Introduzione al Purgatorio

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L’idea di purgatorio è piuttosto recente nella storia del pensiero occidentale.

Infatti il mondo antico aveva immaginato un regno dei morti in cui i rei, relegati nel Tartaro, fossero distinti dai suicidi o dalle anime dei beati che, nei Campi Elisi, attendevano di reincarnarsi in una nuova vita, mentre le anime di coloro che non avessero avuto esequie, si raccoglievano nel vestibolo.

Il VI libro dell’Eneide virgiliana ci offre un quadro esauriente dell’oltremondo pagano.

L’idea di un focum purgatorium compare nei primi secoli dell’era cristiana: il filosofo Beda il Venerabile (672-735) per primo immagina un luogo di purgazione.

Il concetto si definisce dopo il XII secolo, grazie ai contributi di san Bernardo di Chiaravalle, Pier Lombardo (Sentenze, 1155-1157), papa Innocenzo III, Tommaso di Chobhan (Somma dei confessori, 1215 ca), il monaco cistercense H (Purgatorio di san Patrizio, XII sec.), Guglielmo d’Alvernia (1180-1249).

Nel XIII secolo grandi teologi come sant’Alberto Magno, san Tommaso d’Aquino, san Bonaventura da Bagnoregio sanciscono la credenza di un luogo dove le anime, non più vagabonde, possano purificarsi dei peccati e ascendere ai cieli perfettamente riconciliate con Dio.

Il Concilio di Lione del 1274 ne costituisce la registrazione ufficiale della Chiesa, mentre proprio il giubileo del 1300, indetto da papa Bonifacio VIII, diffonde presso tutta la comunità cristiana la conoscenza del valore dei suffragi.

Storicamente possiamo collegare la nascita dell’idea di purgatorio, come nota lo studioso Jacques Le Goff (La nascita del Purgatorio, Torino, 1982), all’affermazione della borghesia come classe sociale intermedia fra i potenti (chierici e cavalieri) e la massa dei contadini e della plebe: essa, infatti, introduce nella mentalità occidentale una nuova prospettiva che sfuma il divario fra nobili e plebe, mediando fra coloro che alla ricchezza assommano il potere e quanti si vedano negate entrambi.

Dante non pone il Purgatorio sotto terra come aveva fatto Virgilio ma lo descrive all’aria aperta, certamente per creare anche paesisti­camente la differenza con l’Inferno.

Immagina quindi un isola nell’oceano della sfera australe e su questa isola un monte altissimo (simmetrico alla voragine dell’Inferno) con la punta smussata.

La caduta di Lucifero ha infatti causato il ritrarsi delle terre che sono sbucate nell’emisfero australe, generando il monte dell’espiazione che sorge circondato dal mare.

Il purgatorio finirà con il giudizio universale, quando il mondo terreno, scomparendo, non genererà più peccatori.

Il monte è circondato da una spiaggia che corrisponde al   vestibolo infernale.

Dalle foci del Tevere l’Angelo nocchiero trasporta le anime che sono destinate all’espiazione e alla redenzione sino a detta spiaggia che, insieme alla prima parte del monte, costituisce l’Anti­purgatorio (sotto la sorveglianza di Catone Uticense, simbolo del desiderio umano di libertà dal peccato) dove stanno:

a)     coloro che si pentirono quando non avevano più la possibilità di continuare a peccare[1] e pertanto devono attendere un tempo più o meno lungo per essere ammessi ad espiare (invenzione dantesca);

b)    gli scomunicati;

c)    i principi giusti, ma negligenti nelle cure religiose.

La seconda parte del monte divisa in sette cornici (per ogni vizio capitale o peccato mortale) costituisce il vero e proprio Purgato­rio a cui si accede attraverso la porta del Purgatorio, custodita dall’Angelo confessore. Egli apre una pesante porta con due chiavi, secondo un rito che configura la confessione: tutto l’itinerario di Dante costellato infatti di riti, preghiere, gesti di espiazione che sottolineano i momenti più importanti della liturgia cristiana e il procedimento spirituale che conduce alla coscienza di sé.

Come i dannati sono divisi nelle tre categorie degli incontinenti, violenti e fraudolenti, così i peccati degli espianti sono originati da tre cause fondamentali, che corrispondono (vv. Pg XVII) alla mancanza di amore verso il prossimo (vizi di superbia[2] nella prima cornice, di invidia[3] nella seconda, iracondia[4] nella terza), alla mancanza di amore verso Dio (accidia[5] nella quarta cornice), al troppo amore per i beni terreni (avari e prodighi[6] nella quinta cornice, golosi[7] nella sesta, lussuriosi[8] nella settima).

Ogni cornice è custodita da uno o più angeli: essi impersonano la pace (XVII), la misericordia (XVII), la sollecitudine (XVIII-XIX), la giustizia (XIX-XX-XXI-XXII), l’astinenza (XXII-XXIII-XIV), la castità (XXV-XXVI-XVII), la carità (XXVII).

Ognuno angelo cancella una delle sette P, incise sulla fronte di Dante dall’angelo guardiano della porta del purgatorio.

Nell’ambito di ogni cornice, uno o più personaggi incontrano Dante e discorrono con lui.

Fra i molti troviamo un papa, Adriano V, e due re, Ugo Capeto e Manfredi. Ma ci sono maestri di poesia, il Guinizelli e Arnaldo Daniello; amici e poeti, da Casella a Bonaggiunta, da Belacqua a Forese Donati.

Ovunque Dante raccoglie preghiere, notizie, o profezie: ma per una terra distaccata, e a un tempo presente come ineliminabile oggetto di passioni, di riflessioni, di speranze.

Gli espianti, a differenza dei dannati che restano fissati per l’eternità al luogo in cui devono pagare la loro colpa, percorrono tutte le cornici purgatoriali, fermandosi in ciascuna a seconda dell’intensità delle colpe.

L’espiazione implica, oltre alla pena fisica che risponde alla legge del contrappasso, anche momenti di riflessione e di pentimento: perciò le anime sentono voci o vedono scene che ricordano episodi di virtù premiata o di colpa punita.

In particolare in ogni cornice sono offerti con diverse modalità (tramite recitazione e grida e canti, o tramite sculture,  visioni) esempi di virtù e vizi.

In cima al monte, in una pianura è situato il paradiso terre­stre, perfettamen­te antipode di Gerusalemme[9].

Il paradiso terrestre,  è una foresta spessa e viva: corrisponde all’Eden biblico.

Qui vissero Adamo ed Eva prima del peccato originale; qui sarebbero vissuti gli uomini nelle generazioni e nel tempo, se non fosse stato consumato il peccato originale.

Qui si svolge una grande processione allegorica, e qui Beatrice scende, rimprovera Dante, e infine lo conforta e conduce con sé.

Qui, dopo che si è allontanata l’ultima visione drammatica, quella della Chiesa schiava del re di Francia, Dante, già purificato dal fiume Lete, può essere immerso da Matelda nel fiume della virtuosa ricordanza, l’Eunoè; e qui trovarsi, alla fine, “puro e disposto a salire alle stelle”.

Guide di Dante nel Purgatorio sono: Virgilio e, dalla quinta cornice, Stazio, ma il primo dilegua all’apparire di Beatrice, sul Paradiso terrestre. Cosi la ragione umana cede alla Verità rivelata.

Il viaggio attraverso il P. dura tre giorni: dal 10 aprile 1300, notte inoltrata, al 13 aprile mercoledì.

*.*.*.*

Il Purgatorio si distingue dall’Inferno anche per come i peccati, non valutati solo astrattamente, vengono considerati: nel secondo la distinzione tra di essi è capillare e si rifà a testi aristo­te­lici e giuridici; nel primo D. si rifà ai testi della Chiesa, seppure filtrati dalla dottrina tomistica; i dannati scontano infatti specifiche responsabilità (<<attuali>>) di cui non si sono pentiti.

Le anime purganti invece hanno cancellato con il pentimento e l’assoluzione il loro peccato (che quindi non necessita di tante descrizioni) e scontano qui soltanto la loro inclinazione al peccato.

Mentre il dannato sconta poi nell’inferno la sua colpa più grave, i penitenti espiano  nelle varie cornici tutte le loro impurità.

Il Purgatorio è ancora il regno di D., dove il poeta sa di dover tornare; mentre le anime dell’Inferno sono troppo basse per lui e quelle del Paradiso troppo alte.

Nel Purgatorio, in altre parole, Dante è tra i suoi pari, vede sé stesso, peccatore avviato alla salvezza.

Salvezza che è una conquista personale, un superamento faticoso del peccato che abbisogna di tempo, del tempo umano.

Ecco perché c’è nel Purgatorio non l’eternità delle altre due cantiche ma il recupero della dimensione temporale: gli espianti oscillano cioè tra il rimorso delle colpe passate e la certezza della salvezza; vivono di speranza che non è riservata ai dannati, né per opposte ragioni ai beati: quindi c’è sicuramente meno drammaticità rispetto all’Infer­no e maggiore abbandono al sogno, alle visioni, agli smemoramenti.

Il poeta recupera nel P. anche il paesaggio terrestre, il ricordo della sua giovinezza in Firenze, degli amici, di Beatri­ce.

I suoi sentimenti nei confronti dei purganti (che sono meno numerosi dei dannati) sono soltanto di dolore e reverenza, addirittura talvolta non parla del loro peccato (ad es. di Casella nel II canto o di Sordello nel IV), o non lo considera tale (ad es. Stazio), oppure se ne dichiara partecipe (ad es. con Forese nei canti XXII e XXIV); le anime stesse sono mansuete perché sono state perdonate da Dio ed hanno a loro volta perdona­to i fratelli.

Quanto alla lingua la cifra stilistica del Purgatorio è una “medietà” che, senza implicare uniformità, accosta il linguaggio a quello d’uso quotidiano: in tal modo evidenzia la misura, il senso del limite, l’autocoscienza illuminata che sono fondamentali per un vero rinnovamento nelle anime espianti. Così, anche se non mancano spunti di registro comico o termini” forti” (assai più frequenti nell’Inferno) come il «bordello» italiano del Canto VI o la «femmina balba» del Canto XIX o la «puttana sciolta» del XXXII, per lo più le espressioni propendono per una misura vagamente impregnata di elegia o di nostalgia.

Solo in taluni punti di eccezionale solennità il registro elevato compare a sottolineare un’ardita metafora astronomica (Canto II) o a proporre quei “neologismi danteschi” che appariranno frequenti in Paradiso.


 [1] In Pg XI 89-90 Oderisi da Gubbio dice:<< Di tal superbia qui si paga il fio: e ancor non sarei qui, se non fosse che, possendo peccare, mi volsi a Dio>>; v. anche in Pg XXIII 79-84 quanto afferma Forese Donati.

[2] I superbi avanzano lentamente gravati da enormi e pesanti massi.

[3] Gli invidiosi  recano il cilicio e hanno gli occhi cuciti.

[4] Gi iracondi sono avvolti da un denso e acre fumo poiché il loro amore peccò per troppo di vigore.

[5] Gli accidiosi sono colpevoli di amore difettoso per mancanza di vigore e sono quindi  costretti a correre affannosamente in atto di ansiosa sollecitudine.

[6] Stanno bocconi per terra, in dimensione animale, con le mani e i piedi legati.

[7] I golosi sono ridotti ad estrema magrezza dall’insaziata fame e dall’insaziata sete.

[8]  Sono avvolti dalle fiamme, siano essi lussuriosi carnali, siano essi sodomiti.

[9] Il Purgatorio sarebbe così diviso in dieci zone: spiag­gia, Antipurgatorio, sette gironi e Paradiso terrestre; così come l’Inferno (vestibolo + nove cerchi) e il Paradiso (dieci cieli).

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto II – Sintesi

Gustave Doré's illustration to Dante's Inferno...
Gustave Doré’s illustration to Dante’s Inferno. Plate VII: Canto II: “Beatrice am I, who do bid thee go” (Longfellow’s translation) (Photo credit: Wikipedia)

Dopo il proemio generale all’opera, costituito dal primo canto, con l’annuncio e l’impostazione narrativa del viaggio, questo canto costituisce una sorta di secondo proemio, riservato a spiegare il significato particolare e personale del viaggio di Dante.

Si tratta di un’esperienza eccezionale, che preannuncia pertanto un epilogo altrettanto eccezionale: egli sarà il terzo uomo a penetrare i misteri dell’oltretomba, dopo personalità tanto alte quali Enea e S. Paolo; a determinare infatti il suo cammino di salvezza si è mossa la volontà divina, attraverso l’intercessione della Vergine e l’intervento diretto di Santa Lucia[1] e Beatrice, anime somme tra i beati.

In questo canto prevalgono ancora la filosofia e la teologia ma alcuni spunti come ad es. l’apparire di Beatrice ci rivelano che D. ha già compiuto un gran passo verso la chiara espressione della propria umanità.

Il canto è strutturato sostanzialmente e schematicamente su quattro momenti:

1) Invocazione alle muse: anche se limitata ad un’unica terzina (vv. 7-9), è da rilevare che D. segue i canoni del tradizionale poema epico; sarà da tener presente in parallelo al proemio delle altre due cantiche, la progressione di impegno che D. profonde a seconda dell’elevazione della materia[2].

2) Esitazione e timore di D. ad intraprendere il viaggio nell’ol­tretomba.

3) Virgilio rivela la volontà divina che ispira il viaggio.

4) I due poeti intraprendono il cammino nella selva oscura.

Il canto si apre al tramonto[3] del l’8 aprile 1300, venerdì santo, al limitare della selva oscura, in cui D. e V. si inoltrano alla fine del canto.

Il personaggio di questo canto è certamente Beatrice, giovane donna fiorentina (1266-1290), figlia di Folco Portinari[4], moglie di Simone de Bardi.

È la donna amata da D. che a lei dedicò le rime della Vita Nuova[5]; è un personaggio storico che assunse per il poeta il sommo valore della Grazia e della Teologia.

Scende la sera[6] quindi e Dante si prepara ad affrontare, solo tra i viventi, come una guerra[7] il faticoso[8] viaggio nel regno degli Inferi (vv. 1-6); per sostenersi nell’alta impresa di poeta e di pellegrino, egli invoca le Muse e fa appello al proprio ingegno alla propria memoria (vv. 7-9) [9].

Quindi D. espone a Virgilio i dubbi ed i timori che lo assalgono e in particolare gli chiede di considerare il suo valore di uomo prima di avviarlo all’alto compito (v. 9-12): prima di lui, si recò in quei luoghi soltanto Enea[10] – come afferma V. – vivo e materialmente[11], per una volontà divina che è agevole comprendere se si pensa che fu il futuro padre di Roma, destinata ad essere la sede dell’Impe­ro e della Chiesa: egli doveva scendere agli inferi per vincere poi nel Lazio e porre le basi per Roma e per la dignità pontificia (vv. 13-24); in seguito andò nel regno immortale[12] S. Paolo[13] che salì al terzo cielo per trarne conforto nel suo apostola­to[14] (vv. 25-30).

Ben più degni personaggi, dunque – e giustificati da fini religiosi e politici altissimi – di quanto non sia D. stesso; perciò egli si sgomenta di non avere meriti e forze suffi­cienti per affrontare l’arduo viaggio, pensa di essere un folle[15] se ad esso si abbandona, ed è tentato di rinunciarvi così come colui che non vuole più ciò che prima voleva per il sopraggiungere di nuove considerazioni (vv. 31-42).

Virgilio allora riscuote D., facendogli notare e nello stesso tempo rimprove­randolo con dolcezza ma anche severità per il fatto che il suo animo è indeboli­to dalla poca coscienza delle proprie forze e dalla viltà; ciò impedisce spesso l’uomo nell’operare il bene così come una bestia si spaventa ed indietreggia per un ombra (vv. 43-48).

Per rincuorar­lo e per sciogliere ogni dubbio V. gli dirà la ragione della sua venuta e gli racconterà ciò che avvenne la prima volta che egli provò dolore per Dante (vv. 49-51).

 Mentre era nel Limbo, tra quelli che stanno sospesi, si presentò a Virgilio e lo chiamò una donna <<beata e bella>> tanto che V. non poté fare a meno di chiederle di comandare quel che desiderava (vv. 52-54).

I suoi occhi lucevano più delle stelle[16] ed ella cominciò dolcemen­te e chiaramente (<<soave e piana[17]>>) e con voce angelica a lodarlo affermando che la fama della sua anima cortese dura e durerà nei secoli, per poi aggiungere che colui che l’amò di un amore disinteressato[18] era smarrito nella selva deserta e così impedito nel passo da volgersi indietro, tanto che ella temeva che lo smarrimento fosse arrivato a tal punto da vanificare ogni intervento (vv. 55-66).

Ella prega dunque V. di aiutare D., con la saggezza e l’arte per cui andava famoso, rivelando di essere Beatrice, scesa dall’Empireo in virtù di Amore (o della carità) che la fa parlare (vv. 67-72); quando tornerà in Cielo dal creatore Beatrice promette di lodare Virgilio[19] ed infine tace (vv. 73-75).

Pronto ad obbedirle e felice per essere stato scelto quale strumento del volere divino, Virgilio dopo averla lodata come l’unica che permette agli uomini di superare le cose della terra[20], si dimostra disponibilissimo ad esaudirla in fretta, anche se le chiede come mai non abbia temuto di scendere dall’Empi­reo, dove desidera ardentemente ritornare, nell’In­ferno (vv. 76-84).

Dal momento che V. vuol conoscere più a fondo la verità Beatrice gli spiega brevemente come solo le cose che possono fare male devono essere temute, e come, essendo lei beata (<<fatta da Dio>>), non avrebbe potuto essere toccata né dalle fiamme, né dalla miseria dei dannati (vv. 85-93).

Inoltre, una “Donna gentil”[21] che si doleva così tanto della situazione di D. decise di spezzare il giudizio di Dio, affidò la salvezza di D. a Santa Lucia[22], e questa, nemica di ogni crudeltà, si mosse per chiedere a Beatrice, vera lode di Dio (che si trovava accanto a Rachele[23]), di soccorre­re il suo amico poeta, che tanto l’aveva amata e che per lei si era elevato dalla mediocrità spirituale ed artistica, perché il male lo stava travolgendo in quel punto del fiume che è superato dalla potenza superiore del mare. (vv. 94-114).

Beatrice aggiunge che le parole di Santa Lucia l’hanno resa il più sollecita possibile ed è per esse che ella ha lasciato il Paradiso per recarsi da Virgilio; e successivamente si commuove volgendo altrove i suoi occhi pieni di lacrime, cosa che rende a sua volta, Virgilio ancora più sollecito (vv. 115-117).

Terminato il racconto intorno all’incontro con Beatrice, Virgilio sprona D.[24] ad abbandonare ogni titubanza ed ogni viltà, dal momento che, a prova che il suo viaggio è voluto da Dio, tre donne sante (Vergine, Beatrice, S. Lucia) lo proteggono su nei cieli e le stesse parole del poeta mantovano sono così incoraggianti (vv. 118-126).

Come i fiori chiusi dal gelo si drizzano e si riaprono ai primi raggi del sole[25], così D. si rianima (dalla <<stanca virtude>>), prende coraggio e, benedicen­do Beatrice (come <<pietosa>>) e Virgilio (come <<cortese>>), si conferma nella decisione di intraprende­re il cammino; quindi Dante moralmen­te confortato, riprende il suo cammino insieme a V.[26] ed i due poeti, legati da <<un sol volere>> si addentra­no nella selva, per una via ardua e selvaggia, che conduce alla porta dell’Inferno (vv. 127-142).


[1] Martire siracusana (Siracusa 283 ca. – 303 ca.). Secondo notizie incerte – dato il carattere leggendario dei testi che narrano la sua vita – si tratterebbe di una giovane di Siracusa martirizzata il 13 dicembre, data fissata per la sua memoria, di un anno imprecisato, comunque durante il mandato di Diocleziano. Il suo culto e le relative espressioni folcloriche hanno conosciuto una straordinaria diffusione (soprattutto nei paesi dell’Europa settentrionale) probabilmente a motivo dell’interpretazione etimologica del nome di Lucia. Ella sarebbe cioè la “santa della luce”, che, accecatasi per sfuggire a un suo pretendente, diffonderebbe dal giorno della sua festa – secondo il calendario giuliano il giorno più corto dell’anno – lo splendore dei suoi occhi sulle notti del lungo inverno. Perciò Lucia viene invocata come protettrice della vista.

[2] Nel Purgatorio D. enuncia l’indicazione dell’argomen­to (vv. 1-6; proposi­zione) ed invoca le Muse e in particolare a Calliope (<<dalla bella voce>> in quanto D. deve descrivere un regno di  mitezze serene e di dolci speranze) perché accompagnino il suo canto con quel suono con cui vinsero le figlie di Pierio (le Pieridi, nove giovani che rivaleggiarono con le muse e nel canto e furono da esse sconfitte e tramutate in gazze) (vv. 7-12). Nel Paradiso (1-36), dichiarato l’argomento del suo canto, D. invoca Apollo: se il dio della poesia lo aiuterà nel suo compito, egli potrà sperare nella corona d’alloro, il cui solo desiderio sarà al nume tanto più gradito quanto più raro è sulla terra, per colpa e vergogna dei desideri umani.

[3] Col morire del giorno D. si avvia verso l’Inferno, dove l’anima è morta; col sorgere del giorno invece inizia il suo viaggio nel Purgatorio, il luogo della speranza dove l’anima risorge a Grazia; nel Paradiso, dove l’anima è pienamente beata, salirà quando il sole sfolgora in tutto il suo fulgore.

[4] Secondo quanto ci riferisce il figlio di Dante Pietro nel suo commento ed il Boccaccio nella Vita di Dante.

[5] Si tratta della prima opera importante di Dante, fu scritta poco dopo la morte di Beatrice ed è composta di canzoni e sonetti legati da commenti in prosa entro un esile intreccio narrativo: la storia dell’amore di Dante per Beatrice, la premonizione della sua morte avuta in un sogno, la morte di Beatrice e la risoluzione finale del poeta a scrivere un’opera che dicesse di lei “quello che mai non fue detto d’alcuna“. La Vita nuova mostra la chiara influenza della poesia d’amore dei trovatori provenzali e rappresenta probabilmente l’opera più importante del dolce stil novo fiorentino, che superò la tradizione provenzale sublimando l’amore del poeta non solo in termini di elevato idealismo, ma anche in senso mistico-religioso.

[6] Nei primi sei versi (protasi del proemio) del canto D. ci propone l’immagine lirica del mondo pacificamente addormentato nella notte, su cui risalta la sua veglia, essendo egli in procinto di affrontare i grandi pericoli del viaggio tra le anime infernali. Si tratta di un topos letterario, ereditato direttamente da Virgilio (Aen. IV, 522-532: il poeta mantovano contrappone la tranquillità della notte alla inquietudine della regina Didone) e che dopo D. (che mette in rilievo la sua solitudine ma anche la lotta tra corpo ed anima: v. 4-6) ritornerà in tanti altri autori.

[7] Per liberarsi dalle passioni.

[8] Per la durezza del cammino e per la pietà, cioè per la vista del male morale che potrebbe distogliere D. dal giudizio morale e quindi trasformarsi in un’indulgenza che potrebbe rivelarsi una pericolosa nemica.

[9] È forse l’unico caso in tutta la letteratura quello di un poeta che invoca il suo ingegno e memoria, ma non è questa presunzione, piuttosto consapevolezza dell’eccezionalità del viaggio, del fatto che esso è voluto da Dio.

[10] D. non ricorda gli altri viaggi pagani come quello di Ercole e di Teseo oppure quelli Cristiani di S. Patrizio, S. Brandano, Tungdalo, perché solo il viaggio di Enea ha importanza dal punto di vista politico, così come ha importanza quello di S. Paolo dal punto di vista religioso.

[11] Il parente di Silvio, il figlio che Enea ebbe da Lavinia.

[12] Non nell’Inferno ma nel Paradiso.

[13] Il vaso di elezione, ricettacolo privilegiato della grazia:  Atti degli Ap. IX, 15.

[14] Fu rapito come egli stesso ci attesta (nella Seconda Lettera ai Corinzi, XII, 2-4) con il corpo o senza (egli non lo sa con precisione) per essere trasportato in Paradiso, per trovare incitamento e conforto al fine di rafferma­re i cristiani in quella fede fuori dalla quale è impossi­bile la salvazione dell’ani­ma.

[15] Qui si introduce uno dei temi fondamentali dell’opera: l’uomo per essere veramente tale deve elevarsi moralmente ed intellettualmente, ma deve essere consapevole del fatto che può avanzare solo fino al punto che Dio permette, se non vuol cadere nel peccato dei peccati, quello di Lucifero e di Adamo. Il tema troverà poi la sua maggiore esposizione nell’episodio di Ulisse: bisogna elevarsi ma bisogna allo stesso tempo essere umili se non si vuole perire; S. Bernardo (Pd. XXXII) dirà alla fine del poema che per potere penetrare Dio occorre la grazia: chi pensasse di poterlo fare, muovendosi con le sue sole forze, arretrerebbe credendo di avanzare.

[16] Immagine questa cara agli stilnovisti: a Cavalcanti, al Guinizelli e allo stesso D. delle Rime.

[17] Termine usato in un sonetto di D. ed in un altro del Cavalcanti.

[18] È questo l’amore stilnovistico: un amore che tende a “spogliarsi” della passione e a divenire puro slancio dell’anima verso il bene, cioè amore-virtù. Beatrice nel poema impersona sì la Teologia, ma è anche e sempre questo Amore, che spinge a conquista­re la propria superiore umanità.

[19] Questa promessa secondo i critici contiene un’arcana promessa.

 [20] Beatrice, piena di virtù, rappresenta la sublimazione della natura umana, cosicché soltanto per essa gli uomini vincono d’eccellenza le creature contenute nel cielo della luna (secondo il sistema tolemaico, seguito da D., la terra è al centro dell’univer­so, e, intorno ad essa, si aggirano i nove cieli, fra i quali il primo e più vicino alla terra è quello della Luna), ovvero – secondo altri – soltanto per essa gli uomini si elevano al di sopra delle cose terrene.

[21] La Vergine Maria che simboleggia la grazia preveniente (cioè la Grazia che previene il desiderio) o la misericordia o la carità e che per una questione di riverenza non viene mai nominata nell’Inferno.

[22] Secondo alcuni è simbolo della grazia illuminante o della speranza o ancora della giustizia perché nel Purgatorio Lucia è messa in relazione con l’aquila che trasporta D. dall’Anti­purgato­rio al Purgatorio vero e proprio; e poiché l’aquila, come appren­diamo dal canto XVIII del Paradiso è messa a sua volta in relazione con la giustizia (Spiriti giudicanti), ne consegue che Lucia può significare questa virtù.

[23] Figlia di Labano e moglie di Giacobbe e simbolo della vita contemplativa, mentre Lia, sua sorella, simboleggia la vita attiva.

[24] Forse non comprendendo che il poeta è soltanto, a sua volta, commosso e stupito per il racconto.

[25] È questa forse una delle immagini più delicate e soavi di tutto il poema.

[26] Che viene definito <<duca>> rispetto al cammino, <<segno­re>> rispetto al comando, <<maestro>> rispetto alla scienza.

Dante Alighieri – Convivio

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Composto tra il 1303-04 ed il 1307-08 (o forse per quanto riguarda il IV trattato tra il 1306 ed il 1309)[1] il Convivio vuole offrire un convito di sapienza (<<la scienza è ultima perfezione della nostra anima>>) agli uomini ben disposti[2], ma lontani per occupazione dal mondo degli studi e delle università.

Originariamente l’opera avrebbe dovuto contenere quindici trattati, uno intro­dut­tivo più quattordici a spiegazione (che soltanto Dante si ritiene in grado di dare) di altrettante canzoni; ma in realtà il poeta ne scrisse soltanto quattro, a commento, letterale e allegorico, di tre canzoni.

Nella impostazione dantesca le “vivande” sono le canzoni (“sì d’amore come di virtù materiale”), mentre il pane si identifica con i suoi trattati, indispensa­bili per gustare le canzoni.

La prosa del Convivio è il primo esempio di prosa scientifica e letteraria; è un’opera di grande impegno stilistico[3].

Dante scrive l’opera in volgare prezioso[4], non già per disisti­ma del latino, ma perché chi continua a fare cultura in latino (o anche preferisce in poesia il provenzale) gli appare colpevole di vanagloria, d’invidia e di viltà d’animo (i letterati del suo tempo per il poeta hanno fatto la letteratura <<di donna meretri­ce>>).

Il divorzio tra il nuovo pubblico borghese e le consuetudini della scienza che imponevano l’uso del latino, non potrebbe essere denunciato più apertamente: l’Alighieri dice che quel che porgerà saranno briciole cadute dalla mensa dei dotti, ma saranno adatte ai bisogni dei borghesi; sarà pane orzato e non pane di grano, ma potrà essere dato liberamente e in abbondanza; e meglio questa luce del volgare che rimanere nelle tenebre per un sole (il latino) che a molti più <<non luce>> (I, XIII, 12).

Dante si propone inoltre, bisogna non dimenticarlo, di far cono­scere ad un più vasto pubblico di quante conoscenze scientifiche, filosofiche, stilistiche e linguistiche egli è fornito, anche nella segreta speranza di poter rientrare in Firenze.

Il Convivio fu scritto dal poeta in esilio, ebbe come mera occa­sione la difesa dall’accusa di infedeltà nei confronti di Beatri­ce e da quella di essere vile, perché mendico e peregrino; dimostrando che la femmina adorata non era mortale (ma la sapienza) il poeta pensò di poter far fronte ad entrambe le accuse.

Non più soltanto l’amore, ma la sapienza è il nuovo argomento; non più la salvezza (v. la Vita Nova), ma il riscatto dalle accuse presenti è il nuovo scopo; non soltanto Beatrice, di conseguen­za, ma la donna pietosa e bella, da lei allontanata sul finire della Vita Nova è la nuova figura simbolica del Convivio.

Alla storia della sua redenzione spirituale, D. antepone ora la difesa del suo operato di cittadino, impegnato nella vita e nelle istituzioni del Comune. Firenze nel Convivio non è più il luogo dell’incontro con Beatrice, ma la patria che ha ingiustamente allontanato con la violenza uno dei suoi figli.

Nel I trattato, che funge da introduzione generale[5] e presenta le motivazioni e piano complessivo dell’opera, quattro paragrafi introduttivi servono appunto alla dimostrazione predetta, mentre i restanti nove vengono utilizzati per giustifica­re l’uso del volgare al posto del latino, di utilizzazione corrente, ma insolito per un’opera dottrinale: Dante intende, come si è detto, offrire il cibo della sapienza a lettori nobili d’animo, ma non dotati di una cultura strettamente accademica[6].

Il volgare è per il sommo poeta un amico necessario, la cui diffusione sarà inevitabile; è strumento, luce e sole, della nuova cultura.

Il trattato si conclude con la sottolineatura del ruolo e della responsabilità morale dell’intellettuale.

Nel secondo trattato per spiegare la prima canzone dell’opera, “Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete” (il poeta si riferisce agli angeli del cielo di Venere)[7] afferma che vi sono quattro “sensi[8] per interpretare una lirica:

1) lettera­le (relativo al senso “che non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti“),

2) allegorico (che svela il senso “che si nasconde sotto ’l manto di queste favole“),

3) morale (che riguarda il significato “che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitate di loro e di loro discenti“) ,

4) anagogico o sovrasenso (relativo al senso che scaturisce “quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora sia vera eziandio nel senso letterale, per le cose significate significa de le superne cose de l’etternal gloria“: si tratta di un sovrasenso spiritua­le)[9].

Gli ultimi due “sensi” sono di fatto da Dante trascurati[10]; in realtà essi sono soltanto un pretesto per varie disquisizioni stori­che, filosofiche, teologiche, che però non hanno mero carattere compilativo, come in altre opere dell’epoca.

Ricollegandosi all’episodio narrato in Vita Nuova (XXXV-XXXIX), Dante racconta come tre anni dopo la morte di Beatrice si fosse innamorato di una “donna gentile”.

Diviso tra la memoria della “gloriosa” e la nuova passione per questa donna, il poeta aveva allora invocato in suo aiuto gli angeli del terzo cielo con la canzone “Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete“.

Il primo verso della canzone fornisce a Dante lo spunto per esporre la sua concezione astronomica, tolemaica e cristiana dei cieli.

Di seguito si diffonde sulle due beatitudini dell’umana natura: quella attiva (nella vita civile) e quella contemplativa (che il poeta ritiene superiore); ed infine fornisce indicazioni sui divini motori e sulle gerarchie angeliche.

Per agevolarne l’esegesi, il testo della canzone viene diviso in tre parti: l’invocazione del poeta alle intelligenze angeliche del cielo di Venere (stanza I), la rappresentazione della “battaglia di pensieri” che si combatte nel cuore di Dante (stanze II-IV), il congedo (stanza V) [II].

Dopo una lunga digressione dedicata alla descrizione dei cieli (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, Stelle fisse, Primo Mobile, Empireo) [III] e delle intelligenze immateriali che presiedono al loro movimento (ripartite in tre gerarchie di tre ordini ciascuna: 1. Angeli, Arcangeli, Troni; 2. Dominazioni, Virtù, Principati; 3. Podestà, Cherubini, Serafini) [IV-V], la spiegazione letterale del testo prosegue fino al congedo, interrotta soltanto da una breve digressione sull’immortalità dell’anima[11] [VI-XI].

Esaurito il primo livello di lettura, l’interpretazione allegorica esordisce rivelando nella “donna gentile” la personificazione della Filosofia, al cui studio Dante si era applicato dopo la morte di Beatrice, quando aveva cominciato a frequentare “le scuole de li religiosi e le disputazioni de li filosofanti” [XII][12]: il poeta conclu­de affer­man­do che l’unica donna amata dopo Beatrice è quella che Pitagora chiama Filosofia.

 La filosofia di cui Dante discute nel Convivio è quella aristotelica (anche se D. conobbe molto bene anche quella platonica), penetrata in Europa a partire dalla metà del Duecento per il tramite della cultura araba, e poi tradotta in latino.

 Fonti del Convivio sono pure le enciclopedie, le grandi «summae» del sapere medievale, i padri della Chiesa, Agostino con le sue Confessioni, il Boezio del De consolatione philosophiae, Seneca, i commenti di impostazione sia tomistica (seguita soprattutto però nella Commedia) sia «radicale» (più seguita nel Convivio[13]), vale a dire averroistica, all’Etica Nicomachea e alla Politicadi Aristotele[14], nonché i commenti ad Aristotele di Alberto Magno.

Già nella Vita Nova era testimoniata la nascita in Dante di un interesse per la filosofia sotto la veste allegorica della «donna gentile giovane, e bella molto» oggetto per qualche tempo del suo amore dopo la morte di Beatrice.

Nel secondo trattato del Convivio l’autore evoca esplicitamente, l’incontro con questa donna «savia» che compare nella parte finale, della Vita Nova e che presenta molte analogie con la donna gentile e «saggia» della canzone del secondo trattato, Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete.

Nel Convivio la filosofia aristotelica non è subordinata alla teologia; l’opera è dunque una diretta testimonianza di una fase nuova, nella vita e nel pensiero di Dante: un momento in cui egli non sente il bisogno di affidarsi a forze divine, per raggiungere la conoscenza.

La felicità terrena è data dalla saggezza: è una visione per molti aspetti eterodossa (in quanto propria dell’aristotelismo più radicale), soprattutto uno dei concetti chiave per intendere meglio l’altra operazione tentata con i1 Convivio.

Nel quarto trattato (XVII, 8) Dante riprenderà, in proposito, la definizione che di felicità aveva dato Aristotele: «felicitade è operazione secondo virtude in vita perfetta»; e noi sappiamo che in Aristotele la vita perfetta risiedeva nell’attività speculativa, ossia nell’attività della parte, più nobile dell’uomo, l’intelletto.

Tuttavia, tanta fiducia nella filosofia umana, nel quarto trattato, ci appare entrata in crisi.

Nel III trattato troviamo ancora il commento alla canzone “Amor che nella mente mi ragiona” ; il poeta canta le lodi della nuova amata, la filosofia, conforto della mente, simbolizzata dalla “donna salvifica” (in altre parole Beatrice) e quindi fornisce la spiegazione allegorica della figura di Beatrice.

Premesso che la canzone in lode della “donna gentile“, Amor che ne la mente mi ragiona, è stata scritta per dimostrare l’eccellenza di questa donna e, nel contempo, per stornare dal poeta il biasimo di quanti lo potrebbero accusare di aver tradito la memoria di Beatrice, Dante divide il testo della canzone in tre parti: proemio (stanza I), lode della “gentile” (stanze II-IV), congedo (stanza V) [I].

Nell’intraprendere la spiegazione letterale del testo anche il proemio viene suddiviso in tre parti, riguardanti, nell’ordine, l’ineffabilità del tema (la lode della “gentile“), l’insufficienza del poeta nel trattarlo, la giustificazione di tale insufficienza che non può addebitarsi a colpa del poeta [II-IV].

Ugualmente tripartita è la seconda parte della canzone: alla lode della “gentile” condotta “interamente e comunemente, sì nell’animo come nel corpo” (stanza II), segue la “laude speziale de l’anima” (stanza III) e la “laude speziale del corpo” (stanza IV).

La spiegazione del v. 19, “Non vede il sol, che tutto ’l mondo gira“, offre lo spunto per una complessa digressione cosmologica dedicata alla terra, centro dell’universo, e all’alternanza del giorno e della notte, con relativa dimostrazione del fatto che “per lo divino provedimento lo mondo è sì ordinato che, volta la spera del sole e tornata a un punto, questa palla dove noi siamo in ciascuna parte di sé riceve tanto tempo di luce quanto di tenebre” [V].

Dopo aver spiegato l’ordine gerarchico dell’universo, nonché il processo della conoscenza nei termini di un rapporto causa-effetto [VI-VIII], giunto al congedo, anch’esso diviso in “tre particole“, Dante si preoccupa di chiarire l’equivoco che potrebbe ingenerarsi dall’accostamento di questa canzone, che esalta la “donna gentile“, a una sua “ballatetta” (Voi che savete ragionar d’amore), dove la stessa donna è dipinta come creatura “orgogliosa e dispietata“.

La contraddizione, solo apparente, è sanata riferendo le qualità opposte attribuite alla donna nei due testi non alla natura della “gentile“, ma alle sue diverse percezioni da parte del poeta. Per spiegare come ciò sia possibile Dante paragona questo fenomeno allo scarto che spesso si verifica tra la qualità costante della luce stellare e il grado variabile della sua percezione da parte dell’uomo.

Tali variazioni sono dovute sia al mutare delle condizioni atmosferiche, cioè delle condizioni del mezzo in cui si trasmette la luce, sia al variare delle capacità visive dell’uomo, più o meno acute a seconda delle circostanze [IX-X].

L’interpretazione allegorica della canzone ha inizio ribadendo l’identificazione della “donna gentile” con la Filosofia, il cui nome viene fatto risalire a Pitagora [XI].

Dopo aver definito i diversi gradi di partecipazione degli esseri alla filosofia e aver asserito che da essa sono esclusi gli angeli ribelli, mentre gli uomini vi accedono nei rari momenti di speculazione concessi loro dalla fisicità della propria natura [XII-XIII], Dante descrive separatamente le componenti di “amore” e di “sapienza” che concorrono alla definizione del concetto di “filosofia”, per poi finire spiegando che gli attributi di “fera e disdegnosa“, da lui conferiti alla “donna gentile” nella ballata Voi che savete, erano scaturiti da difficili esordi del suo apprendistato filosofico [XIV-XV].

È questo trattato un inno alla mente umana, alla nobiltà della natura, alla filosofia attraverso cui l’uomo raggiunge la sua perfezione ed è appagato; ci sono però cose che si possono intendere solo con la fede e non con l’intelletto.

La filosofia è emanazione dell’amore di Dio, è uno strumento per arrivare, anche se non in terra, a Dio.

Il IV trattato verte sul tema della nobiltà ed è il più lungo: è diviso in due parti; nella prima D., prendendo spunto dalla canzone “le dolci rime d’amor ch’i’solia”, cerca di confutare alcune definizioni comuni di questo valore, mentre nella seconda cerca di dimostrare l’infondatezza della teoria per la quale la nobiltà deriverebbe dalla ricchezza e dai nobili natali

– Scritta “per riducere la gente in diritta via sopra la propria conoscenza de la verace nobilitade”, la canzone Le dolci rime d’amor ch’io solia, che rifugge il registro allegorico, è presentata come testo provvisto di sola chiosa letterale [I].

Dopo aver tracciato una mappa minuziosa delle partizioni della canzone, Dante ne inizia il commento dai versi che espongono, per poi confutarla, la definizione della nobiltà fornita dall’imperatore Federico II di Svevia: “antica richezza e be’ costumi“. Per dimostrare errata questa definizione, che il volgo aveva successivamente decurtato dell’”ultima particola”, cioè i “belli costumi“, Dante è costretto ad affrontare il tema dell’autorità imperiale e di quella filosofica (dato che l’opinione volgare sembrava suffragata dal giudizio di Aristotele, secondo il quale “quello che pare alli più, impossibile è del tutto essere falso“) [II-III].

Inizia così un’ampia digressione sui caratteri e i limiti dell’autorità imperiale, il cui fondamento è individuato in quella stessa legge di natura che impone all’uomo la realizzazione della propria felicità.

Poiché, infatti, condizione indispensabile al perseguimento di tale fine è vivere in una società giusta e pacifica, la necessità dell’Impero universale emerge dal fatto che soltanto esso può garantire pace e giustizia all’intera comunità umana.

Dopo aver dimostrato che a conferire l’ufficio imperiale a Roma e al popolo romano era stata la stessa Provvidenza divina, che attraverso un ordinamento politico unitario aveva voluto garantire, nell’imminenza dell’incarnazione del Figlio di Dio, un terreno di facile propagazione al verbo cristiano [IV-V], Dante passa a indagare in che cosa consista l’autorità filosofica e come essa, soprattutto nella persona di Aristotele, sia degna di fede e di obbedienza.

A una breve rassegna dedicata alle scuole filosofiche antiche (Stoici, Epicurei, Accademici, Peripatetici) fa seguito l’affermazione della complementarità di autorità imperiale e di autorità filosofica, fondata sul fatto che la prima senza la seconda è pericolosa e la seconda senza la prima è debole [VI].

Deplorata l’opinione popolare, che considera la nobiltà un retaggio di famiglia, per spiegare in cosa consista la vera “gentilezza” Dante ricorre alla parabola dell’uomo, che dovendo attraversare un territorio i cui sentieri sono stati completamente nascosti dalla neve, sebbene edotto sul giusto percorso dalle orme di qualche savio che lo ha preceduto, prende una strada sbagliata e “tortisce per li pruni e per le ruine“.

Se il primo che ha percorso rettamente quel cammino può essere considerato “valente” (e dunque nobile), l’altro, che malgrado l’esempio ha tralignato, è da considerare uomo “vilissimo” (ovvero discendente degenere) [VII].

Una volta dimostrato che dissentire da Aristotele e da Federico II non significa, riguardo allo specifico argomento trattato, mancare di rispetto all’autorità filosofica e a quella imperiale [VIII-IX], Dante contesta l’identificazione di nobiltà con “antiche richezze” prima di tutto perché queste, lungi dal dare o togliere nobiltà, sono beni spregevoli, sia considerando i modi in cui si acquistano, sia considerando l’insaziabile avidità che ingenerano in chi le possiede [X-XIII]; secondariamente perché il tempo, insito nella nozione di antichità, non può generare nobili prosapie, e ciò in virtù della stessa impossibilità, asserita dal volgo, che da un padre vile possa nascere un figlio nobile.

Delle due dunque l’una: o la nobiltà non esiste, oppure (affermazione contraria sia alla filosofia che alla religione) gli uomini non sono discesi da un unico progenitore (il che li farebbe tutti indistintamente nobili o villani) [XIV-XV].

Passando alla pars construens del trattato, dopo aver presentato la nobiltà come “perfezione di propria natura in ciascuna cosa” e dunque come una qualità ad appannaggio non esclusivo degli uomini ma di tutti gli esseri viventi e non viventi, Dante contesta l’etimologia di “nobile” da nosco a favore di quella che fa derivare l’aggettivo da non vile, per poi dichiarare che la natura della nobiltà umana si valuta dai suoi frutti, che sono le virtù morali e intellettuali [XVI]. Dopo aver presentato sulla scorta dell’Etica aristotelica le 11 virtù morali (Fortezza, Temperanza, Liberalità, Magnificenza, Magnanimità, Amativa d’onore, Mansuetudine, Affabilità, Verità, Eutrapelia, Giustizia) e aver affermato la superiorità, su di esse, delle virtù intellettuali (e conseguentemente della vita contemplativa su quella attiva) [XVII-XIX], Dante definisce la nobiltà umana dono individuale e non dote di schiatta, in quanto “seme di felicità messo da Dio nell’anima ben posta” [XX].

L’infusione da parte di Dio di questa “bontate” nell’anima umana offre lo spunto sia per esporre il processo della generazione dell’anima nel feto, sia per parlare dei doni elargiti dallo Spirito Santo all’anima ben disposta a riceverli [XXI].

Definita la nobiltà “seme” di felicità, Dante distingue due forme di felicità, connesse, rispettivamente, alle operazioni pratiche e a quelle speculative in cui si esplica l’attività razionale [XXII].

Il seme della nobiltà germoglia negli individui producendo in ciascuna delle quattro età umane diverse “perfezioni“: obbedienza, soavità, vergogna e adornezza corporale nell’adolescenza [XXIII-XXV], temperanza, fortezza, amore, cortesia e lealtà nella gioventù [XXVI], prudenza, giustizia, larghezza, affabilità nella “senettute” [XXVII], mentre ciò che rende perfetta l’anima nell’ultima età, quella del “senio“, è il fatto che essa ritorna a Dio benedicendo il cammino compiuto durante la propria vita terrena [XXVIII].

Finalmente, ribadito che la nobiltà è una dote individuale e che le stirpi possono dirsi nobili solo in virtù della “gentilezza” dei loro membri, il trattato si chiude con un breve commento del congedo [XXIX-XXX].

Il Convivio a questo punto si interrompe: si è detto che D. abbia abbandonato un progetto che non lo soddisfaceva più (la prosa non gli è molto congeniale) ma forse il vero motivo sta nel fatto che come abbiamo rilevato più sopra D. perde fiducia nella forza della filosofia e quindi preferisce tornare alla prospettiva teologica della Vita Nuova.

Constatata l’impossibilità di una simbiosi fra le due sfere del sapere, Dante sembra avviarsi verso la netta separazione della filosofia umana, che comporta la felicità terrena, dal sapere teologico, fonte di felicità immortale.

La forte tensione intellettuale di stampo aristotelico « radicale» che pervadei primitre trattati sembra attenuarsi nell’ultimo, che secondo alcuni studiosi sarebbe stato composto quando ormai l’autore stava scrivendo la Commedia.

In effetti, il ritorno all’autorità delle Sacre Scritture, e a San Tommaso, i temi e le ideologie anche politiche contenute nel quarto trattato, lo avvicinano certamente alla Monarchia o alla Commedia.


[1]  I1 cenno nel trattato introduttivo al proposito di scrivere il De vulgari eloquentia ci permette di ipotizzare per la composizione del Convivioglianni intorno al 1303-04, quando Dante esiliato visse a Forlì e a Verona. Tuttavia, è probabile che la stesura abbia conosciuto pause e riprese; il quarto trattato potrebbe addirittura essere stato composto negli anni 1306-1309, quando Dante si trovava in Toscana.

[2] E quindi a chi non ha potuto addottrinarsi; chi non ha saputo o voluto è per D. irrecuperabile.

[3] Dante stesso all’inizio del I trattato contrappone il Convivio, opera “temperata e virile” dell’età matura, alla Vita Nova, il libello giovanile “fervido e passionato” (che il poeta dichiara di non voler rinnegare in alcuna sua parte).

[4] <<Per i nobili, uomini e donne, che sono in più gran numero e degni dell’alto beneficio del sapere: e questi nobili sono principi, baroni, cavalieri, e molt’altra nobile gente, non solamente maschi, ma femmine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari, e non litterati>> (I, IX, 3-5).

[5] Dopo aver constatato che tutti gli uomini aspirano naturalmente al sapere in quanto fonte di somma felicità, Dante individua due generi di cause che possono precludere all’uomo l’accesso alla scienza. Il primo genere è rappresentato da alcune limitazioni intrinseche alla natura umana, riguardanti sia il corpo (impedimenti fisici come sordità, mutismo ecc.), sia l’anima (impedimenti morali, consistenti in “viziose delettazioni” che inducono a disprezzare il sapere). L’altro genere di cause, per così dire esterne all’uomo, è costituito dalla necessità e dalla pigrizia. La prima, costringendo l’individuo a provvedere ai bisogni della famiglia e della comunità, lo tiene lontano da “l’ozio di speculazione“, l’altra, ingenerata da un ambiente sociale intellettualmente povero e poco stimolante, lo rende refrattario agli studi. Proprio ai pigri e agli uomini impegnati nelle cure familiari e civili Dante dedica il “generale convivio“, ovvero banchetto di sapere, che si appresta a imbandire nella sua opera.

[6] Dante spiega, in base a tre ragioni, perché nella chiosa (spiegazione) ai testi abbia usato il volgare anziché il latino. La prima ragione è costituita dalla “cautela di disconvenevole ordinazione“. Considerata la superiorità del latino rispetto al volgare una chiosa scritta nella lingua della “grammatica” sarebbe stata sconveniente perché avrebbe assunto un ruolo prevaricante, anziché diservizio, rispetto ai testi in volgare [V]. D’altro canto, il bilinguismo dell’opera avrebbe potuto comprometterne la fruizione integrale, dato che alcuni lettori, ignari del volgare del (così definisce Dante il latino), avrebbero potuto accedere al commento ma non alle canzoni, mentre altri, ignari di latino, avrebbero compreso i testi e non la chiosa [VI]. L’adozione del volgare porge dunque il commento a un pubblico più ampio, comprensivo sia di “litterati” che di “illitterati” [VII]. La seconda ragione dell’uso del volgare è la “prontezza di liberalitate“, ovvero la spontanea generosità. Tale generosità deve rispondere a tre condizioni: il “dare a molti“, il “dare utili cose” e il dare “senza esser domandato” [VIII]. Tutte queste condizioni risultano pienamente soddisfatte dal volgare, che è, infatti, lingua compresa da molti e perciò utile a condurre “a scienza e a virtù” anche gli “illitterati“. Per il lettore del Convivio, inoltre, la chiosa in volgare rappresenta certamente un dono inatteso (e dunque non richiesto), in quanto tale lingua non è mai stata usata per un commento [IX]. La terza ragione dell’adozione del volgare è il “naturale amore a propria loquela“. Come tutti gli amori esso si esplica in tre atteggiamenti: “magnificare l’amato” (cosa che Dante fa mostrando il volgare capace di esprimere alti contenuti concettuali), “essere geloso di quello” (gelosia che spinge il poeta ad adottare questa lingua per cautelarsi contro gli eventuali cattivi volgarizzamenti di cui sarebbe stato oggetto un commento latino) e “difendere lui” (comportamento che Dante mette atto attaccando coloro che preferiscono al volgare del sì le lingue d’oc e d’oïl) [X]. Dopo una digressione sull’infamia di quegli italiani che disprezzano il loro volgare [XI], Dante riconduce l’origine del suo amore per la lingua appresa dalla nutrice sia a “prossimitade” e “bontade“, che sono dette “cagioni d’amore generative“, sia a “beneficio“, “studio” e “consuetudine“, cioè “cagioni d’amore accrescitive“. Il volgare, infatti, è una lingua non solo al poeta “prossima più che l’altre“, ma anche “buona” a “lo bene manifestare dei concetti” [XII]. Dal volgare, inoltre, egli è stato beneficato, perché da esso ha ricevuto il dono della vita (in quanto è stato “congiungitore de li suoi generanti che con esso parlavano“) e dell’esser buono (dato che il volgare è stato il suo “introduttore … ne la via di scienza“). Infine, attraverso il suo “studio” di poeta, Dante, che con il volgare ha avuto sempre “consuetudine, ha cercato di provvedere alla conservazione di questa lingua, conferendole “con numero” (delle sillabe nel verso e dei versi nelle strofe) e “con rime” quella stabilità che le mancava [XIII].

[7] In cui è centrale e drammatico il contrasto tra il ricordo dell’amore per Beatrice e l’amore per la filosofia, la donna pietosa della Vita Nova e non del tutto assente nelle Rime.

[8] Il poeta riprende l’uso dei commentatori medioevali di voler interpreta­re in un primo tempo gli autori pagani e successivamen­te le Sacre Scritture.

[9] D. prende ad esempio l’interpretazione delle vicende bibliche legate all'”Esodo” degli Ebrei: il senso letterale si riferisce alla realtà storica dell’Esodo degli Ebrei dall’Egit­to, mentre gli altri tre si riferiscono ai signifi­cati che Dio, dettatore delle Scritture, ha voluto annettere al fatto, per cui “Esodo” significa la redenzione di Cristo (allego­ri­co), il passag­gio dal peccato alla grazia (morale), l’uscita dalla corruzione corporale per raggiunge­re la gloria eterna (anagogico).

[10] Dante stesso dichiara che procederà, nella chiosa delle canzoni, esponendo prima il sensoletterale e poi quello allegorico, mentre si occuperà degli altri due solo sporadicamente [I].

[11] Gli unici rivelatori dell’immortalità sono per D.: la speranza degli esseri umani, la divinazione, i passi delle Sacre Scritture da cui essa si evince.

[12] La decodificazione allegorica di cielo (v. 1) come “scienza” innesca un elaborato parallelismo tra cosmologia celeste e le discipline del sapere umano. In virtù di esso ai primi sette cieli vengono fatte corrispondere le arti del Trivio (Grammatica, Dialettica, Retorica) e del Quadrivio (Aritmetica, Musica, Geometria, Astrologia), al cielo delle stelle fisse la Fisica e la Metafisica, al Primo Mobile la Scienza Morale e all’Empireo la Teologia [XIII-XIV]. Dall’equivalenza allegorica del terzo cielo con la retorica discende, infine, l’attribuzione del ruolo di “intelligenze motrici” di quella disciplina a Boezio e Cicerone, i primi autori che con le loro opere avevano avviato Dante allo studio della filosofia [XV].

[13] Soprattutto nell’opinione che la filosofia possa essere del tutto indipendente dalla fede e produrre grande felicità a livello intellettuale. Tuttavia D. non dichiara mai la sua adesione all’averroismo, e in seguito abbandona completamente questa dottrina.

[14] Tra questi ultimi, spiccano quelli dei filosofi dell’università di Parigi Boezio di Dacia e Sigieri di Brabante, averroisti già condannati dalla Chiesa come eretici;  Dante pone il Brabante nel Paradiso con Tommaso d’Acquino ed Alberto Magno, dimostrando grande apertura intellettuale.

Dante Alighieri – le opere in breve

Domenico di Michelino, La Divina Commedia di D...
Domenico di Michelino, La Divina Commedia di Dante (Dante and the Divine Comedy). 1465 fresco, in the dome of the church of Santa Maria del Fiore in Florence (Florence’s cathedral). Dante Alighieri is shown holding a copy of his epic poem The Divine Comedy. He is pointing to a procession of sin. (Photo credit: Wikipedia)

Affronteremo ora i tratti essenziali di nove opere del grande poeta  partendo da un breve schema e premesso che la produzione letteraria di Dante appartiene per la maggior parte agli anni dell’esilio.

In lingua  volgare Dante scrive:

– Fiore e Detto d’Amore (1285-1295)

– Vita nova (1290-1294)

– Rime (1283-1307)

– Convivio (1303-1304)

– Divina Commedia (?)

In lingua latina sono invece:

– De Vulgari Eloquentia (1304-1305)

– Monarchia (?)

– Quaestio de aqua et terra

– Egloghe

– Epistole

Tra le prime opere troviamo dunque il Fiore e il Detto d’Amore.

Si tratta di due poemetti, diversi sia per forma metrica sia per contenuto, che sono stati tramandati insieme da un unico manoscritto privi dell’indicazione dell’autore e del titolo.

Solo nel secolo scorso i due testi furono separati e pubblicati dai loro primi editori con i due titoli distinti con cui ancora oggi vengono designati.

Dopo svariate attribuzioni, in una edizione critica (1984) Gianfranco Contini ha definito le due opere «attribuibili» a Dante per i numerosi elementi stilistico-formali che le accostano alle rime e alla Commedia.

Per il registro comico intensamente realistico, addirittura con punte di violenza verbale talvolta stupefacenti, apparterebbero alla produzione con ogni probabilità. alla fase pre-stilnovistica.

Sia il Fiore sia il Detto d’Amore traducono in parte il poema allegorico in francese antico Roman de la rose[1],composto nel secolo XIII la cui diffusione è databile tra il 1237 ed il 1280.

La composizione dei due poemetti è perciò ascrivibile a un periodo compreso entro il decennio 1285-1295: vi compaiono infatti alcuni aspetti della vita politica di quel periodo di tempo, fra cui la lotta fra borghesi e magnati a Firenze, e le persecuzioni religiose, subite da alcuni gruppi ereticali e dai filosofi averroisti.

Il Fioree formato da una «corona» di 232 sonetti, i cui personaggi allegorici (ripresi dalla trama del Roman de la rose), come la Rosa, la Vecchia Falsembiante, raffigurano la conquista dell’unione carnale con la donna (fuori d’allegoria, per «fiore » si intende, come già abbiamo accennato, il sesso della donna).

Assai vigorosa è anche la polemica contro gli ordini religiosi francescano e domenicano, responsabili per Dante della morte del filosofo averroista fiammingo Sigieri di Brabante (considerato invece, dal futuro autore della Commedia, degno del paradiso) che era venuto a tenzone con San Tommaso.

Il testo è di non facile leggibilità, dovuta soprattutto all’affastellarsi di francesismi che danno luogo a una sorta di «franco-toscano».

Il Detto d’Amore è composto da 480 settenari in rima baciata, ed offre una sintesi delle caratteristiche e delle regole comportamentali dell’amor cortese; in esso si avverte la forte influenza della cultura provenzale, come già sappiamo il modello più diffuso prima che Dante elaborasse la sua originale versione stilnovistica dell’amor cortese.

La Vita Nova è composta di liriche alternate a brani in prosa che raccontano la storia d’amore di Dante per Beatrice e la morte di lei; nel “libello” (come lo chiama Dante)  le vicende vissute sono interpretate simbolicamente, in chiave stilnovistica: Beatrice infatti viene descritta come creatura divina e angelica, strumento di elevazione dell’uomo verso Dio.

Le Rime comprendono 54 liriche autentiche e 26 di attribuzione più incerta, composte da Dante durante tutto l’arco della sua vita e ordinate dopo la sua morte. I temi sono diversi e spaziano dal fantasioso e sognante (“Guido, i’ vorrei che tu e Lapo e io“), al musicale (“Per una ghirlandetta“), dal passionale (“Così nel mio parlar“), al solenne (“Tre donne intorno al cor“).

La diversità di temi, stile e periodo di composizione permette di seguire l’evoluzione del pensiero e della poetica di Dante.

Il Convivio è un’esposizione enciclopedica del sapere medioevale, scritta in volgare e non in latino perché, nell’intenzione del poeta, doveva rivolgersi ad un vasto pubblico: misto di prosa e di versi, non fu completata e dei 15 trattati progettati solo 4 ne furono composti.

La Divina Commedia, iniziata in  esilio forse nel 1304, è il racconto in prima persona di un viaggio compiuto da Dante all’età di trentacinque anni nei tre regni dell’oltretomba cristiano.

Le due guide principali del poeta in questo viaggio sono Virgilio (Inferno – Purgatorio) e Beatrice (Paradiso).

Il poema si compone di tre cantiche, l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. Ciascuna cantica comprende trentatré canti, a cui si deve aggiungere il primo canto dell’Inferno (che quindi ne ha trentaquattro), che funge da introduzione a tutta l’opera. I versi sono endecasillabi raggruppati in terzine a rima incatenata.

Quest’opera rappresenta una summa di cultura, di valori etici ed estetici del Medio Evo.

Attraverso una visione metaforica di un viaggio nell’oltretomba, il poeta esprime con una sapiente e ricca regia compositiva motivi politici, storici, teologici e personali (vedi la sua posizione nei confronti dell’amata e criticata Firenze).

In questo viaggio verso la perfezione divina, Dante assume il compito di raccontare la sua esperienza al mondo con la speranza che questo ne tragga insegnamento.

Rimase invece incompiuta una grandiosa opera in latino, il De vulgari eloquentia, un trattato intorno all’origine e all’essenza del nostro linguaggio. Dante indica come modello ideale di lingua letteraria, o volgare illustre, una lingua che prenda i suoi termini da ogni dialetto, nessuno dei quali adatto di per sé all’uso letterario.

Nel De Monarchia Dante espone le sue convinzioni politiche sulla necessità di un impero universale, unico garante di giustizia e libertà.

Affronta inoltre un problema molto dibattuto ai suoi tempi, cioè quello del rapporto tra le due supreme autorità: il papa e l’imperatore, le due grandi guide dell’umanità; essi per il poeta hanno ricevuto direttamente da Dio la loro autorità e la devono esercitare in due sfere distinte, quella spirituale e quella temporale, per il conseguimento della felicità celeste e terrena.

Questo trattato tuttavia ai tempi di Dante non incontrò l’approvazione della chiesa e a nulla servì che nelle parti conclusive il poeta indicasse comunque una supremazia spirituale del papa sull’imperatore; nel 1329 fu fatta addirittura bruciare ed in epoca più tarda fu inserita nell’indice dei libri proibiti..

Importanti in lingua latina anche le Epistole, soprattutto le tre scritte per la venuta di Arrigo VII. Meno interessante il trattatello scientifico Quaestio de aqua et terra: nel 1319 mentre Dante si trovava a Mantova, come ci racconta il poeta stesso, partecipò ad una grossa disputa che concerneva il fatto se l’acqua in qualche punto fosse più alta della terra, visto che per i dotti l’elemento più nobile deve stare sempre in alto (fuoco su aria, aria su acqua, acqua su terra).

Interessanti sono in conclusione anche due Ecloghe sempre in latino dal tono malinconico e speranzoso indirizzate a Giovanni del Virgilio, umanista bolognese che lo aveva invitato nella sua città per ricevere l’alloro poetico.


[1]  Fra i testi più fortunati della lingua d’oil troviamo il Roman de la Rose (<<Il romanzo della Rosa>>), poema sul tema dell’amor cortese. Si tratta di un’opera in due parti, scritta nel corso del XIII secolo da due poeti francesi, Guglielmo De Lorris (per i primi 4.000 versi composti nel 1237) e Giovanni De Meung (per i successivi 18.000 che si possono datare attorno al 1280). La prima parte, attribuibile al De Lorris è il racconto dei sentimenti personificati (rappresentanti l’autore) che cercano con le parole di cogliere nel giardino dell’Amore (che rappresenta la vita cortese) una Rosa (simboleggiante la donna amata); dopo un alternarsi di insuccessi e speranze, l’amante non riesce a soddisfare la propria passione amorosa. La seconda parte, composta dal De Meung, è la descrizione dei vari episodi attraver­so cui l’autore riesce a raggiungere la Rosa, ben custodita in una torre. Entrambi gli scrittori si servono di procedimenti didattico-simbolici tipicamente medievali, e non di rado indulgono nel sensualismo più audace; ma il De Meung, meno fornito di sensibilità narrativa, tende alla compilazione enciclopedica, infarcendo il discorso di nozioni scientifiche relative ai vari settori dello scibile medioevale; inoltre la sua composizione si allontana dal tema di fondo: agli ideali cortesi viene sostituita l’esaltazione degli aspetti più materiali dell’amore, la figura femminile diventa oggetto di pesanti attacchi, mentre a valori come la carità o la rinuncia si preferiscono agi e ricchezze.

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