudico tacere che poco dirne”, ma cita altri “infiniti e chiarissimi esempli” di poesia in volgare e formula acuti giudizi su molti scrittori, non solo toscani, ma provenzali e siciliani.

Un contrasto con donna Clarice, moglie di Lorenzo, e poi con lo stesso protettore indusse il P. nel 1479 a lasciare Firenze.

Si reca così a Padova, Verona e Venezia e successivamente accoglie l’invito dei Gonzaga di Mantova: presso Federigo Gonzaga compone, in soli due giorni,  forse nel 1480, per una festa di corte (probabilmente un duplice matrimo­nio), la favola pastorale Orfeo, capostipite di un genere desti­nato a prosperi sviluppi fino al Settecento.

Ma il poeta non sa vivere fuori da Firenze e quindi scrive a Lorenzo per essere richiamato in patria e questi gli concesse volentieri il permesso di rientrare.

Anteriormente al 1480 si situa la composizione delle Rime in volgare[8].

Esse comprendono una trentina di canzoni a ballo, nove rispetti[9] continuati e circa un centinaio di rispetti spicciolati, oltre ad alcune canzoni e sonetti.

Nelle Canzoni a ballo il Poliziano riprende, in parte, argomenti propri del gusto contemporaneo, che si ritrovano anche nella poesia del Magnifico.

Vi predomina un’esaltazione vitalistica della bellezza e dell’amore, cui s’accompagna l’invito a godere i piaceri della giovinezza, che ben presto sfiorisce.

Il tema della precarietà dell’esistenza si sviluppa attraverso un lessico e una sintassi semplici, in toni delicati e leggeri, che ricordano, appunto, i facili ritmi di certa poesia popolare.

Ma l’autore si avvale di tutta la sua cultura classica: dotti sono, ad esempio, gli echi di quella lunga tradizione che fin dalla più remota antichità si è fermata a riflettere sull’inesorabile scorrere del tempo, sulla caducità della vita, sul rapido declino della gioventù e sulla fragilità delle gioie riservate all’uomo.

Anche nello stile, il Poliziano spazia entro una vasta gamma di registri, frutto della sua raffinata cultura.

La descrizione nitida e vivamente coloristica della natura si sviluppa con armonia ed equilibrio; il ritmo è musicale, le molte figure retoriche, tra le quali la similitudine e la metafora, sono usate con misura e proprietà.

Le reminiscenze colte, di poeti come il latino Orazio, ma anche dei lirici italiani del Duecento e del Trecento, si traducono così in immagini fresche e spontanee, scorrevoli, di rara eleganza e raffinatezza.

Nei Rispetti, il Poliziano si ispira a vicende mitologiche celebri, tratte da autori greci e latini.

Anche qui, come nelle ballate, i riferimenti cólti vengono rielaborati con grande abilità e forza stilistica, e le citazioni erudite si liberano da ogni freddezza e vibrano di una fresca vivacità, che coinvolge il lettore.

Tra le altre opere in volgare, si trovano i Detti piacevoli, facezie e detti brevi, che appartengono, come sappiamo, a un genere assai praticato in questo periodo.

Tuttavia, anche in questo caso i contenuti e certe particolarità di stile si discostano dalla regola del genere. Un costante atteggiamento riflessivo mitiga il tono divertente e trasforma episodi apparentemente marginali in lezioni di moralità di valore universale.

Spesso, poi, i motti sono affidati a personaggi storici e questo aggiunge loro un tocco di verità. Lo stile si distingue per la stringatezza dei periodi, mentre il linguaggio fiorentino, con venature dialettali, si presta, grazie alla particolare espressività, a rendere i concetti in modo sintetico ed efficace.

Nei suoi ultimi anni, il Poliziano compone anche tre Sermoni per una confraternita di religiosi fiorentini e una Lauda a Maria Vergine.

Sempre nel 1480 il poeta, che tre anni prima si era fatto chierico ed aveva ottenuto un beneficio ecclesiastico, ebbe un posto di docente allo Studio fiorentino: il suo insegnamento di lettere latine e greche ottenne grande successo e la sua fama uscì addirittura dai confini italiani (lo stesso Michelangelo fu tra i suoi allievi).

Dopo questa data Angelo scrisse esclusivamente in latino, o addi­rit­tura in greco, come negli Epigrammi, componendo le Sylvae, che sono introduzioni poetiche ai suoi corsi universitari: bisogna ricordare Manto (Mantova) che ha per tema la poesia di Virgilio; il Rusticus (il contadino) per gli efficaci toni agresti e naturali­stici; Ambra (Ambra, dal nome di una villa medicea) tratta della poesia di Omero e Nutricia (il baliatico), dove compie l’elogio della poesia.

In tutte le Sylvae è ravvisabile uno degli elementi essenziali della poetica del Poliziano, e cioè la sua ferma convinzione che la poesia svolga un compito insostituibile, poiché sviluppa nell’umanità il gusto del bello e quindi favorisce il passaggio dalla barbarie alla civiltà.

Inoltre, la poesia è eterna, poiché vince la distruzione del tempo e conserva inalterata la memoria delle più nobili gesta dell’uomo.

Anche le prolusioni in prosa (Praelectiones) hanno un notevole interesse. In esse, e soprattutto nella prima dedicata a Stazio e Quintiliano, lo scrittore espone le sue teorie letterarie: sottolinea l’indiscutibile valore dell’uso del latino, ma accetta, insieme agli esemplari “aurei” come Cicerone, modelli di altri periodi ingiustamente trascurati, quali quelli offerti da Quintiliano e Stazio.

Infine ribadisce, come altri umanisti, la profonda convinzione che lo studio dei classici abbia un preciso valore civile e morale, poiché esalta la virtù e offre esempi di nobili azioni e sentimenti.

In latino P. compose pure alcune Elegiae, mentre affida ai Miscellanea la sua ricerca erudita allargata ai temi della filosofia, della medici­na, delle scienze naturali. In tal’ultima opera include una serie di osservazioni critiche sugli autori antichi, che influenzarono profondamente gli studiosi successivi.

Il Poliziano vi sostiene, prima di tutto, la necessità che l’imitazione sia creativa, ovvero che non si limiti a copiare passivamente gli esempi antichi.

La produzione umanistica definisce tale posizione docta varietas, intendendo con questa espressione la capacità di rendere più vivace l’erudizione e più originale l’uso delle fonti.

In seguito il Poliziano enuncia il suo punto di vista sull’uso dei modelli linguistici: ogni scrittore deve scegliere quello da imitare in base ai propri gusti e interessi.

Egli rifiuta perciò la teoria dell’ottimo modello, propugnata tra l’altro dall’amico Paolo Cortese, e si mostra favorevole ad adottare tutte quelle soluzioni di lingua, di sintassi e di stile che meglio corrispondono alla sua inclinazione letteraria.

I Miscellanea rivelano inoltre il fine intuito filologico del Poliziano, che, lavorando sui documenti con una conoscenza davvero non comune del mondo antico, scava nella parola, la analizza e la inquadra nell’epoca e nel contesto in cui è stata usata.

La polemica con il Cortese si ritrova anche in una delle Epistole, raccolte in dodici volumi proprio nell’anno della morte.

Ancora in latino è il breve Pactianae coniurationis commentarium sulla congiura dei Pazzi, poi volgarizzato da un anonimo del Cinquecento: un’operetta in cui il rigore storico cede alle forzature di un dichiarato sostegno ai Medici.

L’autore si ispira, per concezione e stile, al racconto della congiura di Catilina di Sallustio, e ne riprende i toni cupi e il gusto per la descrizione di figure animate da una torva grandezza.

Sono da ricordare infine anche alcune traduzioni:  dal greco al latino traduce il Manuale di Epitteto (che in italiano poi tradurrà Leopardi); il Carmide di Platone, la Storia dell’impero dopo Marc’Aurelio di Erodiano.

Nel 1484 P. si reca a Roma, con un’ambasceria fiorentina, presso il neoeletto pontefice Innocenzo VIII.

Nel 1491 P. viaggia in Emilia e nel Veneto per ricercare ed acquistare codici per la biblioteca medicea della quale è divenu­to procuratore dei libri e curatore.

Nel 1492 muore Lorenzo de’ Medici. Il P. cerca di conseguenza di trovare una sistemazione a Roma, dapprima come bibliotecario.

Vanamente Angelo sperò dal papa Alessandro IV la nomina a cardina­le, per la raccomandazione del suo allievo Piero de’ Medici e la morte lo colse appena quarantenne nel 1494.

Ne Le Stanze per la giostra Angelo P. eleva idealisticamente l’evento “sportivo” ed il tema dell’amore di Giuliano per Simonetta Cattaneo, nell’atmosfera fuori del tempo del mito classico, in cui il giovane fratello di Lorenzo diventa Iulio, la cerva (Simonetta) che sfugge alla sua caccia si trasforma in bellissima fanciulla, l’amore nasce per intervento di Cupido inviato dalla madre Venere, a riscaldare il cuore del giovane troppo devoto alla casta Diana .

Nella vicenda di Iulio è adombrato un itinerario di ascesi dall’amore sensuale rappresentato dall’inseguimento della cerva, simbolo della bellezza corporea, all’amore spirituale (quello per Simonetta, immagine della bellezza divina).

Le Stanze mostrano perciò di ispirarsi alla dottrina neoplatonica dell’amore, secondo la quale l’amore è la forza che attrae l’uomo verso Dio, con un percorso che, dalla brama sensuale, si eleva al desiderio spirituale, fino al più alto grado di intellezione di Dio.

Descrivendo allegoricamente il processo di maturazione che grazie a Simonetta si compie in Iulio, Poliziano ne sancisce l’ingresso nell’età adulta. È un processo nel quale il poeta prefigura anche la destinazione di Giuliano alla vita politica: Iulio – suo alter ego dalla contemplazione del Bello e del Bene divini esce fortificato, determinato a praticare nella vita terrena le virtù civili ossia le quattro virtù cardinali, (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza) su cui si fonda l’attività politica.

L’ambientazione classica-mitologica è poi quella che permette la realizzazione del sogno umanistico di un mondo perfetto, armonizzato, privo di drammatiche lacerazioni, sottratto alle vicende reali e temporali.

Nei pulitissimi versi della Giostra, insomma, si realizza perfettamente quel mito dell’Eden che è fondamentale della cultura umanistica, nella descrizione di un mondo perennemente primaverile, non toccato dalle intemperie, lontano dalle incom¬benze del lavoro e perciò aperto all’accoglienza dei sentimenti sublimi della gioia e dell’amore.

Per questo il P. rievoca quella versione pagana dell’Eden che è l”età dell’oro”, quando non c’era ancora l’avidità delle ricchezze e, soprattutto l’impero della lussuria (“quel furore/che la meschina gente chiama amore”): infatti, è l’eros e la possibilità della sua sublimazione il motore del mito edenico, nell’illusione di un’innocenza che si costituisce non per ascetica rinuncia ma per spontanea ignoranza del peccato.

Nel Le Stanze, Poliziano dà prova del suo profondo legame con gli autori greci e latini (Omero, di cui aveva tradotto in latino, come abbiamo già detto più sopra parte dell’lliade, gli elegiaci, i bucolici ed i tragici greci , Virgilio, Ovidio, Stazio e Claudiano), ma anche con Dante, Petrarca, Boccaccio e gli stilnovisti accolti nella Raccolta aragonese dal Magnifico (non ricusa nemmeno i temi, i modi e la varietà del lessico propri della tradizione popolare).

Egli compie quella che, in linguaggio tecnico, si definisce “contaminazione”, ossia la fusione tra vari generi letterari all’interno di un’unica opera.

In altre parole il ricorso alle fonti è sistematico e si può anche affermare che il testo polizianeo è il risultato di un fine lavoro di intarsio di imitazioni e di topoi; la maestria di Poliziano consiste nel saper rivitalizzare le forme antiche anche cambiandone i significati originari, secondo un principio di imitazione che alcuni anni più tardi, come già detto, difenderà in polemica con la teoria dell’Ottimo modello dell’umanista Paolo Cortese: «imitazione» deve essere una reinterpretazione personale, mai pedissequa, di più modelli, scelti liberamente e liberamente assimilati (si parla come già accennato di doctas gravitas).

Già i personaggi rivelano la commistione. Gli antenati di Julio, ad esempio, sono i tanti personaggi insensibili all’amore dei quali è ricca la tragedia greca, ma sono anche gli eroi del Boccaccio, come Troilo; Simonetta potrebbe essere una dea o una ninfa della mitologia classica, ma a comporre la sua immagine concorrono anche elementi stilnovistici e petrarcheschi, come rivelano numerose “spie” stilistiche e lessicali. Anche la trovata della cerva risale ai tempi lontani: già in epoca omerica, Ifigenia, figlia di Agamennone, viene trasformata in cerva dalla dea Artemide, e l’artificio è più volte adoperato nei romanzi del ciclo bretone.

Così, nella descrizione del giardino di Venere confluiscono il ricordo biblico dell’Eden, il mito classico dell’età dell’oro, e quello del “giardino delle delizie”, come sono il Paradiso terrestre in Dante e il giardino d’Amore descritto nei Trionfi del Petrarca.

Anche l’impianto complessivo dell’opera è frutto di una contaminazione. Da un lato esso riporta al cosiddetto encomio, ovvero al poemetto celebrativo che ebbe la più larga diffusione nella tarda latinità; dall’altro, riflette il gusto tipicamente volgare per i racconti di tornei e feste, dei quali è ricca la letteratura popolare.

Nel suo lavoro poetico, Poliziano si concentra soprattutto sulle singole immagini, di cui ricerca l’eleganza e la nitidezza, qualità, queste, consonanti con la pittura di Botticelli, che mira a esaltare la Bellezza ideale e che accoglie, per la Primavera e la Nascita di Venere, le visualizzazioni polizianee .

Apparentemente lontana da questa condizione edenica sembra la Favola di Orfeo , per il tema tragico (ripreso da Ovidio e dal IV libro delle Georgiche ) del protagonista che muore non essendo riuscito a liberare dall’Ade l’amata Euridice, ma il P. fa prevalere largamente sulla drammaticità della favola i toni idillici, ambientando la situazione entro un mondo pastorale allietato dalla dolcezza di un tempo sempre primaverile e dalla melodia dei canti, così che l’eden si riproduce anche in questo che è il primo dramma profano della nostra letteratura.

Fino a quel tempo infatti il teatro conosceva soltanto le sacre rappresentazioni, di carattere religioso .

Di esse il Poliziano riprende struttura scenica e movenze, cioè la frammentarietà e semplicità, teatralmente ingenua, di costru¬zio¬ne, l’uso della ottava (mescolata però ad altri metri come la terzina dantesca, la canzone a ballo o ballata, la canzone e persino ad un carme in latino, cantato da Orfeo in lode dei Gonzaga), e certo andamento popolaresco nel linguaggio.

Tale andamento nasce da una consapevole e raffinata scelta stilistica, in quanto P. intende riprendere i modi dell’elegia bucolica e pastorale (di cui sono rappresentanti Catullo, Ovidio, Properzio e Tibullo) , un genere letterario che dalla antichità era stato scritto in stile umile, perché concepito come canto di semplici e rozzi pastori; tuttavia accanto al realismo vi sono passi di elegante letteratura e l’idealizzazione della figura di Euridice, rappresentata con toni tenui, dolci e sfumati.

L’opera è suddivisa in due parti, e la struttura metrica, come già accennato, è varia: prevale l’ottava, ma ad essa si alternano la terza rima e la ballata, oltre ad una serie di versi latini in strofa saffica, che Orfeo canta al suo ingresso in scena.

Il mito di Orfeo, uno dei più noti dell’antichità, è liberamente rielaborato dal Poliziano attraverso le versioni, come già detto, che ne offrono Virgilio nel IV libro delle Georgiche e Ovidio nelle Metamorfosi.

La prima parte si svolge in Tracia e ci presenta il pastore Aristeo che confida ad un altro pastore,  Mopso, il suo amore per  Euridice, moglie del poeta Orfeo: mentre questa fugge inseguita da Aristeo, viene morsa da un serpente e muore.

Nella seconda parte, Orfeo, l’eccelso cantore, capace di affascinare con le sue melodie persino le pietre, scende nel regno dei morti per tentare di farsi restituire la moglie, e con la dolcezza del suo canto riesce a commuovere il dio degli Inferi, Plutone.

Ottiene così che Euridice gli venga resa, a patto che egli, durante il cammino di ritorno, non si volti mai a guardarla.

Ma nel viaggio, temendo che Euridice non lo segua, Orfeo guarda dietro di sé, così la donna amata gli viene strappata di nuovo, e stavolta per sempre.

Orfeo, disperato e inconsolabile, vaga per terre lontane rifiutando ogni nuovo amore, finché le Baccanti, sacerdotesse di Dioniso, infuriate per il suo spregio delle donne, lo uccidono e ne lacerano il corpo.

Anche nella Fabula di Orfeo, il Poliziano conferma l’ispirazione prevalentemente classica della sua poesia e il virtuosismo tecnico del letterato che impugna con ferma sicurezza gli strumenti espressivi.

Come ne Le Stanze per la giostra, egli ricorre alla contaminazione tra generi diversi, pur assegnando una funzione centrale al modello del dramma pastorale.

Anche nell’uso dello stile, sono rispettati con piena coerenza i principi dell’Umanesimo erudito, e i modelli latini vi hanno un peso ancor più forte.

Le frequenti citazioni rimandano soprattutto a Virgilio e a Ovidio; il lessico è prezioso, variegato, ricco di sfumature.

L’autore prosegue nella sua consapevole opera di congiunzione tra classicismo e modernità, e riproduce in forme nuove l’antico, pur restando fedele all’essenza.

Rispetto alla produzione precedente, tuttavia, la Fabula di Orfeo appare più movimentata: talora il ritmo è incalzante e compaiono sorprendenti motivi di modernità, come l’irrompere di un lessico popolare ai limiti del dialetto nell’impressionante coro finale delle Baccanti che inneggiano al loro dio, dopo aver lacerato il corpo di Orfeo.

La scelta del mito di Orfeo, d’altra parte, riporta alla visione del mondo già espressa, o almeno sottintesa, nelle Stanze per la giostra.

Orfeo, in tutti i tempi, è l’emblema della poesia, la cui potenza vince tutte le esperienze umane, e supera persino la morte.

Canta Orfeo, sceso agli Inferi: “Posa Cerbero, posa il tuo furore; / ché, quando intenderai tutti e mie’ mali, / non solamente tu piangerai meco / ma qualunque è qua giù nel mondo ceco” (vv. 218-221).

È un inno all’amore, che lo ha condotto nel buio regno dei morti, ma soprattutto alla poesia, cui egli affida il compito di piegare l’inflessibile durezza degli abitatori infernali.

Tuttavia, il Poliziano finisce con l’ammettere che anche la poesia è destinata a soccombere: le leggi che regolano la vita degli uomini e li destinano alla morte sono più forti dei sentimenti e della poesia stessa, perché se l’amore e il canto rendono Euridice a Orfeo, non possono impedire che, volgendosi indietro, egli la perda definitivamente.

 Il Poliziano è, per più motivi, una delle personalità di maggior rilievo nell’ambito dell’Umanesimo letterario. La sua attività filologica e critica, come si è detto, è condotta scrupolosamente attraverso l’analisi e il confronto tra i testi, e si accompagna alla consapevolezza che ogni problema linguistico deve essere collocato nella giusta prospettiva storica: ciò ne fa il caposcuola della ricerca filologica moderna. La sua teoria dell’imitazione è uno dei cardini sui quali si impernia un dibattito che coinvolgerà molti studiosi e scrittori del secolo successivo. La Fabula di Orfeo, inoltre, apre la strada al recupero completo del teatro, che si avrà nel Cinquecento con l’apporto fondamentale dell’Ariosto e del Machiavelli

[1] Poliziano prosegue l’opera che Carlo Marsuppini aveva cominciato nel 1454 fermandosi però dopo il primo libro.

[2] Piero de’ Medici (Firenze 1472 – Garigliano 1503), signore di Firenze dal 1492 al 1494; si attirò l’opposizione dell’aristocrazia fiorentina che lo accusò di volere instaurare un dominio personale. Al momento della discesa in Italia del re francese Carlo VIII, nel 1494, fu cacciato dalla città con l’accusa di essersi piegato ai francesi; a Firenze venne instaurata la repubblica sotto la pressione di un movimento popolare guidato da Girolamo Savonarola. Piero si ritirò a Roma, senza più riuscire a tornare a Firenze. Morì in battaglia, combattendo per il re di Francia Luigi XII.

[3] Poemetto composto nel 1475, è un testo tutto particolare: l’autore vi descrive minuziosamente la malattia della scabbia, il suo decorso e i possibili rimedi, con un gusto che sfiora talvolta il raccapricciante: è un vero e proprio esercizio letterario, in stile comico-grottesco, che conferma il consapevole e a volte compiaciuto virtuosismo del Poliziano.

[4] Organizzato per celebrare pubblicamente la stipulazione dell’alleanza tra Milano, Venezia e Firenze.

[5] Alla qurantaseiesima stanza, mentre il primo libro ne ha  centoventicinque.

[6] Complotto messo in atto il 26 aprile 1478 dalla famiglia fiorentina dei Pazzi contro quella dei Medici, allo scopo di ottenere la supremazia politica nella città. La congiura, che ebbe l’appoggio del papa Sisto IV, costò appunto la vita a Giuliano de’ Medici, ma non ebbe successo perché scatenò una reazione popolare conclusa con atti di giustizia sommaria. L’episodio finì anzi per consolidare la signoria medicea.

[7] Una ricca silloge di 449 componimenti in volgare  dal Duecento al Quattrocento (dove prevalenti sono i testi dello stilnovo e di Dante) offerta dal Magnifico a Federigo D’aragona. L’importanza della Raccolta Aragonese coincide con la fortuna quattrocentesca dello Stilnovo, dal quale i due compilatori d’eccezione, Lorenzo il Magnifico e Angelo Poliziano, muovevano per tornare alle origini dei poeti siciliani e siculo-toscani. Il complesso lavoro di scelta, selezione e collazione dei testi che precedette la realizzazione di questa straordinaria antologia testimonia il ricco retroterra filologico della Firenze laurenziana, la grande disponibilità di raccolte di rime, di codici antichi o trascritti in tempi più recenti. La raccolta si apriva con appunto una Epistola di M. Angelo Politiano al sig. Federico insieme col raccolto volgare mandatogli dal Magnifico Lorenzo; quindi seguivano la Vita di Dante del Boccaccio, preferita a quella di Leonardo Bruni, e la Vita nuova. L’ordinamento della silloge corrispondeva di fatto ad una sistemazione storico-letteraria assolutamente gerarchica e qualitativa: dopo le rime di Dante si collocavano quelle di Guinizzelli, di Guittone, di Cavalcanti e di Cino, per giungere a ritroso sui poeti della corte federiciana e sui toscani minori, chiudendosi definitivamente, secondo un’ideale percorso, proprio sulla produzione di Lorenzo il Magnifico.

[8] Anche se la critica più recente ritiene che almeno una parte sia stata composta in seguito.

[9] Componimento poetico di origine popolare confuso molto spesso con lo strambotto. (Il suo schema strofico constava di una quartina di endecasillabi a rima alternata [ABAB], seguita da uno o due distici di endecasillabi a rima baciata o da un ottava con metro: ABABABCC).

Vita ed opere di Angelo Poliziano

Immagine
Re- L. Simoni. L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001
Luperini-P. Cataldi-L. Marchiani-F. Marchese. La scrittura e l’interpretazione. Dalle origini al manierismo. Volume primo. Palumbo editore. Firenze. 2000.
VV., La letteratura italiana in Cd-Rom, G. D’Anna editore- La repubblica Edizioni. Milano. 1999.
Guglielmino-H. Grosser. Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994
Gioanola, Storia della Letteratura italiana. Dalle origini ai giorni nostri. Librex editore, Milano, 1992
Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento, Giuseppe Principato editore. Messina-Milano, 1937.

 

Come il Petrarca anche Poliziano, che pure ripropone con le Stanze e l’Orfeo le possibilità poetiche del volgare inaugurando la ripresa della poesia italiana dopo un secolo di relativa povertà, affida la sua rinomanza più alle composizioni in latino e agli studi filologici che all’opera in volgare, destinata invece, a dargli un nome di prestigio nella storia letteraria.

Col Poliziano il volgare, debitamente modellato sui modelli classici, ridiventa stabilmente la lingua della poesia, mentre Petrarca viene individuato come punto di riferimento per ogni operazione lirica.

Figlio del grande Umanesimo fiorentino, Poliziano realizza in poesia, ciò che gli altri ingegni artistici del suo tempo realiz­za­rono in altri campi, Botticelli e Michelangelo nella pittura, Donatello nella scultura, Alberti nell’architettura.

Angelo Ambrogini nacque il 14 luglio del 1454 a Montepulciano e dal nome del paese d’origine, debitamente latinizzato, si fece chiamare Poliziano.

Era figlio di un notaio filomediceo e all’età di dieci anni perse il padre, assassinato per motivi politici; ma, dotato di ingegno vivacissimo, P. volle in ogni caso compiere studi adegua­ti alla sua intelligenza e alle sue inclinazioni, trasferendosi a Firenze appena quindicenne.

Qui cominciò a frequentare il celebre Studio e l’Accademia platonica, avendo come maestri Giovanni Argiropulo, Marsilio Ficino, Cristoforo Landino, dai quali apprese le lingue classiche la filosofia platonica.

Nel 1470, a soli sedici anni, cominciò a tradurre in versi latini l’Iliade (libro II e IV[1]), con la speranza di ottenere la protezione di Lorenzo de’ Medici (cui dedica il II e III libro), che infatti non gli fece mancare qualche sovvenzione e nel 1473 lo accolse presso di sé nel palazzo di Via Larga, mentre la traduzio­ne del libro omerico non andava oltre il quinto libro.

Quando Angelo ebbe vent’anni Lorenzo gli affidò l’incarico di “cancelliere” e l’educazione del figlio Piero[2] e da quale momento il poeta iniziò propriamente a far parte della famiglia del suo protet­tore ed amico. Compose in questo periodo la Sylva in Scabiem[3].

Quando il 29 gennaio del 1475 Giuliano, fratello di Lorenzo, vinse un torneo cavalleresco[4], Poliziano iniziò la composizione del poemetto in ottave Stanze per la giostra che rimarrà interrotto al secondo libro[5], per la morte del dedicatario non ancora ventiduenne nella congiura dei Pazzi[6] del 26 aprile 1478 di cui il  poeta è testimone.

Tra il 1473 e il 1478 si colloca la composizione di un primo gruppo di epigrammi, odi ed elegie, il tutto raccolto dopo la morte dell’autore sotto il titolo Liber epigrammaton (Libro degli epigrammi).

Ne emergono doti straordinarie di erudizione e virtuosismo linguistico, alle quali l’autore aggiunge la capacità di assimilare la tradizione lirica classica, e di rielaborarla in forma elegante e chiara, attraverso un’attenta e raffinata opera di selezione del lessico. I temi tradizionali dell’elegia latina e greca si arricchiscono però anche di richiami alla lirica volgare, di echi stilnovistici e petrarcheschi.

Nel 1477 P. stende per il Magnifico l’Epistola proemiale alla Raccolta aragonese[7] ed ottiene il priorato di San Paolo.

Nell’Epistola proemiale alla Raccolta Aragonese, il Poliziano, per bocca di Lorenzo il Magnifico, difende con serrate argomentazioni il volgare illustre, e in particolare il toscano.

Le tesi sono analoghe a quelle che poi sosterrà per il latino: ogni testo va prima considerato nell’ambito storico in cui è stato prodotto, poi messo in relazione con altri testi, in modo da raggiungere sia la conoscenza approfondita di ogni singolo autore sia una visione complessiva della produzione letteraria nelle varie epoche.

Il Poliziano assegna una posizione di netta superiorità ai due “soli”, Dante e il Petrarca, dei quali “meglio essere giudico tacere che poco dirne”, ma cita altri “infiniti e chiarissimi esempli” di poesia in volgare e formula acuti giudizi su molti scrittori, non solo toscani, ma provenzali e siciliani.

Un contrasto con donna Clarice, moglie di Lorenzo, e poi con lo stesso protettore indusse il P. nel 1479 a lasciare Firenze.

Si reca così a Padova, Verona e Venezia e successivamente accoglie l’invito dei Gonzaga di Mantova: presso Federigo Gonzaga compone, in soli due giorni,  forse nel 1480, per una festa di corte (probabilmente un duplice matrimo­nio), la favola pastorale Orfeo, capostipite di un genere desti­nato a prosperi sviluppi fino al Settecento.

Ma il poeta non sa vivere fuori da Firenze e quindi scrive a Lorenzo per essere richiamato in patria e questi gli concesse volentieri il permesso di rientrare.

Anteriormente al 1480 si situa la composizione delle Rime in volgare[8].

Esse comprendono una trentina di canzoni a ballo, nove rispetti[9] continuati e circa un centinaio di rispetti spicciolati, oltre ad alcune canzoni e sonetti.

Nelle Canzoni a ballo il Poliziano riprende, in parte, argomenti propri del gusto contemporaneo, che si ritrovano anche nella poesia del Magnifico.

Vi predomina un’esaltazione vitalistica della bellezza e dell’amore, cui s’accompagna l’invito a godere i piaceri della giovinezza, che ben presto sfiorisce.

Il tema della precarietà dell’esistenza si sviluppa attraverso un lessico e una sintassi semplici, in toni delicati e leggeri, che ricordano, appunto, i facili ritmi di certa poesia popolare.

Ma l’autore si avvale di tutta la sua cultura classica: dotti sono, ad esempio, gli echi di quella lunga tradizione che fin dalla più remota antichità si è fermata a riflettere sull’inesorabile scorrere del tempo, sulla caducità della vita, sul rapido declino della gioventù e sulla fragilità delle gioie riservate all’uomo.

Anche nello stile, il Poliziano spazia entro una vasta gamma di registri, frutto della sua raffinata cultura.

La descrizione nitida e vivamente coloristica della natura si sviluppa con armonia ed equilibrio; il ritmo è musicale, le molte figure retoriche, tra le quali la similitudine e la metafora, sono usate con misura e proprietà.

Le reminiscenze colte, di poeti come il latino Orazio, ma anche dei lirici italiani del Duecento e del Trecento, si traducono così in immagini fresche e spontanee, scorrevoli, di rara eleganza e raffinatezza.

Nei Rispetti, il Poliziano si ispira a vicende mitologiche celebri, tratte da autori greci e latini.

Anche qui, come nelle ballate, i riferimenti cólti vengono rielaborati con grande abilità e forza stilistica, e le citazioni erudite si liberano da ogni freddezza e vibrano di una fresca vivacità, che coinvolge il lettore.

Tra le altre opere in volgare, si trovano i Detti piacevoli, facezie e detti brevi, che appartengono, come sappiamo, a un genere assai praticato in questo periodo.

Tuttavia, anche in questo caso i contenuti e certe particolarità di stile si discostano dalla regola del genere. Un costante atteggiamento riflessivo mitiga il tono divertente e trasforma episodi apparentemente marginali in lezioni di moralità di valore universale.

Spesso, poi, i motti sono affidati a personaggi storici e questo aggiunge loro un tocco di verità. Lo stile si distingue per la stringatezza dei periodi, mentre il linguaggio fiorentino, con venature dialettali, si presta, grazie alla particolare espressività, a rendere i concetti in modo sintetico ed efficace.

Nei suoi ultimi anni, il Poliziano compone anche tre Sermoni per una confraternita di religiosi fiorentini e una Lauda a Maria Vergine.

Sempre nel 1480 il poeta, che tre anni prima si era fatto chierico ed aveva ottenuto un beneficio ecclesiastico, ebbe un posto di docente allo Studio fiorentino: il suo insegnamento di lettere latine e greche ottenne grande successo e la sua fama uscì addirittura dai confini italiani (lo stesso Michelangelo fu tra i suoi allievi).

Dopo questa data Angelo scrisse esclusivamente in latino, o addi­rit­tura in greco, come negli Epigrammi, componendo le Sylvae, che sono introduzioni poetiche ai suoi corsi universitari: bisogna ricordare Manto (Mantova) che ha per tema la poesia di Virgilio; il Rusticus (il contadino) per gli efficaci toni agresti e naturali­stici; Ambra (Ambra, dal nome di una villa medicea) tratta della poesia di Omero e Nutricia (il baliatico), dove compie l’elogio della poesia.

In tutte le Sylvae è ravvisabile uno degli elementi essenziali della poetica del Poliziano, e cioè la sua ferma convinzione che la poesia svolga un compito insostituibile, poiché sviluppa nell’umanità il gusto del bello e quindi favorisce il passaggio dalla barbarie alla civiltà.

Inoltre, la poesia è eterna, poiché vince la distruzione del tempo e conserva inalterata la memoria delle più nobili gesta dell’uomo.

Anche le prolusioni in prosa (Praelectiones) hanno un notevole interesse. In esse, e soprattutto nella prima dedicata a Stazio e Quintiliano, lo scrittore espone le sue teorie letterarie: sottolinea l’indiscutibile valore dell’uso del latino, ma accetta, insieme agli esemplari “aurei” come Cicerone, modelli di altri periodi ingiustamente trascurati, quali quelli offerti da Quintiliano e Stazio.

Infine ribadisce, come altri umanisti, la profonda convinzione che lo studio dei classici abbia un preciso valore civile e morale, poiché esalta la virtù e offre esempi di nobili azioni e sentimenti.

In latino P. compose pure alcune Elegiae, mentre affida ai Miscellanea la sua ricerca erudita allargata ai temi della filosofia, della medici­na, delle scienze naturali. In tal’ultima opera include una serie di osservazioni critiche sugli autori antichi, che influenzarono profondamente gli studiosi successivi.

Il Poliziano vi sostiene, prima di tutto, la necessità che l’imitazione sia creativa, ovvero che non si limiti a copiare passivamente gli esempi antichi.

La produzione umanistica definisce tale posizione docta varietas, intendendo con questa espressione la capacità di rendere più vivace l’erudizione e più originale l’uso delle fonti.

In seguito il Poliziano enuncia il suo punto di vista sull’uso dei modelli linguistici: ogni scrittore deve scegliere quello da imitare in base ai propri gusti e interessi.

Egli rifiuta perciò la teoria dell’ottimo modello, propugnata tra l’altro dall’amico Paolo Cortese, e si mostra favorevole ad adottare tutte quelle soluzioni di lingua, di sintassi e di stile che meglio corrispondono alla sua inclinazione letteraria.

I Miscellanea rivelano inoltre il fine intuito filologico del Poliziano, che, lavorando sui documenti con una conoscenza davvero non comune del mondo antico, scava nella parola, la analizza e la inquadra nell’epoca e nel contesto in cui è stata usata.

La polemica con il Cortese si ritrova anche in una delle Epistole, raccolte in dodici volumi proprio nell’anno della morte.

Ancora in latino è il breve Pactianae coniurationis commentarium sulla congiura dei Pazzi, poi volgarizzato da un anonimo del Cinquecento: un’operetta in cui il rigore storico cede alle forzature di un dichiarato sostegno ai Medici.

L’autore si ispira, per concezione e stile, al racconto della congiura di Catilina di Sallustio, e ne riprende i toni cupi e il gusto per la descrizione di figure animate da una torva grandezza.

Sono da ricordare infine anche alcune traduzioni:  dal greco al latino traduce il Manuale di Epitteto (che in italiano poi tradurrà Leopardi); il Carmide di Platone, la Storia dell’impero dopo Marc’Aurelio di Erodiano.

Nel 1484 P. si reca a Roma, con un’ambasceria fiorentina, presso il neoeletto pontefice Innocenzo VIII.

Nel 1491 P. viaggia in Emilia e nel Veneto per ricercare ed acquistare codici per la biblioteca medicea della quale è divenu­to procuratore dei libri e curatore.

Nel 1492 muore Lorenzo de’ Medici. Il P. cerca di conseguenza di trovare una sistemazione a Roma, dapprima come bibliotecario.

Vanamente Angelo sperò dal papa Alessandro IV la nomina a cardina­le, per la raccomandazione del suo allievo Piero de’ Medici e la morte lo colse appena quarantenne nel 1494.

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Ne Le Stanze per la giostra Angelo P. eleva idealisticamente l’evento “sportivo” ed il tema dell’amore di Giuliano per Simo­netta Cattaneo, nell’atmosfera fuori del tempo del mito classico, in cui il giovane fratello di Lorenzo diventa Iulio, la cerva (Simonetta) che sfugge alla sua caccia si trasforma in bellissima fanciulla, l’amore nasce per intervento di Cupido inviato dalla madre Venere, a riscaldare il cuore del giovane troppo devoto alla casta Diana[10].

Nella vicenda di Iulio è adombrato un itinerario di ascesi dall’amore sensuale rappresentato dall’inseguimento della cerva, simbolo della bellezza corporea, all’amore spirituale (quello per Simonetta, immagine della bellezza divina).

Le Stanze mostrano perciò di ispirarsi alla dottrina neoplatonica dell’amore, secondo la quale l’amore è la forza che attrae l’uomo verso Dio, con un percorso che, dalla brama sensuale, si eleva al desiderio spirituale, fino al più alto grado di intellezione di Dio.

Descrivendo allegoricamente il processo di maturazione che grazie a Simonetta si compie in Iulio, Poliziano ne sancisce l’ingresso nell’età adulta. È un processo nel quale il poeta prefigura anche la destinazione di Giuliano alla vita politica: Iulio – suo alter ego dalla contemplazione del Bello e del Bene divini esce fortificato, determinato a praticare nella vita terrena le virtù civili ossia le quattro virtù cardinali, (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza) su cui si fonda l’attività politica.

L’ambientazione classica-mitologica è poi quella che permette la realizzazione del sogno umanistico di un mondo perfetto, armoniz­za­to, privo di drammatiche lacerazioni, sottratto alle vicende reali e temporali.

Nei pulitissimi versi della Giostra, insomma, si realizza perfettamente quel mito dell’Eden che è fondamentale della cultura umanistica, nella descrizione di un mondo perennemente primaverile, non toccato dalle intemperie, lontano dalle incom­benze del lavoro e perciò aperto all’accoglienza dei sentimenti sublimi della gioia e dell’amore.

Per questo il P. rievoca quella versione pagana dell’Eden che è l”età dell’oro”, quando non c’era ancora l’avidità delle ricchez­ze e, soprattutto l’impero della lussuria (“quel furore/che la meschina gente chiama amore”): infatti, è l’eros e la possibilità della sua sublimazione il motore del mito edenico, nell’illusione di un’innocenza che si costituisce non per ascetica rinuncia ma per spontanea ignoranza del peccato.

Nel Le Stanze, Poliziano dà prova del suo profondo legame con gli autori greci e latini (Omero, di cui aveva tradotto in latino, come abbiamo già detto più sopra parte dell’lliade, gli elegiaci, i bucolici ed i tragici greci[11], Virgilio, Ovidio, Stazio e Claudiano), ma anche con Dante, Petrarca, Boccaccio e gli stilnovisti accolti nella Raccolta aragonese dal Magnifico (non ricusa nemmeno i temi, i modi e la varietà del lessico propri della tradizione popolare).

Egli compie quella che, in linguaggio tecnico, si definisce “contaminazione”, ossia la fusione tra vari generi letterari all’interno di un’unica opera.

In altre parole il ricorso alle fonti è sistematico e si può anche affermare che il testo polizianeo è il risultato di un fine lavoro di intarsio di imitazioni e di topoi; la maestria di Poliziano consiste nel saper rivitalizzare le forme antiche anche cambiandone i significati originari, secondo un principio di imitazione che alcuni anni più tardi, come già detto, difenderà in polemica con la teoria dell’Ottimo modello dell’umanista Paolo Cortese: «imitazione» deve essere una reinterpretazione personale, mai pedissequa, di più modelli, scelti liberamente e liberamente assimilati (si parla come già accennato di doctas gravitas).

Già i personaggi rivelano la commistione. Gli antenati di Julio, ad esempio, sono i tanti personaggi insensibili all’amore dei quali è ricca la tragedia greca, ma sono anche gli eroi del Boccaccio, come Troilo; Simonetta potrebbe essere una dea o una ninfa della mitologia classica, ma a comporre la sua immagine concorrono anche elementi stilnovistici e petrarcheschi, come rivelano numerose “spie” stilistiche e lessicali. Anche la trovata della cerva risale ai tempi lontani: già in epoca omerica, Ifigenia, figlia di Agamennone, viene trasformata in cerva dalla dea Artemide, e l’artificio è più volte adoperato nei romanzi del ciclo bretone.

Così, nella descrizione del giardino di Venere confluiscono il ricordo biblico dell’Eden, il mito classico dell’età dell’oro, e quello del “giardino delle delizie”, come sono il Paradiso terrestre in Dante e il giardino d’Amore descritto nei Trionfi del Petrarca.

Anche l’impianto complessivo dell’opera è frutto di una contaminazione. Da un lato esso riporta al cosiddetto encomio, ovvero al poemetto celebrativo che ebbe la più larga diffusione nella tarda latinità; dall’altro, riflette il gusto tipicamente volgare per i racconti di tornei e feste, dei quali è ricca la letteratura popolare.

Nel suo lavoro poetico, Poliziano si concentra soprattutto sulle singole immagini, di cui ricerca l’eleganza e la nitidezza, qualità, queste, consonanti con la pittura di Botticelli, che mira a esaltare la Bellezza ideale e che accoglie, per la Primavera e la Nascita di Venere, le visualizzazioni polizianee[12].

Apparentemente lontana da questa condizione edenica sembra la Favola di Orfeo[13], per il tema tragico (ripreso da Ovidio e dal IV libro del­le Georgiche[14]) del protagonista che muore non essendo riuscito a liberare dall’Ade l’amata Euridice, ma il P. fa prevalere largamen­te sulla drammaticità della favola i toni idillici, ambientando la situazio­ne entro un mondo pastorale allietato dalla dolcezza di un tempo sempre primaverile e dalla melodia dei canti, così che l’eden si riproduce anche in questo che è il primo dramma profano della nostra letteratura.

Fino a quel tempo infatti il teatro conosceva soltanto le sacre rappresentazioni, di carattere religioso[15].

Di esse il Poliziano riprende struttura scenica e movenze, cioè la frammentarietà e semplicità, teatralmente ingenua, di costru­zio­ne, l’uso della ottava (mescolata però ad altri metri come la terzina dantesca, la canzone a ballo o ballata, la canzone e persino ad un carme in latino, cantato da Orfeo in lode dei Gonzaga), e certo andamento popolaresco nel linguaggio.

Tale andamento nasce da una consapevole e raffinata scelta stilistica, in quanto P. intende riprendere i modi dell’elegia bucolica e pastorale (di cui sono rappresentanti Catullo, Ovidio, Properzio e Tibullo)[16], un genere letterario che dalla antichità era stato scritto in stile umile, perché concepito come canto di semplici e rozzi pastori; tuttavia accanto al realismo vi sono passi di elegante letteratura e l’idealizzazione della figura di Euridice, rappresentata con toni tenui, dolci e sfumati.

L’opera è suddivisa in due parti, e la struttura metrica, come già accennato, è varia: prevale l’ottava, ma ad essa si alternano la terza rima e la ballata, oltre ad una serie di versi latini in strofa sàffica, che Orfeo canta al suo ingresso in scena.

Il mito di Orfeo, uno dei più noti dell’antichità, è liberamente rielaborato dal Poliziano attraverso le versioni, come già detto, che ne offrono Virgilio nel IV libro delle Georgiche e Ovidio nelle Metamorfosi.

La prima parte si svolge in Tracia e ci presenta il pastore Aristeo che confida ad un altro pastore,  Mopso, il suo amore per  Euridice, moglie del poeta Orfeo: mentre questa fugge inseguita da Aristeo, viene morsa da un serpente e muore.

Nella seconda parte, Orfeo, l’eccelso cantore, capace di affascinare con le sue melodie persino le pietre, scende nel regno dei morti per tentare di farsi restituire la moglie, e con la dolcezza del suo canto riesce a commuovere il dio degli Inferi, Plutone.

Ottiene così che Euridice gli venga resa, a patto che egli, durante il cammino di ritorno, non si volti mai a guardarla.

Ma nel viaggio, temendo che Euridice non lo segua, Orfeo guarda dietro di sé, così la donna amata gli viene strappata di nuovo, e stavolta per sempre.

Orfeo, disperato e inconsolabile, vaga per terre lontane rifiutando ogni nuovo amore, finché le Baccanti, sacerdotesse di Dioniso, infuriate per il suo spregio delle donne, lo uccidono e ne lacerano il corpo.

Anche nella Fabula di Orfeo, il Poliziano conferma l’ispirazione prevalentemente classica della sua poesia e il virtuosismo tecnico del letterato che impugna con ferma sicurezza gli strumenti espressivi.

Come ne Le Stanze per la giostra, egli ricorre alla contaminazione tra generi diversi, pur assegnando una funzione centrale al modello del dramma pastorale.

Anche nell’uso dello stile, sono rispettati con piena coerenza i principi dell’Umanesimo erudito, e i modelli latini vi hanno un peso ancor più forte.

Le frequenti citazioni rimandano soprattutto a Virgilio e a Ovidio; il lessico è prezioso, variegato, ricco di sfumature.

L’autore prosegue nella sua consapevole opera di congiunzione tra classicismo e modernità, e riproduce in forme nuove l’antico, pur restando fedele all’essenza.

Rispetto alla produzione precedente, tuttavia, la Fabula di Orfeo appare più movimentata: talora il ritmo è incalzante e compaiono sorprendenti motivi di modernità, come l’irrompere di un lessico popolare ai limiti del dialetto nell’impressionante coro finale delle Baccanti che inneggiano al loro dio, dopo aver lacerato il corpo di Orfeo.

La scelta del mito di Orfeo, d’altra parte, riporta alla visione del mondo già espressa, o almeno sottintesa, nelle Stanze per la giostra.

Orfeo, in tutti i tempi, è l’emblema della poesia, la cui potenza vince tutte le esperienze umane, e supera persino la morte.

Canta Orfeo, sceso agli Inferi: “Posa Cerbero, posa il tuo furore; / ché, quando intenderai tutti e mie’ mali, / non solamente tu piangerai meco / ma qualunque è qua giù nel mondo ceco” (vv. 218-221).

È un inno all’amore, che lo ha condotto nel buio regno dei morti, ma soprattutto alla poesia, cui egli affida il compito di piegare l’inflessibile durezza degli abitatori infernali.

Tuttavia, il Poliziano finisce con l’ammettere che anche la poesia è destinata a soccombere: le leggi che regolano la vita degli uomini e li destinano alla morte sono più forti dei sentimenti e della poesia stessa, perché se l’amore e il canto rendono Euridice a Orfeo, non possono impedire che, volgendosi indietro, egli la perda definitivamente.

 Il Poliziano è, per più motivi, una delle personalità di maggior rilievo nell’ambito dell’Umanesimo letterario. La sua attività filologica e critica, come si è detto, è condotta scrupolosamente attraverso l’analisi e il confronto tra i testi, e si accompagna alla consapevolezza che ogni problema linguistico deve essere collocato nella giusta prospettiva storica: ciò ne fa il caposcuola della ricerca filologica moderna. La sua teoria dell’imitazione è uno dei cardini sui quali si impernia un dibattito che coinvolgerà molti studiosi e scrittori del secolo successivo. La Fabula di Orfeo, inoltre, apre la strada al recupero completo del teatro, che si avrà nel Cinquecento con l’apporto fondamentale dell’Ariosto e del Machiavelli.

[1] Poliziano prosegue l’opera che Carlo Marsuppini aveva cominciato nel 1454 fermandosi però dopo il primo libro.

[2] Piero de’ Medici (Firenze 1472 – Garigliano 1503), signore di Firenze dal 1492 al 1494; si attirò l’opposizione dell’aristocrazia fiorentina che lo accusò di volere instaurare un dominio personale. Al momento della discesa in Italia del re francese Carlo VIII, nel 1494, fu cacciato dalla città con l’accusa di essersi piegato ai francesi; a Firenze venne instaurata la repubblica sotto la pressione di un movimento popolare guidato da Girolamo Savonarola. Piero si ritirò a Roma, senza più riuscire a tornare a Firenze. Morì in battaglia, combattendo per il re di Francia Luigi XII.

[3] Poemetto composto nel 1475, è un testo tutto particolare: l’autore vi descrive minuziosamente la malattia della scabbia, il suo decorso e i possibili rimedi, con un gusto che sfiora talvolta il raccapricciante: è un vero e proprio esercizio letterario, in stile comico-grottesco, che conferma il consapevole e a volte compiaciuto virtuosismo del Poliziano.

[4] Organizzato per celebrare pubblicamente la stipulazione dell’alleanza tra Milano, Venezia e Firenze.

[5] Alla qurantaseiesima stanza, mentre il primo libro ne ha  centoventicinque.

[6] Complotto messo in atto il 26 aprile 1478 dalla famiglia fiorentina dei Pazzi contro quella dei Medici, allo scopo di ottenere la supremazia politica nella città. La congiura, che ebbe l’appoggio del papa Sisto IV, costò appunto la vita a Giuliano de’ Medici, ma non ebbe successo perché scatenò una reazione popolare conclusa con atti di giustizia sommaria. L’episodio finì anzi per consolidare la signoria medicea.

[7] Una ricca silloge di 449 componimenti in volgare  dal Duecento al Quattrocento (dove prevalenti sono i testi dello stilnovo e di Dante) offerta dal Magnifico a Federigo D’aragona. L’importanza della Raccolta Aragonese coincide con la fortuna quattrocentesca dello Stilnovo, dal quale i due compilatori d’eccezione, Lorenzo il Magnifico e Angelo Poliziano, muovevano per tornare alle origini dei poeti siciliani e siculo-toscani. Il complesso lavoro di scelta, selezione e collazione dei testi che precedette la realizzazione di questa straordinaria antologia testimonia il ricco retroterra filologico della Firenze laurenziana, la grande disponibilità di raccolte di rime, di codici antichi o trascritti in tempi più recenti. La raccolta si apriva con appunto una Epistola di M. Angelo Politiano al sig. Federico insieme col raccolto volgare mandatogli dal Magnifico Lorenzo; quindi seguivano la Vita di Dante del Boccaccio, preferita a quella di Leonardo Bruni, e la Vita nuova. L’ordinamento della silloge corrispondeva di fatto ad una sistemazione storico-letteraria assolutamente gerarchica e qualitativa: dopo le rime di Dante si collocavano quelle di Guinizzelli, di Guittone, di Cavalcanti e di Cino, per giungere a ritroso sui poeti della corte federiciana e sui toscani minori, chiudendosi definitivamente, secondo un’ideale percorso, proprio sulla produzione di Lorenzo il Magnifico.

[8] Anche se la critica più recente ritiene che almeno una parte sia stata composta in seguito.

[9] Componimento poetico di origine popolare confuso molto spesso con lo strambotto. (Il suo schema strofico constava di una quartina di endecasillabi a rima alternata [ABAB], seguita da uno o due distici di endecasillabi a rima baciata o da un ottava con metro: ABABABCC).

[10] Nel libro I, dopo l’invocazione al dio Amore e la dedica a Lorenzo de’ Medici, viene tracciato un ritratto morale del protagonista Iulio (nome poetico e classico di Giuliano), dedito al culto di Diana e delle Muse (ossia alla caccia e alla poesia eroica) e dispregiatore dell’amore. Per vendicarsi di lui, il dio Amore ordisce un inganno e durante una battuta di caccia fa comparire una bellissima cerva, subito inseguita da Iulio, che abbandona i compagni e s’inoltra nel folto della foresta. lmprovvisamente, giunto in una radura fiorita, vede scomparire la cerva e al suo posto appare una bellissima ninfa, Simonetta. Il cacciatore rimane estasiato e, colpito dalle frecce di Amore, fa ritorno a casa profondamente turbato. Intanto Amore si reca a Cipro nel regno della madre Venere. Seguono la descrizione del  giardino e del palazzo della dea e ampie digressioni su vari miti greci.

Il libro II si apre con il colloquio tra Venere e Amore. Questi vanta alla madre l’impresa compiuta per far innamorare Iulio e tesse l’elogio della famiglia medicea. Venere plaude al figlio e, con l’aiuto di Pasitea, moglie del Sonno e madre del dio dei sogni Morfeo, fa apparire a Iulio un sogno per rivelargli il futuro che lo attende: futuro di dolore per la morte di Simonetta e di gloria per la vittoria nella giostra. Al risveglio Iulio per prepararsi a scendere in campo rivolge la sua preghiera a Pallade (che simboleggia la Virtù), ad Amore e alla Gloria. A questo punto il poemetto s’interrompe, ma è assai probabile che dovesse seguire la narrazione del combattimento e del trionfo preannunciato nel sogno.

[11] In particolare  Euripide e Teocrito.

[12] Le figure retoriche ricorrenti sono l’allitterazione, i parallelismi, il chiasmo, le assonanze: esse sono usate con eleganza e gusto finissimi e, pur nella loro straordinaria frequenza, non rallentano il ritmo, anzi, favoriscono l’andamento lieve e melodioso, che è la principale caratteristica dell’opera.

[13] É una “fabula” nel senso latino di rappresentazione scenica.

[14] Una notizia tramandataci da Saverio, grammatico del IV secolo d.C. commentatore di Virgilio, ci fa capire a quali censure il poeta era soggetto: nella prima redazione delle Georgiche sarebbe stato presente, nella seconda parte del libro IV, un elogio dell’amico Cornelio Gallo, già celebrato nell’ecloga X. Purtroppo Gallo, nominato nel 30 prefetto dell’Egitto, era caduto in disgrazia presso il principe e fu costretto al suicidio. Lo stesso Augusto impose a Virgilio la damnatio memoriae, cioè l’eliminazione di ogni traccia del nome di Cornelio Gallo. Così Virgilio sostituì l’elogio con un più asettico epillio alessandrino: il mito di Orfeo e di Aristeo.

[15] Nel corso dei secoli dalla struttura della lauda attraverso un’evoluzione continua, si giunge alla lauda drammatica, che costituirà la prima forma teatrale in Italia: sarà, infatti, una “sacra rappresentazione” con più personaggi dialoganti .

A dire il vero a partire dall’VIII-IX secolo nelle forme di culto della Chiesa cattolica medievale si diffonde il dramma liturgico, un tipo di celebrazione semidrammatica.

Forse originarie del cantone di San Gallo (Svizzera), le recite liturgiche si diffusero rapidamente in tutta l’Europa occidentale, dapprima con primitivi dialoghi cantati ad antifona, interpolati nella Messa pasquale, fra le tre Marie e l’Angelo davanti al sepolcro vuoto di Cristo (Quem queritis).

Il dramma liturgico era caratterizzato da tre elementi: era strettamente connesso col rito, la sua lingua era il latino, veniva recitato esclusivamente da sacerdoti e chierici. Questa nascente forma drammatica venne via via arricchendosi, si svilupparono trame più complesse, che inglobavano ulteriori personaggi non appartenenti alle scritture e utilizzavano diverse parti della chiesa per rappresentare i luoghi più vari: la casa di Maria a Nazareth, la grotta di Betlemme, il tempio di Gerusalemme ecc. (noti come “luoghi deputati”). In seguito, il dramma liturgico uscì dagli edifici ecclesiastici, prima nel portico, poi sul sagrato e infine sulla piazza. Sebbene meno comuni, i drammi liturgici celebranti il Natale, che ruotavano attorno alla culla del Bambino Gesù come punto focale, hanno lasciato chiare tracce di sé sotto forma di rappresentazioni natalizie.

Esistevano poi tre tipi  di dramma religioso recitato in vernacolo. Questi drammi, allestiti in molti paesi d’Europa, si svilupparono dalla liturgia della chiesa cattolica Romana dopo il 1210, anno in cui un editto di papa Innocenzo III proibì agli ecclesiastici di esibirsi in pubblico per recitare episodi della Bibbia divenuti parte della liturgia. Nacque allora una forma drammatica popolare denominata Miracolo, i cui argomenti erano i miracoli operati dai santi, uniti a episodi tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento. I Miracoli venivano eseguiti a Pasqua e in altre feste. Acquistarono struttura formale alla fine del XIII- inizi del XIV secolo, e raggiunsero il massimo della popolarità nel XV e XVI secolo.

I Miracoli che avevano per tema le vite dei santi erano meno realistici e caratterizzati da un maggiore coinvolgimento religioso rispetto a quelli che trattavano episodi biblici; questi ultimi, proprio in virtù di una più immediata fruibilità, prevalsero sui primi nel gusto degli spettatori. Si rappresentavano generalmente cicli formati da brevi scene; il più delle volte, ogni scena veniva recitata da membri di una delle corporazioni cittadine. I cicli venivano dati all’aperto nei giorni di festa, in particolare in occasione della festività del Corpus Domini. Ogni corporazione recitava la scena assegnata su un carro itinerante (o una piattaforma) addobbato con i propri colori. Le scene bibliche erano inframezzate da interludi profani costituiti da spunti comici realistici tratti da scene della vita quotidiana.

Il termine Mistero viene spesso usato come sinonimo di Miracolo, sebbene alcuni esperti ritengano che si debba chiamare Mistero l’antico dramma medievale che si ispira a episodi delle Scritture e Miracolo quello rappresentante le leggende di santi.

Molto diffuse tra il XV e XVI secolo furono le Moralità, che miravano a educare il pubblico alla vita cristiana, a suggerirgli una visione cristiana della morte. Tema generale era l’eterno conflitto fra Bene e Male, che finiva sempre con la salvezza dell’anima. Di impianto allegorico, le Moralità avevano come personaggi virtù o vizi o concetti personificati.

Dal dramma liturgico, con soggetto religioso nasce la sacra rappresentazione. Ebbe uno sviluppo particolare in Italia tra il XIV e il XV secolo, quando le laudi dialogate acquistarono caratteristiche spiccatamente sceniche: allora aumentò il numero dei personaggi e lo spettacolo si svincolò dalle cerimonie liturgiche. La scena veniva infatti allestita in piazza o nei locali comuni dei conventi, anche se mantenne sempre alcuni elementi simbolici di richiamo religioso, in genere allusivi alla dannazione (l’inferno) e alla salvezza (il paradiso). Anche gli argomenti subirono un’evoluzione, diventando più laici. Episodi come i miracoli dei santi, o le leggende costruite sulle loro vite, vennero contaminati con materiali avventurosi e cavallereschi, a volte anche tratti dalla vita quotidiana, ad esempio grazie all’introduzione di osti, contadini, commercianti. In seguito a queste trasformazioni, anche il verso si modificò, tendendo a coincidere con quello tradizionale dei poemi cavallereschi, l’ottava rima, più adatto all’andamento narrativo delle sacre rappresentazioni di questo periodo. L’azione è incorniciata dagli interventi di un personaggio (di solito un angelo) che all’inizio presenta l’argomento dell’opera e alla fine dichiara concluso lo spettacolo. I testi trecenteschi di queste rappresentazioni, diffusi in svariate regioni d’Italia, sono perlopiù anonimi e di modesto valore artistico. Nel XV secolo, invece, a Firenze la sacra rappresentazione acquistò un carattere decisamente più sofisticato. Basti dire che ne scrissero poeti colti ed eleganti come Lorenzo il Magnifico (Rappresentazione di san Giovanni e Paolo, 1491) e Poliziano. Il genere del miracle play ebbe particolare sviluppo in Inghilterra, come importante episodio nell’ambito del teatro delle origini.

[16] Della poesia concernente cioè il canto dei pastori.

Luigi Pulci ed il Romanzo cavalleresco

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Re- L. Simoni. L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001
Luperini-P. Cataldi-L. Marchiani-F. Marchese. La scrittura e l’interpretazione. Dalle origini al manierismo. Volume primo. Palumbo editore. Firenze. 2000.
VV., La letteratura italiana in Cd-Rom, G. D’Anna editore- La repubblica Edizioni. Milano. 1999.
Guglielmino-H. Grosser. Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994
Gioanola, Storia della Letteratura italiana. Dalle origini ai giorni nostri. Librex editore, Milano, 1992
Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento, Giuseppe Principato editore. Messina-Milano, 1937.

In ambito non umanistico la maggiore personalità del Quattro­cento è Luigi Pulci, che pur essendo presso Lorenzo de’ Medici[1] si occupa di una materia popolare con il romanzo cavalleresco[2], seppur trattato in forma d’arte.

Riprende alcuni cantàri popolari francesi (quali le anonime Orlando, un rozzo cantare dell’inizio del 1400, e La Spagna in rima) ma ne accentua gli elementi comici con trovate grottesche; fornisce in un certo senso l’arche­tipo del poema eroicocomico destinato a fiorire sino al Settecen­to[3].

Nasce a Firenze nel 1432 da un’antica e nobile famiglia, secondo di tre fratelli tutti dotati di attitudini letterarie (Luca è un poeta popolare estroso e bizzarro; Bernardo è un rimatore religioso).

In gioventù il P. dovette occuparsi delle attività agricola del padre che possedeva dei campi nel Mugello e che morì abbasta­nza presto; poi si impiegò come contabile quando si fece grave la situazione del fratello Luca che aveva impiantato un banco a Roma; avendo impiantato anche un banco a Firenze il fratello andò incontro al fallimento e finì in carcere, Luigi e Bernardo nel 1465 furono esiliati.

Luigi poté tornare in Firenze nel 1466 grazie all’intervento di Lorenzo de’ Medici, che lo apprezzava e lo accolse tra i lettera­ti della sua “corte” e i suoi collaboratori, affidandogli anche tra il 1467 ed il 1472 ambasciate in varie città italiane (Bologna, Milano, Venezia, Roma , Camerino).

Strinse in questo periodo amicizia con Poliziano ma fu avversario di Marsilio Ficino; attorno al 1475 il P. ebbe una violenta polemica, testi­mo­niata da una serie di sonetti velenosi, con il rimatore e sacerdote Matteo Franco, che lo accusava senza mezzi termini di eresia e miscreden­za, non senza ragione considerando sia che il P. si occupava di pratiche magiche, sia come sono trattate le questioni religiose nel Morgante, il poema iniziato nel 1460-61 per invito della pia mamma di Lorenzo, Lucrezia Tornabuoni, che pensava ad un’opera di glorificazione del prode e religiosissimo Carlo Magno.

Nella polemica il P. coinvolse anche gli umanisti platoneg­gianti dell’Accademia fiorentina e questo finì per alienargli le simpatie del pur liberalissimo Lorenzo: per questo, il P., che pur rimase sempre in rapporti di amicizia con il suo protettore, passò al servizio del capitano di ventura, al soldo di Firenze, Roberto Sanseverino, che seguì nelle sue innumerevoli peripezie.

Durante un viaggio verso Venezia, Lorenzo si ammalò e morì a Padova nel 1484: la sua fama di miscredente si era molto diffusa, essendo il suo poema in circolazione dal 1478 (cantàri I-XXIII) e dal 1483 in edizione definitiva, tanto che non gli furono conces­si i funerali religiosi e fu sepolto come un eretico in terra sconsacra­ta.

Il P. è autore di un importante Epistolario, della Beca da Dicomano, poemetto rusticano a somiglianza della ben più vivace Nencia da Barberino di Lorenzo de’ Medici, e della Giostra di Lorenzo, un poemetto encomiastico scritto per celebrare una vittoria di Lorenzo de’ Medici del 1469.

L’unica opera che veramente conti nel repertorio  pulciano è però il Morgante, poema in ottave inizialmente di 23 cantiche che fu composto appunto tra il 1460 ed il 1472 e pubblicato nel 1478.

Dopo una ristampa nel 1482 il P. lavorò ad altri cinque cantari[4] e così nella terza edizione il poema, detto Morgante maggiore[5], si compose di 28 cantiche.

Il materiale cavalleresco è completamente rinnovato tanto nei toni quanto nell’invenzione dei personaggi, i maggiori dei quali non sono più Orlando e Rinaldo o altri paladini tradizionali ma Morgante e Margutte, che diventano gli autentici protagonisti di un’epica al contrario, quella dei bisogni fisici immediati, dello stomaco soprattutto, unico vero valore per questi paladini della burla.

Ma l’enfasi dei bisogni elementari è solo un modo per rovescia­re comicamente i valori tradizionali, compresi quelli religiosi – e c’è il diavolo Astarotte che esprime le personali opinio­ni dell’autore in proposito – che vengono irrisi da questi protagoni­sti-lestofanti, mentre le risorse del linguaggio popola­resco servono a rafforzare il tono di irrisione e di allegro divertimen­to.

Il poema racconta di Orlando, che allontanatosi da Carlo Magno perché offeso dalle accuse del suo re, subornato dal traditore Gano di Maganza, incontra varie peripezie in Oriente finche giunge in un convento, dove libera i monaci che erano tenuti prigionieri da tre giganti, due dei quali uccide e il terzo, porta con sé prigioniero.

È questi Morgante, che Orlando “converte” al Cristianesimo e fa suo scudiero: il gigante segue il paladino, armato di un batta­glio di campana, che usa come una clava per abbattere uomini e animali.

Orlando in Oriente è raggiunto dal cugino Rinaldo ed altri paladini, tutti adirati contro il re Carlo e vittime del perfido Gano, che anche da lontano trama contro di loro fino ad arrivare a consi­glia­re al re saraceno Marsilio di muovere guerra ai Franchi.

Al centro del poema, fuori dalla grande trama cavalleresca che non è più di un supporto schematico del racconto, sta l’incontro tra Morgante e Margutte, il piccolo lestofante che risulta subito simpatico al gigante, col quale forma una perfetta coppia di forza e astuzia combinate: le avventura di Morgante prima solo e poi accompagnato da Margutte formano la trama specifica del poema, quella più ricca di avvenimenti e di mordente comico.

All’annuncio del pericolo che minaccia Carlo e i Cristiani, Orlando con gli altri paladini accorre dall’Oriente e trova eroica morte a Roncisvalle, mentre intanto Gano di Maganza è stato smascherato e ucciso come traditore.

Ma prima della battaglia di Roncisvalle, presentata anch’essa in toni di espressionismo grottesco, i due eroi principali del poema sono già morti, Margutte schiattato dalle risa alla vista di una scimmia che si è messa i suoi stivali, e Morgante ucciso da un granchiolino che lo ha morso al tallone dopo che egli aveva fatto fuori una balena; ciò nella estrema irrisione di un capo­volgimento carnevalesco anche di quel supremo momento dei poemi epici rappresentato dalla morte degli eroi.

[1]Lorenzo il Magnifico resta quella di aver incarnato al meglio gli ideali del principe rinascimentale: poeta di talento (fu autore di una raccolta di Rime, ispirate alla lirica petrarchesca), riunì presso la sua corte gli artisti e gli intellettuali più noti del tempo, tra cui i pittori Botticelli e Pollaiolo, gli scultori Verrocchio e Michelangelo, i filosofi Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola, i poeti Luigi Pulci e Poliziano. Assurta, sotto il suo governo, al ruolo di “novella Atene”, Firenze divenne il più luminoso centro dell’umanesimo italiano.

[2]In Italia, la materia cavalleresca diede vita a una linea “bassa” e a una “alta”. Da un lato si sviluppò la letteratura franco-veneta, che riprendeva soprattutto il ciclo carolingio, assieme ai cantari, redazioni in volgare recitate da cantastorie. A un livello di elaborazione letteraria ben più consapevole si sviluppò invece la linea che ha il suo capolavoro nell’Orlando furioso (1532) di Ludovico Ariosto, poema cavalleresco preceduto appunto dal Morgante (1478) di Luigi Pulci.

[3]Poema eroicomico Racconto in versi che tratta in tono elevato un contenuto provocatoriamente leggero.

Capostipite del genere è la Batracomiomachia (Battaglia delle rane e dei topi), un poemetto greco anonimo databile VI-V secolo a.C.

Il genere si consolidò nel Seicento, grazie al gusto barocco innestato sulla tradizione ormai inattuale della poesia cavalleresca, parodiata (di cui appunto l’opera del Pulci costituisce il primo esempio di alto livello artistico) e motivo di divertimento letterario. A spiccare sarà La secchia rapita (1621) di Alessandro Tassoni, celebre anche oltre i confini d’Italia: ispirandosi alla Secchia, nel 1712 Alexander Pope pubblicò The Rape of the Lock (Il ricciolo rapito). Altri autori italiani di poemi eroicomici secenteschi sono Francesco Bracciolini e Giovan Battista Lalli. Nel Settecento il genere riprese vigore: nella Marfisa bizzarra (1761-1768), Carlo Gozzi deformò polemicamente le idee illuministe e prese in giro molti uomini di cultura contemporanei. I Paralipomeni alla Batracomiomachia (iniziati verso in 1831) sono un poemetto in ottave di Giacomo Leopardi che satireggia i moti liberali del 1830-1831 a Napoli; l’allusione all’opera capostipite del genere (più volte tradotta da Leopardi) è dichiarata sin dal titolo.

[4] Sulle peripezie di Orlando nella battaglia di Roncisvalle, sulla morte di Gano di Maganza e di Carlo Magno.

[5] Per distinguerlo non tanto dal precedente Morgante ma da estratti delle avventure di Morgante e Margutte, che allora circolavano.

LEON BATTISTA ALBERTI

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Re- L. Simoni. L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001
Luperini-P. Cataldi-L. Marchiani-F. Marchese. La scrittura e l’interpretazione. Dalle origini al manierismo. Volume primo. Palumbo editore. Firenze. 2000.
VV., La letteratura italiana in Cd-Rom, G. D’Anna editore- La repubblica Edizioni. Milano. 1999.
Guglielmino-H. Grosser. Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994
Gioanola, Storia della Letteratura italiana. Dalle origini ai giorni nostri. Librex editore, Milano, 1992
Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento, Giuseppe Principato editore. Messina-Milano, 1937.

Con l’Alberti si attua la saldatura tra cultura umanistica e lingua volgare, per l’esigenza che egli sentì molto viva di divulgare i nuovi valori (in particolar modo la virtù[1]) fuori dalla stretta cerchia dei dotti e per la parallela convinzione della perfetta adeguatezza di questo mezzo, debitamente perfezionato, all’impegnativo compito.

Leon Battista Alberti, della nobile famiglia degli Alberti, nacque a Genova nel 1404, essendo il padre esule in quella repubblica: alla precoce morte di lui, l’Alberti si trovò in gravi ristrettezze economiche e tutta la sua giovinezza fu segnata da tale bisogno, che gli rese arduo il conseguimento della laurea in diritto canonico all’università di Bologna, dopo la quale, resosi chierico entrò nella curia romana.

Per periodi non brevi fu a Firenze, soprattutto in occasione del Concilio che stabilì l’unione tra cattolici e ortodossi e qui strinse amicizia feconda con il Brunelleschi, che lo sollecitò ad approfondire gli studi di architettura, nei quali emerse sia come teorico che come progettista (si ricordi almeno il classico Tempio malatestiano di Rimini).

Le opere principali nel campo dell’arte sono Della pittura e De re aedificatoria, destinata la prima alla teorizzazione della nuova prospettiva pittorica, con l’invito allo studio della natura e al rispetto delle sue leggi, la seconda intesa a fornire i criteri per la nuova architettura di tipo classicheggiante e a proporre l’immagine dell’architetto ideale, che doveva  essere un uomo probo e possessore di una cultura enciclopedica, nel sogno di una città ideale, costruita secondo le leggi dell’armonia e affidata platonicamente al potere dei dotti (per parte sua Pio II tentò di realizzarlo con l’edificazione della città di Pienza).

Nella sua apertura a tutti i campi del sapere l’Alberti si occupò anche di letteratura sia teoricamente, nel De litterarum commodis atque incommodis, sia nella pratica concreta dei dialo­ghi lucianei delle Intercoenales (12 libri di dialoghi), dove vengono discussi i temi principali della cultura umanistica, e del romanzo storico Momus.

Ma l’opera principale di quest’uomo che non ebbe una famiglia propria fu il trattato Della famiglia, nato da intenti pedagogici e dedicato a questa istitu­zio­ne che la civiltà borghese aveva fortemente valorizzato e che la cultura umanistica proponeva come centro ideale della forma­zione dell’uomo nell’espansione della sua vita sentimentale, nel conforto dell’abitazione e degli arredi, nella costituzione e nella cura del patrimonio, nella cura dei figli.

La trama concerne l’incontro di alcuni parenti presso il capezzale del padre morente dell’Alberti:  essi dialogano sul matrimonio, sull’educazione dei figli, sul modo di accrescere  e far prosperare la casa ed il podere ed infine l’amicizia.

Il terzo dei quattro libri che compongono quest’opera, Oeconomicus è forse il capolavoro dell’Alberti, per la commossa adesione ai temi del­la at­tività umana nella mercatura e nell’agricoltura, nell’esalta­zione del lavoro umano come modificatore della realtà e strumento validissimo contro l’abbandono alla fatalità.

Nell’opera “Della tranquillità dell’animo” l’Alberti introduce l’elogio dell’uomo nella figura del dotto, che le occupazioni congeniali elevano al disopra dei turbamenti e delle sventure, con la figura finale di Archimede che affronta serenamente la morte avendo fino all’ultimo atteso ai suoi studi prediletti.

I tre libri del De iciarchia (<<Il governo della casa>>) chiudono nel 1470, a due anni dalla morte, l’attività dello scrittore, che ancora una volta torna sul tema del “governo della casa” a conferma della sua predilezione per quel luogo autentico dell’uomo che è la fami­glia (superiore anche allo Stato per l’autore), dentro quell’e­terno ideale di “grazia e gravità”, insomma di armonia, che domina tutta la sua opera.

Dell’Alberti ricordo infine una raccolta di apologhi (Apologhi centum), spesso di oscuro significato, scritti a Bologna nel dicembre del 1437 e considerati dall’autore come un momento di pausa, di evasione dalla trattazione di opere più impegnative.

Gli apologhi sono in generale raccontini da cui si ricava un insegnamento morale: Esopo ne è stato il migliore creatore; essi avevano per protagonisti per lo più animali (forniti però di virtù, vizi e sentimenti umani) e talora dei, uomini e piante, e di cui si chiariva il significato, allegorico e moraleggiante, in una breve spiegazione finale (epimitio).

Nell’Alberti l’epimitio viene soppresso come del resto accadeva nei modelli greci pre-esopici: ciò serve ad evitare la divisione tra narrazione e riflessione e a dare così al lettore un po’ di responsabilità nel ricavare l’insegnamento.

Il tessuto narrativo si contrae poi fino a divenire sentenza o motto di spirito.

Vizi e virtù vengono rappresentati attraverso categorie essenzialmente laiche ed i valori non sono determinati in base a finalità metafisiche; animali e piante non hanno strabilianti qualità come nei bestiari od erbari medioevali, ma attitudini squisitamente umane.

Il verdetto del moralista valuta l’uso dei beni ed il tempo di tale uso lo scandisce impietosamente; spesso il riso è visto come castigo sociale o come mezzo per smascherare le apparenze, per ridere su chi vive solo attraverso le apparenze (ad es. il fungo, il roseto ecc. ).

[1]Le giuste leggi, e’ virtuosi principi, e’ prudenti consigli, e’ forti e constanti fatti, l’amore verso la patria, la fede, la diligenza, le gastigatissime e lodatissime osservanze de’ cittadini sempre poterono o senza fortuna guadagnare e apprendere fama, o colla fortuna molto estendersi e propagarsi a gloria, a se stessi molto commendarsi alla posterità e alla immortalità”. I libri della famiglia, p. 5.

Il Quattrocento e l’Umanesimo

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Re- L. Simoni. L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001
Luperini-P. Cataldi-L. Marchiani-F. Marchese. La scrittura e l’interpretazione. Dalle origini al manierismo. Volume primo. Palumbo editore. Firenze. 2000.
VV., La letteratura italiana in Cd-Rom, G. D’Anna editore- La repubblica Edizioni. Milano. 1999.
Guglielmino-H. Grosser. Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994
Gioanola, Storia della Letteratura italiana. Dalle origini ai giorni nostri. Librex editore, Milano, 1992
Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento, Giuseppe Principato editore. Messina-Milano, 1937.

   

La letteratura italiana  trova nel Quattrocento terreno poco fecondo poiché la gran parte delle opere è scritta in lingua latina.

I letterati umanisti[1] , infatti,  tennero in poco riguardo il volgare in quanto lo consideravano caren­te dal punto di vista estetico e privo della necessaria sensibilità umana.

Quando posero il volgare alla loro attenzione lo fecero per il solo desiderio di elevarlo ai modi alti del modello latino.

Venne recuperato però il latino classico e non quello medioevale come si potrebbe pensare vista la contiguità dei periodi.

Sappiamo già che anche Petrarca e Boccaccio considerarono la lingua latina come strumento letterario privilegiato, nonostante abbiano acquisito fama e vengano ricordati soprattutto per la produzione volgare.  La nuova cultura  guarda dunque ai valori e alla lingua latina antica: una lingua morta e utilizzata ormai solo per la letteratura.

 Il letterato umanista,  fine nel gusto estetico, tiene parimenti in grande considerazione  i sentimenti e le concezioni  morali e spirituali; e la sua attività viene assicurata da un mecenate o committen­te che è sostanzialmente un borghese desideroso di nobilitare le sue basse origini e nel contempo di innalzarsi politicamente.

Su commissione dunque l’umanista va alla ricerca dei codici più fedeli all’origina­le classico; si formano allora le prime biblioteche private, e ciò a discapito del monopolio culturale  riservato fino ad allora al mondo ecclesiastico;  si diffonde conseguentemente il mestiere del libraio e, dopo la scoperta di Gutemberg della stampa, sul finire del Quattrocento si poterono contare nelle più importanti città italiane più di settanta stamperie[2].

La cultura aristocratica diviene elitaria, dato che si restringe al cenacolo dei letterati che scrivono tra loro o per omaggiare il loro mecenate.

Si affianca, in altre parole, alla tradizionale Università la cosiddetta Accademia, presente in ogni corte d’Italia, che è un circolo di dotti,  ma anche un mezzo prezioso per educare  gli eredi della nobiltà di corte[3].

 L’Accademia fiorentina, voluta dai Medici e  detta “platonica”,  è di fondamentale rilievo: così come il Medioevo esalta Aristotele, il Quattrocento pone al centro della sua indagine la dottrina platonica, ovvero ammette l’esistenza di un mondo ideale differenziato sia dal mondo sensibile sia dalle costruzioni della mente umana.

L’idealismo platonico è appunto ricerca di armonia e di bellez­za, perfezionamento del gusto, discrezione dei comportamenti, visione di un’umanità perfetta, di cui la corte può rappresentare lo spec­chio: in quest’ambito si cerca la sintesi tra l’umanesimo pagano e l’ascetismo cristiano, armonizzando spiritualità e sensibilità, anima e corpo, bellezza e verità, entro un disegno primordiale, da paradiso terrestre della perpetua innocenza.

La corte è proprio il luogo edenico ove la natura e l’invenzione collaborano all’avvento del regno della “Grazia”. Ci si vuole riappro­priare del mondo e dell’umano, purificandoli alla luce dei valori cristiani.

Firenze è come detto, il primo centro della cultura umanistica grazie all’opera del Boccaccio.

Qui opera anche Coluccio Salutati[4], un politico che si occupa di letteratura; in lui essa si salda alla cosa pubblica[5], le humanae litterae sono addirittura un esempio per la conduzione della vita attiva;  è una figura che ricorda Cicerone, l’orato­re classico di cui scopre le Epistulae ad Familiares.

In particolare ed in dissonanza con i dotti del suo tempo abbandona la retorica medioevale a favore appunto di quella ciceroniana.

Sotto il profilo politico Coluccio esalta la Firenze democratica[6]: nel De Tyranno afferma al proposito l’ammissibilità del tirannicidio[7].

Nei vari trattati affronta poi il rapporto che c’è tra la fortuna e la libera volontà (tema che poi verrà ripreso, tra gli altri, da Machiavelli), cerca un’integrazione tra l’umanesimo e la scienza, si occupa della delicata relazione tra i miti pagani e le verità cristiane.

Coluccio Salutati sostituì infine negli studi classici la grafia gotica con la più leggibile minuscola carolina convinto che fosse la grafia romana: tale introduzione sarà importantissima per la nascita e la diffusione dei libri stampati[8].

A Firenze giunge anche la letteratura greca con Manuele Crisolora, un diplomatico e maestro del greco classico[9], emigrato da Costantinopoli in Italia nel 1397 – su invito del Salutati – che traduce in latino la Repubblica di Platone e le Vite di Plutarco, opere di grandissima risonanza nel secolo.

Per la lingua greca va ricordato anche il cardinale Bessarione, non solo per il suo tentativo di conciliare platonismo e Cristianesimo, ma soprattutto per il lascito (1468) a San Marco di Venezia di una grandissima biblioteca (primo nucleo della Marciana) di testi greci provenienti da Costantinopoli e dai conventi greco-ortodos­si.

 Allievo del Salutati e suo successore alla Cancelleria di Firenze è Leonardo Bruni (1374-1444) grecista[10], ma soprattutto storico[11] che esalta Firenze come la città ideale; scrive anche in volgare una Vita di Dante ed una Vita del Petrarca.

Niccolò Niccoli (1364-1437) fu grande ricopiatore e raccoglitore di libri[12] (tutti quelli del Boccaccio), ma scrittore di scarso peso; più che altro si ricorda perché fiero avversario della lingua volgare.

Il maggiore degli umanisti-filologi è senza dubbio l’aretino Gian Francesco Poggio Bracciolini (1380-1459), allievo a sua volta del Salutati e membro della stessa Cancelleria fiorentina.

Si tratta di un letterato libero da vincoli comunali e disposto assai più del Petrarca, a mettere la sua professionalità (il B. era anche notaio) a servizio dei committenti che più lo retribuiscono.

Fu straordinario cercatore[13] e ricopiatore di Codici anche per commissione della Curia romana.

A differenza del Salutati e del Bruni egli non concepisce la letteratura come strumento di intervento civile, ma come consola­zio­ne e bellezza opposte allo squallore e alla malinconia del tempo che passa. Mentre quelli proiettano in Firenze l’immagine dell’Eden Bracciolini pensa ad un Eden prettamente naturalistico[14].

Nel De avaritia e nel Contra Hypocritas  Bracciolini polemizza poi contro i monaci ghiottoni che secondo lui esasperano i temi del peccato e delle pene e sono perciò da lui considerati i peggiori nemici della concezione umanisti­ca di un mondo innocente in cui il piacere è libero da ogni colpa, come nell’Eden.

All’aspirazione di un mondo innocente si unisce nel Brac­cio­lini, il senso della ineluttabile della fuga del tempo e della decadenza di tutte le cose; il mondo classico diventa così ragione di riflessione sulla caduta della antichi splendori.

Di Bracciolini ricordiamo in ultimo il Liber facetiarum [15] (1438-1452), la più importante raccolta di motti arguti  del Qattrocento.

Nella Firenze della metà del XV secolo l’Umanesimo tende a diventare filosofico: il tema di fondo che affrontano gli umanisti è quello della dignità dell’uomo con il suo destino di creatura privilegiata.

La vera anima di questo umanesimo è Marsilio Ficino (1433-1499) che traduce per conto dei  Medici  tutta l’opera di Platone in latino, oltre alle opere del filosofo greco Plotino e di altri pensatori neoplatonici; si tratta di un sacerdote[16] che studia il greco e incoraggiato da Cosimo de’ Medici, fonda l’Accademia Platonica.

Con l’ausilio dei suoi studi elabora una filosofia cristiana che passa attraverso la valorizzazione totale dell’uomo, creatura completa perché possiede natura divina, angelica e animale. Ed in questo senso nella Theologia platonica de immortalitate animorum [17] Ficino tenta di raccordare ragione e fede non attraver­so un procedimento aristotelico, bensì basandosi sulla circostan­za che ogni elemento dell’universo, l’uomo incluso, manifesta la presenza di Dio[18].

L’arte e la poesia assumono per Ficino  una valore altissimo: sono capaci di elevare lo spirito alla contemplazione di quel dono divino che è la bellezza.

Il suo commento del Simposio di Platone inaugurò la nozione di amore platonico[19], un particolare concetto di amicizia basato sull’amore di Dio, che fu fecondo per la letteratura del tardo Rinascimento.

Anche Pico della Mirandola (1463-1494) pone l’uomo al centro della sua meditazione nell’Oratio de dignitate hominis.

La dignità dell’uomo predominante nell’universo, così come esiste un amore universale che lega le creature fra di loro e le creature a Dio.

Amico del Ficino da cui fu avviato al platonismo[20], si aprì anche alle influenze della sapienza araba ed ebraica, ritenendo integrabili nel Cristianesimo alcuni  elementi   delle altre religioni (Caldei, Egizi, Ebrei) ; anche in lui che fu condannato dalla Chiesa per alcune tesi eretiche[21], c’è l’esaltazione della libertà e della vita contemplativa; negli ultimi anni accentua la propensione mistica, influenzato dal Savonarola.

Nell’area milanese mercenario della letteratura fu Francesco Filelio (1398-1481) che studiò il greco a Costantinopoli, lo insegnò a Firenze e poi divenne il letterato ufficiale di casa Sforza.

Quella di vendersi al migliore offerente e quindi di muoversi frequente­mente fu una caratteristica di molti umanisti: non è più il centro di cultura che reca lustro al letterato, ma è il letterato che apporta lustro al centro di cultura.

Così Guarino Veronese (1374-1460) caratterizza la corte estense di Ferrara, ma fu prima a Firenze e a Venezia.

Vittorino da Feltre (1373-1446) è l’animatore dell’Accademia dei Gonzaga a Mantova.

Non lo ricordiamo per quello che ha scritto ma per ciò che ha fatto; ha istituito una scuola (la “Gioiosa”) ove lo studio dei classici latini e greci si inserisce in un generale piano educati­vo che prevede l’educazione globale del giovane, dall’esercizio fisico  al comportamento, all’istru­zione letteraria e scientifica, alla promozione morale e spiri­tuale, entro un quadro di cristiane­simo armonizzato con le esigenze terrene.

L’Accademia romana è frutto dell’opera dei papi[22] dopo il concilio di Costanza[23], che fecero venire nella capitale i migliori umanisti: Bracciolini, Valla, Aurispa e Leon Battista Alberti.

Un allievo del Valla, Pomponio Leto amava talmente il mondo classico da immedesimarsi completamente in un antico romano, tanto da essere accusato di tramare contro la Curia e di voler restaurare la repubblica romana.

Pio II ovvero al secolo Enea Sivio Piccolomini  (Corsignano 1405- Ancona 1464) è uno storico senese allievo del Filelfo a Firenze e segretario di cardinali e papi[24]; in gioventù fu poeta e romanziere licenzioso e mantenne un atteggiamento libertino fino alla conversione avvenuta nel 1444, in seguito alla quale cambiò il tenore dei suoi scritti e si fece sacerdote, ottenendo il vesco­vado di Trieste e poi quello di Siena.

Nei commentari giovanili aveva sostenuto il primato del Conci­lio sul Papa, ma poi fece cambiò idea riconoscendo con sincerità il suo errore, così come, con franchezza, descriverà, una volta salito al soglio pontifi­cio, i suoi trascorsi libertini e i compromessi del conclave che lo ha eletto al pontifi­cato.

La sua sincerità è dovuta al disincanto per la vita umana, fascinosa e votata al decadimento (si sente l’influsso del Bracciolini), minacciata in quel periodo anche dai mussulmani, pronti ad invadere le terre cristiane. Di Pio II si ricorda soprattutto Commentarii rerum memorabilium quae temporibus suis contigerunt, ritratto splendido e amaro della sua vita e dei suoi tempi.

 Il maggior pensatore dell’Umanesimo fu però Lorenzo Valla (Roma 1407-1457), grande spirito critico e polemista, cerca di smasche­rare, attraverso la indagine filologica[25], le falsificazioni storiche e ideologiche a cui è andato incontro il Cristianesimo nella sua storia: di qui la costante polemica antimonastica, il rifiuto della scolastica che cerca di racchiudere Dio nella ragione[26], la diffidenza per tutto ciò che suona disprezzo per l’uomo[27] e per il mondo.

Per il Valla la filologia significa confutazione del pensiero astratto e adozione del metodo critico, con l’analisi puntuale delle prove e dei documenti, come emerge nel De falso credita et ementita Costantini donatione, in cui si dimostra la falsità del documento su cui la Chiesa basava la legittimità del potere temporale[28].

Vivissimo nel Valla fu anche il problema linguistico: nell’Elegantiarum linguae latinae libri sex (1444), polemizza col latino usato come lingua viva, in quanto le parole sono sostitutive della realtà e quindi devono essere inserite nel contesto storico.

 Pubblicata per la prima volta nel 1471, l’opera ebbe una notevole influenza sugli umanisti a venire, come lo stesso Erasmo da Rotterdam.

 A Napoli gli umanisti trovano una ricchissima biblioteca ma anche un potere (gli Aragonesi) che esige la più servile corti­gianeria; gli ospiti furono tutti dell’Italia superiore (Valla, Bracciolini, Bruni, Filelfo). Il più autorevole è comunque Giovanni Pontano (1426-1503), umbro d’origine ma napoletano di adozione.

 Si tratta di un buon poeta latino (si distingue soprattutto nella poesia elegiaca ed epigrammatica), che esprime l’intimità dei sentimenti e le piccole cose realistiche del paesaggio e della domesticità. I toni tendono a farsi elegiaci, più sobri e sconso­lati nella poesia più tarda, dopo la perdita del figlio e della moglie.

In Forlì è ancora da ricordare Flavio Biondo, il maggiore storico dell’umanesimo, che ricostruisce tutta la storia medioe­vale dalla caduta dell’Impero romano ai tempi presenti e fonda il concetto di Medioevo come “età di mezzo”.

In altre parole sembra che il termine Medioevo sia stato usato la prima volta dall’umanista Flavio Biondo, nelle Historiarum ab inclinatione romanorum imperii decades, scritta verso il 1450 e pubblicata nel 1483. Secondo l’autore, il termine indica una parentesi tra due epoche, nella quale è avvenuta una sospensione del progresso, una stasi culturale che si colloca tra la grandezza dell’età classica e la rinascita della civiltà all’inizio di una nuova era.

[1] Che furono detti tali per la scelta rigorosa della humanae litterae (poesia, oratoria, epistolografia, storiografia, filoso­fia morale).

[2] Con almeno un grande artista della stampa come Aldo Manuzio, autore dei più belli incunaboli (i primi libri a stampa,  appunto ancora “in culla”) della storia.

[3] Si tratta del nucleo del futuro liceo, scuola “classica” per eccellenza.

[4] Nato a Signano Val di Nievole nel 1331 e morto in Firenze nel 1406. Fu prima notaio e poi cancelliere di Lucca e Todi ed infine segretario della Prima cancelleria di Firenze (il Cancelliere di Firenze era la più alta magistratura della Repubblica fiorentina anche se aveva alcun potere politico); divenne amico del Petrarca e confidente del Boccaccio,

[5] In questo senso v. le Epistulae e i trattati De saeculo et religione, De fato, fortuna, et casu, De tyranno.

[6] Soprattutto nel momento in cui Gian Galeazzo Visconti (1385-1402), novello Cesare, tenta invano di impadronir­sene.

[7]  L’uccisione del tiranno fu per la prima volta considerata legittima dal filosofo medievale Giovanni di Salisbury (metà del XII secolo). Il tirannicidio, in difetto di altra azione possibile, lo troviamo in seguito nel De Guelphis et Gebellinis e e nelle Glosse alla Costituzione enriciana Qui sint rebel­lis, opere del grande giurista trecentista Bartolo da Sassoferrato. La tematica sarà ripresa anche nel secolo dei Lumi con il Trattato sulla Tirannide (1777-1789) di Vittorio Alfieri ove si configurano come unici rimedi alla tirannia il suicidio o appunto il tirannicidio.

[8] Il processo sarà poi perfezionato da Poggio Bracciolini.

[9] Questa lingua in Grecia era stata soppiantata dal greco moderno.

[10] Traduce Platone, Aristotele, Senofonte e Plutarco grazie agli insegnamenti di Crisalora a cui viene affidata dal Salutati la cattedra di letteratura greca.

[11] Da ricordare di questo autore con particolare attenzione Le Historiarum Florentini populi libri XII (Dodici libri di storie fiorentine, 1420)  che insieme ad altre opere (le Istorie fiorentine (1525) di Niccolò Machiavelli, la Storia d’Italia (1561-1564) di Francesco Guicciardini, e il Methodus ad Facilem Historiarum Cognitionem  di Jean Bodin), abbandonavano la visione degli storici medievali legata a un concetto di tempo segnato dall’avvento di Cristo per sviluppare un’analisi degli avvenimenti che ha origine da un punto di vista laico del tempo e dall’atteggiamento critico verso le fonti. La storia divenne una branca della letteratura e non più della teologia. Gli storici del Rinascimento rifiutavano la divisione cristiana della storia che doveva avere inizio con la Creazione, seguita dall’incarnazione di Gesù Cristo e dal Giudizio Finale. La visione rinascimentale della storia esaltava il mondo greco e romano, condannava il Medioevo come un’era di barbari e proclamava la nuova epoca come quella della luce e della nascita del classicismo.

[12] Alla sua morte lasciò ottocento codici.

[13] Nel 1414 in seguito alla partecipazione al concilio di Costanza aveva ritrovato nelle abbazie di Cluny e di San Gallo molti codici, dati per scomparsi, conservanti le opere di autori latini come Quintiliano, Lucrezio (il De Rerum Natura), Ammiano Marcellino, Silio Italico, Stazio e Valerio Flacco.

[14] Tale paradiso lo ritroviamo in una celebre lettera dove il B. descrive le ricreazioni balneari di Baden, dove donne e uomini nudi giocano senza malizia in un clima fascinoso di primitiva innocenza;

[15] Una raccolta che consta di 273 facezie, di un’introduzione e di una conclusione. Dopo una diffusione manoscritta (anche in redazioni parziali in anni precedenti il completamento della raccolta), l’operetta ebbe una notevolissima fortuna di stampa: si contano poco meno di una trentina di edizioni, ad esempio, tra il 1470 e il 1500 molti autori prenderanno le mosse dal Bracciolini: Poliziano, Pontano, Baldessar Castiglione, Thomas More, Erasmo da Rotterdam ecc.

Il titolo dell’opera nelle intenzioni del Bracciolini sarebbe dovuto essere Confabulationes (conversazione famigliare), ma il termine facetiae (frase scherzosa ed arguta) si impose in quelli poi divulgati: Facetiae, Poggi Florentinii Facetiae, Liber facetiarum.

Dal punto di vista strutturale le facezie sono brevi racconti d’intrattenimento che vogliono insegnare con sagacità l’arte del vivere; gli umanisti utilizzano molte figure retoriche per ottenere l’effetto voluto come l’entimema (sillogismo che tende a suggestionare partendo da premesse solo probabili), la metafora, l’allegoria, la paronomasia (avvicinamento di parole di suono uguale ma di significato differente), l’ironia  ecc.

In quanto al contenuto le facezie mostrano un desiderio di libertà dal consenso, dall’ordine costituito sia esso laico o religioso, di licenziosità e trasgressione anche delle convenzioni linguistiche (specie quando dalla logica si giunge al paradosso); il vir doctus et facetus si prende così l’impegno di smascherare la rusticitas, l’ottusità e la limitatezza della falsa od improvvisata cultura.

 [16] Canonico della cattedrale di Firenze.

[17] L’opera Teologia Platonica (1482) è uno studio sull’immortalità dell’anima umana in cui il Ficino manifesta la conoscenza di san Tommaso d’Aquino; l’opera esamina anche la cosmologia trascendente di Plotino e l’influsso delle stelle sulla vita umana.

[18] La meditazione religiosa si incentra invece su Cristo, in cui natura umana e divina si congiungono nella verità che si fa creatura incarnata.

[19] Quello che non conosce o rifiuta l’appagamento dei sensi, con riferimento alla dottrina platonica del divino Eros che sospinge l’uomo dal desiderio della bellezza corporea alla contemplazione della bellezza ideale. Platone narra di un colloquio avvenuto tra Socrate e Diotima di Mantinea, una sacerdotessa esperta dei misteri d’amore. Gli insegnamenti di Diotima individuano un percorso che conduce l’individuo dall’attrazione carnale per la bellezza di un singolo corpo, alla fruizione del bello ideale, colto nella purezza della sua essenza. Eros, personificazione dell’aspirazione all’immortalità che pervade in varia misura l’intero cosmo, si pone in questo senso come mediatore per raggiungere verità eterne.

[20] Da una matrice aristotelica.

[21] All’età di ventitré anni Pico della Mirandola si stabilì a Roma, dove espose apertamente una lista di novecento tesi (Conclusiones philosophicae, cabalisticae et theologicae) riguardanti ogni sorta di argomento, offrendosi di difenderle in pubblico, cosa che non avvenne visto che Pico subì invece un processo e il papa Innocenzo VIII giudicò eretiche e condannò tredici di queste tesi connesse con la magia e la cabalistica.

[22] Eugenio IV divenuto papa nel 1431 e Niccolò V, pontefice dal 1447 e fondatore della Biblioteca Vaticana.

[23] Concilio della Chiesa cattolica riunitosi nella città imperiale di Costanza dal 1414 al 1418, convocato dall’antipapa Giovanni XXIII su richiesta di Sigismondo, sacro romano imperatore.

[24] Dapprima a seguito dell’antipapa Felice V e poi sia segretario di Eugenio IV che di Niccolò V diviene Papa nel 1458.

[25] Filologia (Dal greco philología, “amore per il discorso”), disciplina che studia i testi scritti analizzandone le caratteristiche stilistico-formali e i contenuti per determinarne l’autenticità o la correttezza, spesso compromesse da alterazioni materiali o errori di interpretazione concettuale.

[26] Mentre questa vale per il V. solo nel campo sperimentale.

[27] Nel dialogo De voluptate dimostra ad esempio che l’istintiva inclinazione dell’uomo al piacere non è in contrasto con la morale cristiana.

[28] Quest’opera metteva in discussione l’ingerenza della Chiesa cattolica nelle vicende politiche e nei rapporti di potere fra le nazioni. L’ardire di Valla provocò aspre controversie che culminarono nell’intervento dell’Inquisizione nel 1440; l’umanista fu rilasciato solo grazie all’intercessione del re.              

 

Giovanni Boccaccio

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Re- L. Simoni. L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001
Luperini-P. Cataldi-L. Marchiani-F. Marchese. La scrittura e l’interpretazione. Dalle origini al manierismo. Volume primo. Palumbo editore. Firenze. 2000.
VV., La letteratura italiana in Cd-Rom, G. D’Anna editore- La repubblica Edizioni. Milano. 1999.
Guglielmino-H. Grosser. Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994
Gioanola, Storia della Letteratura italiana. Dalle origini ai giorni nostri. Librex editore, Milano, 1992
Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento, Giuseppe Principato editore. Messina-Milano, 1937.

 

Giovanni Boccaccio ebbe una vita assai ricca sotto i più svariati profili.

Fu chierico e padre di cinque figli naturali, cortigiano e borghese; funzionario, ambasciatore, amministratore dei beni. Fu  poeta[1]  e inventore di nuove forme metriche (l’ottava), prosatore con varie forme di romanzo[2] e le novelle[3], biografo[4], geografo[5], esegeta[6] e polemista[7], sperimentatore di nuovi e vecchi generi letterari (poema epico[8], allegorico[9], eziologico[10], prosimetro pastorale[11]) che con lui rinascono nella lingua volgare.

La sua eredità fu grande ed immediata, non solo in Italia[12]. Qui la sua prosa venne indicata come esempio linguistico da imitare[13] e il Decameron, sua massima opera, influenzò per intero la tradizione novellistica.

Giovanni Boccaccio nasce a Firenze nel 1313. È il figlio illegittimo di un mercante fiorentino e probabilmente di una serva; trascorre l’infanzia e la prima adolescenza nella città dei Medici.

Nel 1327 parte per Napoli con il padre, socio della compagnia dei Bardi (la banca più importante d’Europa); l’idea è quella di compiere gli studi mercantili e fare pratica bancaria.

Qui frequenta gli ambienti mondani aristocratici, nonostante fosse di origine borghese. La vita culturale della città lo affascina a tal punto che abbandona la mercatura per dedicarsi alla letteratura. Partecipa quindi alla stimolante vita della corte angioina di Napoli[14].

A Napoli si innamora della letteratura cortese e cavalleresca francese, ma gli studi classici non vengono certamente trascurati:  si dedica alla cultura latina (Ovidio, Virgilio, Lucano, Cicerone, Quintiliano e Macrobio) e all’erudizione storica, mitologica e letteraria. Frutto di queste letture saranno due opere giovanili degli ultimi anni trenta: il Filostrato[15] ed il Filocolo[16].

Viene richiamato a Firenze dal padre intorno al 1340[17],  ma non vive serenamente questo periodo[18]. Scampa alla terribile peste cominciata nella primavera del 1348 (in essa morì il padre e la matrigna); eredita il patrimonio paterno e diventa quindi ricco ed influente.

Ciò gli procura vari incarichi diplomatici (si reca infatti in varie città: Ravenna, Forlì, Tirolo ed Avignone) dal governo della città e nel 1350 conosce Francesco Petrarca, da lui ammirato e ritenuto un vero e proprio maestro.

I due scrittori rimarranno amici fino alla morte: Boccaccio incontra infatti nuovamente Petrarca in tre occasioni[19].

Nel 1351 la città di Firenze lo invia come ambasciatore presso Ludovico di Baviera.

Dal 1349 al 1351 Giovanni stende il Decameron[20].

 Nel 1360 ospita a Firenze l’amico, monaco calabrese, Leonzio Pilato, insegnante di greco antico: ciò gli consente di poter leggere l’Iliade tradotta in latino e soprattutto di imparare la lingua greca, all’epoca poco nota nella nostra penisola.

Nello stesso anno Boccaccio viene accusato ingiustamente di aver partecipato a una congiura ordita contro il comune di Firenze e così cade in disgrazia; perde gli incarichi pubblici e si ritira in Certaldo (vicino a Firenze); Innocenzo VI lo autorizza al sacerdozio (aveva in precedenza preso gli ordini minori).

Nel 1362 torna a Napoli su invito di un amico[21] ma, deluso dall’accoglienza ricevuta, rientra subito a Firenze: Giovanni ritorna in auge, tanto che viene inviato come ambasciatore presso papa Urbano V in Avignone.

Compiuta questa missione si ritira definitivamente nella sua casa di Certaldo dove vive appartato e dedito ad uno studio che interrompe solo per qualche breve viaggio[22].

Alla fine della sua vita, Boccaccio si dedica alla meditazione religiosa. Tra gli ultimi incarichi si ricorda la lettura alla cittadinanza della Divina Commedia, incarico che deve però abbandonare nel 1374[23] per il sopraggiungere della malattia (la scabbia) che lo  porta alla morte nel 1375.

Il Decameron

L’opera maggiore di Boccaccio è il Decameron[24] (iniziato nel 1349 e portato a termine nel 1351[25]), raccolta di cento novelle[26] inserite in una cornice narrativa comune che prende le mosse da un tragico fatto storico.

Per sfuggire alla peste del 1348, che aveva ucciso il padre e numerosi amici dello scrittore, un gruppo di dieci amici che si ritrova in Santa Maria Novella decide di rifugiarsi in una villa (poi in un’altra ed in seguito in un locus amenus) fuori Firenze[27]. Sette donne e tre uomini trascorrono quattordici giorni – da mercoledì a martedì – e visti i riposi del sabato e del venerdì,  dieci giornate (da cui appunto il titolo greco dell’opera) intrattenendosi vicendevolmente con una serie di racconti narrati a turno.

Un personaggio alla volta è infatti eletto re della giornata, con il compito di proporre un argomento che gli altri narratori sono tenuti a rispettare, anche se il modo di trattarlo è assolutamente libero.

Fanno eccezione a questo schema obbligato la prima e la nona giornata, in cui l’argomento delle novelle è libero.

I personaggi delle novelle sono desunti perlopiù dalla realtà contemporanea mentre i componenti della brigata sono ripresi da opere precedenti del Boccaccio o comunque dalla tradizione letteraria classica o romanza  ed  hanno nomi allusivi: Panfilo (già comparso nella Teseida e nell’Elegia di Madonna Fiammetta) è l’amante fortunato, Filostrato (protagonista dell’opera omonima) è l’uomo che soffre pene d’amore; Dioneo ( il cui nome deriva  da Dione, madre di Venere) è lussurioso e galante;  Neifile (che significa <<nuova innamorata>>) è gaia e sensuale; Lauretta (che richiama la Lura petrarchesca) è la gelosa; Pampinea, già presente nel Ninfale d’Ameto e nel Bucolicum Carmen) è la rigogliosa, l’amante opulenta e felice; Ellissa (nome  fenicio di Didone)  è l’adolescente che ama non ricambiata; Filomena è l’amante ardente; Emilia, (che compare nella Teseida) è vanitosa e lusingatrice.

Gli argomenti sono di carattere diverso e di solito generici[28]: ad esempio, nella seconda giornata si raccontano avventure a lieto fine, nella quarta si tratta degli amori infelici, mentre la quinta è dedicata alla felicità che premia gli amanti dopo che hanno superato particolari difficoltà.

Ma i temi non sono solo sentimentali: nella sesta giornata si ragiona di motti spiritosi, nell’ottava di scherzi e beffe.

In questi racconti si alternano numerosissimi personaggi, di svariata estrazione sociale (nobili, “borghesi”, popolani), laici e religiosi, figure di tutte le età.

È un vero e proprio universo ispirato alla realtà soprattutto toscana e fiorentina (con episodi ambientati in altri luoghi d’Italia – a Napoli soprattutto – e in paesi lontani), senza limitazioni né di carattere morale, né culturale.

Vi sono infatti nobili e mascalzoni, amanti ingegnosi e uomini poveri di spirito, donne fedeli beffate e spregiudicate figure femminili, personaggi storici e di invenzione.

Così, le condotte degli eroi sono ispirate sia a ideali elevati sia a interessi materiali, non ultimo il desiderio sessuale.

Alcuni protagonisti, con le loro storie, sono diventati celebri: basti pensare all’incallito peccatore ser Ciappelletto e alla sua falsa confessione in punto di morte che lo farà considerare santo presso i posteri, oppure alle numerose beffe di cui è vittima Calandrino, agli sproloqui di frate Cipolla che sostituisce alla realtà il suo mondo cialtronesco, oppure alla nobiltà d’animo di Federigo degli Alberighi.

Questa straordinaria varietà di ambienti, temi e personaggi non implica, tuttavia, la mancanza di una struttura coerente.

Infatti, oltre allo schema della cornice e a quello che regola l’alternarsi delle voci narranti, le corrispondenze sono sia disseminate all’interno dell’opera sia organizzate in una progressione di tipo etico.

Dalla prima alla decima giornata si passa cioè dal dominio del vizio al trionfo della virtù, naturalmente in modo non meccanico, e con eccezioni che hanno il compito di variare questa successione di stampo morale.

Alla base dell’inventiva di Boccaccio ci sono il gusto per il romanzesco (ma qui, a differenza di altre sue opere, si tratta di un romanzesco impregnato di realismo), l’attrazione verso la vitalità della giovinezza, l’attenzione critica che porta a superare le apparenze, una visione disincantata della vita.

Ogni giornata si conclude con una canzone, squisito esempio della lirica boccaccesca, intonata dai personaggi che ballano.

Il Decameron rappresenta il primo e più grande capolavoro in prosa della tradizione letteraria italiana antica, e si distingue per la ricchezza e la varietà degli episodi (che alternano toni solenni e umorismo popolare), per la duttilità della lingua e la sapiente analisi dell’animo umano.

Sul piano stilistico si tratta di una prosa decisamente elaborata, tanto che il modo di dire, affermatosi in seguito, “periodare alla certaldese” allude proprio alla struttura spesso molto articolata della frase, modellata sulla sintassi latina.

Una prosa che però si dimostra particolarmente duttile, visto che riesce con grande efficacia a rappresentare scene tragiche ed episodi comici, eventi nobili e beffe plebee.

Il periodo alterna analisi e sintesi, intonazione aristocratica e vivacità realistica, dramma e farsa.

La lingua s’approssima al «fiorentin volgare», secondo le intenzioni dello stesso autore: che ricorre anche a latinismi, provenzalismi, fiorentinismi (bischero, grifare, troiate, ecc.), gerghi settentrionali (utèl bèrgoli) e meridionali (giucare, mogliama, mogliera, moglieta, menne, gabbo, guagnele), neologismi (artagoticamente, imbardirsi, merendarsi, misleale, misvenire, moscoleato, pecoreccio, picchiapetto, pillincione, scipapa, strangugliare, tututto).

La collocazione, alla maniera siciliana, del verbo a fine frase è un altro aspetto del volgare latineggiante con cui Boccaccio, inaugurando e vincolando a se i successivi modelli della prosa italiana, sancisce la mai sanata frattura fra lingua letteraria e parlate dialettali.

Per questa sua opera Boccaccio attinse a molteplici fonti: i classici greci e latini, il fabliaux francese, la letteratura popolare compreso il patrimonio delle fiabe tradizionali, le raccolte di novelle italiane precedenti come il Novellino e le varie traduzioni contaminate delle Mille e una notte.

Alla base, però, c’è anzitutto l’acuta osservazione della realtà contemporanea.

Il Decameron presenta una nuova idea dell’uomo, non più indirizzato esclusivamente dalla grazia divina ma inteso come artefice del proprio destino, un’idea che anticipa la concezione antropocentrica (l’uomo considerato al centro dell’universo) che sarà elaborata dagli umanisti del Quattrocento.

Anche per questo aspetto ideologico il libro segna un punto di svolta rispetto alle tradizioni letterarie consolidate nel Medioevo.

Altre opere

Ricordiamo in primo luogo  è la Caccia di Diana (un poema in terza rima scritto  nel 1334 secondo il modulo allora in voga della rassegna di gentildonne): una schiera di belle donne fiorentine si sottrae a Diana per passare a servizio della dea dell’Amore Venere.

Se il Decameron inaugura la novella moderna, le altre opere di Boccaccio sono alla base di generi destinati a una lunga vita.

Il Filocolo (Fatica d’amore, 1336-38 ca.) è un ampio romanzo in prosa in cinque libri, presto diffusosi in Europa, che può considerarsi il prototipo del romanzo moderno.

Ha per protagonisti due personaggi (che secondo B. sono i fondatori di Certaldo) di una leggenda medievale, Florio (che assumerà il falso nome di Filocolo) e Biancifiore, innamorati l’uno dell’altra ma in grado di sposarsi solo dopo innumerevoli vicende avventurose inframmezzate nel testo da divagazioni colte, descrizioni, monologhi sentimentali.

Il Filostrato (Vinto d’amore, 1338 ca.) e il Teseida delle nozze di Emilia (1340-41) sono poemetti in ottave, forma poetica in cui Boccaccio eccelse, e costituiscono dei modelli di romanzo in versi.

Il primo è una narrazione di tipo sentimentale che tiene conto soprattutto di esempi letterari francesi, in particolare i romanzi del ciclo troiano, ma limitatamente a un episodio, quello dell’amore del giovane figlio di Priamo, Troiolo, innamorato della vedova greca Criseida, prigioniera a Troia.

Il secondo è ispirato ai grandi esempi dell’Eneide di Virgilio e della Tebaide di Stazio, contaminati però con la tradizione cavalleresca romanza, con il ciclo tebano in particolare. Al tema dell’amore, qui per la prima volta secondo l’autore, si affianca quello delle armi.

La Commedia delle ninfe fiorentine (o Ninfale d’Ameto, 1341-42, secondo la fortunata titolazione quattrocentesca) appartiene invece al genere arcadico e pastorale.

Si tratta di un testo in prosa (che include però terzine dantesche), di un omaggio a Firenze e alle sue donne, che danno conforto all’autore.

La tradizione pastorale traveste così la realtà contemporanea fiorentina, rivista allegoricamente in chiave cortese.

Anche il poema allegorico intitolato Amorosa visione (1342) impiega la terza rima, mentre l’Elegia di Madonna Fiammetta (1343-44) è piuttosto un romanzo in forma di confessione sentimentale (si tratta di una lunga lettera in prosa indirizzata dal personaggio femminile Fiammetta alle donne innamorate).

Costituisce una sintesi dei precedenti interessi di Boccaccio, amorosi, cortesi e classicistici. La novità sta nel fatto che la donna non è oggetto della rappresentazione, ma protagonista che parla in prima persona.

Si attua così un importante rovesciamento di prospettiva: i sentimenti della protagonista, innamorata di Panfilo, che la tradisce lasciando Firenze alla volta di Napoli, sono posti in primo piano e raffigurati senza mediazioni.

Infine, il Ninfale fiesolano (1345-46) è un poemetto idillico dedicato alla fondazione di Firenze, mentre il Corbaccio (1365 ca.) è l’ultima opera d’invenzione di Boccaccio.

Il tema dell’amore diventa qui satira contro le donne, forse alimentata da un non corrisposto amore senile dello scrittore.

Della sua produzione fanno parte inoltre un ritratto ideale di Dante (Trattatello in laude di Dante) e un commento della Divina Commedia in forma di raccolta di materiale erudito (Esposizioni sopra la “Commedia” di Dante).

Si passa così alla produzione umanistica e culturale di Boccaccio, autore di una serie di opere erudite, trattati scientifici e componimenti poetici sia in latino sia in volgare, dedicati a temi come le sventure degli uomini illustri, le donne celebri, la genealogia degli dei pagani.

Alla composizione delle Rime l’autore lavorò tutta la vita, come testimonia la varietà di influenze che mostrano, dal dolce stil novo colto e raffinato al modello petrarchesco, agli esempi della lirica toscana, passando attraverso l’esperienza di Dante rimatore.

Si tratta di una raccolta non organica ricca di personaggi soprattutto femminili, disegnati ora in modo lieve secondo il gusto cortese, ora con tratti più marcatamente popolareschi.

L’eredità letteraria di Boccaccio fu notevolissima e immediata, non solo in Italia. Qui la sua prosa venne indicata come esempio da imitare per la sua classicità da Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua (1525).

Si tratta di un testo che ebbe grandissima influenza sui letterati dell’epoca perché impose questo modello, assieme a quello di Petrarca, per la poesia.

Ma la tradizione novellistica italiana è per intero influenzata dal Decameron.

Quanto all’eredità letteraria di Boccaccio all’estero, vanno ricordati Geoffrey Chaucer, che per i suoi Racconti di Canterbury (scritti tra il 1387 e il 1389) utilizzò la struttura a cornice del Decameron, e John Dryden, che fu traduttore di Chaucer, dello stesso Boccaccio e di Ovidio (Fables Ancient and Modern, 1700).

[1] Alla composizione delle Rime l’autore lavorò tutta la vita: si tratta di una raccolta non organica ricca di personaggi soprattutto femminili, disegnati ora in modo lieve secondo il gusto cortese, ora con tratti più marcatamente popolareschi.  Ma ricordo anche la Caccia di Diana, un poema giovanile (1334), di ispirazione ovidiana, in terza rima di carattere mitologico: una schiera di belle donne fiorentine si sottrae a Diana per passare a servizio della dea dell’Amore Venere. Boccaccio fu anche poeta latino: si ricorda la Elegia di Costanza e più in generale si rammenta che in vecchiaia si dedicò soltanto ad opere erudite latine.

[2] Anche in forma epistolare come per l’Elegia di Madonna Fiammetta (1343-44) in nove capitoli. È un’opera assai originale perché la donna non è oggetto della rappresentazione, ma protagonista che parla in prima persona in merito al suo amore infelice per Panfilo. Si ricorda anche il Filocolo (1336-38), un romanzo in prosa diviso in cinque libri.

[3] Decameron (1349-51).

[4] Il Trattatello in laude di Dante che ci è pervenuto in tre redazioni (1355-70).

[5] De Montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludis, et de nominibus maris liber (1360).

[6] La Genealogia degli dèi dei gentili (Genealogia deorum gentilium, 1365), un vasto trattato in quindici libri di mitologia classico-latina.

[7] Il Corbaccio (1365-6?) .

[8] La Teseida delle nozze di Emilia (1340-41).

[9] Amorosa visione (1342) in terza rima ed in cinquanta canti.

[10] il Ninfale fiesolano (1345-46), un poemetto idillico dedicato alla fondazione di Firenze.

[11] La Commedia delle ninfe fiorentine (o Ninfale d’Ameto, 1341-42, secondo la  titolazione quattrocentesca) appartiene al genere arcadico e pastorale. Si tratta di un testo in prosa (che include però terzine dantesche), di un omaggio a Firenze e alle sue donne, che danno conforto all’autore.

[12] Vanno menzionati Geoffrey Chaucer, che per i suoi Racconti di Canterbury si ispirò al Decameron, e John Dryden, che  tradusse le opere di Boccaccio.

[13] Da Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua.

[14] Si dice che in questo periodo abbia avuto una relazione con una donna importante, la figlia illegittima (Maria d’Acquino) del re Roberto d’Angiò, che si nasconderebbe, secondo alcuni, dietro la Fiammetta immortalata in diverse sue opere.

[15] Il Filostrato (Vinto d’amore, 1338 ca.) è un poemetto in ottave. Si tratta di una narrazione di tipo sentimentale ispirata da modelli letterari francesi.

[16] Il Filocolo (Fatica d’amore, 1336-38 ca.) è un’opera in prosa in cinque libri che può considerarsi il prototipo del romanzo moderno. I protagonisti sono due personaggi (che secondo B. sono i fondatori di Certaldo): Florio (che assumerà il falso nome di Filocolo) e Biancifiore, innamorati l’uno dell’altra, ma in grado di sposarsi solo dopo innumerevoli vicende avventurose che si alternano nel testo a divagazioni colte, descrizioni, monologhi sentimentali.

[17] La Banca De’ Bardi era in dissesto: fallirà nel 1345 per l’insolvenza del Re di Inghilterra.

[18] In questi anni scrive la Teseida delle nozze di Emilia (1340-41) un poemetto ispirato ai grandi esempi dell’Eneide di Virgilio e della Tebaide di Stazio, contaminati però con la tradizione cavalleresca romanza, con il ciclo tebano in particolare. Al tema dell’amore, qui per la prima volta secondo l’autore, si affianca quello delle armi.

[19] A Padova nel 1351, a Milano nel 1359 e a Venezia nel 1363.

[20] Si tratta della sua opera maggiore che influenzerà tutta la novellistica italiana. Prende le mosse da un tragico fatto storico. Per sfuggire alla peste del 1348, che aveva ucciso il padre e numerosi amici dello scrittore, un gruppo di dieci amici (sette donne e tre uomini) che si ritrova in Santa Maria Novella decide di rifugiarsi in una villa (poi in altri luoghi) fuori Firenze. Trascorrono insieme quattordici giorni – da mercoledì a martedì – e visti i riposi del sabato e del venerdì,  dieci giornate (da cui appunto il titolo greco dell’opera Decameron) intrattenendosi vicendevolmente con una serie di racconti narrati a turno.

Un personaggio alla volta è eletto re della giornata, con il compito di proporre un argomento che gli altri narratori sono tenuti a rispettare, anche se il modo di trattarlo è assolutamente libero. Fanno eccezione a questo schema obbligato la prima e la nona giornata, in cui l’argomento delle novelle è libero.  I personaggi delle novelle sono desunti per la maggior parte dalla realtà contemporanea mentre i componenti della brigata sono ripresi da opere precedenti del Boccaccio o comunque dalla tradizione letteraria classica o romanza  ed  hanno nomi allusivi.

Gli argomenti sono di carattere diverso e di solito generici : ad esempio gli amori infelici, la felicità, i motti spiritosi, gli scherzi e le beffe. In questi racconti si alternano numerosissimi personaggi, di svariata estrazione sociale e di tutte le età.  La realtà narrata è soprattutto quella toscana e fiorentina (con episodi ambientati in altri luoghi d’Italia – a Napoli soprattutto – e in paesi lontani), senza limitazioni né di carattere morale, né culturale.

Le condotte dei protagonisti sono ispirate sia a ideali elevati sia a interessi materiali, non ultimo il desiderio sessuale.

Questa straordinaria varietà di ambienti, temi e personaggi è tessuta in una struttura coerente e secondo una progressione di tipo etico. Per esemplificare dalla prima alla decima giornata si passa dal dominio del vizio al trionfo della virtù, naturalmente in modo non meccanico, e con eccezioni che hanno il compito di variare questa successione di stampo morale. Ogni giornata si conclude con una canzone, limpido esempio della lirica boccaccesca, intonata dai personaggi che ballano.

 Il Decameron rappresenta il primo e più grande capolavoro in prosa della tradizione letteraria italiana antica. Sul piano stilistico si tratta di una prosa decisamente elaborata, molto articolata, modellata sulla sintassi latina.

 La lingua si può considerare un volgare fiorentino in cui ricorrono latinismi, provenzalismi, fiorentinismi, gerghi settentrionali e meridionali, neologismi.

Le fonti di quest’opera sono molteplici (ad esempio i classici greci e latini ed il fabliaux francese, il Novellino e le varie traduzioni contaminate delle Mille e una notte), ma alla base c’è soprattutto l’acuta osservazione della realtà contemporanea.

[21] Niccolò Acciaiuoli, segretario di corte.

[22] Tra il 1370 e il 1371 ad esempio lo troviamo a Napoli, ben accolto dalla regina Giovanna.

[23] Al diciassettesimo canto dell’Inferno.

[24] La struttura dell’opera è già evocata, almeno parzialmente, dal titolo, rifatto su celebri modelli medievali, come l’Exameron (sei giorni) di Sant’Ambrogio (una delle tante composizioni medievali sulla creazione del mondo), e decrittabile come ‘le dieci giornate’ (dal greco: dèca, ‘dieci’ e emèra, ‘giorno’).

[25] Nulla esclude che comunque qualche novella sia stata scritta in precedenza come sembrerebbe evincersi dall’introduzione alla quarta giornata.

[26] A cui si deve aggiungere la dedica (al libro stesso denominato Principe Galeotto e quindi intermediario d’amore) un proemio (dedicato a coloro che soffrono per amore e alle donne che non possono esternare le loro passioni perché possano trovare nel libro dei consigli), una introduzione alla I giornata che costituisce introduzione all’intera opera (nove introduzioni e dieci conclusioni, entrambi per ogni giornata) e dieci canzoni a ballo.

[27]  Durante la peste del 1348, un martedì mattina, sette giovani donne, “o per amistà, o per vicinanza, o per parentado congiunte” (I, Intr., 49), di età compresa tra i 18 e i 28 anni, indicate da Boccaccio con i nomi fittizi, “alle qualità di ciascuna convenienti” (I, Intr., 51), di Pampinea, Fiammetta, Filomena, Emilia, Lauretta, Neifile ed Elissa, si ritrovano ad assistere alla messa nella chiesa fiorentina di Santa Maria Novella. Finita la messa, le giovani decidono, su consiglio di Pampinea e a patto che sia possibile avere in loro compagnia degli uomini (senza il consiglio dei quali, a detta di Elissa, “rade volte riesce ciascuna opera nostra [sc.: delle donne] a laudevole fine” [I, Intr., 76]), di lasciare la città per trascorrere un periodo di tempo nel contado, dove ciascuna di loro possiede ville “in gran copia”. Assai a proposito, dunque, giungono in chiesa, in quello stesso momento, tre giovani, di età non inferiore ai 25 anni, dai nomi fittizi di Panfilo, Filostrato e Dioneo, conosciuti dalle donne, innamorati ciascuno di una di loro e variamente imparentati con le altre. I giovani, richiesti, accettano di partire. All’alba del mercoledì la brigata parte, accompagnata dai servi, in direzione di una villa situata a circa due miglia di distanza da Firenze. Una volta arrivati, Pampinea propone, al fine di disciplinare convenientemente le attività delle giornate, la creazione di un ‘signore’, che al vespro lasci la sua ‘signoria’ ad un altro membro della brigata da lui stesso designato. Approvata la proposta, la stessa Pampinea è eletta unanimemente ‘regina’ della prima giornata e incoronata d’alloro da Filomena. È dunque Pampinea ad assegnare mansioni precise a ciascuno dei servi e ad organizzare le attività della brigata secondo modalità destinate, con poche eccezioni, a ripetersi identiche nelle giornate successive: le prime ore dopo il risveglio dovranno essere dedicate a passeggiate e a conversazioni individuali; a terza è previsto il pranzo, concluso da danze e canzoni; dopo il pranzo, la brigata è invitata a ritirarsi nelle proprie camere per riposare. A nona, dopo il riposo, tutti i membri della brigata dovranno riunirsi per novellare; al termine della narrazione delle dieci novelle, la regina (o il re) della giornata passerà la sua corona ad un altro membro della brigata, al quale spetta l’organizzazione della rimanente parte della giornata e del giorno successivo fino al vespro. Filomena, designata da Pampinea al termine della prima giornata, dispone che lo spazio di tempo tra la conclusione del novellare e la cena sia trascorso dai compagni in passeggiate e svaghi, e propone che nei giorni seguenti sia data una regola certa anche alle novelle, mediante l’indicazione preliminare di un tema preciso cui tutti i novellatori dovranno attenersi. Dioneo, “sollazzevole uomo e festevole” (I, Concl., 14), chiede di essere dispensato da tale obbligo e di poter raccontare la sua novella sempre per ultimo: il privilegio, che tutta la brigata intuisce esser stato chiesto per avere la possibilità di rallegrare “la brigata, se stanca fosse del ragionare, con alcuna novella da ridere” (ivi), gli viene prontamente accordato. L’ultima parte della giornata è occupata dalla cena, cui fanno séguito danze e canzoni. Il testo di una delle canzoni a ballo cantate dai membri della brigata trova posto regolarmente nella conclusione di ogni giornata, sì che, a conti fatti, il Decameron risulta comprendere, oltre al Proemio, alla Conclusione dell’autore, alla cornice e alle cento novelle, anche dieci canzoni a ballo (nell’ordine: Io son sì vaga della mia bellezza [Emilia]; Qual donna canterà, s’io non canto io [Pampinea]; Niuna sconsolata [Lauretta]; Lagrimando dimostro, [Filostrato]; Amor la vaga luce [Dioneo]; Amor, s’io posso uscir de’ tuoi artigli [Elissa]; Deh, lassa la mia vita!, [Filomena]; Tanto è, Amore, il bene [Panfilo]; Io mi son giovinetta, e volentieri [Neifile]; S’amor venisse senza gelosia [Fiammetta]). Questa scansione delle giornate tende, come si è detto, a ripetersi identica, eccezion fatta per il venerdì e per il sabato, in cui la narrazione delle novelle viene interrotta per essere il venerdì il giorno in cui è morto Cristo (“per che”, come dice Neifile “giusta cosa e molto onesta reputerei che, a onor di Dio, più tosto a orazioni che a novelle vacassimo” [II, Concl., 5]) e il sabato quello dedicato alla pulizia del corpo e al digiuno “a reverenza della Vergine madre del Figliuolo di Dio” (II, Concl., 6]. Variazioni alla norma ospitano, inoltre, la terza giornata, che si apre con il trasferimento della brigata in un’altra villa, situata duemila passi ad ovest di quella prescelta inizialmente e circondata da un parco di straordinaria bellezza, intorno alla cui fonte i narratori si riuniranno d’ora in avanti a novellare, e la settima giornata, che vede la momentanea trasferta della brigata in un locus amoenus, la Valle delle Donne, dove già nella conclusione della giornata precedente prima le donne e poi, su loro sollecitazione, i giovani, si erano spinti durante la passeggiata. A conclusione della decima giornata, su proposta di Dioneo, la brigata decide di rientrare a Firenze. All’alba del giorno successivo, mercoledì, a due settimane esatte di distanza dalla partenza, la brigata si mette in cammino verso la città, dove giunta, “i tre giovani, lasciate le sette donne in Santa Maria Novella, donde con loro partiti s’erano, da esse accomiatatosi, a’ loro altri piaceri attesero, e esse, quando tempo loro parve, se ne tornarono alle lor case” (X, Concl., 16).

Questa costruzione rigida e maestosa, che incatena la raccolta di novelle trasformandola in un libro organico e compiuto, prevede, come abbiamo detto, una altrettanto rigida organizzazione tematica del narrato: eccezion fatta per la prima e per la nona giornata, infatti (nelle quali, sotto il reggimento, rispettivamente, di Pampinea e di Emilia, “si ragiona di quello che più aggrada a ciascheduno” [I, Intr., 1]), e, in omaggio al privilegio concessogli, per tutte le novelle narrate da Dioneo, le novelle di ciascuna giornata devono attenersi ad un argomento preliminarmente fissato e non eludibile: nella seconda, “sotto il reggimento di Filomena, si ragiona di chi, da diverse cose infestato, sia oltre alla sua speranza riuscito a lieto fine”; nella terza “si ragiona, sotto il reggimento di Neifile, di chi alcuna cosa molto da lui disiderata con industria acquistasse o la perduta ricoverasse”; nella quarta, “sotto il reggimento di Filostrato, si ragiona di coloro li cui amori ebbero infelice fine”; nella quinta, “sotto il reggimento di Fiammetta, si ragiona di ciò che a alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse”; nella sesta, “sotto il reggimento d’Elissa, si ragiona di chi con alcun leggiadro motto, tentato, si riscotesse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno”; nella settima, “sotto il reggimento di Dioneo, si ragiona delle beffe, le quali o per amore o per salvamento di loro le donne hanno già fatte a’ suoi mariti, senza essersene avveduti o sì”; nell’ottava, “sotto il reggimento di Lauretta, si ragiona di quelle beffe che tutto il giorno o donna a uomo o uomo a donna o l’uno uomo all’altro si fanno”; nella decima e ultima “sotto il reggimento di Panfilo, si ragiona di chi liberalmente o vero magnificamente alcuna cosa operasse intorno a’ fatti d’amore o d’altra cosa”.

[28] L’attenta osservazione della vita umana in tutte le sue sfaccettature è il cardine attorno al quale ruotano le vicende del Decameron. Il Boccaccio annota con acume e credibilità psicologica gli affetti e le passioni dell’animo umano, critica i difetti e compiange le debolezze, loda le virtù e biasima i vizi. Non di rado però egli rovescia con spregiudicatezza il senso morale comune. Talvolta il racconto esalta l’intelligenza o la furbizia, talvolta sottolinea la stupidità o l’ingenuità. Ma sempre, al centro dell’interesse dell’autore sta l’uomo.

In un variopinto affresco, egli ritrae i molti modi in cui gli individui affrontano l’esistenza ed entrano in contatto con i loro simili. C’è chi sa afferrare le occasioni favorevoli o sottrarsi con abilità agli inganni e ai rischi. Alcuni invece rinunciano per timore di soffrire o di essere sconfitti; altri si dimostrano capaci di godere pienamente i momenti di divertimento e di gioia. La vita viene colta, osservata e descritta nelle sue inesauribili forme e combinazioni, dalle più semplici alle più imprevedibili.

Uno degli esempi più indagati è l’amore. Esso può essere un puro sentimento spirituale o nascere soltanto dall’attrazione dei sensi; talora si conclude con un sorridente “lieto fine”, ma non di rado esige il sacrificio o sfocia in tragedia. Spesso si colora di sfumature tenere o appassionate, ma a volte assume i connotati della sensualità e dell’oscenità, quelle caratteristiche che nel linguaggio comune hanno trasformato l’aggettivo “boccaccesco” in un equivoco sinonimo di licenzioso e scurrile. Vale la pena di ricordare, al riguardo, che l’accusa di “licenziosità” è in buona misura arbitraria, perché, se nel Decameron affiora qualche compiacimento per il particolare erotico o malizioso, esso è ampiamente giustificato dal proposito di ritrarre oggettivamente tutti gli aspetti dell’esistenza umana, compresi quelli più scabrosi.

Osservazioni analoghe valgono per l’ingegno: il Boccaccio lo considera prima di tutto una dote, grazie alla quale l’uomo si muove e si destreggia tra i mille eventi della vita. Esso consente di affrontare e superare gli ostacoli posti dalle due eterne dominatrici del mondo, la natura e la fortuna, cioè la sorte. Sovente, tuttavia, l’ingegno è fine a se stesso, ha un suo fascino intrinseco, come quando serve solo a congegnare e a realizzare una beffa. Ingegno significa anche destrezza, inventiva, intraprendenza negli affari: simili qualità hanno un ruolo importante nel mondo borghese che il Boccaccio descrive e mostra più volte di apprezzare.

Come si è già accennato, l’autore ha una posizione assai libera e anticonformista davanti a qualità che non sempre sono usate in modo positivo, e che spesso inducono comportamenti di indifferenza o di disprezzo nei confronti dei valori accettati dalla morale comune.

L’inesauribile galleria di personaggi, episodi e comportamenti giustifica la definizione del Decameron come commedia umana, dovuta a Francesco De Sanctis: un modo per accostare il libro alla “divina” Commedia di Dante, e insieme per distinguerlo da essa. Il termine “commedia” richiama subito l’elemento fondamentale e caratteristico di ambedue le opere: infatti esse hanno come cardine la rappresentazione di una vasta gamma di situazioni e casi umani. Nel Boccaccio però manca del tutto l’idea di trascendenza che domina il capolavoro di Dante. Egli ha una visione profondamente laica del mondo, al cui centro pone l’uomo. Ciò che osserva e descrive, gli appare immanente, legato all’azione e alla responsabilità dei singoli individui.

Una conferma viene dal modo in cui il Boccaccio racconta vicende delle quali è protagonista il clero. Alti prelati, preti, frati e monache sono indistintamente viziosi, falsi, avidi di denaro, o, nel migliore dei casi, sciocchi. Ma il Boccaccio non sottolinea i loro difetti o le loro colpe per denunciare la discordanza tra la legge di Dio e la depravazione degli uomini, e neppure per auspicare o profetizzare un rinnovamento religioso e morale. Egli è lontano in questo sia dal maestro Dante che dall’amico Petrarca: si limita a registrare l’esistenza e la diffusione di quei comportamenti corrotti e ipocriti, ma non esprime giudizi e non pronuncia sentenze di condanna.

Anche quei temi che abbiamo definito cardini del Decameron, l’amore, l’intelligenza, e con loro la fortuna e la natura, sono inseriti in un quadro di profondo e convinto laicismo. Così l’amore è e resta il sentimento per eccellenza, ma è anche, prima di tutto, impeto della passione, soddisfazione dei sensi, vissute con pienezza ed entusiasmo.

L’intelligenza, che per tutto il corso del Medioevo è l’espressione, nobilissima ma contenuta entro limiti precisi, dell’uomo come creatura di Dio, nel Boccaccio diviene la risorsa più grande che l’essere umano possieda per realizzare se stesso, per conquistare un posto o per raggiungere un obiettivo.

Essa si configura innanzi tutto come scontro e lotta con la fortuna. È una lotta che può essere vinta o perduta: dipende dal grado di virtù, cioè di astuzia, inventiva o audacia che un individuo è capace di mettere in campo.

Grazie alle sue qualità, dunque, il singolo può emergere e distinguersi dalla massa, fino ad eccellere. È però importante chiarire che la superiorità non è un privilegio legato all’origine e non dipende dall’appartenenza ad una determinata classe sociale. L’intelligenza, al pari della liberalità e della cortesia, può trovarsi in ogni uomo, povero o ricco, umile artigiano o nobile cavaliere. Chiunque perciò è in grado non solo di primeggiare negli affari, ma anche di affinare il proprio animo e di accostarsi alla cultura.

Il Boccaccio, insomma, riconosce a tutti gli uomini uguali possibilità e diritti. L’embrione di questo concetto si trova senza dubbio nel Guinizzelli e nello Stilnovo, con la teoria del “cor gentile”. Il Boccaccio però rinnova profondamente quell’idea e la allarga, ponendo tutti i ceti sociali sullo stesso piano. Egli considera gli uomini partecipi della medesima sorte, e annulla qualsiasi distinzione di casta, di censo o di cultura. La vita e la posizione dell’uomo nel mondo acquistano così un valore del tutto nuovo. La rilevanza di questa novità va attentamente analizzata e compresa, se si vuol dare il giusto peso ai legami che il Boccaccio conserva con le concezioni medievali. Tuttavia è altrettanto inesatto relegare l’autore entro i confini del Medioevo. La novità dei contenuti si accompagna ad un significativo mutamento di prospettive culturali. Lo scrittore esprime infatti una concezione della letteratura e dei suoi valori che lo portano ormai fuori del pensiero medievale. L’attività letteraria rappresenta per lui un’espressione di civiltà autonoma; la pagina scritta è prima di tutto variazione e scelta tra innumerevoli possibilità compositive. L’arte è fine a se stessa ed ha una dignità intrinseca. In altre parole, essa può trattare molti argomenti e porsi diversi obiettivi, ma il suo valore non dipende né dagli uni né dagli altri, bensì è legato alla sua qualità.

Già in questo, il Boccaccio dimostra di avere una visione moderna e davvero anticipatrice, perché libera l’idea della cultura dall’obbligo di esercitare una funzione, e le riconosce una validità e un ruolo di assoluta indipendenza dalla morale e dalla religione.

Francesco Petrarca

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Re- L. Simoni. L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001

Luperini-P. Cataldi-L. Marchiani-F. Marchese. La scrittura e l’interpretazione. Dalle origini al manierismo. Volume primo. Palumbo editore. Firenze. 2000.

VV., La letteratura italiana in Cd-Rom, G. D’Anna editore- La repubblica Edizioni. Milano. 1999.

Guglielmino-H. Grosser. Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994

Gioanola, Storia della Letteratura italiana. Dalle origini ai giorni nostri. Librex editore, Milano, 1992

Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento, Giuseppe Principato editore. Messina-Milano, 1937.

 

Vita

Il poeta italiano che portò a perfezione stilistica il sonetto nacque ad Arezzo il 20 luglio 1304 da Pietro di Parenzo di Garzo originario dell’Incisa Valdarno[1] e da Eletta Canigiani[2].

 Il padre,  di famiglia di notai e notaio lui stesso, ebbe forse occasione di incontrare Dante a Firenze quando il poeta era Priore; occupata la città da Carlo di Valois e colpito da una grossa multa e dalla condanna al taglio della mano[3], Pietro riparò ad Arezzo ove, oltre a Francesco, gli nacque il secondo figlio Gherardo.

Petrarca non ebbe dunque una sua patria municipale, come l’ebbero l’Alighieri e il Boccaccio, e questa circostanza fu determinante per la formazione della sua personalità e del suo stesso gusto di scrittore.  Ad Arezzo visse meno di un anno; ben presto la famiglia si trasferì nel podere dell’Incisa sull’Appennino e lì rimase fino al 1310 circa, quando, per un breve periodo, passò a Pisa.

Il soggiorno nella città toscana fu memorabile, perché Francesco poté conoscere di persona Dante, tra gli esuli che s’erano riuniti intorno ad Arrigo VII.

Nel 1312 (o 1311?) il padre seguì poi, come segretario, il papa ad Avignone, da sette anni nuova sede della corte del Papa, e fissò la sua sede a Carpentras (per la crisi degli alloggi) dove Francesco fu avviato agli studi del <<trivio>> (grammatica, retorica e dialettica) con il maestro Convenevole da Prato; a dodici anni (1316) Francesco si trasferì a Montpellier per iniziare gli studi di diritto continuati poi, dal 1320 al 1326, all’università di Bologna, centro allora della più importante scuola giuridica in Europa.

Quelli di giurisprudenza per Francesco non furono studi congeniali; troppo forte sentiva l’attrazione delle lettere, che invano il padre ostacolò almeno fino a quando s’interessò dei figli, ossia al 1320 circa, perché, perduta la prima moglie nel 1318 o 1319, non tardò a risposarsi.

Nel 1327 rimasto orfano, Francesco per risolvere la situazione economica della famiglia, chiamato al seguito del vescovo Giacomo Colonna, abbracciò la carriera ecclesiastica: prese forse gli ordini minori e comunque ricevette numerosi benefici ecclesiastici e per parecchio tempo fu dal 1330 cappellano presso il cardinale Giovanni Colonna.

La vita del Petrarca si svolse quindi per lunghi anni a contatto della corte pontificia dove brillavano le sue doti di oratore e di uomo presto segnalatosi per la sua cultura; legatosi come un «fratello affezionatissimo» al cardinale, sentì presto il fastidio di quella vita cortigiana e delle sue vane preoccupazioni per le vesti, i cappelli, i calzari e le varie acconciature per i conviti (è lui stesso a denunciare queste minuzie).

Ma vi è già allora un punto fermo che segnerà per sempre la vita del poeta: il 6 aprile del 1327 egli vede per la prima volta nella chiesa di Santa Chiara ad Avignone quella donna che con il nome di Laura[4]  sarà immortalata nel suo Canzoniere.

Laura morirà il 6 aprile 1348, quando Francesco aveva già fissato la sua residenza in Provenza, presso le sorgenti del fiume Sorga (Sorgue), a Valchiusa (Vaucluse), rifugio poi sempre amatissimo e in grado di dargli quella calma dello spirito necessaria per studiare e meditare. Nel 1333 conobbe il frate Dionigi da Borgo San Sepolcro, che gli donò un esemplare delle Confessiones di sant’Agostino, libro fondamentale nel percorso spirituale del poeta.

Ad Avignone in quegli anni da una donna che non si può identificare, vista la grande discrezione del poeta, ebbe due figli Giovanni (1337) e Francesca (1345). Tra il 1338-39 inizia la stesura del De viris illustribus e del poema in latino Africa, al quale Petrarca avrebbe affidato la propria gloria letteraria, restando tuttavia incompiuto.

L’8 aprile 1341, salita già la sua fama di poeta che gli aveva procurato analogo invito dall’università di Parigi, fu di nuovo a Roma per essere incoronato poeta in Campidoglio[5] dopo essere stato esaminato dal re di Napoli Roberto d’Angiò[6].

Dopo la cerimonia, svoltasi l’8 aprile, avvertì pungente la vanità della gloria terrena, per quel sentimento di scontentezza, che mai l’abbandonò anche mentre cercava onori e soddisfazioni mondane.

In realtà egli sentì questa scontentezza prima di tutto come artista che mirava a un ideale di perfezione. Basta pensare che quando ricevette la corona poetica non aveva pubblicato ancora nulla di suo: si sapeva, come già accennato,  che attendeva a due opere latine affini per contenuto, l’Africa e la vasta compilazione storica del De viris illustribus, l’una e l’altra instancabilmente rielaborate e rifatte negli anni successivi, e la sua fama era affidata, oltre che ai saggi di poesia volgare e alle lettere inviate ad amici e personaggi illustri, al credito che si dava alla sua vasta cultura.

L’anno seguente tornò, dopo un breve soggiorno a Parma, ad Avignone e alla sua dimora di Valchiusa dove visse con intensa partecipazione la conversione del fratello Gherardo e il suo ritiro nella certosa di Montrieux. Compone un’altra importante opera: Il Secretum.

Partì per Napoli in missione diplomatica su incarico del cardinale Colonna. Concepisce in questo periodo una vasta opera compilativa, i Rerum memorandum libri, che tuttavia resterà incompiuta.

Soggiorna a Parma fino a quando è costretto a fuggire in seguito all’assedio portato dai Gonzaga e dai Visconti.

Soggiorna allora a Modena, Bologna e infine Verona: nella Biblioteca Capitolare della città scaligera ritrova e identifica alcune lettere di Cicerone. Alla fine del ‘45 torna a Valchiusa.

Tra il 1346-47 dimora nella quiete della Provenza: nascono in questo periodo il De vita solitaria, il Bucolicum Carmen completato nel 1357 e modificato in varie occasioni fino al 1364.  Nel 1347 è la volta del De otio religioso.

Il suo più importante impegno ideologico e politico in quel periodo è il forte sostegno dato a Cola di Rienzo[7]  che nel 1347 aveva abbattuto in Roma la pessima signoria della nobiltà e aveva dato vita a un governo popolare; ma la breve durata del potere di Cola (e ancor più effimera sarà una ripresa sette anni dopo) frustrerà la speranza del Petrarca, che già si era messo in viaggio per raggiungerlo a Roma (la caduta di Cola lo ferma a Parma).

 L’ideale espresso dal tribuno romano resterà però al centro delle speranze del poeta che continuò ad invocare la fine delle fazioni nobiliari e l’accesso del popolo alle magistrature, inimicandosi con ciò anche la famiglia dei Colonna che erano stati fino ad allora suoi protettori; e di questo «divorzio» il Petrarca stesso dirà nel Bucolicum carmen.

Il 1348 è l’anno della peste: muoiono molti amici del poeta, tra cui Franceschino degli Albizzi, Sennuccio del Bene, Giovanni Colonna. Apprende inoltre, come detto più sopra, della morte di Laura.

Il poeta trascorre il periodo cha va tra il 1349 ed il 1350 tra Parma e Padova: qui riceve da Giacomo Novello da Carrara un ricco canonicato che si aggiunge ai numerosi ottenuti in precedenza. Qui concepisce la raccolta delle Familiares. Dopo avere fatto tappa a Verona, si reca a Mantova (dove acquista un esemplare della Naturalis Historia di Plinio, il cod. Parisinus lat. 6802) e quindi a Roma in occasione dell’anno santo. Lungo il viaggio si ferma a Firenze, dove incontra il Boccaccio, Zanobi da Strada, Lapo da Castiglionchio il Vecchio, Francesco Nelli (il Simonide dedicatario delle Seniles). Comincia a raccogliere le Epistole metricae.

Dalla città di Firenze riceve l’offerta, che il poeta però declinerà, di una cattedra universitaria. Questa proposta si univa alla restituzione dei beni a suo tempo confiscati dopo l’esilio del padre. Per questa ragione il Boccaccio gli rende visita a Padova, stringendo da allora una fervida amicizia.

Nel giugno è di nuovo ad Avignone: sarà questo l’ultimo soggiorno in Provenza, caratterizzato dai propositi di una sistemazione dell’Africa, del De viris illustribus, delle Familiares e delle rime volgari.

Nel 1352, in occasione della malattia del pontefice Clemente VI, compone le Invective contra medicum che viene terminata l’anno successivo e riordinata nel ‘55.

Dopo avere fatto visita per l’ultima volta al fratello Gherardo nella certosa di Montrieux, Petrarca torna definitivamente in Italia, attraversando il colle del Monginevro (Epistole metricae, III, 24): invitato presso numerose corti sceglie di recarsi a Milano, provocando però le amare considerazioni dell’amico Boccaccio e della cerchia fiorentina, tradizionale antagonista dei Visconti.

A Milano si tratterrà per otto anni, svolgendo alcune missioni diplomatiche[8].

Il lungo periodo milanese è una fase importante per l’evoluzione di numerose opere: riprende le Familiares (1353-56), termina le Sine nomine, inizia il De remediis utriusque fortunae (nel ‘54), riprende e amplia i Trionfi che poi rimarranno incompiuti, attende alle rime volgari, al De otio religioso, al Bucolicum carmen (1357), al De viris, al Secretum, termina il De vita solitaria (1356).

Invia a Marco Barbato il carme proemiale delle Epistole metricae a lui dedicate (1357); nel 1358 compone l’Itinerarium in Terrasanta.

Tra il 1361 ed il 1362 per sfuggire alla peste Petrarca si reca a Padova e quindi, nell’autunno del ‘62, a Venezia: dal governo della Serenissima ottiene una casa sulla riva degli Schiavoni in cambio del lascito di tutti i suoi libri. Qui il poeta inizia la raccolta delle Seniles.

Nella primavera del ‘63 riceve la visita del Boccaccio che si tratterrà presso di lui per tre mesi. Con l’aiuto del copista Giovanni Malpaghini porta a termine le Familiares. Termina anche il De remediis e compone una vivace prosa polemica De sui ipsius et multorum ignorantia contro alcuni filosofi averroisti.

Dopo alcuni brevi soggiorni a Milano e a Pavia, Petrarca compie una missione diplomatica presso Carlo di Boemia, nel 1370 si ritira Arquà, sui Colli Euganei, circondato dall’affetto della figlia Francesca del genero e della nipotina Eletta: gli ultimi anni del poeta sono segnati da frequenti malattie, ma ciò non gli impedisce di scrivere la famosa Posteritati e di continuare il lavoro sulle rime volgari. Nel 1373 riceve il Decameron del Boccaccio e ne traduce in latino la novella di Griselda (X, 10).

Mentre attende alla sistemazione delle Seniles e alla revisione dei Trionfi la morte lo coglie nella notte tra il 18 e il 19 luglio del 1374, secondo la tradizione durante la lettura di Virgilio.

L’esistenza di Petrarca fu molto travagliata e inquieta: le attività culturali, come già rilevato, si alternavano alle missioni diplomatiche, la vita privata non sempre era distinta da quella pubblica.

In tale varietà di lavori e di interessi è possibile individuare un primo sintomo della modernità della vocazione petrarchesca, che anche a livello strettamente culturale e letterario mostra una notevole ricchezza: alla riflessione religiosa (lesse ben presto e meditò le Confessioni di sant’Agostino, nel 1333) si accompagna il precoce amore per i classici della letteratura latina (verso il 1343 scoprì, come è stato accennato, nella Biblioteca Capitolare di Verona alcune lettere di Cicerone); alla produzione in volgare si alterna quella in latino.

Insomma, Petrarca può a ragione essere considerato uno dei primi umanisti, proprio per l’amore profondo che nutrì per i classici, concepiti non in contrasto ma in continuità con la tradizione cristiana, e anche per l’utilizzo degli esempi antichi nell’ambito della sua produzione volgare. Tipicamente umanistica è la sua vocazione filologica, ma anche il fatto che egli fu sempre in relazione con i maggiori studiosi a livello europeo, secondo una concezione di arte transnazionale e cosmopolita.

Ciò che manca alla sua cultura e lo trattiene al di qua delle figure degli umanisti del Quattrocento è la non conoscenza del greco (ne cominciò soltanto lo studio) e la notizia solo indiretta delle opere degli autori greci comprese quelle di Platone che pur gli fu assai caro.

 

Le opere in volgare

L’opera che  rese Francesco petrarca uno dei poeti più celebri al mondo è il Canzoniere, una raccolta di testi in volgare che l’autore riteneva di importanza secondaria[9] .

Il titolo originale recita infatti Rerum vulgarium fragmenta, e cioè “Frammenti di cose volgari”[10].

In realtà la cura con cui l’autore organizzò questo canzoniere fu attentissima, e del resto proprio l’impianto così meditato fu una vera e propria novità.

Si tratta di 366 componimenti (la maggior parte sonetti[11]) concepiti come lettura da compiere nell’arco dell’anno, un componimento al giorno, più uno proemiale.

La raccolta ha al centro la figura di Laura[12], donna fittizia e insieme reale, senhal trobadorico (=nome fittizio) e elemento indiscutibile della biografia petrarchesca.

Desiderio impossibile da colmare e perciò vitale, Laura rappresenta un’aspirazione irraggiungibile che viene rappresentata tramite metafore e immagini molto selezionate e ricorrenti.

Le allusioni, i doppi sensi che il poeta riesce a creare utilizzande il nome della donna amata rimandano all’episodio mitologico di Apollo e Dafne narrato da Ovidio nelle Metamorfosi (I, 452-567): la ninfa Dafne, la cui verginità era stata consacrata a Artemide, è amata da Apollo, dio e protettore della poesia.

Egli la insegue per possederla ma, prima di raggiungerla, Dafne viene trasformata in alloro, che da allora diviene la pianta sacra a Apollo, e quindi simbolo della poesia.

Attraverso la tessitura di queste equivalenze (Dafne-Laura-laurum-laurea poetica) Petrarca si pone nella posizione dell’amante (Apollo) e al tempo stesso di custode e sacerdote della poesia.

La ricerca della donna amata, irraggiungibile e oggetto del desiderio, corrisponde quindi alla ricerca della poesia, alla consolazione che l’attività letteraria è capace di generare nell’uomo.

Da questo punto di vista il Canzoniere ripropone una tematica che è ben consolidata nella tradizione della lirica romanza e largamente divulgata dal De Amore di Andrea Cappellano: la celebrazione della donna.

Una donna astratta e stilizzata che incarna l’ideale dell’amore, della bellezza e della religiosità, della patria, della speranza  ma anche la figura di colei che condanna.

Il poeta immagina di avere incontrato Laura il giorno 6 aprile dell’anno 1327 e di essersene innamorato: egli volle addirittura attribuirle una presenza fisica, registrando nel codice Ambrosiano di Virgilio, il libro a lui più caro, i particolari del loro incontro, avvenuto nella chiesa di Santa Chiara ad Avignone, e della morte, che la colse nella stessa città nello stesso giorno dello stesso mese del 1348, mentre il poeta si trovava a Verona.[13]. Oggetto e tematica dominante del libro è dunque il nome della donna, una parola poetica che racchiude e concentra su di sé tutta l’attenzione del poeta, le infinite variazioni che quel segno determina in modo artificioso.

Gli stessi contemporanei e amici del poeta si accorsero dell’espediente, a partire da Boccaccio[14]; in risposta a una richiesta di Giacomo Colonna, Petrarca (Familiares, II, 9, 20)  stesso si affrettò a chiarire l’equivoco.[15] .

Nel complesso l’opera tematizza due epoche fondamentali nella vita del poeta, la fase in cui Laura era viva (che simbolizza l’amor profano[16]) e quella in cui era ormai morta (che simbolizza l’amor sacro[17]); anche se molte poesie della seconda fase appartengono al periodo in cui Laura era in vita e quindi la bipartizione corrisponde più che altro ad una finzione letteraria (di questa bipartizione si lascia intendere nella forma del 1347-1350 che ricomprendeva 150 componimenti).

Non si tratta in altre parole di una suddivisione rigidamente cronologica, ma di una serie di corrispondenze e di atmosfere ispirate a questi due fatti capitali, frammenti di una vita segnata dalla gioia dell’amore e dal dolore della morte, in modo difficilmente districabile.

Petrarca lavorò con grande impegno su ogni singolo testo, approntando continue correzioni e varianti, con un meticoloso lavoro di rifinitura e di bilanciamento fra i singoli componimenti e l’insieme che essi costituiscono.

Per realizzare una poesia all’altezza dell’argomento, il volgare assunse un’eleganza prima mai raggiunta; il vocabolario usato dal poeta è ridotto e molto scelto, ma usato in modo “intensivo”: nella poesia del Canzoniere conta anche la minima sfumatura di significato.

Proprio la sistematicità con cui il progetto fu realizzato, insieme alla sua astrattezza intellettuale (una poesia dunque non legata da questo punto di vista a un preciso contesto storico e culturale) rese il Canzoniere un vero e proprio modello poetico, che influenzerà per diversi secoli la lirica occidentale.

Si tratta di un paradigma determinante anche dal punto di vista, ad esempio nella definizione della forma del sonetto e della canzone.

Un’altra importante opera poetica in volgare è un poema in terza rima (l’allusione a Dante è evidente anche nella scelta della struttura delle strofe) intitolato I trionfi, a cui Petrarca lavorò tra il 1356 e il 1374.

Rimasto incompiuto, fu stampato per la prima volta con il Canzoniere nel 1470[18]; la struttura riprendeva l’impostazione data da Boccaccio alla sua Amorosa visione, articolata in una serie di “trionfi”.

Il poeta dorme in Valchiusa, quando gli appaiono visioni trionfali del dio Amore seguito da un corteo di personaggi storici e mitologici[19].  Anche qui ha grande importanza la valutazione, da un punto di vista spirituale, dell’esperienza legata alla figura di Laura. Più in generale, si assiste a una svalutazione delle cose terrene a favore dell’assoluto celeste.

Nei Trionfi, in altre parole,  il grande tema del Canzoniere è elevato dal senso autobiografico al senso universale, cioè a storia non solo di un uomo, ma dell’umanità intera, dalle passioni terrene all’abbandono in Dio.

Pur con l’ambizione di un rigoroso progetto unitario (al trionfo d’Amore seguono quello della Pudicizia, della Morte, della Fama, del Tempo e dell’Eternità), il poeta non arrivò a dare ai Trionfi un assetto definitivo: la composizione dell’opera si protrasse faticosamente per circa un ventennio, dal 1356 al 1374, fra pause e riprese, incertezze e ripensamenti, attestate da ampie testimonianze nel Vat. lat. 3196.

 Le opere in latino

 Per molti secoli, e fino ai primi decenni del nostro, la critica ha privilegiato la lettura e l’analisi delle opere petrarchesche in volgare, attribuendo maggior valore all’attività del poeta che a quella del letterato e dell’erudito.

Oggigiorno, invece, è stata pienamente rivalutata la produzione in latino: essa, oltre ad essere assai più varia di quella in volgare, che è tutta in versi, è ricchissima e testimonia i diversi aspetti e le molteplici sfumature della complessa personalità dell’autore, il quale volle consegnare proprio alla produzione in latino l’immagine di sé e le speranze di gloria presso i posteri.

Inoltre non è da sottovalutare il fatto che nei testi latini il profondo travaglio spirituale dell’autore, sempre combattuto tra le aspirazioni terrene e la volontà di superarle, appare con altrettanta chiarezza e vigore che in quelli in volgare. – Analogamente, emerge da queste opere il dissidio fra due concezioni del mondo, del quale il Petrarca è emblema e interprete.

Da un lato la civiltà medievale, con i suoi princìpi trascendenti, è ormai sulla strada della decadenza; dall’altro si profila una civiltà nuova, ma non ancora pienamente affermata, che mette al centro del mondo l’uomo, e ritrova nella classicità i fondamenti dei suoi più alti valori.

Tradizione e novità: l’autore si muove fra questi due poli, fin dall’ampio epistolario, pensato su modelli latini, tra i quali prevalgono quelli di Cicerone e di Seneca. Tra le epistole, i Rerum familiarium libri (o Familiares), dei quali l’autore stesso curò la pubblicazione, raccolgono, in 24 libri, 350 lettere indirizzate a parenti, amici e, in qualche caso, a ideali interlocutori dell’antichità (Cicerone, Virgilio).

La più celebre è forse quella in cui il Petrarca descrive l’ascensione al Monte Ventoso.

Dalla raccolta, composta tra il 1325 e il 1366, sono escluse le epistole Sine nomine, 19 lettere prive del nome del destinatario perché contenenti pesanti critiche nei confronti della Curia avignonese.

 In 17 libri sono invece le 125 Rerum senilium libri (o Seniles), scritte tra il 1361 e il 1374, a conclusione delle quali avrebbe dovuto trovarsi, probabilmente, la Epistula ad posteros (o Posteritati), rimasta incompiuta.

Le Variae, che il Petrarca non aveva voluto rendere pubbliche, e i 3 libri delle 66 Epistulae metricae, in esametri, concludono il panorama delle lettere.

In esse, il Petrarca si discosta decisamente dal modello della trattatistica medievale, adottando il genere epistolare, assai diffuso nell’antichità, attraverso il quale argomenti di varia umanità e profonde questioni morali sono affrontati in forma colloquiale, e il poeta non si basa su assunti dottrinali astratti, ma lascia ampio spazio a esperienze concrete e a riflessioni personali.

Tra le opere in latino, un posto particolare occupano i trattati detti “ascetici”, perché accomunati dal tema della riflessione intima, del distacco dalle cose terrene, della meditazione cristiana.

Il principale è il Secretum[20], steso probabilmente tra il 1342 e il 1343, ma più volte rielaborato, e non destinato alla pubblicazione (anche se fu pubblicato nel 1473).

Il fatto che si tratti di un’opera non destinata nelle intenzioni dell’autore alla pubblicazione si capisce considerando che si tratta di una specie di autoanalisi, di dialogo fra sé e sé, problematico e rasserenante insieme: lo scrittore scava all’interno dei sentimenti e delle contraddizioni, che travagliano di continuo la sua vita[21].

La forma è quella del dialogo: una figura simbolica e muta, la Verità, appare a Francesco per aiutarlo a superare i suoi errori.

 Il poeta discute con sant’Agostino[22], suo referente dialettico.

I temi sono il legame con le cose terrene, i vizi che assediano l’uomo, gli ideali che nascondono un fondo di egoismo e di cecità, a partire dal desiderio di gloria, particolarmente sentito dal poeta.

E poi temi universali come la morte, la colpa, la caducità della vita. Il dialogo cui assiste la Verità, garante delle parole dei due interlocutori, si conclude, realisticamente, senza né vinti né vincitori: nel S. non vi è conversione ma <<riflessione sulle cose della propria vita>>. La modernità del libro sta anche in questo.

Il Secretum è composto di tre libri più un proemio che funge da introduzione: ognuno di essi riassume una giornata di discussione tra il Petrarca e sant’Agostino, alla presenza della Verità

Il dialogo immaginario s’ispira alle Confessioni dello stesso Agostino, ma non trascura i modelli di Cicerone (definito da Petrarca “maestro di moralità”), di Seneca e soprattutto di Boezio.

Nel proemio P. immagina che gli appaia una donna meravigliosa, la Verità, in compagnia di sant’Agostino al quale Francesco viene affidato per un’autentica confessione.

Nel primo libro, le domande di sant’Agostino fanno venire alla luce la “malattia” morale del Petrarca: la mancanza di volontà. Essa gli impedisce di staccarsi completamente dalle aspirazioni terrene – alle quali pure vorrebbe sfuggire -, e di raggiungere il bene spirituale, cui tuttavia tende.

Sant’Agostino ritiene che P. debba operare una continua meditazione sulla morte ed avere un contatto con essa che non sia superficiale; soltanto quest’ultimo infatti consente di averne un’esatta percezione soprattutto in termini di conseguenze (il giudizio divino); attraverso la comprensione profonda della morte altrui (che si verifica con uno sconvolgimento dell’animo nostro) si può efficacemente provare il distacco dai beni terreni (che appaiono davvero vani) e l’avvio verso la felicità (si percepisce infatti in tutta la sua grandiosità la capacità di Dio di strapparci al male)

Nel secondo libro, sant’Agostino analizza l’animo di Francesco e lo costringe ad ammettere d’essere colpevole di tutti i peccati capitali, eccetto l’invidia.

Francesco è debole soprattutto davanti al richiamo degli agi, della ricchezza e degli onori, troppo superbo del proprio intelletto e della propria cultura, incline a cedere alla bellezza femminile e alle passioni.

Ma la vera “malattia” e colpa dell’autore è l’accidia, quel durevole sentimento di inquietudine e di inerzia, di insoddisfazione e di angoscia (aegritudo per gli antichi) che nasce dalla percezione della vanità dell’agire umano ed impedisce di aderire al bene di cui si ha la chiara consapevolezza.

Egli rileva che mentre negli altri vizi capitali c’è sempre qualcosa di seducente che lo porta a fare il male, nell’accidia tutto è “aspro, misero, orribile”.

Nel terzo libro, infine, sant’Agostino esamina la propensione del Petrarca per l’amore e per la gloria, e arriva a concludere che esse sono le più pesanti “catene” che legano l’animo suo (Agostino per mezzo delle parole di Cicerone afferma che l’amore carnale è “la passione più violenta”).

A questo punto il santo esorta P. ad abbandonare il sentimento amoroso e la lettura dei classici per tornare in se stesso e ricomporre <<gli sparsi frammenti dell’anima>> con una nuova produzione morale, che Agostino auspica nata all’insegna della meditazione sulla morte[23].

Francesco si difende (e con se stesso difende la poesia d’amore dai provenzali allo stilnovo), stavolta, con obiezioni diverse da quelle precedenti. Nel corso del colloquio, infatti, egli aveva sostenuto di non aver commesso i peccati che Agostino gli rimproverava.

Ora, invece, riconosce che in lui si agitano le passioni d’amore e il desiderio di gloria, ma non vuole accettare il fatto che queste aspirazioni siano di per sé colpevoli.

Egli quindi difende il suo amore per Laura come un tramite fra lui e Dio, e sostiene che il desiderio di gloria è un sentimento onorevole. Anche se non può essere messo a confronto con l’amore per Dio, non per questo esso è privo di un suo valore specifico. Sant’Agostino, con serrate argomentazioni, lo porta ad ammettere che l’amore per Laura e la brama di gloria sono in realtà impulsi solo terreni e non spirituali, e che pertanto lo allontanano da Dio. Tuttavia, nel finale, lo scrittore, pur riconoscendo la validità di quanto Agostino ha affermato, non può promettere di rinunciare a quelle aspirazioni, che sono il cardine della sua vita.

P. afferma che la vita terrena per lui non è ancora finita e quindi è necessario che gli dedichi tutte le sue attenzioni; chiede tuttavia di essere aiutato sia da Agostino che dalla Verità.

Il Secretum diventa così una confessione, una testimonianza lucida e appassionata della crisi di una coscienza sempre inquieta.

La forma del dialogo riflette in modo illuminante il dissidio interiore tra le inclinazioni e le passioni terrene, espresse da Francesco, e l’intenso richiamo ad una totale purezza dello spirito, al quale dà voce sant’Agostino.

Il Petrarca sente e soffre intensamente questo dissidio, e non lo risolve mai, ma nel Secretum riesce ad analizzarsi con chiarezza, a ricostruire gli elementi del suo conflitto e a dar loro una sistemazione razionale.

Il Secretum è anche un documento di inestimabile importanza per ritrovare nel Petrarca i segni del tramonto dei valori medievali e quelli dell’ancora incerta affermazione del nuovo modello umanistico.

A questo proposito il contrasto finale con sant’Agostino è rivelatore. Francesco infatti rivendica all’uomo il diritto di agire per scopi terreni e di amare una donna senza per questo perdere la sua dignità e il suo senso religioso, anche se si tratta di una spiritualità vissuta in forma tormentata e tutta personale.

Tra le altre opere latine di Petrarca si ricorda De vita solitaria, un trattato morale scritto nel 1346, che consiste in un elogio della vita di studio condotta lontano dalla città (il riferimento autobiografico è ai sospirati soggiorni di Valchiusa contrapposti alla vita di Avignone). Alla difesa dello studio solitario e disinteressato segue una serie di esempi ricavati dalla tradizione classica e cristiana.

Cominciato nel 1346, pochi anni dopo il Secretum e un anno prima del De otio religiosorum, la Vita solitaria testimonia insieme con gli altri due trattati un momento particolare della vita del Petrarca: l’inizio, cioè, di una fase in cui agli entusiasmi giovanili sono subentrati un ripiegamento interiore e un’accorata riflessione sulla vanità delle ambizioni mondane.

L’ispirazione ascetica è senza dubbio sincera, ma si tratta pur sempre di un ascetismo mediato dalla concezione umanistica che si è ormai sostituita al rigorismo morale del Medioevo: la “vita solitaria” è infatti concepita dal Petrarca non come eremitaggio e penitenza, ma, classicamente, come un appartarsi dalle preoccupazioni del mondo per rifugiarsi in un otium (ozio) allietato dagli studi, dallo spettacolo di una natura piacevole e dalle amicizie. “Sia l’ozio modesto e dolce, non arcigno”, scrive il poeta; “Sia la solitudine tranquilla, non feroce: solitudine, appunto, non selvatichezza”.

Anche nel suo momento di maggiore ripensamento religioso, insomma, il Petrarca dimostra di non sapersi staccare dai suoi ideali umanistici di laboriosità, dignità, socialità.

L’Africa è invece un poema epico in esametri che ha per argomento la seconda guerra punica, cantata tenendo presente soprattutto la ricostruzione dello storico latino Tito Livio[24] e il modello poetico di Virgilio.

Il Petrarca lo comincia nel 1338, e lo sottopone a correzioni, revisioni e aggiunte (un’abitudine che ebbe per tutte le opere) fino al 1343, anno in cui lo abbandona definitivamente (al nono libro dei dodici previsti).

L’argomento sono le imprese compiute da Scipione in Africa durante la Seconda guerra punica (218-201 a.C.); su questa vicenda si innesta una serie di episodi secondari, che celebrano la grandezza passata e futura di Roma.

L’Africa era, nelle intenzioni dell’autore, l’opera alla quale affidare la propria gloria presso i posteri, come testimonia il fatto che il Petrarca la scegliesse per recitarla davanti al re di Napoli, Roberto d’Angiò, prima dell’incoronazione poetica in Campidoglio.

Nonostante le ambizioni, l’Africa è di fatto un fallimento poetico: il tono oratorio e celebrativo, così come l’impianto epico, sono decisamente estranei alla personalità petrarchesca.  La contrapposizione tra i personaggi è schematica, la loro psicologia è priva di sfumature: Scipione e i Romani rappresentano la virtù civile e umana, Annibale e i Cartaginesi la crudeltà e la barbarie. Solo qualche episodio si salva. È rimasto celebre quello della morte di Magone[25], che nel lamento accenna, con intense note liriche, a temi congeniali all’autore: la mutevolezza e la labilità delle cose terrene, l’inconsistenza delle ambizioni umane, tra cui anche la gloria, pur tanto ambita dal poeta.

De viris illustribus (Degli uomini illustri), iniziato a Valchiusa nel 1338 e a lungo rielaborato, è una specie di commento al poema: si tratta di una serie di ritratti di personaggi celebri, romani (Scipione, Cesare), mitologici e dell’Antico Testamento (Adamo e Mosè). In entrambi i casi la rappresentazione è piuttosto statica e la tematica abbastanza tradizionale.

Nascono da spunti autobiografici anche le cosiddette “opere polemiche”.

Nelle Invectivae contra medicum quendam (1352-1353), in 4 libri, il Petrarca polemizza vivacemente contro un medico della corte avignonese, che lo aveva rimproverato per aver suggerito al Papa di allontanare da sé i medici presuntuosi e ignoranti.

Con calore e passione, l’autore vi difende un ideale di uomo colto, che attraverso la dedizione allo studio e alla poesia raggiunge i valori disinteressati della virtù: è cioè un pretesto per esaltare il valore spirituale della poesia in confronto alle tecniche pratiche.

Così Petrarca intervenne in una tematica che ebbe molti esempi medievali ed era destinata a diffondersi anche in epoca moderna.

Nel 1367 scrive ancora il De sui ipsius et multorum ignorantia, in cui polemizza con quattro giovani filosofi averroisti. Costoro gli rimproveravano d’essere ignorante di scienza e di filosofia sistematica; il Petrarca replica, ribadendo la propria fiducia nella cultura intesa come ricerca della virtù, dell’affinamento spirituale, del progresso morale, e non come inutile bagaglio di erudizione.

Val la pena di citare, infine, l’Invectiva contra eum qui maledixit Italiae, opera rivolta contro il frate Jean de Hesdin, responsabile di un violento attacco contro l’Impero romano e contro il Papato.

Opera minore, essa testimonia tuttavia in modo sintetico ma completo l’ideale politico del Petrarca: l’utopia di ricostruire la nobile grandezza della repubblica romana, l’esaltazione delle virtù civili e del disinteresse personale nell’azione politica, la fede nella rinascita di una Roma capace di unire gli antichi valori della civiltà classica con quelli della Chiesa, cardine e guida del Cristianesimo universale.

Insieme ai Trionfi, il De remediis utriusque fortunae (I rimedi nella buona e nella cattiva sorte) sono l’opera in cui il Petrarca tenta di dare una veste organica e sistematica alla propria concezione della vita, raccogliendo un’amplissima serie di esperienze possibili nel corso dell’esistenza umana e suggerendo per ciascuna di esse una giusta linea di comportamento, alla luce di una morale che unisce elementi di ascetismo cristiano con tendenze allo scetticismo e al distacco di origine stoica.

Il trattato, composto fra il 1356 e il 1357, si divide in due parti, secondo una struttura molto elaborata: nella prima, attraverso 122 brevi dialoghi, il Gaudio e la Speranza propongono alla Ragione una interpretazione ottimistica del destino dell’uomo; nella seconda, formata da 132 dialoghi, sempre la Ragione discute con il Dolore e la Paura, che sostengono una visione della vita improntata al più cupo pessimismo.

In ambedue i casi la Ragione riesce a dimostrare l’inconsistenza delle tesi sostenute dai suoi interlocutori: infatti, non ha alcun senso né esultare né disperarsi di fronte alle cose di questo mondo, che sono tutte transitorie e vane, e come tali devono quindi essere considerate dall’uomo saggio.

Il libro risulta di lettura faticosa e suscita impressioni di aridità e di schematicità. Tuttavia, qualche passo non è privo di suggestione, come quello in cui dalla esposizione di un caso esemplare traspare l’impronta di una concreta esperienza autobiografica.

– La grandezza di Petrarca è affidata in primo luogo alla sua poesia volgare, almeno volendo giudicare la straordinaria importanza che ebbe non solo in Italia ma in tutta l’Europa, e per parecchi secoli – innescando un fenomeno noto come “petrarchismo” – al punto che un grande poeta come Giacomo Leopardi, collocandosi alla fine di questa tradizione, osservò che Petrarca era stato a tal punto imitato da parere un imitatore.

[1] Per questo è nominato anche come Petraccolus de Ancisa.

[2] Nacque come egli stesso narra nella Lettera ai posteri, “da onorati genitori d’origine fiorentina, in mediocre stato di fortuna, anzi per ver dire prossimo a povertà, essendo essi banditi dalla patria”.

[3] Perché guelfo di parte Bianca.

[4] L’opinione più accreditata l’identifica con Laura de Noves, andata sposa nel 1325 a Ugo de Sade.

[5] Ottenendo il privilegium lauree che implicava la cittadinanza romana, e la possibilità di una libera docenza.

[6] Re di Sicilia (1278-1343), figlio di Carlo II, a cui succedette nel 1309. Si oppose a Enrico VII del Lussemburgo e alla morte (1313) di questi divenne il più potente sovrano d’Italia, assicurandosi le signorie di Firenze e Genova. Le sue ambizioni furono però frustrate dalla sconfitta (1338) subita in Sicilia nella guerra contro gli Aragonesi. Era un amante delle lettere e delle arti.

[7] Tribuno e riformatore di Roma (Roma 1313-1354). Popolano sostenuto dal papato avignonese, si oppose al potere della nobiltà cittadina proclamandosi tribuno di Roma (1347). Fuggito per le crescenti ostilità, anche della Chiesa, insospettita dalla sua eccessiva autonomia (1350), riuscì a tornare con l’appoggio del nuovo papa Innocenzo VI, ma l’estremo autoritarismo del suo regime gli costò la vita in un tumulto popolare. Fu durante un soggiorno ad Avignone (1342) che Petrarca conobbe Cola di Rienzo, venuto presso il papa come capo di un’ambasceria, e s’entusiasmò per il programma del tribuno di restaurare l’antica repubblica romana.

[8] A Venezia, presso il doge Andrea Dandolo, per la pacificazione con Genova; a Mantova, nel 1354, presso l’imperatore Carlo IV di Boemia; a Praga, nel ‘56 e quindi a Parigi nel 1360-61.

[9] Perché Petrarca si proponeva di ottenere gli onori letterari con le opere in latino (in particolare l’Africa) e intendeva lasciare ai posteri l’immagine di un intellettuale totalmente votato alla fede cristiana ed ai classici. Nonostante ciò il Canzoniere passò ben nove revisioni che abbracciarono tutta la vita del poeta il quale, se avesse potuto, lo avrebbe ulteriormente revisionato: inizialmente (1336-37) il Canzoniere era composto infatti da soli 22 componimenti. Che Petrarca considerasse meno importante il suo lavoro in volgare ce lo attesta lo stesso nella lettera di accompagnamento (poi inclusa nelle Variae, IX e, con alcune modifiche, nelle Seniles, XIII, 11) alla cosiddetta “forma malatestiana” (1373),  egli giustificava le “nugellas meas vulgares”, la natura frammentaria dell’opera, la varietà degli argomenti (“opuscoli varietatem”), la rozzezza dello stile (“ruditatem stili”) in quanto frutto dell’età giovanile.

[10] Come già era accaduto con Dante nella Commedia, anche nel Canzoniere siamo in presenza di un personaggio che dice “io” e sviluppa una materia dichiaratamente autobiografica. Tanto Dante che Petrarca assumono nelle loro opere il ruolo di personaggio-poeta, interprete e contemporaneamente autore del testo letterario: solo che il meccanismo dantesco vuole tentare una rappresentazione dell’universale, enciclopedica, assoluta, mentre la scelta di Petrarca cade su una dimensione molto più limitata, esistenziale, individuale.

A questo proposito il poeta dice di volere comporre dei fragmenta, e non un’opera ambiziosa, unitariamente costruita: le dichiarazioni di Petrarca sono certamente velate di falsa modestia, perché nell’intento dell’autore c’era invece la volontà di organizzare una materia articolata, complessa, perfettamente disposta tanto in senso quantitativo che qualitativo. Petrarca non adopera mai il termine di Canzoniere per indicare la sua produzione lirica in volgare: questo è un titolo che più tardi, nel Cinquecento, verrà dato dagli imitatori del poeta, in un generale crescendo di popolarità addirittura europea. Petrarca adoperava per le sue poesie il titolo meno impegnativo di Rerum vulgarium fragmenta (“Frammenti di cose volgari”), ed era solito chiamare i suoi componimenti con l’appellativo di nugae (o nugellae, cioè “poesiole”), ad indicare un andamento occasionale, il carattere sperimentale e l’impegno breve di quella produzione.

[11] Per l’esattezza 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali. Perciò il carattere frammentario della raccolta esiste soltanto in astratto: in realtà Petrarca costruisce un vero e proprio codice di riferimento per tutta la lirica moderna. Alla fine risulta che il Canzoniere è il luogo dell’unità della poesia, una unità indiscutibile proprio perché a lungo cercata, desiderata, costruita: spazio chiuso e intelligentemente dosato nell’uso della parola, e contemporaneamente opera aperta alla continua rielaborazione e autocorrezione. Un lavoro, quello della composizione e della riorganizzazione, che è durato per almeno quattro decenni, dal 1332-35 fino alla morte del poeta, e che ha reso il Canzoniere una sorta di work in progress, un enorme laboratorio viaggiante della scrittura privo di forma e sempre in cerca di una forma, il più tipico e drammatico esempio di come e quanto la letteratura sopravviva nel segno di un’angosciante precarietà. La ricerca della perfezione non si conclude mai con un successo pieno: Petrarca torna continuamente sopra i propri testi correggendoli, rivedendoli e migliorandoli, ma senza mai essere soddisfatto del proprio lavoro, e anzi confermando l’idea che la poesia è soltanto un tentativo di avvicinamento alla verità, a un valore definitivo e ultimo che tuttavia sfugge.

[12] Di Laura si sa poco; nel Secretum la si dice stanca nel corpo per le sue varie gravidanze: dunque era sposata.

[13]Laurea, propriis virtutibus et meis longum celebrata carminibus, primum oculis meis apparuit sub primum adolescentie mee tempus, anno Domini m° IIIC XXVII die VI° mensis Aprilis in ecclesia sancte Clare auin. hora matutina; et in eadem civitate eodem mense Aprili eodem die sexto eadem hora prima, anno autem m° IIIC XLVIII° ab hac luce lux subtracta est, cum ego forte tunc Verone essem, heu! fati mei nescius” (“Laura, illustre per le sue virtù e a lungo celebrata nei miei carmi, apparve per la prima volta ai miei occhi nel primo tempo della mia adolescenza, l’anno del Signore 1327, il sesto giorno d’aprile nella chiesa di santa Chiara in Avignone, a mattutino, e in quella stessa città,  nello stesso mese d’aprile, nella stessa prima ora del giorno dell’anno 1348, la luce della sua vita è stata sottratta alla luce del giorno mentre io mi trovavo per caso a Verona, ignaro ahimè!, del mio fato. La notizia dolorosa mi raggiunse a Parma in una lettera del mio Ludovico nello stesso anno, la mattina del 19 di maggio. Il suo corpo castissimo e bellissimo fu messo a riposare nel cimitero dei frati minori il giorno stesso in cui ella morì, al vespro. Sono convinto che la sua anima sia ritornata al cielo da dove era venuta, come quella dell’Africano di cui dice Seneca”).

[14] Che nel De vita et moribus Domini Francisci Petracchi scriveva: “Et quamvis in suis quampluribus vulgaribus poemabitus, in quibus perlucide decantavit, se Laurettam quandam ardentissime demonstrarit amasse, non obstat; nam, prout ipsemet et bene puto, Laurettam illam allegorice pro laurea corona quam postmodum est adeptus, accipiendam existimo”(“E sebbene in numerose poesie volgari, splendidamente composte, abbia dichiarato di aver amato con grande passione una tal Lauretta, ciò non fa difficoltà per la mia affermazione, poiché, come per mio conto e giustamente suppongo, ritengo che quella Lauretta vada intesa allegoricamente per la corona d’alloro che poi ottenne”).

[15]  “Quid ergo ais? finxisse me michi speciosum Lauree nomen, ut esset et de qua ego loquerer et propter quam de me multi loquerentur; re autem vera in animo meo Lauream nichil esse, nisi illam forte poeticam, ad quam aspirare me longum et indefessum studium testatur; de hac autem spirante Laurea, cuius forma captus videor, manufacta esse omnia, ficta carmina, simulata suspiria”“Che dici tu dunque? d’aver io inventato il bel nome di Laura, perché di lei potessi parlare e per lei molti parlassero; ma che nel fatto nessuna Laura mi sta nel cuore, se non forse quel lauro dei poeti, al quale è manifesto ch’io aspiro con lungo studio e indefesso; e di questa Laura viva, della quale io fingo d’esser preso, tutto è artefatto: finti i miei versi, simulati i sospiri”.

[16] Dalla rima I alla CCLXIII. Il Canzoniere inizia con una serie di componimenti dedicati al rinnovamento spirituale operato dall’incontro con Laura, avvenuto il giorno del Venerdi Santo del 1327. Sono queste le “rime nuove”, giovanili, dettate dall’inesperienza della vita e dalle passioni (I-LX). Il poeta vive poi in uno stato confusionale: il dilemma Amore-Dio lo getta in un travaglio penoso, ma finalmente egli riconosce che la causa di tutto questo è la passione per Laura. Petrarca racconta Laura attraverso il mito di Dafne: è una narrazione apollinea celebrata nella luce e nel paesaggio di Valchiusa (LXI-CXXIX). Al di là di questa celebrazione, Laura diviene oggetto di un presentimento di morte: la malattia della donna tormenta il poeta e offusca la bellezza di Laura. In questa sezione del Canzoniere si collocano i “sonetti del presentimento” (CCXLVII-CCLIV): Laura diviene la proiezione di uno stato d’animo di sgomento e angoscia, di solitudine e di meditazione sul destino dell’artista.

[17]Dalla rima CCLIV alla CCCLXVI. La seconda parte della raccolta inizia con la canzone CCLIV (I’ vo pensando, e nel penser m’assale), che rappresenta una vera e propria cerniera tra i due momenti del Canzoniere: il poeta ora si concede interamente al dolore, alla disperata e vana ricerca delle ombre che lo perseguitano dalla morte di Laura. Questa seconda sezione manifesta una maggiore omogeneità nelle tematiche e nelle soluzioni formali: Petrarca vuole così rappresentare il suo unico pensiero di rimpianto per la donna che aveva tanto amato. La morte viene a cadere il giorno stesso del l’innamoramento, che è poi anche il giorno della passione e morte di Cristo (6 aprile): il poeta istituisce una relazione simbolica tra la morte e il processo di redenzione che attraverso il ricordo di Laura potrà portarlo alla salvezza spirituale. La donna viene ora considerata la guida della rinascita spirituale del poeta, poiché con i suoi sentimenti, la sua onestà e il suo contegno ha saputo distogliere Petrarca dal male e avviarlo alla salvezza. La morte di Laura consente perciò di superare le vanità terrene e di riunirsi a lei in cielo: il motivo della morte intesa come sdoppiamento dello spirito dalla carne è qui ripreso nella sua tradizionale accezione neoplatonica, e costituisce il termine del percorso lirico in quanto momento conclusivo e riepilogativo di una storia cominciata sotto il segno dell’amore.

[18] La continuità che i Trionfi (Petrarca volle dare loro il titolo latino di Triumphi) istituiscono con il Canzoniere è evidente fino dall’incipit del poemetto, il Triumphus Cupidinis, in cui il poeta riecheggia la vicenda dell’innamoramento che tanta parte ha avuto nelle rime sparse: “Al tempo che rinnova i miei sospiri | per la dolce memoria di quel giorno | che fu principio a sì lunghi martiri”.

[19] Senza dubbio prevale nei Trionfi, anche se il poeta non giunse a completare l’opera, l’impianto rigidamente allegorico che aveva evidenti modelli di riferimento nel Roman de la Rose e nella Commedia dantesca, da cui Petrarca imitò la scelta metrica della terza rima, e su cui ebbe una qualche influenza l’Amorosa visione dell’amico Boccaccio.

Petrarca riprende la formula delle “visioni” medievali: la sua è una scelta che va nella direzione opposta rispetto alla raffigurazione teologica e mistica di Dante: prevale anzi un certo sfarzo ornamentale nelle descrizioni, una sentenziosità di fondo che si manifesta nel linguaggio volutamente calcolato, dosato in ogni sua parte con una perizia artefatta e schemi decorativi prestabiliti, chiusa in un’intelaiatura letteraria.

Viene meno, rispetto al Canzoniere, la dinamica di un’ispirazione rinnovata dall’esperienza vissuta: in questo modo i Trionfi appaiono come il lavoro di una vecchiaia illustre che celebra se stessa e la propria decenza intellettuale. Spesso la rappresentazione delle sfilate allegoriche attinge a materiali preesistenti, a memorie letterarie, perdendo così gran parte della sua forza: Petrarca inclina verso il disegno, verso una raffigurazione iconografica, quasi pittorica, della scrittura.

Il senso di ripiegamento morale da cui nascono i Trionfi è del tutto estraneo alla freschezza linguistica delle rime volgari: la figura di Laura, che pure è al centro dell’opera, viene adombrata e schematizzata da una macchinosa panoramica di valori morali (l’onestà, la verecondia, l’intelligenza, la modestia, “abito con diletto”, la perseveranza, la gloria, la “bella accoglienza”, l’“accorgimento”, la cortesia, la purezza, la castità e infine la bellezza).

[20] Il De secreto conflictu curarum mearum (il segreto conflitto dei miei pensieri) è una prosa filosofica che può considerarsi strettamente legata al Canzoniere. Lo stesso Petrarca nella conclusione del trattato conclude:<<Raccoglierò gli sparsi frammenti della mia anima>>. Nel S. tuttavia ci viene mostrato un aspetto anche violento della passione amorosa mentre nel Canzoniere la concezione della passione è assai “temperata”.

[21] Nel proemio l’autore scrive:<< Tu dunque libretto evita di incontrarti con altri, e statti contento di rimanertene con me, memore del tuo nome. Sei infatti il mio segreto, e così sarai chiamato>>.

[22] Petrarca lo sceglie forse perché rappresenta uno dei momenti più alti della tradizione antiaristotelica, ma anche perché questo santo esprime con pienezza la sensibilità medievale con la sua coscienza del peccato, il suo rifiuto della mondanità e la sua affannosa ricerca del divino

[23] Il progetto di riordinamento del Canzoniere risulta legato a doppio filo con le questioni poste nel Secretum e con l’idea di una svolta nel modo di concepire la poesia e la letteratura.

[24] Ma anche di Ennio,  e di Cicerone.

[25] Generale cartaginese († 203 a.C.), fratello di Annibale. Combatté alla battaglia di Canne (216) in Spagna e in Liguria. Sconfitto dai Romani nel territorio degli Insubri e richiamato in patria, morì durante il viaggio.

Guido Cavalcanti  

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S. Re- L. Simoni. L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001
R. Luperini-P. Cataldi-L. Marchiani-F. Marchese. La scrittura e l’interpretazione. Dalle origini al manierismo. Volume primo. Palumbo editore. Firenze. 2000.
AA. VV., La letteratura italiana in Cd-Rom, G. D’Anna editore- La repubblica Edizioni. Milano. 1999.
S. Guglielmino-H. Grosser. Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994
E. Gioanola, Storia della Letteratura italiana. Dalle origini ai giorni nostri. Librex editore, Milano, 1992.
A. Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento, Giuseppe Principato editore. Messina-Milano, 1937.

Nacque, tra il 1255 e il 1259, a Firenze, da famiglia di antica tradizione aristocratica che l’ambizione di primeggiare aveva spinto all’attività mercantile.

Il padre era quel Cavalcante che partecipò alla battaglia di Montaperti, l’“epicureo” che Dante incontra nel cerchio degli eretici insieme al capo ghibellino Farinata degli Uberti (Inferno, X). E la figlia di Farinata, Bice, dovette sposare più tardi il Cavalcanti, se il suo nome figurava accanto alla promessa sposa già dal 1267, in occasione di un riavvicinamento tra le due fazioni politiche.

 Guelfo di parte bianca, fu, nel 1280, fra i garanti della pace[1] del cardinale Latino, e quattro anni dopo venne eletto al Consiglio Generale del Comune, dove ebbe come colleghi Brunetto Latini e  Dino Compagni.

È nell’ambito di questa partecipazione che si colloca l’inizio della ostilità di Corso Donati verso il Cavalcanti, più volte sottolineata dal Compagni nella Cronica.

Ma è con gli Ordinamenti di giustizia di Giano della Bella (1293) che Cavalcanti, insieme a molti altri esponenti delle famiglie magnatizie, viene escluso dalle cariche pubbliche.

Dopo il 1295, sdegnandosi di iscriversi ad una delle Arti[2], si precluse ogni attività amministrativa, ma continuò a svolgere un ruolo primario nei contrasti politici di Firenze, avversando la fazione dei Neri e, con particolare tenacia appunto Corso Donati, che ne  era il capo.

Sui trentacinque anni, con decisione davvero sorprendente in un uomo come lui che attratto dalla filosofia averroistica, inclinava allo scetticismo in fatto religione, ed aveva anche irriso con alcuni versi la fede dei semplici, intraprese un pellegrinaggio a S. Jacopo di Compostella, in Galizia.

Non giunse al santuario, allora meta dei cavalieri penitenti, perché un improvviso malanno occorsogli a Nimes e il rancore per Corso Donati, che durante il viaggio aveva tentato di farlo assassinare, lo indussero a tornare a Firenze.

Qui, nel 1297, imbattutosi nel suo nemico che cavalcava con  alcuni seguaci, Guido, desideroso di vendicarsi <<lancio il dardo, il quale andò in vano» (D. Compagni).

Tre anni dopo, fu tra i protagonisti più attivi del tumulto cruento che, durante la festa di San Giovanni, scoppiò a Firenze, tra i Bianchi ed i Neri.

Per motivi di pubblica sicurezza, i Priori, fra i quali era anche Dante, inflissero  il bando dalla città ai più turbolenti capi delle due parti in lotta; e a Guido tocco il confino a Sarzana, una contrada della Lunigiana, allora infestata dalla malaria.

A distanza di un mese, revocato dalla nuova Signoria il bando ai Bianchi fuorusciti, poté tornare a Firenze. Consunto dalle febbri malariche, vi mori subito dopo, nell’agosto del 1300.

La personalità di Guido, almeno nei tratti della fierezza e della passionalità, si avverte già in questi dati della sua biografia; ma si precisa in più netto rilievo attraverso le testimonianze dei suoi contemporanei, numerose e tutte concordi nel riconoscerla singolare.

Da un poeta minore dello Stilnovismo, Guido Orlandi, il Cavalcanti ebbe versi di lode, nei quali si riflette 1’ammirazione che lo circondava, come uomo di armi e di lettere, nella società fiorentina del tempo[3].

«Cortese e ardito» lo definì Dino Compagni; e aggiunse che era «sdegnoso, solitario e intento allo studio».

Questo scrisse nella Cronica; ma più fervidamente lo aveva lodato in un sonetto,

come saggio, coltissimo e bene esperto «di varco e di schermaglia>>.

Benvenuto da Imola lo definì «uno degli occhi di Firenze», anticipando I’ apprezzamento del novelliere Franco Sacchetti, per il quale Guido «in Firenze forse suo pari non avea».

Filippo Villani vide nel nostro poeta un «uomo vertudioso in più cose, se non che era troppo altero e stizzoso».

Più tardi, il Boccaccio, che lo assunse a protagonista di una celebre novella del Decamerone, lo qualifico come «uno dei migliori loici [esperti di logica] che avesse il mondo, ed ottimo filosofo naturale… leggiadrissimo e costumato e parlante [eloquente] cavaliere molto».

A queste testimonianze si aggiunge, più d’ogni altra autorevole e significativa, quella di Dante, che negli anni giovanili dovette guardare a Guido come a maestro d’arte e di vita, se a lui dedico il libretto della Vita Nuova; e anche negli anni maturi lo citò con lode affettuosa, attribuendogli il primato della lingua, tolto «all’altro Guido».

Personaggio «di prima grandezza» fu dunque per i suoi contemporanei il Cavalcanti. E tale appare a noi, anche a spogliarlo di quegli aloni romantici che i biografi hanno via via diffuso sulla sua personalità.

Sotto il suo orgoglio solitario di pensatore laico[4] c’è chi avverte una moderna inquietudine conoscitiva; nella sua partecipazione tumultuosa alla vita politica si può cogliere una grande coerenza e nella varietà tonale della sua poesia si può trovare una certa complessità psicologica.

Complessa come la sua personalità e la poesia di Guido, tutta raccolta in un Canzoniere di una cinquantina di componimenti, fra canzoni, sonetti e ballate.

È poesia stilnovistica per alcuni motivi di origine guinizzelliana: l’amore come tensione suprema dell’anima gentile, 1’apparizione della donna in un’atmosfera di vibrante luminosità, il saluto di lei e gli effetti di gioia o d’angoscia che ne derivano all’uomo); e stilnovistica è pure per il rilievo che vi assume l‘indagine del poeta sul suo mondo interiore.

Ma nella maggiore e miglior parte del canzoniere di Guido quei temi son rivissuti nell’interno, reinventati da una sensibilità turbata e commossa, e quell’indagine introspettiva e drammatico impatto con una realtà oscura e dolente.

Non che manchino nel Canzoniere cavalcantiano i componimenti informati a franca spensieratezza nella figurazione della donna[5], ma più frequenti, e più ricche di interesse per noi, son le liriche che dicono il tremore dell’anima smarrita nella stretta della solitudine o sotto 1’incubo della morte.

Il poeta insiste nell’uso di parole come pianto, dolore, morte, paura, sbigottito, trema, ecc.; ma questo «lessico dell’angoscia» non e, come e parso a taluno, una scelta retorica finalizzata alla trattazione stilizzata (come per i poeti Siciliani) di un tema assunto con letterario distacco, bensì il naturale strumento espressivo di una profonda verità psicologica; e non ne coglie l’interiore vibrazione soltanto chi non ha orecchio alla voce della poesia.

Muovendo dalla propria esperienza esistenziale, oltre che dalla dottrina averroistica, Guido identifica 1’amore con una passione cieca e veemente che, avendo sede nell’anima sensitiva, non assurge alla sfera dell’intelletto e dunque non è, come ritenevano Guinizzelli e Dante, sollecitazione alla vita morale e iniziazione al Divino, ma tumulto che prostra ed angoscia nel presagio della morte.

Questa concezione, espressa con arduo, e non sempre limpido, procedimento filosofico e scientifico nella canzone-manifesto <<Donna mi prega>> è alla base di molte liriche del Cavalcanti, dove la donna non è angelo beatifico, ma terrena creatura dal cui fascino misterioso 1’uomo ricava fugaci attimi di gioia e lungo tormento.

E cosi Guido è il primo poeta della nostra letteratura che accosti all’amore la morte in un connubio che affascinerà la fantasia dei poeti del Romanticismo; la sua è un’anima passionale che però non si effonde con scompostezza ma si dispiega in forme stilistiche e ritmiche molto lavorate: il ritmo è musicale e le immagini sono lievi.

[1] Che doveva ricomporre i rapporti tra guelfi e ghibellini.

[2] L’iscrizione, che i1 «magnate» Guido considerava umiliante, era imposta dai nuovi Ordinamenti di Giustizia, di ispirazione democratica, come condizione all’accesso ai pubblici uffici.

[3] «Amico, saccio ben che sai limare / con punta lata maglia di coretto, / di palo in frasca come uccel volare, / con grande ingegno gir per loco stretto…».

[4] I contemporanei scambiarono per empietà epicurea codesta laicità.

[5] Sia essa Giovanna (Vanna), bella come la primavera e in se recante «li fiori e la verdura», o la gentile Mandetta, la tolosana, che Guido incontro durante il suo pellegrinaggio a S.  Jacopo, entrando «quietamente alla Dorada>>, o la bionda e rugiadosa pastorella vagheggiata e goduta su un luminoso sfondo boschivo.

Ricordi di guerra

Era il 2 maggio 1800 (e non il 30 aprile come si trova scritto in loco), tre giorni fa insomma, ma lontani 214 anni.

Si fronteggiavano l’esercito austriaco e quello francese per la conquista di Genova ove dominava la fame, la carestia e la pestilenza.

Gli Austriaci si trovavano sul Forte Fratello Minore i Francesi a circa una ventina di minuti a piedi, erano arroccati in Forte Sperone e dalla parte opposta sul Forte Diamante.

E da Forte Sperone partì l’attacco… ancora oggi ci sono persone con la piccozza e il metal detector che vanno a caccia di reperti bellici

A quella battaglia partecipava un ragazzo di 22 anni che era già esperto di guerra e che aveva seguito un caro e valoroso amico, Giuseppe Fantuzzi.

Entrambi facevano parte della divisione del generale Gazan, Fantuzzi era il suo aiutante per volere del generale Massena.

Giuseppe Fantuzzi morì colpito in piena fronte a soli 38 anni. 

Il suo amico più giovane dopo una salita che mette a dura prova i polmoni (si trovava in Forte Diamante e non oso pensare quanto pesassero le armi!) venne ferito ad una gamba da un colpo di fucile, proprio sulla spianata di fronte al Forte Fratello Minore. 

Vinsero i Francesi e si salvò miracolosamente per trovare ospitalità presso i conti Pallavicini.

Qui scrisse convalescente la famosa ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo.

Sto parlando ovviamente di Ugo Foscolo che celebrò l’amico Fantuzzi un anno dopo nell’orazione a Giuseppe Bonaparte con queste parole:”O voi che dai ricuperati colli di genova accompagnaste alla sede degli eroi lo spirito di Giuseppe Fantuzzi. Gridate voi tutti! Forti, terribili, ed a generosa morte devoti furono i nostri petti benché pochi, ignudi e spregiati”

Armi in spalla Distanza tra i due forti Forte Fratello minore Forte Sperone Percorso fatto da Foscolo Strada da cui partì l'attacco

I poeti giocosi (o comico-realistici o borghesi)

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S. Re- L. Simoni. L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001
R. Luperini-P. Cataldi-L. Marchiani-F. Marchese. La scrittura e l’interpretazione. Dalle origini al manierismo. Volume primo. Palumbo editore. Firenze. 2000.
AA. VV., La letteratura italiana in Cd-Rom, G. D’Anna editore- La repubblica Edizioni. Milano. 1999.
S. Guglielmino-H. Grosser. Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994
E. Gioanola, Storia della Letteratura italiana. Dalle origini ai giorni nostri. Librex editore, Milano, 1992.
A. Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento, Giuseppe Principato editore. Messina-Milano, 1937.
C.A.Calcagno, I poeti giocosi, in I grandi classici della poesia italiana, Duecento, p. 142 e ss., Bottega d’arte di Penna d’Autore, Torino, 2006

              Nella Toscana duecentesca, mentre si vive l’esperienza stilnovista, si assiste anche ad un processo di abbassamento sia stilistico che tematico del filone poetico con l’affermarsi di un gusto borghese[1] o comico[2]-realistico[3] contrapposto a quello aulico stilnovista.

            Tra i poeti realisti ricordiamo soprattutto Folgore da San Gimignano: come ricorda Ferdinando Neri[4], la sua poesia (in particolare i Sonetti de’ mesi) è la voce delle feste di Toscana: giostre, cacce, conviti; i garzoni e le giovinette si baciano <<ne la bocca e ne le guance>>.

            La poesia comica rappresentava all’interno di un canzoniere cortese un momento di svago: Guinizzelli, Cavalcanti, Dante, Cino si cimentano in questo stile secondo le norme della retorica, specie nelle cosiddette <<tenzoni>>.

            Con i poeti comici veri e propri[5] si è rivendicata invece una pari dignità letteraria rispetto alla esperienza stilnovistica e in generale al dominante filone cortese.

            Rustico di Filippi, considerato l’iniziatore del genere, rivendicò appunto pari impegno ai due registri, l’aulico e il comico, mentre Cecco Angiolieri compie una decisa scelta dello stile comico in funzione antistilnovista.

             L’opzione di passare dall’uno all’altro registro corrisponde per questi poeti più ad un’esigenza letteraria di gusto o di adeguamento a una norma retorica che ad un’esigenza sentimentale.

            Anche i comici avevano un repertorio poetico e motivi ricorrenti a cui attingere, un lessico ed uno stile di riferimento[6], secondo regole retoriche che prevedevano uno stile basso, plebeo, per argomenti concreti, della vita quotidiana.

            Va dunque definitivamente sfatata l’idea romantica secondo cui l’Angiolieri e gli altri poeti comici fossero primi esempi di poeti maledetti, ribelli, contestatori, e che la loro poesia avesse quindi il carattere dell’immediatezza e della spontaneità, quasi si trattasse dello sfogo poetico di sentimenti e di esperienze autobiografiche da parte di autori istintivi.

             Un filone «giocoso» era infatti presente nella letteratura latina classica, in quella latina medievale, con i canti goliardici, come pure in quella provenzale (canti giullareschi) francese e spagnola.

            I temi tradizionali che vengono recuperati e rielaborati in modo originale dai poeti comici toscani sono in sintesi: l’elogio dei piaceri, il gusto per una vita sregolata e gaudente, il vino, l’ingiuria contro i genitori accusati di avarizia, il lamento per la costante povertà, l’anticlericalismo, la rappresentazione schietta dell’amore e della sensualità, la misoginia intesa come insofferenza delle mogli e disprezzo delle vecchie.

            La donna nella concezione comica è considerata in senso rovesciato rispetto alla concezione stilnovista: la donna-angelo che eleva a Dio ed è priva della componente sessuale diviene nei comici donna di basso livello avida, infedele, spregiudicata e liberamente dedita alla sessualità; se la donna di Dante si chiama Beatrice quella di Cecco ha nome Becchina.

            Nell’ambito della poesia comica si riscontra poi anche il filone politico: si nota spesso un’invettiva mordace contro gli avversari politici che sfocia in una raffigurazione spesso grottesca e caricaturale.

            Mentre lo stil novo si rivolge ad una cerchia ristretta ed aristocratica del Comune, la poesia comica si apre al mondo medio-popolare dei mercanti e degli artigiani, che costituiva già il pubblico delle novelle in prosa. E proprio tra novellistica e poesia giocosa si assiste ad un interessante scambio di situazioni, motti, personaggi, lessico, metafore.

            Con Rustico di Filippo la scelta del genere comico-realistico resta un caso isolato, ma con Cecco Angiolieri siamo in presenza del maggior rappresentante di una vera e propria “scuola”, la cui nascita è legata, come già detto, con tutta evidenza alla presenza della “scuola” stilnovistica, alla quale si contrappone anche come sede di diffusione, proponendosi Siena come la capitale di un gusto che assume anche, per rivalità comunale, i caratteri dell’anti-fiorentinità.

            Il personaggio delle poesie di Cecco, che è una finzione letteraria e non può essere identificato per alcuno con l’io autentico del poeta, esibisce le due varianti psicologiche dell’ira e della malinconia, la prima indirizzata nelle forme del vituperio contro il padre e contro la sua avarizia, che lo lascia sempre senza il becco di un quattrino, la seconda legata al rapporto con Becchina[7], l’anti-Beatrice che lo eccita e lo manda al diavolo.

            L’apparente immediatezza dell’amore per Becchina e il realismo delle situazioni non devono però trarre in inganno: si tratta in realtà di un’operazione lucidamente polemica, con la quale viene appunto capovolto il modello stilnovistico della donna-angelo, la cui contemplazione produce effetti miracolosi: qui il miracolo è molto più terreno, come terreno è il paradiso di Cecco: “chi la sguarda ‘n viso, sed egli è vecchio, ritorna garzone” (ossia, da vecchio ritorna giovane).

            In alcuni sonetti l’Angiolieri descrive il proprio carattere iroso, polemico, “melanconico”; quest’ultimo vocabolo, nel significato attribuitogli al tempo, indica appunto l’umor nero, legato all’insoddisfazione di sé e della propria vita. Sono tutti difetti i quali contribuiscono ad esasperare parenti, amici e, naturalmente, Becchina.

            Nel sonetto più celebre, S’i’ fosse fuoco, ardereï ‘l mondo, l’Angiolieri, attraverso una sequela di affermazioni paradossali, dichiara l’odio per il padre (colpevole di non dargli denaro a sufficienza per i suoi divertimenti) e per la madre, ma non è tenero neppure col resto del mondo: solo a se stesso rivendica il diritto e il piacere, se gli fosse permesso, di scegliere donne giovani e belle, lasciando le brutte e vecchie agli altri.

            Per il Momigliano quest’ultima è la lirica che ritrae meglio l’Angiolieri, ed il fondo tutte le altre per il grande critico non aggiungono nulla alla sua psicologia di libertino e da ubriacone turbolento e triste. Le sue ribellioni sono bestemmie, la sua tristezza non è mai approfondita nella meditazione; perciò la sua poesia ha più la fissità della maschera che la ricca mobilità di una fisionomia umana.

             Ma l’importanza della poesia dell’Angiolieri non è tanto legata al suo privato psicologico del resto ampiamente ricalcante la tematica goliardica, quanto alle grandi capacità tecniche d’invenzione di un linguaggio sapientemente composito, dove aulico e prosaico, dialettalismi e latinismi si combinano con effetti di molta efficacia espressiva, in un centinaio di sonetti.


[1] La definizione di “borghese” è prevalentemente sociologica, allude cioè all’ambiente sociale in cui il genere si sviluppa: la borghesia comunale, dinamica ed economicamente benestante. Al suo interno le aspirazioni letterarie più nobili coesistono con interessi culturali meno impegnativi, ma non privi di varietà e fermenti, che si manifestano in una poesia spesso aspra e polemica.

[2] Per comico si intende uno stile medio vicino al linguaggio parlato.

[3] Realistico è, o sembra essere, l’approccio a esperienze concrete, legate alla vita comune, quotidiana (così per il Momigliano che la definisce “poesia di argomenti quotidiani”), senza dimenticare l’immediatezza espressiva di un lessico, che in questo tipo di poesia sfiora sovente la volgarità.

[4] Il suo maggior critico e studioso.

[5] Cecco Angiolieri, Rustico di Filippo, Folgóre da San Gimignano, Cenne de la Chitarra.

[6] Il linguaggio colorito, corposo, non di rado irrispettoso delle regole sintattiche, ma ricco di figure retoriche, tra le quali predominano l’ipèrbole e l’adýnaton (figura retorica che sottolinea l’impossibilità di una determinata situazione), similitudini audaci, metafore spesso volgari. È frequentissimo l’uso del dialogo, composto di frasi brevi a “botta e risposta”, che lo rendono vivace e vigoroso.

[7] Figlia di Benci cuoiaio, sarebbe stata dunque una popolana con cui il poeta avrebbe avuto un rapporto intenso e contrastato, fortemente concreto e sensuale, fitto di litigi e rappacificazioni (ha scarsa importanza sapere se davvero la donna sia esistita e se fosse come Cecco la descrive: si tratta pur sempre di un personaggio letterario).

IL DOLCE STIL NOVO

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S. Re- L. Simoni. L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001
R. Luperini-P. Cataldi-L. Marchiani-F. Marchese. La scrittura e l’interpretazione. Dalle origini al manierismo. Volume primo. Palumbo editore. Firenze. 2000.
AA. VV., La letteratura italiana in Cd-Rom, G. D’Anna editore- La repubblica Edizioni. Milano. 1999.
S. Guglielmino-H. Grosser. Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994
E. Gioanola, Storia della Letteratura italiana. Dalle origini ai giorni nostri. Librex editore, Milano, 1992.
A. Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento, Giuseppe Principato editore. Messina-Milano, 1937.
C.A.Calcagno, Il Dolce Stil Novo, in I grandi classici della poesia italiana, Duecento, p. 110 e ss., Bottega d’arte di Penna d’Autore, Torino, 2006

La stagione poetica che si consuma negli ultimi decenni del Duecento tra Bologna e Firenze è definita <<dolce stil novo>>: si tratta di un primo punto d’arrivo della lirica italiana.

In Bologna, città all’avanguardia negli studi, si dà l’avvio a questo movimento poetico con l’opera di Guido Guinizzelli, ma sarà Firenze, tra il 1280 ed il 1310, ad imporsi come nuova capitale della lirica: fiorentini sono i due principali esponenti della nuova Scuola, Dante Alighieri e Guido Cavalcanti, i quali, insieme a Cino da Pistoia, non furono comunque estranei all’influenza dell’ambiente bolognese[1].

Il dolce stil novo è considerato <<nuovo>> perché sceglie come tematica quella amorosa, tralasciando i temi politici e morali tipici di Guittone[2][3], anche se l’impostazione è certamente filosofica[4] e quindi notevole è l’impegno concettuale.

Mentre nella poesia trovadorica il rapporto tra la donna ed il poeta è di vassallaggio, di ordine sociale, in quella stilnovistica il rapporto di lontananza tra l’amante e l’amata è di ordine morale, religioso, per cui la donna è vista come incarnazione della virtù (la donna-angelo) e il distacco è quantitativo e non qualitativo, per cui il poeta ottiene attraverso l’amore di elevarsi spiritualmente.

La figura femminile insomma si fa portatrice dei valori di nobiltà e purezza, che innalzano l’amante devoto, cosicché l’amore profano, benché caduco ed effimero, assurge a principio di virtù e non di perdizione.

Nel dolce stil novo il problema centrale[5] è infatti quello di conciliare l’amore per Dio e l’amore per la creatura: la donna è chiamata a mediare questo contrasto facendosi tramite tra i due livelli; quando la passione per essa rimane legata all’anima sensitiva, la donna può essere solo uno strumento per esaurire le forze del vitali del poeta.

Il dolce stil novo è “dolce”: i poeti che vi aderiscono hanno tutti la preoccupazione di rinnovare l’espressione attraverso una selezione accurata del lessico e della sintassi poetica; vengono abbandonate le oscure sperimentazioni stilistiche di Guittone; essi devono essere dolci perché tale dolcezza, ossia una più facile cantabilità del verso, corrisponde ad una aristocrazia del sentire, ad una maggiore elevatezza della lode della donna.

Anche la lingua usata è nuova, dal momento che viene privilegiato il fiorentino illustre, depurato sia dai municipalismi plebei, sia dai provenzalismi e sicilianismi, sentiti ormai come ingombranti ed usurati.

Guido Guinizzelli (1230 o 40-1276), un giudice bolognese di parte ghibellina, è considerato l’iniziatore (o il precursore secondo alcuni)[6] della Scuola, perché è il primo a formulare poeticamente un’organica teoria dell’amore[7].

Nella poesia guinizzelliana sono compresi due filoni che saranno ripresi e approfonditi dai poeti fiorentini: il tema della lode ad una donna ineffabile, ammirata esteticamente in un trionfo di luce (tema che viene ripreso da Dante, che accentua la spiritualizzazione) e il tema dell’amore visto come passione tormentosa dei sensi che provoca angoscia e morte (tema ripreso soprattutto dal Cavalcanti)[8].

L’idea fondamentale da cui parte il Guinizzelli è quella dell’identità di amore e cuore gentile[9], per cui l’amore può nascere solo nel cuore di una persona gentile, il cui sguardo sia così puro da poter riflettere la luce che proviene dagli occhi della donna, così come gli angeli riflettono la luce di Dio.

La donna angelicata ha in sé tanta virtù da mettere nel cuore gentile[10] la volontà di sottomettersi a lei, realizzando così l’unione spirituale beneficante. Al contrario un cuore vile non può sentire quest’amore[11][12][13].

Quando il poeta morirà e Dio gli farà notare di aver riservato ad una donna l’onore a Lui dovuto, il poeta risponderà che tale donna aveva sembianze d’angelo e amare lei era come amare una creatura del paradiso[14].

La carica di novità insita nella poesia guinizzelliana è per certi versi indubbia: non a caso l’Alighieri dà a Guinizzelli il nome di <<padre>>[15], e rimedita la sua profonda lezione non solo nei versi giovanili, ma anche nella Vita Nova.

Pur nella novità dell’impianto filosofico e dei concetti principali, non vanno tuttavia dimenticati i legami con la tradizione siciliana, rilevabili in alcune immagini e similitudini; fermo restando alla canzone  “Al cor gentile rempaira sempre amore” si pensi all’esempio del calore che prende … loco nello splendore della fiamma (v. 10), all’immaginario poetico popolato di pietre preziose (v. 12), stelle (v. 13), candelabri (v. 22), diamanti (v. 30).

Dante Alighieri non ha certo bisogno di essere presentato e la sua produzione sia in volgare, sia in lingua latina è decisamente ponderosa[16]; improbo sarebbe dunque ripercorrere gli echi stilnovisti presenti nelle sue opere, anche se la trattazione presente fosse di più ampio respiro.

Ci limitiamo soltanto ad accennare che, mentre appartengono sicuramente alla fase pre-stilnovistica alcune liriche delle Rime ed i poemetti Il Fiore ed il Detto d’amore, l’influsso stilnovistico è evidente nella Vita Nova[17], ove le vicende vissute sono interpretate simbolicamente, appunto in chiave stilnovistica.

Beatrice infatti viene descritta come creatura divina e angelica, strumento di elevazione dell’uomo verso Dio. La donna-angelo assume qui un significato[18] vasto e profondo, ossia quello della Salvezza e della Grazia, sigillate dalla stessa morte, secondo un disegno provvidenziale.

Beatrice è colei che è beata e che dona beatitudine, è davvero “donna della salute”, portatrice della salvezza.

In estrema sintesi la dimensione descritta dal sommo poeta non è soltanto emotiva e formale, ma compiutamente religiosa: la poesia iniziale dell’opera (nel capitolo III: A ciascun alma presa e gentil core), cavalcantiana, esprime un amore visto come pena e dissidio, ma in seguito esso diffonde beatitudine e appunto salvezza.

Come nella Commedia Dante è sia autore che protagonista dell’opera che, allo stesso modo, costituisce un exemplum di rinnovamento della vita morale. Nell’ultimo sonetto della Vita Nova che ci è pervenuto (Oltre la spera che più larga gira), l’Alighieri si rende infatti conto che quella che sta descrivendo è ancora una donna reale e che i mezzi stilnovistici sono insufficienti a dire di più, ad esprimere la funzione redentrice di Beatrice; egli si ripropone quindi di cantarla in modo nuovo e straordinario (cosa che poi farà nella Comedia) ed allora tronca il libello.

Nelle Rime[19] troviamo poi le liriche giovanili stilnovistiche escluse dalla Vita nova (dette extravaganti) o perché non pienamente rappresentative del nuovo stile o perché destinate ad altre donne: nelle liriche amorose sono presenti varie donne (Beatrice, Fioretta, Lisetta); D. imita la poesia siciliana e guittoniana; si ritrovano quindi situazioni psicologiche convenzionali narrate con moduli espressivi astrusi e rigidi.

Il poeta risente poi dell’influenza dei versi del Cavalcanti (con l’accettazione della dottrina cavalcantiana dell’amore e quindi con la personale conquista di una lingua e una poetica dense di complessità intellettuali) e del Guinizzelli[20].

Non più soltanto l’amore, ma la sapienza è argomento del Convivio; non soltanto Beatrice, di conseguenza, ma la donna pietosa e bella, da lei allontanata sul finire della Vita Nova è la nuova figura simbolica dell’opera[21]. Alla storia della sua redenzione spirituale, D. aggiunge la difesa del suo operato di cittadino, impegnato nella vita e nelle istituzioni del Comune. Anche il Convivio tuttavia si interrompe e il vero motivo sta forse nel fatto che Dante perde fiducia nella forza della filosofia e quindi preferisce tornare alla prospettiva maggiormente teologica della Vita Nova[22].

Personaggio «di prima grandezza» della Scuola anche per i suoi contemporanei fu Guido Cavalcanti. E tale appare a noi: sotto il suo orgoglio solitario di pensatore laico[23] c’è chi avverte una moderna inquietudine conoscitiva; nella sua partecipazione tumultuosa alla vita politica si può cogliere una grande coerenza e nella varietà tonale della sua poesia si può trovare una certa complessità psicologica.

Complessa come la sua personalità e dunque la poesia di Guido, tutta raccolta in un Canzoniere di una cinquantina di componimenti, fra canzoni, sonetti e ballate.

E’ poesia stilnovistica per alcuni motivi di origine guinizzelliana: l’amore come tensione suprema dell’anima gentile, 1’apparizione della donna in un’atmosfera di vibrante luminosità, il saluto di lei e gli effetti di gioia o d’angoscia che ne derivano all’uomo; e stilnovistica è pure per il rilievo che vi assume l‘indagine del poeta sul suo mondo interiore.

Ma nella maggiore e miglior parte del canzoniere di Guido quei temi sono rivissuti nell’interno, reinventati da una sensibilità turbata e commossa: Non a caso è definito dal Momigliano come il primo poeta che abbia “ il senso e l’effetto del reale”.      La poesia che prima pensava e descriveva, ora narra e rappresenta.

Non che manchino nel Canzoniere cavalcantiano i componimenti informati a franca spensieratezza nella figurazione della donna[24], ma piu frequenti, e piu ricche di interesse per noi, sono le liriche che assecondano il tremore dell’anima smarrita nella stretta della solitudine o sotto 1’incubo della morte.

Il poeta insiste nell’uso di parole come pianto, dolore, morte, paura, sbigottito, trema, ecc.; ma questo «lessico dell’angoscia» non è una scelta retorica e distaccata (come nei poeti Siciliani), ma il naturale strumento espressivo di una profonda verità psicologica.

Muovendo dalla propria esperienza esistenziale, oltre che dalla dottrina averroistica, Guido identifica 1’amore con una passione cieca e veemente che, avendo sede nell’anima sensitiva, non assurge alla sfera dell’intelletto e dunque non è, come ritenevano Guinizzelli e Dante, sollecitazione alla vita morale e iniziazione al Divino, ma tumulto che prostra ed angoscia nel presagio della morte.

Questa concezione, espressa con arduo, e non sempre limpido, procedimento filosofico e scientifico nella canzone-manifesto <<Donna mi prega>> è alla base di molte liriche del Cavalcanti, dove la donna non è angelo beatifico, ma terrena creatura dal cui fascino misterioso 1’uomo ricava fugaci attimi di gioia e lungo tormento.

E cosi Guido è il primo poeta della nostra letteratura che accosti all’amore la morte in un connubio che affascinerà la fantasia dei poeti del Romanticismo; la sua è un’anima passionale che però non si effonde con scompostezza ma si dispiega in forme stilistiche e ritmiche molto lavorate: il ritmo è musicale e le immagini sono lievi.

Altro e conclusivo rappresentante eccelso della Scuola e coetaneo del Cavalcanti e di Dante è Cino da Pistoia che rappresenta uno stadio avanzato dello stilnovismo, anche se i risultati poetici non sono in sé paragonabili a quelli dei due fiorentini.

Per Dante la presenza dell’amico Cino è non soltanto giustificata, ma addirittura indispensabile[25], per la scelta di un volgare “tam egregium, tam extricatum, tam perfectum et tam urbanum”, soprattutto alla luce del contributo in termini stilistici e metrici, ossia per la coerente e cospicua sperimentazione della canzone; quelle del pistoiese sono ben 19 rispetto alle presenze più saltuarie nei canzonieri di Guinizzelli e Cavalcanti.

All’infuori di Dante egli fu infatti il poeta quantitativamente più prolifico tra gli stilnovisti: il suo canzoniere ricomprende venti canzoni, undici ballate, centotrentaquattro sonetti più ventuno rime di paternità incerta.

In Cino sono presenti, come in un epigono, tutti i motivi degli altri stilnovisti, al di fuori però di ogni organica concezione della dottrina d’amore: in lui si afferma una poetica della memoria, affidata al puntuale riemergere, fuori da ogni schema, dei ricordi legati all’amore per la donna.

In questo Cino poté essere considerato come un precursore dello stesso Petrarca, ormai al di là delle sintesi costruttive di stampo medievale, nella libera obbedienza agli impulsi emotivi della memoria intenerita.


[1] Anche perché i poeti stilnovisti sono tutti amici tra loro e si comportano come un nucleo di persone che condividono le medesime esigenze.

[2] È il lucchese Bonagiunta Orbicciani in un sonetto indirizzato a Guido Guinizzelli (“Voi che avete mutata la maniera”) a rimproverare il bolognese di aver mutato forma e contenuto della poesia d’amore, in contrapposizione alla poesia guittoniana.

[3] Dante nella Commedia codifica per i posteri la nozione di <<dolce stil novo>> nella celebre definizione di amore dittatore; il poeta spiega che la novità della nuova scuola consiste in un processo di progressiva interiorizzazione e spiritualizzazione del sentimento amoroso; lo stesso Bonagiunta Orbicciani, incontrato da D., tra i golosi, nel XXIV canto del Purgatorio, riconosce che Jacopo da Lentini, Guittone d’Arezzo e lui stesso sono stati “superati” dai poeti dello stil novo.

 [4] Per Dante che segue la filosofia scolastica (di conciliazione tra cristianesimo e aristotelismo) l’amore per la donna non può essere che uno strumento di avvicinamento a Dio; per Cavalcanti invece che legge Aristotele attraverso l’interpretazione di Averroé, l’amore non può che essere passione dei sensi.

[5] Potremmo dire anche di tutta l’età medioevale.

[6] La sua produzione non fu particolarmente cospicua: ci rimangono cinque canzoni ed una ventina di sonetti, più alcuni frammenti; le prime poesie seguono moduli guittoniani ma poi nasce la nuova poesia con la canzone ”Al cor gentile rempaira sempre amore”.

[7] Che si trova appunto espressa nella canzone  “Al cor gentile rempaira sempre amore”. Il componimento è caposaldo dell’esperienza stilnovista, e presenta, nella forma programmatica della canzone, i temi principali che caratterizzeranno tutti gli esperimenti poetici successivi della Scuola

[8] L’amore infatti può portare alla virtù ed è quindi uno strumento di avvicinamento a Dio, oppure rimanere legato all’anima sensitiva e rimanere quindi una passione che può generare angoscia tormentosa.

[9] La natura non ha creato prima il cuore gentile o l’amore. Infatti la stessa natura crea e nasce col sole. L’amore prende posto nel cuore gentile come il calore dimora nella chiara fiamma (“Al cor gentile rempaira sempre amore”, vv. 1-10).

 [10] Così il cuore reso dalla natura eletto riceve dalla donna come da una stella l’amore che lo rende nobile (Op. cit., vv. 18-20).

[11] L’indole malvagia è avversa all’amore come l’acqua fredda al fuoco caldo (Op. cit., vv. 25-28); il sole scalda il fango ma questo rimane tale, nonostante il primo non perda il suo calore (vv. 31-32).

[12] La nobiltà non coincide pertanto necessariamente con il sangue ed i natali (vedi vv. 35-40 Op. cit.), ma con la naturale e personale tensione al bene e alla perfezione, non ereditaria, ma da conquistare con la pratica di vita; questo nuovo concetto (che ritroveremo anche nella Monarchia di Dante) si adattava molto bene al nuovo ceto che sta emergendo: alla borghesia.

[13] Questa idea è già presente in numerosi trattati come ad esempio il De Amore del francese Andrea Cappellano e sta alla base del cosiddetto amor cortese i cui maestri cantori si ritrovano nella lirica occitanica.

[14] Op. cit. vv. 51-60.

[15] Precisamente Dante definisce il Guinizzelli (nel XXVI canto del Purgatorio dedicato ai lussuriosi)  come <<il padre mio/ e de li altri miei miglior che mai/ rime d’amor usar dolci e leggiadre>>.

Nel 1270 il Guinizzelli fu pure podestà di Castelfranco Emilia, ma quando nel 1274 la parte guelfa ebbe la meglio, dovette andare in esilio, rifugiandosi con la moglie e il figlio a Monselice, dove morì pochi anni dopo.

[16] In volgare Dante scrive:

  • Il Fiore e Detto d’Amore (1285-1295)
  • Vita nuova (1290-1294)
  • Rime (1283-1307?)
  • Convivio (1303-1304)
  • Divina Commedia (?)

In latino sono invece:

  • De Vulgari Eloquentia (1304-1305)
  • Monarchia (?)
  • Quaestio de aqua et terra (1320?)
  • Egloghe
  • Epistole.

[17] Il “libello” (come lo chiama Dante) giovanile è composto da liriche alternate a brani in prosa che raccontano la storia d’amore di Dante per Beatrice e la morte di lei.

[18] Concetto questo già in parte presente in Guinizzelli: v. il sonetto Io voglio del ver la mia donna laudare e che D. esprimerà magistralmente nella canzone Donne che avete intelletto d’amore.

[19] In totale il corpus delle Rime conta 54 componimenti: 34 sonetti (di cui uno rinterzato), 15 canzoni (tra cui due stanze isolate, una sestina e una sestina doppia), cinque ballate. Ventisei componimenti sono ancora fonte di grande discussione circa l’attribuibilità.

L’autore non ne curò mai direttamente l’ordinamento e la struttura: la sequenza che noi leggiamo oggi è frutto di una ricostruzione critica.

[20] Nel cuore della stagione stilnovistica si situano il sonetto Guido, i’ vorrei, quello per Violetta, la ballata Per una ghirlandetta, il sonetto Sonar bracchetti: tutti facenti parte dell’unico amichevole clima della Scuola, tutti debitori in qualche modo della tradizione del plazer di marca provenzale e giullaresca. Al magistero di Cavalcanti e alle requisitorie antiguittoniane (prima nella Vita nuova, poi nel De vulgari eloquentia) subentra progressivamente il Guinizzelli: nei sonetti De li occhi de la mia donna e Ne le man vostre e nelle canzoni E’ m’incresce di me e Lo doloroso amor, che preparano la strada al ciclo delle rime dottrinali.

[21] Nel secondo trattato del Convivio l’autore evoca esplicitamente, l’incontro con questa donna «savia» che compare nella parte finale della Vita Nova (XXXV-XXXIX) e che presenta molte analogie con la donna gentile e «saggia» della canzone del secondo trattato, Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete. D. conclude il secondo trattato affermando che l’unica donna amata dopo Beatrice è quella che Pitagora chiama Filosofia.

[22]  Constatata l’impossibilità di una simbiosi fra le due sfere del sapere, Dante sembra avviarsi verso la netta separazione della filosofia umana, che comporta la felicità terrena, dal sapere teologico, fonte di felicità immortale.

[23] I contemporanei scambiarono per empietà epicurea codesta laicità.

[24] Sia essa Giovanna (Vanna), bella come la primavera e in se recante «li fiori e la verdura», o la gentile Mandetta, la tolosana, che Guido incontro durante il suo pellegrinaggio a S.  Jacopo, entrando «quietamente alla Dorada>>, o la bionda e rugiadosa pastorella vagheggiata e goduta su un luminoso sfondo boschivo.

[25] La stessa considerazione di Dante la ritroviamo in Petrarca che ne utilizza ampiamente i motivi poetici ed i materiali ed in un sonetto (Piangete, donne, et con voi pianga Amore in Canzoniere, XCII) ne commemora la morte. Pure il Boccaccio volle dedicare un omaggio alla canzone di Cino La dolce vista e ‘l bel guardo soave.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto VIII – Sintesi

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ARGOMENTO IN BREVE

Sempre nel quinto cerchio Flegias traghetta con la sua barca i poeti; Filippo Argenti in risposta alle sprezzanti parole di D. vorrebbe rovesciare la barca ma è respinto da Virgilio che si compiace per l’atteggiamento di Dante (vv. 1-63).

Flegias approda davanti alle mura di Dite ma i diavoli non vogliono farli entrare e li scherniscono (64-130).

*.*.*

L’azione si svolge dopo la mezzanotte dell’8 aprile 1300, nelle prime ore antelucane del 9 aprile, sabato santo.

Siamo nel cerchio V, costituito dalla palude Stigia.  Il Custode è Flegias.

Ma l’azione si svolge anche presso le mura della città di Dite che racchiudono la parte più bassa dell’Inferno, e si presentano come le tipiche fortificazioni medievali, con fossati difensivi e torri di guardia.

I dannati puniti in questo canto sono sempre gli iracondi e accidiosi (cfr. c. VII).

– Per la pena e contrappasso cfr. c. VII.

PERSONAGGI

Flegias. Personaggio mitologico figlio di Ares (Marte) e Crise (figlia di Almo, a sua volta figlio di Eolo), re della Tessaglia,  e padre di Issione e Coronide; aveva tentato di appiccare il fuoco al tempio di Apollo a Delfi per vendetta contro il dio che prima gli aveva sedotto la figlia Coronide (mamma di Asclepio, dio della medicina) nel momento in cui aveva seguito il padre in un viaggio nel Peloponneso, e poi aveva ucciso la stessa Coronide dopo che quest’ultima lo aveva tradito. Apollo aveva poi sprofondato Flegias nel Tartaro.

È trasformato da Dante in figura demoniaca e irosa, custode appunto degli iracondi, nocchiero della barca su cui carica i dannati per sprofondarli poi nella palude, e qui funge da traghettatore per Dante e Virgilio fino alla sponda opposta della palude Stigia.

Filippo Argenti. Figura oscura, forse si tratta di Filippo de’ Cavicciuli degli Adimari, fiorentino contemporaneo di Dante, politicamente a lui avverso essendo di parte nera.

Secondo alcuni commenti antichi, avrebbe in una qualche occasione schiaffeggiato pubblicamente Dante[1].

ELEMENTI PRINCIPALI

1) L’incontro con Filippo Argenti. A questo oscuro personaggio fiorentino è affidato il compito di rappresentare l’intera schiera degli iracondi, e dallo sdegnato comportamento dello stesso poeta nei suoi confronti possiamo intuire quanto Filippo Argenti fosse stato esemplare e vivace esempio di tale vizio.

La sua ira si manifesta in due immagini: l’istintivo gesto con cui cerca di rovesciare la barca su cui si trovano Dante e Virgilio, e il suo rabbioso sbranarsi tra le urla degli altri dannati che gli danno addosso.

Dante riconosce e maledice con violenza Filippo Argenti, per cui l’episodio acquista emotività nel richiamarsi ad un’esperienza autobiografica; ma lo stesso particolare e anche motivo di encomio da parte di Virgilio nei confronti di Dante, poiché questi ha così dato prova di saper da solo come comportarsi verso gli spiriti dannati.

2) La vivacità del canto. Si tratta di un canto particolarmente ricco di movimento e situazioni: prima l’apparizione da lontano delle mura della città di Dite, poi il sopraggiungere del demone Flegias e l’attraversamento dello Stige sulla sua barca, quindi l’incontro con Filippo Argenti, il giungere sotto le mura di Dite, la visione dei diavoli lì arroccati, il dialogo tra Virgilio e loro, la paura e l’esitazione di Dante per la difficoltà di procedere, e infine l’annuncio dell’imminente arrivo di qualcuno, un personaggio destinato a risolvere la situazione.

3) La Città di Dite. La città di Dite, cioè di Lucifero, oppone qui le sue mura al viaggio di Dante, ostacolo per ora insormontabile.

Finora i cerchi visitati ospitavano dannati che peccarono per incontinenza, la meno grave delle cattive inclinazioni; invece Dite ospita le colpe piu gravi e abbiette, quelle cui concorse anche la ragione.

Qui dunque si può quasi dire che cominci il vero Inferno, cioè il luogo che ospita i veri nemici di Dio, e per questo qui Dante incontra il più duro ostacolo a procedere.

Dite è rappresentata come una tipica citta-fortezza medievale, con le mura intercalate da torri di guardia, con segnali luminosi da una torre all’altra, con le difese e gli sbarramenti difensivi, con i soldati in armi sugli spalti, con la porta sbarrata.

4) I diavoli. Il primo diavolo che si incontra nel canto e Flegias, traghettatore dello Stige, che si ripropone con la funzione che era stata già di Caronte (cfr. c. III); la sua perfida impazienza è delusa e mortificata da Virgilio.

A lui seguono i diavoli di custodia sulle mura di Dite, che oppongono forte resistenza ai due pellegrini: prima questi demoni li minacciano, poi in tutta risposta alle parole di Virgilio, corrono a sbarrare la porta mentre prima avevano lasciato aperti tutti gli accessi.

Comincia così la «commedia» dei diavoli, cioè la partecipazione sempre più attiva e varia di questi personaggi all’azione dell’opera.

Non vi è dubbio che in questo caso rappresentano l’opposizione che le colpe più gravi muovono al peccatore sulla via della conversione, e che non la ragione umana (Virgilio) ma soltanto un aiuto del cielo può debellare

5) La fisicità di Dante. Da notare l’insistenza di Dante nell’osservare come la barca di Flegias senta il peso del suo corpo e affondi maggiormente nell’acqua: il suo peso, la sua consistenza fisica, e segno del suo essere vivo, della sua differenza dai dannati, e quindi dell’assoluta eccezionalità della sua condizione.

RIASSUNTO

1-30 Prima di raggiungere la torre e le mura della città di Dite[2], mentre ancora si trovano sulla riva opposta della palude Stigia, Dante e Virgilio vedono due fiammelle accese sulla cima della torre predetta e scorgono un terzo lume, piu lontano e fioco, rispondere a quel segnale.

Dante chiede che significa tutto ciò, e Virgilio gli consiglia di pazientare, che presto lo vedrà da solo, se le nebbie della palude non lo nasconderanno[3].

Veloce come una freccia, ecco apparire una barca guidata dal diavolo Flegias che, convinto di avere a che fare con un’anima dannata, urla con feroce soddisfazione; ma Virgilio lo ammonisce: non serve gridare questa volta, essi staranno con lui solo il tempo di attraversare la palude.

Flegias, deluso, reprime l’ira, mentre Virgilio sale sulla barca e vi fa entrare anche Dante: solo allora 1’imbarcazione si abbassa per il peso e taglia il pelo dell’acqua più a fondo di quanto è solita fare.

31-63 Mentre la barca è in mezzo alla palude, ecco pararsi all’improvviso un dannato, tutto imbrattato di fango, che apostrofa Dante.

Il poeta gli chiede di rimando chi egli sia, ed alla risposta evasiva di lui («Vedi che sono uno condannato al pianto») lo minaccia, smascherandolo.

Allora l’iroso si avventa sulla barca, ma Virgilio lo blocca e si complimenta con Dante per la sua prontezza di giudizio: quella fu un’anima arrogante che non ha lasciato traccia di bontà nel ricordo di sé, come molti che nel mondo ora si ritengono grandi personaggi, per quell’inutile orgoglio staranno qui come i porci nel fango.

– Dante vorrebbe vedere il castigo di quel dannato: presto sara soddisfatto, lo rassicura Virgilio.

E, infatti, ecco gli altri dannati avventarsi su Filippo Argenti, mentre il Fiorentino prende a mordersi con ira.

64-108 Lasciato Filippo Argenti, Dante e colpito da un suono lontano di gemiti.

Virgilio lo informa che si stanno avvicinando alla città di Dite e Dante ne vede già le torri rosse come ferro rovente per il fuoco eterno che brucia all’interno.

Giunti dentro il fossato che circonda la fortezza infernale, Dante nota che anche le mura sembrano di ferro; dopo un lungo giro attorno al fossato, Flegias fa scendere i due viaggiatori davanti all’ingresso di Dite.

Ed ecco una folla di diavoli mostrarsi sulle mura, chiedendo con stizza chi sia quel vivo che osa entrare nel regno dei morti.

Virgilio fa segno di voler parlare loro in disparte. I diavoli accettano, ma solo lui potrà passare, l’altro dovrà tornarsene indietro da solo.

A quelle parole Dante, preso da terrore, supplica Virgilio di non abbandonarlo e di tornare insieme indietro, dato che gli si proibisce il passo.

Ma Virgilio lo rassicura, nessuno può vietare ciò che è voluto da Dio, gli chiede di aspettare lì e di riprendere fiducia.

109-129 Virgilio si allontana, lasciando Dante pieno di dubbi e timori.

Dante non può sentire ciò che il maestro dice, ma vede che in breve i diavoli si ritirano dentro le mura e chiudono le porte di Dite.

Virgilio torna indietro a capo chino, triste e sgomento; ma rivolto a Dante, lo rassicura di nuovo: riusciranno ad aver1a vinta, la tracotanza di quei demoni non è nuova, già la usarono contro Cristo che forzò la porta esterna dell’Inferno, ora spalancata.

Da quella porta sta già scendendo un essere tale che riuscirà ad aprire loro la porta della città.


[1] Molti commentatori si sono domandati la ragione del violento sdegno dell’Alighieri, il quale, già tanto pietoso verso Paolo e Francesca e verso Ciacco, diventa, come vedremo, ad un tratto crudele e inesorabile con l’Argenti. Dino Compagni (Cron. III, 8) ci fa sapere che gli Adimari furono tra i piu accaniti Guelfi Neri, che, nei tumulti del 1304, dettero fuoco alla loggia di Or’ San Michele, onde «arsono tutte le case erano intorno a quel luogo, e i fondachi di Calimala e tutte le botteghe erano intorno a Mercato Vecchio fino in Mercato Nuovo, e le case de’ Cavalcanti… che si disse arsono più che millenovecento magioni». L’Anonimo fiorentino, nel suo Commento all’Inferno, ci fa a sua volta appunto sapere che Filippo Argenti diede una volta uno schiaffo a Dante; e Benvenuto da Imola che gli Adimari (e piu propriamente Boccaccio degli Adimari, forse fratello di Filippo Argenti) trassero profitto dall’esilio di Dante per vendicarsi di antiche offese, e non solo ottennero dal Comune di occupare i beni del Poeta, ma si opposero sempre al suo ritorno in patria. Dante infine ci lascia comprendere che la radice del suo sdegno contro l’Argenti sta nello smisurato orgoglio di lui, che gli rese impossibile di lasciare un buon ricordo di sé.

Anche nel Paradiso (XVI, 115 sgg.) egli fara pronunziare dal bisavolo Cacciaguida, a proposito di questa stessa famiglia, ferme parole di biasimo e di riprensione. Gli Adimari dovettero dunque essere nemici politici e forse personali di Dante, e la loro irosa superbia rendeva ancor più sdegnoso, e, per cosi dire, rabbioso, lo scherno del poeta.

[2] Divinità infera dei Latini  (Dis pater), equiparato, per derivazione etrusca dal mito greco, a Plutone. I Romani lo consideravano fglio di Saturno e di Opi e marito di Proserpina; il culto di Dite deve quindi considerarsi molto antico.

[3] Si tratta di segnali luminosi che ricordano i segnali che nel Medioevo si solevano fare di notte dai castelli  o dalle terre in cui avveniva qualche novità: le due piccole fiamme (perché due erano Dante e Virgilio) avvertono la città di Dite che i due poeti si avvicinano, e l’altra fiamma fa cenno che l’avviso è stato inteso.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto VII – Sintesi

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L’azione si svolge alla mezzanotte tra l’8 e il 9 aprile 1300, venerdì e sabato santo nel cerchio IV, affollato più che altrove di dannati.

Al bordo esterno sgorga la sorgente d’acqua che ribollendo si riversa nel cerchio successivo. Il Custode del cerchio è  Pluto.

Si passa poi al cerchio V nella palude stigia: è costituita da acqua putrida e scura, melmosa. Il Custode è Flegias.

I dannati  del cerchio IV sono gli avari e i prodighi: sono coloro che non seppero usare con misura ed equilibrio i beni materiali. Divisi in due schiere, sono soprattutto uomini di Chiesa.

I dannati  del cerchio V sono gli iracondi e accidiosi. Sono puniti insieme, poiché l’accidia[1] è considerata una forma, un livello particolarmente cupo e introverso dell’ira.

PENA E CONTRAPPASSO

Gli avari e i prodighi sono costretti a girare attorno in due schiere distinte e in direzioni opposte rotolando enormi macigni col petto; si scontrano eternamente in un punto scambiandosi aspri insulti e quindi tornando indietro.

La loro fatica è  vana come in vita avevano vanamente accumulato o sperperato ricchezze.

Gli iracondi sono immersi nella palude, e si sbranano a vicenda con rabbia. Essi in vita furono vinti dal fumo dell’ira, e percossero e dilaniarono gli altri; ora stanno nel fumoso fango dello Stige, e si percuotono e dilaniano tra di loro.

Gli accidiosi sono completamente sommersi sotto il fango e mormorano continuamente la loro colpa e la loro pena: sono così costretti ad ingoiare fango, di loro si vedono solo le bolle in superficie.

Essi non seppero usare il tempo della vita terrena, né seppero far uso della parola o di altre facoltà umane; ora sono immersi totalmente nel fango ed è loro proibita la visione dell’aria, per cui possono solo lamentarsi gorgogliando.

PERSONAGGI

Pluto. Dio della ricchezza, figlio di Giasone e di Demetra. Era nato a Creta. Figurava inizialmente nel seguito di Demetra e di Persefone, sotto le sembianze di un bel giovane oppure d’un fanciullo che porta un corno dell’abbondanza.

Più tardi, con lo sviluppo della ricchezza mobiliare, Pluto si distaccò dal gruppo di Demetra[2] e diventò la personificazione della ricchezza in genere.

A lui è consacrata la forma sotto la quale interviene nella commedia d’Aristofane. Pluto è rappresentato dai comici (e dalla saggezza popolare) come cieco, poiché fa visita indifferentemente ai buoni come ai cattivi.

Secondo Aristofane, Zeus stesso avrebbe accecato Pluto, per impedirgli di ricompensare le persone dabbene e costringerlo così a favorire i cattivi. Ma siamo più nel campo della simbologia che del mito (Es. Teog. 969 55.; Diod. Sic. 5,49; Inno om. a Dem. 486. Aristof. Plut. passim.,).

Dante né fa un demone, con la tecnica collaudata di insistere su particolari realistici o grotteschi, come la voce chioccia o le enfiate labbia.

ELEMENTI PRINCIPALI

1) I dannati del quarto cerchio. Tra i dannati di questo cerchio degli avari e prodighi, Dante non riconosce nessuno. Al di là della spiegazione dottrinaria di Virgilio (essi furono ciechi alla conoscenza, cosi ora sono irriconoscibili), l’autore non cita alcun personaggio perché la sua condanna coinvolge l’intero organismo ecclesiastico, reo di una delle colpe più gravi, a giudizio di Dante: l’avarizia.

La Chiesa, in questo canto e nell’opera tutta, si è quindi macchiata del peccato maggiore, proprio quello simboleggiato nel canto I dalla lupa, la fiera che più delle altre costringe Dante a retrocedere dalla strada della salvezza.

2) Il concetto di Fortuna. La colpa degli avari e dei prodighi, che non seppero avere un rapporto giusto con i beni naturali, è occasione per inserire la questione dottrinaria sul concetto di Fortuna, che è anche una pausa, un respiro più lungo nella narrazione.

Dante qui modifica la concezione diffusa nel Medioevo ed ereditata dal mondo classico, trasformando la dea capricciosa[3] in una intelligenza celeste, in uno strumento della Provvidenza divina.

Così la ruota della Fortuna che cambia le sorti degli uomini e dei popoli diventa una sfera, al pari delle sfere celesti, e la dea è una delle intelligenze motrici dell’universo, quella che presiede ai destini umani e il cui mutevole e rapido agire e voluto da Dio.

Gli uomini non la possono contrastare, perché sarebbe vano qualsiasi tentativo di opporsi al sommo Fattore.

Questo è il monito che Dante, attraverso le parole di Virgilio, lancia alla presunzione umana, e originale è la collocazione, filosofico-teologica, di un concetto cosi squisitamente terreno.

3) La struttura del canto. Si tratta del primo canto in cui la struttura letteraria non corrisponde a quella topografica e figurativa, per cui ogni canto e occupato da un solo cerchio infernale.

Il settimo canto accoglie infatti il quarto e il quinto cerchio, e nel passaggio dall’uno all’altro si inserisce una pausa, che diventerà tipica, di carattere dottrinario (appunto la disquisizione sulla Fortuna).

Da notare, inoltre, che nel medesimo cerchio sono punite due categorie di peccatori, unite dalla correlazione della colpa per contrasto (avari/prodighi – iracondi/accidiosi).

RIASSUNTO

I-I5 Alla vista dei due poeti, Pluto, il demone custode del cerchio quarto, grida parole blasfeme.

Subito Virgilio interviene e, rassicurato Dante, zittisce il feroce mostro: il viaggio di Dante e voluto da Dio, là dove l’arcangelo[4] Michele vendicò la superbia degli angeli ribelli[5].

Pluto si accoscia sconfitto, come fanno le vele quando si spezza l’albero della nave.

16-66 Dante e Virgilio scendono nel quarto cerchio: tanta è la folla delle anime che lì si assiepa, in una ridda di movimenti che fa pensare ai gorghi di Scilla e Cariddi.

Sono gli avari ed i prodighi: divisi in due schiere, fanno rotolare con il petto grossi

macigni, girando in senso opposto gli uni agli altri, cosi da scontrarsi in uno stesso punto; dove ciascuno, prima di allontanarsi, grida con rabbia all’altro: «Perché trattieni?» o «Perché getti via?». Poi riprendono l’eterno tragitto per scontrarsi nel punto opposto. Vedendo tra gli avari tante teste con la chierica, Dante vuole sapere se furono tutti uomini di Chiesa.

Virgilio risponde che tutti, dell’una e dell’altra schiera, furono spiritualmente ciechi, perché incapaci di tenere la giusta misura tra l’avarizia e la prodigalità; in particolare gli avari furono non solo chierici, ma anche papi e cardinali.

Dante non riesce a riconoscerne nessuno perché, così come in vita furono incapaci di discernere tra bene e male, ora sono impermeabili a ogni conoscenza.

Andranno perciò a cozzare perpetuamente gli uni contro gli altri: gli avari risorgeranno col pugno stretto, i prodighi col capo raso e in eterno sara loro precluso il Paradiso.

Virgilio conclude affermando quanto sia breve l’inganno dei beni affidati alla Fortuna, quelle ricchezze per cui gli uomini si affannano tanto, perché neppure tutto l’oro che si trova sotto il cielo della luna potrebbe ora appagare queste anime dannate.

67-96 Dante chiede allora a Virgilio di spiegargli che cosa sia quella Fortuna che dispone così delle ricchezze terrene.

Virgilio volentieri lo illumina[6]: Dio, che ha creato i cieli e le intelligenze che presiedono ai loro movimenti, ha ugualmente assegnato al mondo una dispensiera di beni, che di volta in volta distribuisce all’uno o all’altro popolo, al di là delle previsioni e delle difese dell’uomo, secondo il suo occulto giudizio.

Le intelligenze motrici (i nove cori angelici),  secondo il disegno divino, illuminano ugualmente  con la loro luce intellettuale (che riflette la luce di Dio) ogni cielo materiale (ogni sfera celeste), così la Fortuna persegue il suo compito[7] senza che gli uomini possano contrastarla: i suoi cambiamenti sono rapidissimi e seguono appunto il volere divino.

Gli uomini la maledicono ingiustamente[8], ma lei non se ne cura e continua, lieta, a girare la sua sfera.

97-129 I due poeti attraversano il luogo all’altezza di una fonte che ribolle, riversando le sue acque in un fossato.

Dante e Virgilio ne seguono le sponde fino alla palude che si forma nel quinto cerchio: è la palude Stigia[9], dalle acque limacciose e scure, dove Dante vede immersi gli iracondi che si picchiano e mordono a vicenda.

Virgilio glieli indica e dice pure a Dante che, sotto il fango, stanno le anime degli accidiosi che, sospirando, fanno gorgogliare la superficie.

Essi mormorano eternamente la loro colpa, ricordando il tempo beato della loro esistenza quando furono tristi, e ora si rattristano nella melma. I due poeti girano intorno alla palude Stigia, fino a raggiungere i piedi di una torre.


[1] Accidia (gr. akêdía, da a priv. e kêdos, cura). Difetto di operosità nel fare il bene; negligenza: L’a. è uno dei sette peccati capitali.  Nella morale cattolica è il fastidio o tedio del ben fare e la negligenza per ciò che riguarda le cose di Dio e dell’anima.

[2] Demetra – «Madre Terra» o «Madre dell’orzo e del grano»; nata da Crono e da Rea, fu una delle più antiche divinità del mondo greco, personificante la forza generatrice della Terra. D. fu nell’Attica una delle più grandi divinità dell’agricoltura e venerata in Eleusi dove si celebravano i misteri eleusini.

[3] Fortuna Nella mitologia romana, dea del caso e della buona sorte. Fin dai tempi più antichi, il suo culto era diffuso in tutto l’impero romano. Dapprima fu considerata una dea della fertilità o della prosperità, ma poi la si invocò soltanto per essere favoriti dalla sorte, consultandola spesso sul futuro mediante il suo oracolo nei templi di Anzio e Preneste (oggi Palestrina). Tema artistico molto trattato, è solitamente raffigurata con un timone in una mano, per indicare la sua funzione di guida dei destini del mondo, e una cornucopia, simbolo dell’abbondanza, nell’altra. Con il tempo venne identificata con la dea greca Tyche (metà Potenza e metà Provvidenza).

 [4] Arcàngelo (gr. archángelos, da árchein, essere a capo e ángelos, angelo). Angelo di un ordine superiore. Gli a. sono nominati nel Nuovo Testamento e nella letteratura apocalittica giudaica. La tradizione cristiana vi annovera Michele, Raffaele, Gabriele e talora anche Uriele.

[5] Michèle Arcangelo, santo. Nella Bibbia, nome di un principe degli angeli. Nel Nuovo Testamento è menzionato nell’Apocalisse, dove a capo dei suoi angeli conduce la lotta contro le potenze del male e le sconfigge. Una tarda leggenda vide san M. nell’angelo apparso a san Gregorio Magno durante la peste del 590. – Festa l’8 maggio e il 29 settembre.

[6] Questo tema sarà ripreso con grande ricchezza di particolari nel canto XVI del Paradiso.

[7] Da D. è quindi assimilata, in ossequio alla tradizione cristiana, al concetto di Provvidenza: egli sottrae il mondo e la storia al caso e li razionalizza nel momento in cui riconosce l’insufficienza della ragione umana a comprendere i disegni della Fortuna.

[8] La dovrebbero invece lodare perché sta facendo ciò per cui è stata creata: in questo passo Dante ha certamente tenuto presente gli insegnamenti del filosofo Severino Boezio.

[9] Stige, «Odioso». Torrente dell’Arcadia, che nasceva dalla pendice nordorientale del monte Aroánia (od. Chelmos), precipitando in un’oscura e selvaggia gola rocciosa profonda oltre 200 m, e confluendo poi attraverso questa nel Crati, presso Nonacri. Nella mitologia greca, fiume situato all’ingresso degli Inferi su cui l’anziano barcaiolo Caronte traghettava le anime dei morti. Il fiume era personificato da una figlia del titano Oceano, e Stige era garante dei sacri giuramenti che vincolavano gli dei. Gli antichi greci ritenevano che le sue acque fossero venefiche e associavano il fiume con il mondo sotterraneo dai tempi di Omero. Achille vi fu immerso dalla madre Teti che voleva renderlo invulnerabile. Nell’inferno dantesco lo S. è appunto la palude che circonda la città di Dite.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto V – Sintesi

Francesca de Rimini Paolo Malatesta
Francesca de Rimini Paolo Malatesta (Photo credit: Wikipedia)

Il canto si apre con le ultime ore dell’8 aprile 1300, venerdì santo.

I poeti si trovano nel cerchio II.

È più stretto del primo, e qui inizia l’Inferno vero e proprio.

Il luogo è tenebroso, d’ogni luce muto, battuto dai venti di un’incessante bufera.

Il Custode del cerchio è: Minosse.

I dannati puniti sono i lussuriosi, coloro che cercarono la soddisfazione dei sensi contro ogni regola e misura, tanto da sottomettere la ragione all’istinto.

La pena ed il contrappasso:  sono tormentati da un vento furioso, da una tempesta incessante che li sospinge rovinosamente per tutto il girone.

Come in vita furono trascinati dal turbine della passione, ora li trascina la bufera eterna.

La loro ragione, quando peccarono, fu ottenebrata; cosi ora sono immersi nel buio infernale.

Le anime di Paolo Malatesta[1] e Francesca da Polenta[2] sono le protagoniste del canto: sono unite nella pena come lo furono nel peccato[3].

I personaggi principali del canto sono:

Minosse

Figlio di Zeus e di Europa, mitico re di Creta, celebre per avere dato ai Cretesi le prime costituzioni e per la severità con cui amministrava la giustizia.

Ci viene presentato già da Virgilio e da Omero come giudice dell’oltretomba, insieme al fratello Radamanto.

In Dante, è custode e giudice di tutto l’Inferno: le anime dei dannati si confessano dinanzi a lui, ed egli, valutatone il tipo di peccato, le destina al cerchio che compete loro, avvolgendo la coda intorno al suo corpo tante volte quanti sono i gradi che l’anima deve scendere. È il rappresentante della giustizia divina nell’Inferno.

Semiramide.

Leggendaria regina degli Assiri che Secondo la tradizione greca, riportata da Diodoro Siculo, nacque dalla dea Derceto (divinità siriaca) e, dopo varie vicende, sposò il mitico Nino, fondatore dell’impero assiro, alla morte del quale tenne il regno per quarantadue anni, ampliandone i territori e fondando la stessa Babilonia, che ornò degli splendidi giardini pensili.

I costumi di questa regina erano talmente dissoluti che si innamorò del figlio che poi la uccise.

Didone

Figlia di Belo, re di  Sidone, e regina di Cartagine. Rimasta vedova di Sicheo, giurò di rimanere fedele alla memoria del marito, ma si innamorò di Enea e, quando questi la abbandonò, per la disperazione si uccise.

Cleopatra[4]

Figlia di Tolomeo Aulete e regina d’Egitto. Amante prima di Cesare, poi di Antonio, di cui causò la sconfitta nella battaglia di Azio (31 a.C.).

Si uccise per non cadere nelle mani di Ottaviano.

Elena

Moglie di Menelao, una delle principali eroine dell’Iliade e dei poemi ciclici.

Nata da un uovo deposto da Leda, che si era congiunta con Zeus, fu rapita da Teseo e da lui portata in Attica; fu liberata dai fratelli gemelli Castore e Polluce e ricondotta a Sparta, ove fu chiesta in sposa da tutti gli eroi della Grecia.

Tindaro (marito di Leda e padre di Castore e Clitennestra) fece giurare a questi ultimi che si sarebbero uniti contro chiunque avesse voluto contendere la donna allo sposo da lei prescelto.

Menelao fu l’eroe eletto come marito, ma mentre egli era lontano, Paride, figlio di Priamo, re di Troia, ospitato a Sparta, rapì Elena ed il tesoro reale.

Al suo ritorno Menelao ingiunse ai suoi antichi rivali di mantenere il loro giuramento: ebbe così inizio la guerra di Troia.

Elena rimase sempre per i Greci la personificazione della bellezza.

Achille

Leggendario eroe tessalico, re dei Mirmidoni, figlio di Teti e di Peleo.

Per renderlo invulnerabile la madre lo immerse fanciullo nello Stige tenendolo sospeso per un tallone che restò vulnerabile.

Fu allevato da ottimi maestri, Fenice e Chirone, che gli insegnarono a tirar d’arco, a curare le ferite, a combattere valorosamente. Dopo che Calcante ebbe predetto la sua morte sotto le mura di Troia, Teti lo nascose presso il re di Sciro; ma i Greci, consci del suo valore, lo fecero cercare da Ulisse e lo ritrovarono.

Achille non esitò ad abbandonare il suo rifugio, benché innamorato di Deidamia, figlia del suo ospite, e combatté con ardore fino a quando Agamennone non gli sottrasse senza ragione la diletta schiava Briseide: si ritirò allora nella sua tenda e lasciò che i Troiani riportassero numerose vittorie sui Greci.

Nel tentativo di arrestare l’offensiva troiana scese in campo l’amico prediletto di Achille, Patroclo, munito delle armi dell’eroe, ma fu ucciso da Ettore.

Per vendicare la sua morte, Achille riprese la lotta, rivestito dello scudo meraviglioso che Teti gli aveva fatto foggiare e decorare da Efesto, uccise Ettore in duello e ne trascinò il corpo sotto le mura di Troia, abbandonandosi in tal modo, nell’ebbrezza della vittoria, a un’empia ferocia che Apollo non gli perdonò.

Commosso dalle preghiere del vecchio Priamo, Achille rese poi il corpo di Ettore, ma cadde a sua volta, trafitto al tallone da una freccia scoccata da Paride e guidata da Apollo.

Paride

Eroe troiano figlio di Priamo e di Ecuba, famoso per la sua bellezza, detto anche Alessandro.

Poiché gli indovini avevano predetto che egli avrebbe causato la rovina di Troia, alla sua nascita fu esposto sull’Ida, dove fu allattato da un’orsa e infine raccolto da un pastore che lo allevò con i suoi figli.

Scelto da Zeus come giudice tra Era, Atena e Afrodite, che si disputavano la mela d’oro destinata da Eris[5] alla più bella, assegnò la vittoria ad Afrodite (che gli aveva promesso in cambio l’amore di Elena), attirandosi così l’odio implacabile di Era e di Atena.

In seguito ritornò a Troia, dove fu riconosciuto dai genitori e accolto con gioia.

Recatosi quindi a Sparta e ricevuto con grandi onori da Menelao, ne convinse, come detto più sopra, la moglie Elena a fuggire con lui, provocando così la guerra contro Troia. Durante l’assedio, con l’aiuto di Apollo uccise Achille. A sua volta ferito da Filottete, Paride morì sull’Ida.

Tristano

È un personaggio tratto da una leggenda medievale[6], forse di origine celtica, presente in numerose letterature occidentali. Tristano, nipote di re Marco di Cornovaglia, si innnamora di Isotta la Bionda, sorella di Moroldo d’Irlanda (ucciso da Tristano in un duello) e richiesta in sposa da re Marco.

ELEMENTI PRINCIPALI DEL CANTO

1) La figura di Francesca da Rimini.

L’incontro con Francesca, unita indissolubilmente a Paolo, è uno degli episodi centrali non solo del canto, ma dell’Inferno tutto.

Tra i due, Dante dà voce alla donna, e crea un personaggio ricco di dolorosi sentimenti.

Francesca non riferisce i particolari della sua triste vicenda, vi accenna solo per ricondurli alla dimensione di struggente dolore, senza rimedio, di cui è protagonista.

La sua delicatezza, i modi gentili, l’istinto che, insieme a Paolo, la spinge quasi con trepidante desiderio al colloquio con D., sono elementi che costituiscono necessariamente il personaggio, la sua <<umanità>>, non scevra da colpa, la <<cortesia>> che è propria degli innamorati, ma che non giustifica il loro peccato.

La figura di Francesca è da collegare  con due altre figure femminili: Pia dei Tolomei  (Pg. V)[7] e Piccarda Donati[8] (Pd. III) che D. pone in apertura delle due successive cantiche[9].

2) 22La pietà di Dante.

Al racconto di Francesca Dante, preso da forte commozione, cade a terra svenuto.

La pietà che lo investe è da un lato, emozione dell’uomo che partecipa della sventura e non regge alle lacrime dei due amanti, dall’altro, frutto della perplessità e della riflessione problematica dell’uomo di fede che non può perdonare la colpa di Paolo e Francesca, e tuttavia conosce bene i sentimenti di Amore e le debolezze che in nome dell’amore trascinano al peccato.

In sintesi: la pietà di Dante nasce dall’incontro tra un’anima vinta dal peccato e un’altra anima, la propria, che vuole vincere il peccato e le condizioni che lo determinano.

3) La forza di Amore e i dettami dello Stil Novo.

Tre volte Francesca nomina la parola amore, in inizio di tre terzine successive, in cui sintetizza la sua vicenda e qualifica in termini generali gli effetti di tale sentimento:

  • Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende (amore che si accende subito in un cuore nobile), verso ispirato ad uno dei manifesto della poesia stilnovista – Al cor gentile rempaira sempre amore (al cuore nobile amore torna sempre come alla sua propria dimora[10]) – di Guido Guinizzelli (v. 100);
  • Amor, ch’a nullo amato amar perdona  (amore che non permette a nessuna persona amata di non riamare): altro concetto questo fondamentale per la poesia stilnovistica (v. 103);
  • Amor condusse noi ad una morte (v. 106): non è solo la morte fisica ma anche la morte dell’anima e da qui nasce lo sgomento di Dante.

Così ella denuncia la forza del sentimento che trascina e non permette resistenza, e nello stesso tempo trasferisce su un piano generale la propria vicenda personale.

Questi versi sono giustamente famosi, anche perché, come detto, condensano i principi della dottrina d’amore esposta nei poeti dello Stil Novo.

4) L’occasione della dannazione di Paolo e Francesca.

La saldatura fra la vicenda drammatica dei due amanti e lo sfondo della cultura letteraria romanza si compie nei versi in cui Francesca espone la prima radice (Cfr. v. 124), l’occasione in cui si è manifestato l’amore che l’ha dannata, visto che Dante, sembra tanto desideroso di conoscerla (ma s’a conoscer la prima radice/del nostro amor tu hai cotanto affetto, vv. 124-125).

L’occasione è la lettura di un grande romanzo medievale in prosa francese, il Lancelot che si suole intitolare anche Lancelot propre, “Lancelot propriamente detto”, per distinguerlo entro una compilazione narrativa molto più vasta, detta Lancelot-Graal o anche Vulgata, al cui centro è la vicenda dell’amore di Lancillotto e Ginevra, la moglie di re Artù.

L’episodio che i due amanti stanno leggendo è quello del primo bacio.

Galeotto (Galehaut), potentissimo re delle Lontane Isole, ha mosso guerra a re Artù, ma vi pone fine perché affascinato dalle imprese di Lancillotto, cui si lega con un’amicizia intensa e velatamente morbosa che lo porterà alla morte.

Subito dopo la fine della guerra, egli procura all’amico l’incontro con la regina, nel quale Lancillotto giunge a rivelarle il suo amore, e la regina lo bacia.

Paolo e Francesca, narra quest’ultima, si sono identificati nella lettura (per più fiate li occhi ci sospinse/ quella lettura, e scolorocci il viso, vv 130-131), tanto che ora, raccontando, lei inverte le parti, come se fosse stato Lancillotto a baciare la regina: ma è stato Paolo a baciare lei tutto tremante, assumendo la parte di quell’amante esemplare che fa vibrare i cuori dei suoi lettori (cotanto amante, v. 134).

Perciò il libro, conclude Francesca, ha fatto per loro la parte che Galeotto ha fatto con Lancillotto e Ginevra, portandoli a manifestare l’amore reciproco e a baciarsi.

Già la seconda parte del Lancelot sviluppava la storia portando sempre più in primo piano il senso del peccato[11]: e la funzione assolta dal libro al posto di Galeotto con i due amanti è stata quella di portarli alla dannazione.

Così giudica Dante chiaramente, ma altrettanto chiaramente aderisce con la sua compassione (pietade, v 140) al loro dramma, espresso alla fine sinteticamente nel pianto che è la sola espressione di Paolo.

I due sentimenti si collocano su due piani diversi, senza che la compassione metta in dubbio il giudizio, ne il giudizio possa sminuire la compassione; ma Dante sceglie di esprimere il suo dramma, di persona che ha pur condiviso una concezione dell’amore che deve ora condannare, nel modo più semplice e al tempo drastico e poeticamente efficace, facendo sopraffare il suo personaggio dalla piena dei sentimenti fino allo svenimento (come corpo morto cade) con cui il canto si conclude.

5) La figura di Minosse. Minosse è la seconda figura, derivata dalla tradizione classica e trasformata in demone custode dell’intero regno infernale, che Dante ci rappresenta. a metà tra uomo e bestia, ringhioso con la coda che implacabile condanna.

Anche con lui Virgilio usa la formula che esprime la volontà divina per superarne l’ostacolo a proseguire:<<Non impedir lo suo fatal andare: vuolsi così colà dove si puote>>.

RIASSUNTO

Dante e Virgilio scendono nel secondo cerchio: alla sua guardia è posto Minosse, orribile e ringhiante, con il compito di stabilire il luogo della pena eterna destinato a ciascun dannato che al suo cospetto, confessa i propri peccati.

Il  giudice infernale ammonisce Dante a non fidarsi dell’ampiezza della strada che si accinge a percorrere e neppure della guida di Virgilio, ma quest’ultimo lo zittisce con parole di sapore rituale che indicano come il viaggio di D. sia volontà di Dio (vv. 1-24).

Nel secondo cerchio, buio  e mugghiante come il mare in tempesta, percorso da un vento assordante e violento, sono puniti i lussuriosi, che hanno sottomesso la ragione alle insane passioni d’amore; essi sono trascinati incessantemente dalla bufera infernale senza speranza di tregua.

Quando gli spiriti giungono di fronte alla “ruina”, cioè allo scoscendimento della roccia prodotto dal terremoto che seguì alla morte di Gesù Cristo[12], gridano, piangono, si lamentano e bestemmiano la virtù divina.

Dante capisce di trovarsi dinnanzi alle anime dei lussuriosi, peccatori carnali che sottomisero la ragione alle loro voglie: secondo la legge del contrappasso essi, senza alcuna speranza di sostare, sono trascinati di qua e di là dalla bufera, così come gli stornelli sono portati dalle ali nella fredda stagione invernale; e come le gru, volando in fila, vanno emettendo i loro versi lamentosi, così molte ombre, trascinate dal vento verso i due poeti, emettono i loro lamenti.

Virgilio, su richiesta di D., elenca alcuni di questi lussuriosi, protagonisti della storia e della letteratura, morti in modo violento: Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena, Achille[13],  Paride[14], Tristano[15] e mille altre anime vittime della passione d’amore.

Dante udendo nominare tanti famosi cavalieri e donne antiche è preso da pietà e sta per svenire. (v. 25-72)

Dante scorge due anime che procedono unite e sembrano più leggere al movimento vorticoso della bufera:  egli domanda al maestro di potersi intrattenere con loro, esprimendo poi direttamente tale desiderio ai due infelici amanti, che accorrono  prontamente come colombe trascinate dall’istinto (v. 73-87).

È  Francesca che parla al poeta, rammentando la sua città  natale, Ravenna, ed accennando (con formule tratte dallo stilnovo) all’innamoramento per  Paolo seguito dalla tragica morte per mano del marito Gianciotto, fratello di Paolo, che secondo Francesca è punito nella Caina, la zona dell’inferno destinata ai traditori dei parenti (vv. 88-107).

Dante, profondamente turbato, chiede alla donna di narrare in che modo nacque e si manifestò la passione d’amore tra i due peccatori;  mentre Francesca ricorda la lettura della storia di Lancillotto che sospinse i due amanti l’uno tra le braccia dell’altra, Paolo piange disperato ed il poeta sovrastato da questa perdizione senza scampo, perde i sensi (108-142).


[1] Fu capitano del popolo a Firenze tra il 1282 ed il 1283.

[2] Figlia di Guido da Polenta il vecchio, signore di Ravenna, aveva sposato tra il 1275 e il 1282 il fratello di Paolo, Gian Ciotto Malatesta, signore di Rimini.

[3] Morirono uccisi insieme tra il 1283 ed il 1286.

[4] 69-30 a.C.

[5] Nella mitologia greca è la dea della discordia.

[6] La trama è in sostanza la seguente: il giovane principe di Leonois, Tristano, nipote di Marco re di Cornovaglia (che è deturpato nella sua figura umana da mostruose orecchie equine) abbatte il terribile Morholt d’Irlanda, un mostro che affligge l’Irlanda stessa, cui la Cornovaglia deve annualmente il tributo di giovani vite; ma nella terribile lotta resta ferito da una spada avvelenata: e la ferita è incurabile.

Tristano lascia allora la corte dello zio; e da una nave senza vela, senza remi, senza timone, è portato sulle coste d’Irlanda; ed è curato e guarito dalla sorella del vinto Moroldo, esperta di arti magiche e mediche. Torna presso lo zio, che lo incarica di andare a chiedere per lui in isposa la fanciulla cui appartiene il capello biondo che una rondinella ha lasciato cadere ai suoi piedi.

La fanciulla è la sorella di Moroldo, figlia del re d’Irlanda, colei che ha guarito Tristano, Isotta la bionda. Dopo varie vicende, Tristano ottiene di scortare sino in Cornovaglia la dolce fanciulla, e al momento dell’imbarco la regina gli confida un meraviglioso filtro, che Isotta dovrà bere col suo sposo re Marco, che assicurerà per l’eternità un amore intenso e profondo fra i due coniugi.

Ma per un errore dell’ancella Brengania, Isotta beve durante la navigazione il filtro con Tristano. e i due giovani ardono l’un per l’altro di una irresistibile passione.

Re Marco, nonostante le precauzioni dei due amanti, li sorprende un giorno e li scaccia; e i due si riducono a vivere solitari nella foresta di Morrois.

Vi capita un giorno il re, durante una caccia; e coglie i due amanti nel sonno, ma divisi da una spada, collocata fra loro. Commosso da questo che gli appare un segno di innocenza, Marco riconduce con se Isotta la bionda e bandisce dalla corte Tristano, che va nell’Armorica, dove sposa Isotta dalle bianche mani, figlia del duca; la quale, nei tratti e nel nome, gli richiama la dolce sua amica perduta.

Ma il ricordo dell’amica opprime, invincibile, l’eroe, che si sente sempre più distaccato e remoto dalla sposa. Resta un giorno gravemente ferito e nessuno sa curarlo.

Occorre l’intervento di Isotta la bionda, che sola conosce i segreti dell’arte medica.

Una nave è inviata a cercarla. Se Isotta vorrà venire al letto dell’amico infermo, la nave, al ritorno, alzerà la vela bianca; vela nera, invece, se Isotta si rifiuterà. Passano i giorni e Tristano languisce; e solo per la dolce speranza di un ritorno della sua donna trattiene la vita che gli sfugge.

Finalmente la nave è in vista e alza vela bianca. Ma Isotta dalle bianche mani, spinta dalla gelosia che la tormenta, annuncia che la vela è nera; Tristano, che ha ancora solo un soffio di vita, disperato lo lascia sfuggire e spira.

Così Isotta la bionda trova, allo sbarco, la città immersa nel lutto; e accorre al letto del morto amico e cade morta di dolore al suo fianco.

[7] Pia della famiglia dei Tolomei di Siena, sarebbe andata sposa a Nello dei Pannocchieschi, podestà di Volterra e di Lucca, e poi sarebbe stata uccisa in circostanze misteriose: forse dallo stesso marito che la punì per l’infedeltà o che voleva risposarsi con Margherita degli Aldobrandeschi, a suo tempo sposa del conte Umberto di Santa Fiora.

[8] Sorella di Forese Donati, amico di Dante (posto nel Purgatorio Canto XXIV), e di Corso Donati, il più irriducibile nemico dell’Alighieri. Entrata nel convento delle Clarisse ne era stata tratta fuori con la violenza dal fratello Corso che l’aveva costretta a sposare uno dei più facinorosi dei suoi compagni, Rossellino. Piccarda morì poco dopo il rapimento: secondo una leggenda ottenne da Dio il dono di mantenere comunque la verginità.

[9] La ritroviamo nel Canto V del Purgatorio.

[10] Foco d’amore in gentil cor s’apprende/come vertute in petra preziosa.

[11] Che nell’ultimo romanzo del ciclo, la Morte di Artù, è presentato come la causa della rovina del mondo arturiano.

[12] In Inf. XII, 37-45 (cerchio VII dei violenti) si spiega che si tratta di una frana dell’orlo dei vari cerchi il cui ricordo fa sentire alle anime dannate più esasperata la loro condanna.

[13] Fu ucciso dal fratello di Polissena.

[14] Fu ucciso da Filottete

[15] Morì, come già detto, con Isotta a causa del loro amore infelice.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto IV – Sintesi

Dante  risvegliato da un tuono, si ritrova nel I cerchio[1] o Limbo[2] ove stan­no i bambini non battezzati e coloro che non peccarono ma che morirono senza la fede (lo stesso Virgilio).

In questo cerchio i dannati non soffrono tormenti mate­riali ma soltanto quelli spirituali.

Il regno della dannazione come Dante lo ha concepito, si stende verso il centro della terra, sotto Gerusalemme, in nove cerchi concentrici che vanno restringendosi dall’alto in basso, a forma di imbuto, e in essi i dannati sono distribuiti in modo che le pene, in relazione alle colpe, sono tanto più gravi tanto più si scende.

Questa progressione di gravità corrisponde alla teoria aristotelica – esposta da Virgilio nel canto XI dell’Inferno – sulla quale è basata la struttura morale dell’Inferno dantesco che consiste in una triplice ripartizione dei peccati, per incontinen­za, violenza o matta bestialità, malizia.

Il primo genere di peccati è meno grave perché la passione durante la loro commissione ha soverchiato la ragione; il secondo ed il terzo tipo di peccati sono più gravi perché c’è il concorso della volontà e della ragione.

I peccatori del primo tipo si ritrovano nel 2°,3°,4°,5°ce­rchio; al secondo tipo di peccato appartengono i dannati del 7° cerchio, mentre dei peccatori de 3° tipo si parlerà nell’8° e 9° cerchio.

A parte vanno considerati appunto i peccatori del 1° e del 6° cerchio.

I peccatori del 1° cerchio  hanno come pena il desiderio eternamente insoddisfatto di vedere Dio.

D. apprende come si salvarono i credenti nel Cristo venturo: i Patriarchi dell’Antico Testamento, furono trasportati in paradiso da Cristo, quando discese agli inferi dopo la Passione (vv. 1-66).

D. si trova poi di fronte un nobile castello al centro del cerchio (Elisio), dove vivono i grandi dell’antichità: il poeta  ha la possibilità di incontrare Omero, Orazio, Ovidio, Lucano, i grandi eroi di Troia e di Roma, i grandi filosofi e scienziati (Platone, Socrate, Averroe) che sono raccolti in un luogo luminoso. Attraversato il limbo, D. giunge in un luogo totalmente oscuro (vv. 67-151).

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto III – Sintesi

Sistina, Giudizio Universale di Michelangelo – Immagine dettaglio Caronte.

COMMENTO

Il canto si apre alla sera dell’8 aprile 1300, venerdì santo; i due poeti dopo aver attraversato la porta dell’Inferno giungono nell’Antinferno o vestibolo: uno spazio cupo, su cui incombe un’aria “senza stelle e senza tempo tinta”; tale spazio confina con le rive del fiume Acheronte dalle acque nere; il custode del luogo è Caronte; i dannati che i due poeti incontrano sono gli ignavi, cioè coloro che non fecero né scelsero mai, per viltà, né il bene né il male; essi corrono nudi dietro un’insegna e sono punti da vespe e mosconi. Il sangue che riga il loro volto, mischiato alle lacrime, viene raccolto a terra da vermi ripugnanti, cui fa cibo.

Il contrappasso consiste in questo: in vita queste anime non seppero sceglie­re, evitarono gli stimoli di ogni genere, furono avari di passione (sangue e lacrime); ora sono invece costretti ad inseguire un vessillo (a fare una scelta) e sono appunto pungolati da insetti fastidiosi.

I personaggi del canto sono:

1) Colui che fece il gran rifiuto. Probabilmente Pietro da Morrone, eremita; diventando papa con il nome di Celestino V[1] nel 1294, abdicò dopo pochi mesi, aprendo la strada al pontificato di Bonifacio VIII, principale responsabile, secondo Dante, della rovina di Firenze e sua personale. Secondo altri potrebbe trattarsi di Ponzio Pilato, o di Esaù[2], o di Giano della Bella[3], tutti personaggi che vennero meno a precise responsa­bilità pubbliche.

2) Caronte: personaggio mitologi­co[4], demonizzato da Dante: è il traghettatore infernale, colui che trasporta le anime dannate dalla riva del vestibolo all’Inferno vero e proprio attraverso l’Acheronte. La sua figura si ispira a quella virgiliana del IV canto dell’Eneide.

ELEMENTI PRINCIPALI DEL CANTO

1) Tema estetico-morale: la descrizione del luogo e della pena dei dannati – cupo, senza tempo e risonante di grida e lamenti l’uno, ripugnante e carica d’angoscia l’altra – si collega immediatamente al giudizio morale di Dante che Dante ha degli ignavi: disprezzati perché non si schierarono con nessuno, uomini vili agli occhi del poeta, confinati in quel luogo scuro ed opaco perché dimenticati sia da Dio, sia dai diavoli, non meritano nemmeno l’attenzione dei visitatori.

Dante non ne cita per nome nemmeno uno, e Virgilio conclude la sua spiegazione con uno sdegnoso “non ragioniam di loro, ma guarda e passa“.

2) Caronte. la figura di Caronte è da Dante ricalcata sulle orme di quella virgiliana; il nocchiero infernale è un vecchio canuto, bianco per antico pelo, con gli occhi di fuoco, che avanza sulle acque dell’Acheronte minacciando le anime che viene a raccogliere.

Caronte è la prima delle figure mitologiche <<reinventate>> da Dante quali demoni e custodi dei luoghi infernali, con una tecnica che, partendo dagli esempi classici, le trasfigura con particolari esteriori e con caratteristiche morali del tutto originali.

Nel disegno generale dell’opera Caronte corrisponde a Catone, custode del Purgatorio, e a S. Bernardo, intermediario nell’Empire­o, tra D. e Dio (cfr. Pd. XXXI e ss.), sia nella rappresentazione simbolica sia in quella fisica.

3) Tema figurativo-teologico. La Porta dell’Inferno reca un’iscri­zione terribile nella sua inesorabile condanna: <<Attraverso di me si entra nel dolore della città infernale tra le anime perdute per sempre alla Grazia. La Giustizia  divina mi ha creato, quel Dio uno che crea per l’eternità, e io duro in eterno. Lasciate perciò ogni speranza di salvezza, voi che entrate>>. Sono parole oscure, perché scritte in caratteri neri e perché cariche di minacce tremende che incutono paura e sgomento.

Poste ex abrupto all’inizio del canto, creano uno stacco con l’atmosfera lirica del precedente passo, e la ripresa di una forte suggestione drammatica.

4) la formula virgiliana. A Caronte, restio a trasportare i due visitatori, Virgilio risponde con una formula che ripeterà di fronte a Minosse e a Pluto: “Vuolsi così colà dove si puote/ ciò che si vuole”.

Il viaggio di Dante è voluto da Dio e verrà portato a termine, qualunque siano gli ostacoli ed il volere altrui.

Alla volontà divina si uniforma così la volontà dei dannati e di qualunque altro personaggio infernale, come evidenzia anche il comportamento di coloro che, giunti sulle rive dell’Acheronte, corrono incontro alla loro dannazione.

La formula virgiliana sintetizza così, perentoriamente, il dominio della legge divina, e mette a tacere qualunque opposizione.

5) Le similitudini.

I) vv. 28-30: Il rumore di mani battute, mescolato alle alte grida e ai suoni disumani dei dannati, provoca un tumulto simile a quello della sabbia sollevata a mulinello dalla furia del turbine.

II) vv. 112-116. Le anime radunate sulla riva dell’Acheronte rispondono alla fretta di Caronte gettandosi una dietro l’altra sulla barca, come fanno le foglie[5] cadendo d’autunno fino a che i rami sono completamente spogli.

6) La profezia di Caronte. Nelle parole che Caronte rivolge a D. si legge il primo accenno profetico al destino del poeta. Egli infatti seguirà la via delle anime destinate alla salvezza, quelle che si raccolgono alla foce del Tevere per essere trasportate dal vasello snelletto e leggero (cfr. Pg. II, 41), la lieve imbarcazione guidata dall’angelo nocchiero fino all’isola del Purgatorio.

RIASSUNTO

I poeti sono davanti alle porte dell’Inferno su cui sono scritte le parole di eterna condanna. D. è preso da sgomento nel leggerle; Virgilio lo esorta ad abbandonare qualsiasi esitazione e ad armarsi di coraggio. Quindi, presolo per mano, lo introduce in quel regno sconosciuto ai vivi (vv. 1-21).

Un gran tumulto di grida, pianti e lamenti disumani, imprecazioni e gesti di disperazione colpisce subito Dante, muovendolo alle lacrime (vv. 22-24).

Preso dall’orrore, egli chiede  al suo maestro chi è quella gente che par nel suo duol sì vinta: si tratta degli ignavi, coloro che vissero senza infamia e senza lode (vv. 25-36).

Insieme agli angeli rimasti neutrali nello scontro tra Dio e Lucifero, sono cacciati sia dal Paradiso, sia dall’Inferno, relegati nell’Antinferno, in una condizione così spregevole, da invidiare ogni altra sorte, persino quella dei dannati (vv. 37-48).

Il mondo non vuole ricordarli, i cieli li ignorano: quindi Virgilio stesso invita Dante a non prenderli in considerazione (vv. 49-51).

Dante li vede correre in gran moltitudine dietro un’insegna, nudi e punti da vespe e mosconi; il loro sangue mescolato alle lacrime, viene raccolto a terra da vermi schifosi. Dante ne riconosce uno tra tutti: colui che fece il gran rifiuto (vv. 52-69).

Guardando più avanti, D. scorge altri dannati sulla riva di un fiume e chiede a Virgilio chi siano quelle anime, che sembrano così pronte a essere traghettate (vv. 70-75).

Ma il maestro gli consiglia di attendere: quando saranno sulla riva dell’Acheronte, vedrà da sé (vv. 76-81).

Raggiunto il fiume, ecco venire, remando sulle acque un vecchio minaccioso: è Caronte, che urla in direzione delle anime l’immedia­ta partenza per il regno delle tenebre (vv. 82-87).

Alla vista di D. ancora in vita, gli grida di allontanarsi di lì, perché altri lo traghetterà; Virgilio lo acqueta, dicendogli che quel viaggio è voluto da Dio (vv. 88-96).

Alle crude minacce di Caronte, le anime dei dannati si lasciano andare alla paura e alla disperazione; bestemmiando si radunano tutte alla riva, e ad una ad una si gettano nella barca, spronate dal remo del nocchiero infernale (vv. 97-111).

Quindi vengono trasportate sull’altra sponda, mentre nuovi dannati si ammassano su questa riva. Virgilio rincuora D.: quelle anime morte nel peccato, convergono sull’Acheronte da ogni luogo, sospinte dalla giustizia divina che le rende timorose e al tempo stesso desiderose della condanna; se dunque Caronte non l’ha voluto nella sua barca, le sue parole sono una involontaria profezia di salvezza (vv. 112-129).

A questo punto un terremoto accompagnato da un fulmine accecante, fa tremare la terra così violentemente che D. ne è terrorizzato e, persi i sensi, cade a terra, come l’uomo quando è vinto dal sonno; è il momento di varcare il fiume infernale (vv. 130-136).


[1] Divenne monaco benedettino all’età di 17 anni. Preferendo la vita solitaria, si ritirò sulle montagne abruzzesi, dove attirò parecchi fedeli che formarono il primo nucleo del suo ordine eremitico, poi soprannominato dei celestini, un ramo dei benedettini che in Francia venne abolito per ordine di papa Pio VI, ma in Italia sopravvisse fino all’inizio del XIX secolo. Celestino viveva come un eremita quando fu eletto papa il 5 luglio 1294, favorito dalla sua fama di santità; fu una scelta di compromesso dopo due anni di inutili votazioni per i cardinali che dovevano scegliere il successore di Niccolò IV. Ingenuo e inesperto dell’amministrazione, Celestino permise a Carlo II di Napoli di manovrare la politica della Chiesa, e, consapevole della propria inadeguatezza a governare, si dimise volontariamente dall’incarico il 13 dicembre dello stesso anno. Per evitare lo scisma di quanti erano favorevoli a Celestino, Bonifacio VIII, suo successore, lo imprigionò nel castello di Fumone fino alla morte. Venne canonizzato nel 1313.

[2] Esaù (In ebraico, “peloso”), nel libro della Genesi dell’Antico Testamento, figlio di Isacco e Rebecca e fratello maggiore di Giacobbe. In quanto figlio maggiore, Esaù aveva diritto di primogenitura su Giacobbe, ma la vendette al fratello per un piatto di minestra di lenticchie o di stufato (Genesi 25:21-34). Nonostante ciò, tentò di ottenere la benedizione patriarcale dell’ormai morente Isacco, ma Giacobbe lo ingannò ed Esaù ottenne solo una benedizione secondaria; quindi, furioso, decise di uccidere il fratello, che fuggì. Al suo ritorno, i due fratelli si riconciliarono. La figura di Esaù in questo episodio rappresenta il simbolo della nazione di Edom, come indicato in Genesi 36:8.

[3] Giano della Bella (Seconda metà del secolo XIII), politico fiorentino di famiglia aristocratica. Nella lotta politica all’interno del Comune di Firenze, si schierò con la fazione popolare. Ottenuta la carica pubblica di “priore” fu, secondo le cronache del tempo, tra gli estensori della riforma istituzionale detta Ordinamenti di giustizia (1293), che escluse i magnati dalle cariche governative. Poco più tardi, però, la classe dei magnati strinse un’alleanza con il cosiddetto “popolo grasso” e Giano, trovatosi privo di sostegno, fu costretto a lasciare la città; nel 1295 si ritirò in esilio in Francia, dove morì.

[4] Nella mitologia greca, Caronte era figlio della Notte e di Erebo, quest’ultimo personificazione delle tenebre sotterranee attraversate dalle anime dei defunti per raggiungere la dimora di Ade, dio dell’oltretomba. Caronte era il vecchio barcaiolo che trasportava le anime dei morti sullo Stige fino ai cancelli degli Inferi (anche presso gli Etruschi). Accettava sulla sua barca soltanto le anime di coloro che avevano ricevuto la sepoltura e che gli pagavano un obolo consistente in una moneta che veniva posta sotto la lingua del cadavere al momento del rito funebre. Gli altri erano condannati ad attendere un secolo al di là dello Stige.

[5] La foglia nella antichità poteva indicare una cosa di nessun valore (ad es. in Apuleio, Metamorfosi, 1,8; 2,23), o una situazione di grande precarietà (come in Palladio, Historia Lausiaca, 27,2, dove coloro che sono senza governo cadono come le foglie). Non si può a questo proposito trascurare l’ampio e famoso topos per cui l’uomo è come la foglia: se infatti la sua prima attestazione (Omero, Iliade, 6,145 ss.) confronta semplicemente il cadere delle foglie con l’avvicendarsi delle generazioni e se la maggior parte delle riprese successive (tra cui Virgilio, Eneide, 6,309) accostano due moltitudini, in altri passi l’uomo è paragonato alle foglie per la sua natura caduca ed effimera (in particolare in Mimnermo, fr. 2 G.-P., in un carme elegiaco attribuito a Simonide [85 Bergk4], in una parodia aristofanea [Uccelli, 685 ss.] e nella citazione omerica di Marco Aurelio, Pensieri, 10,34 [cf. G. Cortassa, Il filosofo, i libri, la memoria, Torino 1989, 10-14]).

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto II – Sintesi

Gustave Doré's illustration to Dante's Inferno...
Gustave Doré’s illustration to Dante’s Inferno. Plate VII: Canto II: “Beatrice am I, who do bid thee go” (Longfellow’s translation) (Photo credit: Wikipedia)

Dopo il proemio generale all’opera, costituito dal primo canto, con l’annuncio e l’impostazione narrativa del viaggio, questo canto costituisce una sorta di secondo proemio, riservato a spiegare il significato particolare e personale del viaggio di Dante.

Si tratta di un’esperienza eccezionale, che preannuncia pertanto un epilogo altrettanto eccezionale: egli sarà il terzo uomo a penetrare i misteri dell’oltretomba, dopo personalità tanto alte quali Enea e S. Paolo; a determinare infatti il suo cammino di salvezza si è mossa la volontà divina, attraverso l’intercessione della Vergine e l’intervento diretto di Santa Lucia[1] e Beatrice, anime somme tra i beati.

In questo canto prevalgono ancora la filosofia e la teologia ma alcuni spunti come ad es. l’apparire di Beatrice ci rivelano che D. ha già compiuto un gran passo verso la chiara espressione della propria umanità.

Il canto è strutturato sostanzialmente e schematicamente su quattro momenti:

1) Invocazione alle muse: anche se limitata ad un’unica terzina (vv. 7-9), è da rilevare che D. segue i canoni del tradizionale poema epico; sarà da tener presente in parallelo al proemio delle altre due cantiche, la progressione di impegno che D. profonde a seconda dell’elevazione della materia[2].

2) Esitazione e timore di D. ad intraprendere il viaggio nell’ol­tretomba.

3) Virgilio rivela la volontà divina che ispira il viaggio.

4) I due poeti intraprendono il cammino nella selva oscura.

Il canto si apre al tramonto[3] del l’8 aprile 1300, venerdì santo, al limitare della selva oscura, in cui D. e V. si inoltrano alla fine del canto.

Il personaggio di questo canto è certamente Beatrice, giovane donna fiorentina (1266-1290), figlia di Folco Portinari[4], moglie di Simone de Bardi.

È la donna amata da D. che a lei dedicò le rime della Vita Nuova[5]; è un personaggio storico che assunse per il poeta il sommo valore della Grazia e della Teologia.

Scende la sera[6] quindi e Dante si prepara ad affrontare, solo tra i viventi, come una guerra[7] il faticoso[8] viaggio nel regno degli Inferi (vv. 1-6); per sostenersi nell’alta impresa di poeta e di pellegrino, egli invoca le Muse e fa appello al proprio ingegno alla propria memoria (vv. 7-9) [9].

Quindi D. espone a Virgilio i dubbi ed i timori che lo assalgono e in particolare gli chiede di considerare il suo valore di uomo prima di avviarlo all’alto compito (v. 9-12): prima di lui, si recò in quei luoghi soltanto Enea[10] – come afferma V. – vivo e materialmente[11], per una volontà divina che è agevole comprendere se si pensa che fu il futuro padre di Roma, destinata ad essere la sede dell’Impe­ro e della Chiesa: egli doveva scendere agli inferi per vincere poi nel Lazio e porre le basi per Roma e per la dignità pontificia (vv. 13-24); in seguito andò nel regno immortale[12] S. Paolo[13] che salì al terzo cielo per trarne conforto nel suo apostola­to[14] (vv. 25-30).

Ben più degni personaggi, dunque – e giustificati da fini religiosi e politici altissimi – di quanto non sia D. stesso; perciò egli si sgomenta di non avere meriti e forze suffi­cienti per affrontare l’arduo viaggio, pensa di essere un folle[15] se ad esso si abbandona, ed è tentato di rinunciarvi così come colui che non vuole più ciò che prima voleva per il sopraggiungere di nuove considerazioni (vv. 31-42).

Virgilio allora riscuote D., facendogli notare e nello stesso tempo rimprove­randolo con dolcezza ma anche severità per il fatto che il suo animo è indeboli­to dalla poca coscienza delle proprie forze e dalla viltà; ciò impedisce spesso l’uomo nell’operare il bene così come una bestia si spaventa ed indietreggia per un ombra (vv. 43-48).

Per rincuorar­lo e per sciogliere ogni dubbio V. gli dirà la ragione della sua venuta e gli racconterà ciò che avvenne la prima volta che egli provò dolore per Dante (vv. 49-51).

 Mentre era nel Limbo, tra quelli che stanno sospesi, si presentò a Virgilio e lo chiamò una donna <<beata e bella>> tanto che V. non poté fare a meno di chiederle di comandare quel che desiderava (vv. 52-54).

I suoi occhi lucevano più delle stelle[16] ed ella cominciò dolcemen­te e chiaramente (<<soave e piana[17]>>) e con voce angelica a lodarlo affermando che la fama della sua anima cortese dura e durerà nei secoli, per poi aggiungere che colui che l’amò di un amore disinteressato[18] era smarrito nella selva deserta e così impedito nel passo da volgersi indietro, tanto che ella temeva che lo smarrimento fosse arrivato a tal punto da vanificare ogni intervento (vv. 55-66).

Ella prega dunque V. di aiutare D., con la saggezza e l’arte per cui andava famoso, rivelando di essere Beatrice, scesa dall’Empireo in virtù di Amore (o della carità) che la fa parlare (vv. 67-72); quando tornerà in Cielo dal creatore Beatrice promette di lodare Virgilio[19] ed infine tace (vv. 73-75).

Pronto ad obbedirle e felice per essere stato scelto quale strumento del volere divino, Virgilio dopo averla lodata come l’unica che permette agli uomini di superare le cose della terra[20], si dimostra disponibilissimo ad esaudirla in fretta, anche se le chiede come mai non abbia temuto di scendere dall’Empi­reo, dove desidera ardentemente ritornare, nell’In­ferno (vv. 76-84).

Dal momento che V. vuol conoscere più a fondo la verità Beatrice gli spiega brevemente come solo le cose che possono fare male devono essere temute, e come, essendo lei beata (<<fatta da Dio>>), non avrebbe potuto essere toccata né dalle fiamme, né dalla miseria dei dannati (vv. 85-93).

Inoltre, una “Donna gentil”[21] che si doleva così tanto della situazione di D. decise di spezzare il giudizio di Dio, affidò la salvezza di D. a Santa Lucia[22], e questa, nemica di ogni crudeltà, si mosse per chiedere a Beatrice, vera lode di Dio (che si trovava accanto a Rachele[23]), di soccorre­re il suo amico poeta, che tanto l’aveva amata e che per lei si era elevato dalla mediocrità spirituale ed artistica, perché il male lo stava travolgendo in quel punto del fiume che è superato dalla potenza superiore del mare. (vv. 94-114).

Beatrice aggiunge che le parole di Santa Lucia l’hanno resa il più sollecita possibile ed è per esse che ella ha lasciato il Paradiso per recarsi da Virgilio; e successivamente si commuove volgendo altrove i suoi occhi pieni di lacrime, cosa che rende a sua volta, Virgilio ancora più sollecito (vv. 115-117).

Terminato il racconto intorno all’incontro con Beatrice, Virgilio sprona D.[24] ad abbandonare ogni titubanza ed ogni viltà, dal momento che, a prova che il suo viaggio è voluto da Dio, tre donne sante (Vergine, Beatrice, S. Lucia) lo proteggono su nei cieli e le stesse parole del poeta mantovano sono così incoraggianti (vv. 118-126).

Come i fiori chiusi dal gelo si drizzano e si riaprono ai primi raggi del sole[25], così D. si rianima (dalla <<stanca virtude>>), prende coraggio e, benedicen­do Beatrice (come <<pietosa>>) e Virgilio (come <<cortese>>), si conferma nella decisione di intraprende­re il cammino; quindi Dante moralmen­te confortato, riprende il suo cammino insieme a V.[26] ed i due poeti, legati da <<un sol volere>> si addentra­no nella selva, per una via ardua e selvaggia, che conduce alla porta dell’Inferno (vv. 127-142).


[1] Martire siracusana (Siracusa 283 ca. – 303 ca.). Secondo notizie incerte – dato il carattere leggendario dei testi che narrano la sua vita – si tratterebbe di una giovane di Siracusa martirizzata il 13 dicembre, data fissata per la sua memoria, di un anno imprecisato, comunque durante il mandato di Diocleziano. Il suo culto e le relative espressioni folcloriche hanno conosciuto una straordinaria diffusione (soprattutto nei paesi dell’Europa settentrionale) probabilmente a motivo dell’interpretazione etimologica del nome di Lucia. Ella sarebbe cioè la “santa della luce”, che, accecatasi per sfuggire a un suo pretendente, diffonderebbe dal giorno della sua festa – secondo il calendario giuliano il giorno più corto dell’anno – lo splendore dei suoi occhi sulle notti del lungo inverno. Perciò Lucia viene invocata come protettrice della vista.

[2] Nel Purgatorio D. enuncia l’indicazione dell’argomen­to (vv. 1-6; proposi­zione) ed invoca le Muse e in particolare a Calliope (<<dalla bella voce>> in quanto D. deve descrivere un regno di  mitezze serene e di dolci speranze) perché accompagnino il suo canto con quel suono con cui vinsero le figlie di Pierio (le Pieridi, nove giovani che rivaleggiarono con le muse e nel canto e furono da esse sconfitte e tramutate in gazze) (vv. 7-12). Nel Paradiso (1-36), dichiarato l’argomento del suo canto, D. invoca Apollo: se il dio della poesia lo aiuterà nel suo compito, egli potrà sperare nella corona d’alloro, il cui solo desiderio sarà al nume tanto più gradito quanto più raro è sulla terra, per colpa e vergogna dei desideri umani.

[3] Col morire del giorno D. si avvia verso l’Inferno, dove l’anima è morta; col sorgere del giorno invece inizia il suo viaggio nel Purgatorio, il luogo della speranza dove l’anima risorge a Grazia; nel Paradiso, dove l’anima è pienamente beata, salirà quando il sole sfolgora in tutto il suo fulgore.

[4] Secondo quanto ci riferisce il figlio di Dante Pietro nel suo commento ed il Boccaccio nella Vita di Dante.

[5] Si tratta della prima opera importante di Dante, fu scritta poco dopo la morte di Beatrice ed è composta di canzoni e sonetti legati da commenti in prosa entro un esile intreccio narrativo: la storia dell’amore di Dante per Beatrice, la premonizione della sua morte avuta in un sogno, la morte di Beatrice e la risoluzione finale del poeta a scrivere un’opera che dicesse di lei “quello che mai non fue detto d’alcuna“. La Vita nuova mostra la chiara influenza della poesia d’amore dei trovatori provenzali e rappresenta probabilmente l’opera più importante del dolce stil novo fiorentino, che superò la tradizione provenzale sublimando l’amore del poeta non solo in termini di elevato idealismo, ma anche in senso mistico-religioso.

[6] Nei primi sei versi (protasi del proemio) del canto D. ci propone l’immagine lirica del mondo pacificamente addormentato nella notte, su cui risalta la sua veglia, essendo egli in procinto di affrontare i grandi pericoli del viaggio tra le anime infernali. Si tratta di un topos letterario, ereditato direttamente da Virgilio (Aen. IV, 522-532: il poeta mantovano contrappone la tranquillità della notte alla inquietudine della regina Didone) e che dopo D. (che mette in rilievo la sua solitudine ma anche la lotta tra corpo ed anima: v. 4-6) ritornerà in tanti altri autori.

[7] Per liberarsi dalle passioni.

[8] Per la durezza del cammino e per la pietà, cioè per la vista del male morale che potrebbe distogliere D. dal giudizio morale e quindi trasformarsi in un’indulgenza che potrebbe rivelarsi una pericolosa nemica.

[9] È forse l’unico caso in tutta la letteratura quello di un poeta che invoca il suo ingegno e memoria, ma non è questa presunzione, piuttosto consapevolezza dell’eccezionalità del viaggio, del fatto che esso è voluto da Dio.

[10] D. non ricorda gli altri viaggi pagani come quello di Ercole e di Teseo oppure quelli Cristiani di S. Patrizio, S. Brandano, Tungdalo, perché solo il viaggio di Enea ha importanza dal punto di vista politico, così come ha importanza quello di S. Paolo dal punto di vista religioso.

[11] Il parente di Silvio, il figlio che Enea ebbe da Lavinia.

[12] Non nell’Inferno ma nel Paradiso.

[13] Il vaso di elezione, ricettacolo privilegiato della grazia:  Atti degli Ap. IX, 15.

[14] Fu rapito come egli stesso ci attesta (nella Seconda Lettera ai Corinzi, XII, 2-4) con il corpo o senza (egli non lo sa con precisione) per essere trasportato in Paradiso, per trovare incitamento e conforto al fine di rafferma­re i cristiani in quella fede fuori dalla quale è impossi­bile la salvazione dell’ani­ma.

[15] Qui si introduce uno dei temi fondamentali dell’opera: l’uomo per essere veramente tale deve elevarsi moralmente ed intellettualmente, ma deve essere consapevole del fatto che può avanzare solo fino al punto che Dio permette, se non vuol cadere nel peccato dei peccati, quello di Lucifero e di Adamo. Il tema troverà poi la sua maggiore esposizione nell’episodio di Ulisse: bisogna elevarsi ma bisogna allo stesso tempo essere umili se non si vuole perire; S. Bernardo (Pd. XXXII) dirà alla fine del poema che per potere penetrare Dio occorre la grazia: chi pensasse di poterlo fare, muovendosi con le sue sole forze, arretrerebbe credendo di avanzare.

[16] Immagine questa cara agli stilnovisti: a Cavalcanti, al Guinizelli e allo stesso D. delle Rime.

[17] Termine usato in un sonetto di D. ed in un altro del Cavalcanti.

[18] È questo l’amore stilnovistico: un amore che tende a “spogliarsi” della passione e a divenire puro slancio dell’anima verso il bene, cioè amore-virtù. Beatrice nel poema impersona sì la Teologia, ma è anche e sempre questo Amore, che spinge a conquista­re la propria superiore umanità.

[19] Questa promessa secondo i critici contiene un’arcana promessa.

 [20] Beatrice, piena di virtù, rappresenta la sublimazione della natura umana, cosicché soltanto per essa gli uomini vincono d’eccellenza le creature contenute nel cielo della luna (secondo il sistema tolemaico, seguito da D., la terra è al centro dell’univer­so, e, intorno ad essa, si aggirano i nove cieli, fra i quali il primo e più vicino alla terra è quello della Luna), ovvero – secondo altri – soltanto per essa gli uomini si elevano al di sopra delle cose terrene.

[21] La Vergine Maria che simboleggia la grazia preveniente (cioè la Grazia che previene il desiderio) o la misericordia o la carità e che per una questione di riverenza non viene mai nominata nell’Inferno.

[22] Secondo alcuni è simbolo della grazia illuminante o della speranza o ancora della giustizia perché nel Purgatorio Lucia è messa in relazione con l’aquila che trasporta D. dall’Anti­purgato­rio al Purgatorio vero e proprio; e poiché l’aquila, come appren­diamo dal canto XVIII del Paradiso è messa a sua volta in relazione con la giustizia (Spiriti giudicanti), ne consegue che Lucia può significare questa virtù.

[23] Figlia di Labano e moglie di Giacobbe e simbolo della vita contemplativa, mentre Lia, sua sorella, simboleggia la vita attiva.

[24] Forse non comprendendo che il poeta è soltanto, a sua volta, commosso e stupito per il racconto.

[25] È questa forse una delle immagini più delicate e soavi di tutto il poema.

[26] Che viene definito <<duca>> rispetto al cammino, <<segno­re>> rispetto al comando, <<maestro>> rispetto alla scienza.

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