Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (trentesima ed ultima parte)

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Il Capo X riguarda alcune interdizioni: ”Che i Convertiti dall’Ebraifmo alla Fede non debbano converfare con gli Ebrei”.

A commento di questo capo si devono distinguere le nozioni di neofito e catecumeno.

Il neofito era colui che avesse abbracciato da meno di un anno il Cristianesimo, mentre il catecumeno era colui che si stava istruendo per prendere il battesimo, ma non lo aveva assunto.

Alcune legislazioni (ad esempio quelle genovese e toscana) prevedevano che i catecumeni potessero essere visitati dai loro parenti durante il periodo precedente il battesimo, sia pure con il permesso dei protettori e comunque in presenza di un Cristiano; le norme della Costituzione non se ne occupano e riguardano invece il neofito a cui si vieta di incontrare segretamente o comunque di colloquiare confidenzialmente con Ebrei[1], anche se fossero catecumeni[2].

Il Capo XI riguarda la tutela dei beni dei Neofiti. “Che gli Ebrei convertiti alla fede non debbano effere privati de’ loro beni”.

La legislazione civile in questo caso si adegua al contenuto di una Bolla del Pontefice Clemente XI del 5 marzo 1703[3].

Il caso della spoliazione non era infrequente. Si tenga ad esempio conto che l’antipapa Anacleto II, assorto al soglio pontificio in contrapposizione ad Innocenzo II nel 1130, era figlio di un ricchissimo ebreo convertito, tal Pietro Leone Romano[4].

I neofiti conservavano tutti i diritti  di famiglia, i loro beni[5], potevano obbligare i loro parenti a dar loro la legittima oppure gli alimenti[6] ovvero la dote[7] e se restavano indigenti la bolla di Clemente XI prevedeva che vivessero con i redditi della Chiesa; si riteneva inoltre che sui beni sopravvenuti spettanti ai neofiti non si costituisse un usufrutto dei parenti ebrei[8] e che dopo la morte di questi ultimi i neofiti potessero rivendicare il supplemento della porzione di eredità che a loro sarebbe spettata in mancanza di testamento[9] .

Al momento del passaggio al Cristianesimo per evitare frodi a danno del convertito era d’uopo fare un inventario del patrimonio[10].

 Il paragrafo 7 è una sorta di norma di chiusura. “S’avranno inoltre come fe foffero nativi di quella Città, o Luogo, in cui fi convertiranno, ad effetto di goder’ i privilégj, l’efenzioni, ed altre cofe, delle quali godono i veri nativi per cagione della loro origine, e natività, falvo nel refto le altre prerogative a tali Convertiti di ragione competenti, e le difposizioni del prefsente capo riguarderanno anche i casi paffati, purché si tratti ‘eredità, che non fia deferita[11].

Le norme suesposte trattano del caso in cui un Ebreo decida di abbracciare il cattolicesimo.

Le costituzioni non fanno riferimento invece al caso contrario in cui un Cristiano decida di apostatare in favore dell’ebraismo[12], se non limitatamente al caso del neofito che non deve comunicare segretamente con gli Ebrei per evitare che ritorni “alla primiera perfidia” (capo X, par. 1); ciò probabilmente perché veniva lasciata alla punizione della Chiesa o a quella del Tribunale di Famiglia che decideva in arbitrato.

Si tenga però presente che Costantino sottopose il caso a pena arbitraria, Costanzo aggiunge a tale prescrizione la confisca dei beni, Teodosio proibì all’apostata di testare e ricevere per testamento, Giustiniano estese le pene afflittive sino a ricomprendervi la morte.

L’apostata inoltre non poteva pentirsi ed essere perdonato. Chi consigliava l’apostasia perdeva il capo e gli averi[13].

Nel Medioevo gli apostati venivano lapidati. E un Giudeo battezzato che ritornasse alla Sinagoga veniva sottoposto ad una pena nota come rejusaidatio:gli si radeva il capo che si immergeva nell’acqua corrente e gli si spuntavano le unghie delle mani e dei piedi sino al vivo, in modo che ne uscisse sangue.

Il Capo XII regola i rapporti economici tra Ebrei e Cristiani. “Quali servizj poffano da’ Criftiani preftarfi agli Ebrei, e in qual tempo, e luogo”.

Gli Ebrei non potevano coabitare[14] con i Cristiani anche se questi ultimi fossero a servizio dei primi, né gli era consentito commerciare con loro nelle festività[15].

Ancora nel 1839 l’art. 168 considerava la violazione delle feste dei Cristiani da parte di un Ebreo come reato di misto foro: poteva cioè essere punito anche dall’autorità ecclesiastica.

Gli Ebrei erano peraltro tenuti a partecipare alla processione del Corpus Domini stendendo arazzi ed ornando le proprie case. Anche nel Ducato di Modena vigeva la stessa regola[16].

Si consentiva agli Ebrei di lavorare o servire in famiglie cristiane a patto che non nutrissero i figli cristiani[17].

Già un canone del Concilio di Elvira (300-306 e.V.)[18] vietava di consumare pasti con un ebreo, forse per evitare che un non ebreo si dovesse trovare ad osservare i precetti ebraici di purità rituale dei cibi (casherut)[19].

Gli Ebrei erano considerati, come già detto, “pravi e tristi”: era convinzione comune quindi che se una cristiana avesse prestato servizio in caso di Ebrei essi di certo l’avrebbero violentata, le avrebbero impedito le pratiche del culto e l’avrebbero convinta a lasciare la religione cattolica.

Tale pregiudizio si era alimentato soprattutto durante il regno di Carlo Magno quando gli Ebrei potevano legalmente rapire i Cristiani e rivenderli in Spagna.

Tuttavia già nel 1582 il servizio ai Cristiani fu concesso perché non si erano mai verificati gli inconvenienti sopra lamentati.

Ma le Regie costituzioni ritennero evidentemente di tornare ai vecchi principi e quindi di disporre che le serve ebree non potessero nutrire i figli dei cristiani. Nelle costituzioni del 1770 per rafforzare anche il divieto di coabitazione si aggiungerà “né la natura dei servizi richieda una lunga permanenza ovvero esiga pernottare nelle loro case”.

Il paragrafo IV del Capo XII delle Costituzioni del 1729 precisa in generale[20], a prescindere dalle festività, che nemmeno i Cristiani che lavorino per conto degli Ebrei in modo che ciò determini una collaborazione continua o comunque un pernottamento.

Con l’art. 12 del regio decreto 17 novembre 1938, n. 1728 Vittorio Emanuele III, decreterà sulla falsa riga dei predetti principi che “Gli appartenenti alla razza ebraica non possono avere alle proprie dipendenze, in qualità di domestici, cittadini Italiani di razza ariana. I trasgressori sono puniti con l’ammenda da lire mille a lire cinquemila”.

Il paragrafo 5 del Capo XII delle Costituzioni si occupa delle pene per le violazioni dei divieti precedenti ed è legge da Rex Vittorio Amedeo. “La pena per qualunque cafo delle fopradette proibizioni farà di Scudi dieci d’oro, e in difetto di effa, di un mefe di carcere[21].

Il Capo XIII conclusivo del Libro I attiene invece alla giurisdizione. “Della giurifdizione, a cui fono sottopofti gli Ebrei”.

Interessante è il paragrafo I che specifica i tratti di una giurisdizione che è ferma dal 1430. “Faranno sottopofti gli Ebrei tanto civilmente, che criminalmente alla Giurifdizione de’ Giudici ordinarj dei Luoghi, dove avranno il loro domicilio, e dove contratteranno, o delinqueranno, a forma delle Nostre Coftituzioni, e della Legge comune”.

Indice bibliografico

 

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Estratto dalle

 Leggi e Costituzioni di Sua Maestà, Tomo I, Torino, nell’Accademia Reale MDCCXXIX, Appreffo GIO. BATTISTYA CHAIS Stampatore di S.S.R.M.

Libro I Tit. VIII Capi I-XIII

 TITOLO VIII

 Degli Ebrei.

 CAPO I.

 Della Segregazione degli Ebrei da’ Cristiani.

 I.

Nelle città, nelle quali fono tollerati gli Ebrei, fi ftabilirà un Ghetto feparato, e chiufo per l’abitazione di effi, e quelle famiglie, che si trovano fparfe negli altri luoghi, dovranno un anno dopo la pubblicazione delle prefenti andar’ ad abitare nelle dette Città, proibendo loro d’introdurfi fenza noftra licenza in quelle, nelle quali non fono per anco ftati ammeffi.

2.

Non ufciranno dal Ghetto dal cadere fino al forgere del fole, fe per avventura non fi fvegliaffe in effo, o nelle di lui vicinanze qualche improvifo incendio, o che altra fimile giufta caufa non li coftringeffe ad ufcire, fotto pena di lire venticinque per ogni uno, e per ciafcuna volta, e non avendo da pagarle, di giorni otto di Carcere”.

3.

Nel predetto tempo, che refta ad effi proibito il poter ufcire dal Ghetto. Dovranno tenerne le Porte chiufe, e non ardiranno introdurvi, o ricever’ alcun Uomo, o Donna Criftiana, sotto la pena fuddetta.

4.

“Non potrà verun’ Ebreo prendere fasa, o Bottega fuori del Ghetto, nè verun Criftiano potrà loro affittare, o fubaffittarne, fotto pena per gli uni, e per gli altri di Scudi dieci d’oro”.

5.

Ne’ luoghi però, ne’ quali fi faranno le pubbliche Fiere, potranno i Padroni delle Cafe dare, e gli Ebrei prender’ in affitto Cafe, e Botteghe fuori del Ghetto fenza incorfo di pena alcuna per il tempo che dureranno effe Fiere, a anche per dieci giorni prima, che comincino, e dopo che faranno quelle terminate.

CAPO II

 Che non poffano gli Ebrei fabbricare nuove Sinagoghe, né alzare la voce nelle loro Uffiziature.

 I.

Non potranno gli Ebrei edificare, né in veruna forma fondare nuove Sinagoghe, o ampliare, quelle, che aveffero, ed in ogni cafo contrario gli Uffiziali Noftri far demolire fubito quanto si foffe ampliato, e nuovamente edificato, permettendo loro nondimeno di riftaurare, e riparare quelle, che si trovano in effere.

2.

Si guarderanno d’alzare ftrepitofamente le voci nell’efercizio de’ loro Riti, ma faranno obbligati ad efercitarli con tuono modefto, e sommeffo.

3.

Gli Ebrei, che abiteranno in quelle Città, nelle quali non abbiano Sinagoga, potranno recitare nel modo di fopra  i loro Uffizi nelle Cafe da effi abitate, ma non avranno libertà di introdurre, sì nelle Sinagoghe, che nelle dette Cafe verun Criftiano, o Criftiana per il tempo, che tali efercizi dureranno, fotto pena di Scudi dieci d’oro.

CAPO III

 Che non poffano gli Ebrei

Acquiftare Beni ftabili.

 I.

Non farà lecito agli Ebrei di far acquifto de‘ Beni ftabili ne’ Noftri Stati, fotto pena della confifcazione di effi, e se in occafione di qualche efecuzione fopra i Beni del Debitore saranno aftretti a prenderne in pagamento, vogliamo, che paffato il termine del rifcatto, fieno tenuti alienarli a Perfone capaci un’anno dopo, fotto la medefima pena.

2.

Saranno altresì fotto la fteffa pena tenuti ad alienare que’ Beni, che prefentemente poffedono un’anno dopo spirate, che fieno le loro rifpettive condotte.

CAPO IV

Del segno da portarfi  dagli Ebrei.

I.

Tutti gli Ebrei, ed Ebree, toftoché faranno giunti all’età di anni quattordici, dovranno portare fcopertamente tra’ il petto, e braccio deftro un fegno di color giallo dorato di feta, o di lana, e di lunghezza un terzo di rafo, talmente ché poffano manifeftamente diftinguerli da’ Criftiani, fotto pena di lire venticinque per ciafcuno, e per ogni volta, che contravverranno.

2.

Saranno però difpenfati dall’obbligo di portar il detto Segno in tempo, che fi ritroveranno per viaggio, finchè non ritornino alla loro abitazione.

CAPO V

Delle cofe proibite a comprarfi, a negoziarfi dagli Ebrei

I.

Non farà permesso a verun’ Ebreo di contrattare a titolo di Vendita, permuta, o pegno, nè in altro modo trafficare Mobili di veruna sorta, ori, o argenti, che abbiano fervito al culto Divino, o delle Chiefe, fotto pena di Scudi venti cinque d’oro, e del doppio valore della roba contrattata, oltre alla reftituzione da farfi gratis delle robe, che aveffero ricevute in pegno, permutato, o contrattato.

2.

Non ardiranno gi Ebrei, sotto pena del Furto , di comprare Vafi, o Arredi d’oro, o d’argento, o Gemme, o Veftimenta, o qualunque altra sorta di robe, che ad effi fi vendano, o si diano per vendere da Perfone tanto non conofciute, che fofpette, o quando convenir anno d’un prezzo affai minore di quello, che comunemente fi venderebbero.

3.

Sarà ad effi interamente proibito di comprare, permutare, o pigliare Pegni dalle Perfone Minori, o da Figliuoli di famiglia, che non vivano feparatamente dal Padre, sotto la detta pena di Scudi venti cinque d’oro.

4.

Dovranno gli Ebrei notar’ in un Libro i Contratti di Compra, Pegno, ed altri, che faranno co’ Criftiani, defcrivendo il nome, e cognome delle Perfone, con fpecificazione delle cofe contrattate,  fotto la pena, che fopra.

5.

Di mefe in mefe fotto la fteffa pena dovranno dare la nota al Segretario del Tribunale, ove dimoreranno, delle fuddette Compere, e de’ Pegni, efprimendo chiaramente tutte le circostanze, fopra le quali avranno convenuto.

6.

I fuddetti Segretarj faranno tenuti di ricevere dette Confegne ogni volta che loro fi prefenteranno, e quelle fedelmente regiftreranno, fotto la pena di Scudi venticinque d’oro, in un Libro a ciò deftinato che dovrà  da effi di mefe in mefe fosfriversi, ed al quale fi darà intiera fede tanto in giudizio, che fuori.

7.

Occorrendo, che gli Ebrei perdeffero qualche Pegno, dovranno pagarlo fecondo il di lui valore, e non potendofi fufficientemente verificare per altre prove, fi ftarà al giuramento del Padrone di effo.

8.

Non potranno portar’ i Pegni a loro confegnati fuori dei Stati noftri, e fe per accidente di Guerra, o di pefte (che Dio non voglia) foffero neceffitati di trasferirfi dall’una all’altra terra delle noftre Città, e Terre, sarà permeffo ai medefimi di feco trafportarli, manifeftando però otto giorni avanti la partenza con pubblica Grida quefta loro rifoluzione, acciocchè, fe alcuno de’ Proprietarj voleffe rifcoterli, abbia il tempo di farlo.

9.

I Banchieri Ebrei, a’ quali  è da Noi conceffo di poter preftare danari fopra il Pegno, dovranno fotto la fteffa pena dare il rifcontro a quelli, che vorranno far’ i Pegni con un Bullettino, in cui farà notato in lingua volgare il Giorno, Mefe, ed Anno, col Nome, e Cognome di chi gli avrà impegnati, e vi fi defcriverà diftintamente la cofa, che farà rimeffa in Pegno, la fua vera qualità, e quantità, il pefo, o numero, o la mifura rifpettivamente di effa.

10.

Spirato, che fia il termine ftabilito per il rifcatto de’ Pegni, potranno i Banchieri fuddetti devenire  all’Incanto de’ medefimi, e per ciò efeguire, fi porteranno fopra le Piazze in que’ giorni, e tempi, che fono per la vendita de’ Pegni Giudiziarj ftabiliti, ed ivi fi procederà all’incanto, e deliberamento  di effi nella forma per gli altri prefcritta.

11.

Dei Pegni, che refteranno ai banchieri, per non effere comparfo alcun ‘Offerente, fe ne darà da effi una nota ai predetti Segretarj, efprimendovi con chiarezza la qualità del Pegno, la Stima, che è ftata fatta dall’Efperto, la quantità loro dovuta tra Intereffe, e Capitale, e fe avanza o no fomma veruna, e mancando di ciò fare, incorreranno per ciafcuna volta nella pena fovr’efpreffa.

12.

Proibiamo agli Ebrei di preftar’ il loro Nome, o d’effere Mediatori di Preftiti, o altri Contratti fra Criftiani, e Criftiani, o fra criftiani, ed Ebrei, ne’ quali il Criftiano riceva il Pegno, ed efiga intereffe, o vi partecipi, fotto pena, oltre la nullità del Contratto, della perdita della fomma rifpetto ai Criftiani, che imprefteranno ‘l danaro, ed altretanta per gli Ebrei, che ne faranno mediatori.

CAPO VI

Della pena per gli Ebrei, che beftemmiano Dio, ed i Santi.

I.

Se alcun’ Ebreo di qualfivoglia seffo foffe così temerario, ed ardito, che prorompeffe infamemente in qualche beftemmia, o maldicenza contro ‘l Salvator noftro, o la di lui Santiffima Madre, o contro veruno dei Santi, o le loro Sagrofante Immagini, farà punito con la pena della morte”.

CAPO VII

Che ne’ giorni della paffione di Crifto gli Ebrei debbano ftare rinchiufi.

I.

Non farà lecito agli Ebrei d’ufcire in pubblico fuori del loro Ghetto in tempo della Paffione di Crifto, cioè dall’ora nona del mercoledì fin dopo il fuono della Campana del Sabbato Santo, obbligandole a dimorare nelle loro Cafe, e Botteghe a Porte, e Fineftre, che riguardano le Contrade, chiufe, fotto pena di carcere per tre giorni continui col digiuno in pane ed acqua.

2.

Non potranno gli Ebrei ne’ giorni fopradetti efercitare nelle loro cafe fuoni, o balli fotto pena della pubblica fufstigazione.

CAPO VIII

Che gli Ebrei non debbano effere tirati per forza alla noftra Santa Fede.

I.

Non vogliamo che fia lecito a veruno di coftringere alcun’ Ebreo di qualunque feffo fi fia, e violentarlo a ricevere per forza il Santo Battefimo, fotto pena di fcudi cinquanta d’oro, ed in diffetto di pagamento, del bando dai Stati per anni tre rispetto agli Uomini, e della carcerazione per sei mesi riguardo alle Donne.

2.

Nemmeno fi battezzeranno contro la volontà dei Genitori i loro figlioli, che non fieno capaci dell’ufo della ragione, eccettuati i cafi, né quali foffe ciò dai Sacri Canoni permeffo fotto la pena che sopra.

CAPO IX

Che gli ebrei non fi offendano.

I.

Non ardirà chi che fia ammazzare, ferire, o percuotere qualunque Ebreo, nè di turbare in qualfivoglia forma i loro riti, o efigere da effi violentemente, o con minaccia, qualche sorta  di fervizio, nè di rompere, o fconvolgere i loro fepolcri, o da effi difotterrare i cadaveri.

2.

Si proibifce ancora ad ogni perfona d’offendere in fatti, o in parole alcun Ebreo, o scagliare faffi nelle porte, e fineftre delle cafe, ove abitano tanto di giorno, che di notte, sotto pena pecuniaria, o corporale proporzionata alla qualità dell’ingiuria.

CAPO X

Che i Convertiti dall’Ebraifsmo alla Fede non debbano converfare con gli Ebrei

 

I.

Niffun Neofito, o Convertito dal Giudaismo alla Santa noftra Fede avrà ardire di comunicare fegretamente con Ebrei, e con effi tenere confidenziali colloquj fotto qualunque titolo, o colore, ed avendo neceffità d’abboccare con effi, ciò farà in prefenza di qualche onefto, e fedel Criftiano, acciocchè la loro partecipazione non lo cimentaffe a ritornare alla primiera perfidia.

2.

I Neofiti, o Convertiti che fegretamente parteciperanno cogli Ebrei, incorreranno nella pena di un mefe di carcere, ed in quella di mefi tre gli Ebrei, che ardiffero comunicare co’ Catecumini, ancorché loro Congiunti, fenza licenza.

CAPO XI

Che gli Ebrei convertiti alla fede non debbano effere privati de’ loro beni.

 

I.

Gli Uffiziali, e Caftellani de’ noftri Stati, nella giurifdizione de’ quali accaderà convertirfi alla Santa noftra Fede qualche Giudeo, procureranno, che tali convertiti non fieno efclufi da’ loro Patrimonj, effetti, e porzioni d’eredità, o in alcuna forma fopra d’effi perturbati, eccettuando però la reftituzione delle ufure a favore de’ Danneggiati, che giuftificaffero il difcapito, avantichè riceveffero il Santo Battefimo.

2.

Gli Ebrei, che abbraccieranno la Santa Fede Cattolica potranno, fecondochè effi eleggeranno, coftringere quelli, che naturalmente fra i loro Congiunti foffero obbligati, a foccorrerli co’ dovuti alimenti a mifura delle forze, che fi troveranno, o detrarre la legitima, che a’ medefimi fi deve fopra i beni degli Afscendenti, fubitochè avranno ricevuto il Santo Battesimo.

3.

I Genitori dovranno pure confegnare alle loro figlie convertite la dote a proporzione della loro facoltà, tanto per la monacazione, quanto per il matrimonio, fubitochè faranno in grado di monacarfi, o maritarfi, e frattanto faranno provvifte de’ condecenti alimenti largamente, intefsi fecondochè fopra fi è detto.

4.

Oltre agli alimenti, o la legitima, che confeguiranno, come fopra, al tempo della loro converfione, avranno di più, morendo i loro Afcendenti, il fupplemento di quella porzione d’eredità, che loro spettarebbe ab intestato, non oftante qualunque difpofizione, che veniffe ad effere fatta in contrario.

5.

Per afficurare questo noftro religioso fentimento, fubitochè un figlio di famiglia, o figlia si ritirerà dal Giudaifmo, fi farà dall’Ordinario del Luogo un fedel’, e diligente inventario di tutti i mobili, e crediti di quello, che può effere tenuto alle cofe sopraddette, e cofì anche alla morte di effo, acciocchè poffa con chiarezza fempre conofcerfi la verità, e giuftizia, e sia rimoffa ogni fraude, che fopra ciò poteffe commetterfi.

6.

Spettaranno di piena ragione a’ medefimi Convertiti i beni avventizj di qualfivoglia sorta, dimodochè li loro Afcendenti non poffano più pretendere in effi alcun’ ufufrutto, o comodità fotto pretesto di potestà paterna, di cui faranno privati fin tanto, che rimarranno Ebrei.

7.

S’avranno inoltre come fe foffero nativi di quella Città, o Luogo, in cui fi convertiranno, ad effetto di goder’ i privilégj, l’efenzioni, ed altre cofe, delle quali godono i veri nativi per cagione della loro origine, e natività, falvo nel refto le altre prerogative a tali Convertiti di ragione competenti, e le difposizioni del prefsente capo riguarderanno anche i casi paffati, purché si tratti ‘eredità, che non fia deferita.

CAPO XII

 

Quali servizj poffano da’ Criftiani preftarfi agli Ebrei, e in qual tempo, e luogo.

 

I.

Non farà lecito ad alcun Criftiano di qualunque feffo fi fia di coabitare con veruno degli Ebrei, tanto sotto pretefto di fervirli, quanto per qualfivoglia altra caufa.

2.

Non faranno i Criftiani alcun trattato di vendita, o compra con detti Ebrei, nè altri negozj di mercatura ne’ giorni della Domenica, o delle altre Fefte folenni, nelle quali fi è fopra proibito l’efercitare Fiere, o Mercati.

3.

Non farà proibito negli altri giorni, che non sono feftivi, di lecitamente preftare l’opere, e lavorare per detti Ebrei, o in altra forma trafficare con effi, purchè non fi nodrifcano i loro figlj, né dentro, né fuori delle cafe de’ medefimi.

4.

Non intraprenderanno i Criftiani opera alcuna, o fervizio in pro di detti Ebrei, per cui fieno obbligati a fare appreffo di effi una continua permanenza, o pernottare nelle Cafe dei medefimi.

5.

La pena per qualunque cafo delle fopradette proibizioni farà di Scudi dieci d’oro, e in difetto di effa, di un mefe di carcere.

CAPO XIII

Della giurifdizione, a cui fono sottopofti gli Ebrei.

 

I.

Faranno sottopofti gli Ebrei tanto civilmente, che criminalmente alla Giurifdizione de’ Giudici ordinarj dei Luoghi, dove avranno il loro domicilio, e dove contratteranno, o delinqueranno, a forma delle Nostre Coftituzioni, e della Legge comune.

[1] Il paragrafo 1 riguarda il divieto di comunicazioni segrete e colloqui confidenziali ed era già in vigore nel 1430. “Niffun Neofito, o Convertito dal Giudaismo alla Santa noftra Fede avrà ardire di comunicare fegretamente con Ebrei, e con effi tenere confidenziali colloquj fotto qualunque titolo, o colore, ed avendo neceffità d’abboccare con effi, ciò farà in prefenza di qualche onefto, e fedel Criftiano, acciocchè la loro partecipazione non lo cimentaffe a ritornare alla primiera perfidia”.

[2] Il paragrafo 2 del Capo X attribuito a Rex Vitt. Amed. prevede:” I Neofiti, o Convertiti che fegretamente parteciperanno cogli Ebrei, incorreranno nella pena di un mefe di carcere, ed in quella di mefi tre gli Ebrei, che ardiffero comunicare co’ Catecumini, ancorché loro Congiunti, fenza licenza”.

[3] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 42.

[4] G. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, p. 13.

[5]Il paragrafo 1 del Capo XI, già di Amedeo VIII, stabilisce ”Gli Uffiziali, e Caftellani de’ noftri Stati, nella giurifdizione de’ quali accaderà convertirfi alla Santa noftra Fede qualche Giudeo, procureranno, che tali convertiti non fieno efclufi da’ loro Patrimonj, effetti, e porzioni d’eredità, o in alcuna forma fopra d’effi perturbati, eccettuando però la reftituzione delle ufure a favore de’ Danneggiati, che giuftificaffero il difcapito (lo svantaggio), avantichè riceveffero il Santo Battefimo.”

[6] Il paragrafo 2 del Capo XI, già di Rex Vitt. Amed., prevede:” Gli Ebrei, che abbraccieranno la Santa Fede Cattolica potranno, fecondochè effi eleggeranno, coftringere quelli, che naturalmente fra i loro Congiunti foffero obbligati, a foccorrerli co’ dovuti alimenti a mifura delle forze, che fi troveranno, o detrarre la legitima, che a’ medefimi fi deve fopra i beni degli Afscendenti, fubitochè avranno ricevuto il Santo Battesimo”.

Il principio dell’anticipazione della legittima non si ritrova in Toscana né nel Ducato di Genova che riconosceva soltanto il soccorso degli alimenti.

[7] Il paragrafo 3 del Capo XI inerisce le doti delle neofite. “I Genitori dovranno pure confegnare alle loro figlie convertite la dote a proporzione della loro facoltà, tanto per la monacazione, quanto per il matrimonio, fubitochè faranno in grado di monacarfi, o maritarfi, e frattanto faranno provvifte de’ condecenti alimenti largamente, intefsi fecondochè fopra fi è detto”.

[8] Il paragrafo 6 del Capo XI regola la sorte dei beni sopraggiunti. “Spettaranno di piena ragione a’ medefimi Convertiti i beni avventizj di qualfivoglia sorta, dimodochè li loro Afcendenti non poffano più pretendere in effi alcun’ ufufrutto, o comodità fotto pretesto di potestà paterna, di cui faranno privati fin tanto, che rimarranno Ebrei.

Il problema grosso di questo paragrafo è se esso indichi una perdita della potestà paterna sul figlio convertito: la dottrina dell’Ottocento era per la negativa.

[9] Il paragrafo 4 del Capo XI attiene all’eventuale supplemento nel caso di morte ab intestato. “Oltre agli alimenti, o la legitima, che confeguiranno, come fopra, al tempo della loro converfione, avranno di più, morendo i loro Afcendenti, il fupplemento di quella porzione d’eredità, che loro spettarebbe ab intestato, non oftante qualunque difpofizione, che veniffe ad effere fatta in contrario.”

[10] Il paragrafo 5 del Capo XI si occupa dell’inventario susseguente alla conversione. “Per afficurare questo noftro religioso fentimento, fubitochè un figlio di famiglia, o figlia si ritirerà dal Giudaifmo, fi farà dall’Ordinario del Luogo un fedel’, e diligente inventario di tutti i mobili, e crediti di quello, che può effere tenuto alle cofe sopraddette, e cofì anche alla morte di effo, acciocchè poffa con chiarezza fempre conofcerfi la verità, e giuftizia, e sia rimoffa ogni fraude, che fopra ciò poteffe commetterfi.”. Cfr. L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 163-165.

[11] Si tratta del caso in cui l’erede ex testamento o ab intestato muore senza aver accettato o rinunciato all’eredità: in tal caso i suoi discendenti potevano accettare, a loro volta, l’eredità deferita, entro un anno dal giorno in cui il loro antecessore avesse avuto notizia della delazione.

[12] Solo l’art. 738 del Codice civile sardo prevede e dal 1836 la possibilità di diseredazione del figlio che apostata la fede cattolica non vi sia tornato prima della morte del testatore oppure che abbia rinunciato alla fede cristiana se professata dal testatore.

[13] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 64.

[14] Il paragrafo 1 del Capo XII è risalente ad Amedeo VIII e proclama il divieto di coabitazione. “Non farà lecito ad alcun Criftiano di qualunque feffo fi fia di coabitare con veruno degli Ebrei, tanto sotto pretefto di fervirli, quanto per qualfivoglia altra caufa”.

[15] Glorioso Martire S. Maurizio, S. Giuseppe, l’Immacolata, l’8 settembre (voto del re), Annunciazione, Natività (9 settembre), 4 di maggio (festa della Sindone) e tutte le altre Feste comandate dalla Chiesa. Libro I Tit. II, paragrafi 2 e 3.

Il paragrafo 2 del Capo XII proibisce appunto le contrattazioni in giorni festivi. “Non faranno i Criftiani alcun trattato di vendita, o compra con detti Ebrei, nè altri negozj di mercatura ne’ giorni della Domenica, o delle altre Fefte folenni, nelle quali fi è fopra proibito l’efercitare Fiere, o Mercati”.

[16] Tit. IX par. XI del Codice estense del 26 aprile 1771.

[17] Il paragrafo 3 del capo XII riguarda i giorni di servizio autorizzati già da Carlo Emanuele il 2 luglio 1673. “Non farà proibito negli altri giorni, che non sono feftivi, di lecitamente preftare l’opere, e lavorare per detti Ebrei, o in altra forma trafficare con effi, purchè non fi nodrifcano i loro figlj, né dentro, né fuori delle cafe de’ medefimi”.

[18] In questo Concilio si stabilì anche che il giorno santo per la Chiesa fosse la domenica.

[19] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 500.

[20] Riprendendo un principio già emanato da Carlo Emanuele II il 2 luglio del 1673.

[21] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 52.

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (ventinovesima parte)

galata

Il capo IX riguarda la tutela dell’incolumità fisica, della celebrazione dei riti e in ultimo le pene a fronte di comportamenti ingiuriosi. Si intitola “Che gli ebrei non fi offendano.

Il paragrafo 1 già presente nel 1430 stabilisce: ”Non ardirà chi che fia ammazzare, ferire, o percuotere qualunque Ebreo, nè di turbare in qualfivoglia forma i loro riti, o efigere da effi violentemente, o con minaccia, qualche sorta  di fervizio, nè di rompere, o fconvolgere i loro fepolcri, o da effi difotterrare i cadaveri”.

Con Giustiniano si stabilisce[1] che se alcuno ebreo avesse osato lapidare un altro ebreo che si fosse rivolto al culto di Dio, la pena sarebbe stato il rogo: ma qui si tutelava la Fede.

Un’assisa di Bretagna del 1239 vietava di procedere contro chi avesse ucciso un Ebreo e non fu l’unica norma, tanto che Gregorio IX nel 1235 dovette addirittura con una bolla scomunicare coloro che si facessero rei di omicidio[2].

Il Sessa nel 1717[3] si chiedeva se 1) si debba punire e come il Cristiano che offenda un ebreo; 2) gli Ebrei si presumano tristi, ladri e ricettatori di ladri; 3) si debba punire e come un Ebreo che offenda un altro Ebreo; 4) il Cristiano che uccide un Ebreo debba essere punito con la pena ordinaria della legge Cornelia de Sicariis[4]; 5) se il Cristiano o l’Ebreo che mandi con denaro ad uccidere un Ebreo possa essere punito con la pena ordinaria di un assassinio.

La protezione dei sepolcri risale al diritto romano che individuava dei luoghi protetti dagli insulti popolari.

Lo stesso Codice penale sardo stabilirà in seguito (art. 567) per i violatori di sepolcri ebrei la reclusione o col carcere o con la multa sino a lire 300 secondo la minore e maggiore gravezza.

Anche la legislazione sabauda prevedeva dei luoghi ove si potessero seppellire le salme e a titolo gratuito.

Per stabilire un cimitero non serviva l’autorizzazione sovrana ma quella del Municipio e del Senato; il terreno poteva inoltre considerarsi opera di pubblica utilità e quindi godere dell’esproprio[5].

Le Costituzioni si preoccupano poi che gli Ebrei non siamo offesi e che le loro abitazioni non siano oggetto di sassaiole[6].

Gli stessi Ebrei peraltro ricorrevano alla lapidazione[7] sin dai tempi di Costanzo Augusto nei confronti di coloro che abiuravano la fede ebraica.

Si tenga conto che quella di lanciare sassi era pratica diffusa per i Cristiani: nella francese Beziers in Linguadoca sin dal XIII secolo lo stesso Vescovo eccitava il popolo dal giorno degli Ulivi alla Pasqua a lanciare sassi contro gli Ebrei[8].

A Trieste nel 1525 fu emesso un editto appunto contro chi tirava sassi contro la casa degli Ebrei[9].

Questa abitudine di colpire coi sassi gli Ebrei si trova ancora radicata nella Roma del 1938[10].


[1] C. 1.9.3.

[2] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 51.

[3] V. J.  SESSA, Tractatus de Judaeis, cit., p. 112.

[4] Questa legge fatta votare nell’81 da Silla prevedeva la pena capitale per l’omicidio doloso, ma escludeva  che tale pena si applicasse all’omicidio di un servo, a quello perpetuato dal pater familias in base al suo diritto di vita e di morte sui discendenti o a chi uccideva un uomo ricompreso in una lista di proscrizione. B. SANTALUCIA, Studi di diritto penale romano, L’ERMA di BRETSCHNEIDER, 1994, Roma, p. 118 e ss.

[5] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 58.

[6] Il paragrafo 2 introdotto il 20 Ottobre 1610 prevede: ”Si proibifce ancora ad ogni perfona d’offendere in fatti, o in parole alcun Ebreo, o scagliare faffi nelle porte, e fineftre delle cafe, ove abitano tanto di giorno, che di notte, sotto pena pecuniaria, o corporale proporzionata alla qualità dell’ingiuria”.

[7] Codex, I, L. 9 1.9.3. Imperatore Costanzo Augusto ad Evagrio, Prefetto del Pretorio

Vogliamo che ai Giudei e ai Celicoli, ed ai  maggiori e  patriarchi sia intimato, che se qualcuno osasse, dopo l’entrata in vigore della presente legge, assalire, con pietre o con altro genere di furore – cosa che oggi sappiamo sia avvenuta – le persone che hanno abbandonato la loro empia setta per rivolgere gli occhi al culto di Dio, insieme con tutti i loro complici, dovranno essere subito condannate alle fiamme e bruciate”.

Dato a Mugillo il 18 ottobre del 315. La disposizione è stata ripresa anche nel Codice Theodosianus (16.8.1).

Cfr. in generale sulla lapidazione operata dagli Ebrei, Dizionario delle origini, invenzioni e scoperte nelle arti, nelle scienze, nella geografia, nel commercio, nell’agricoltura, Bonfanti, 1831, p. 1384-1385.

[8] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 48.

[9] G. TODESCHINI, Il mondo ebraico, Edizione Studio Tesi, 1991, p. 218.

[10] F. TAGLIACOZZO, Gli ebrei romani raccontano la “propria” Shoah, Casa Editrice Giuntina, 2010, p. 81.

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (venticinquesima parte)

Il Capo V è intitolato “Delle cofe proibite a comprarfi, a negoziarfi dagli Ebrei”.

I ceti dominanti nell’antichità utilizzavano gli schiavi per le operazioni di bassa manovalanza, allo stesso modo decisero che le arti che danno lustro alle persone fossero solo a loro riservate.

Così gli Ebrei furono esclusi dalle Corporazioni di arti e mestieri che pur costituendo nei Municipi un corpo autonomo con propri magistrati erano comunque compenetrate dal Cristianesimo tanto che erano una specie di confraternita mercantile.

Gli stessi Ebrei costituivano una corporazione a parte che però viveva dei diritti al lavoro che i Principi decidevano di concedere.

Il diritto al lavoro era, infatti, un diritto feudale e signorile, o dei re o delle altre corporazioni.

A Venezia nel XV secolo agli Israeliti fu proibito insegnare suono, canto, danza, dottrina e gioco e non poterono nemmeno stampare libri (1566).

Fu interdetto agli Ebrei la laurea in giurisprudenza anche perché sarebbe stato inutile visto che le magistrature non erano accessibili e che come giureconsulti non avrebbero avuto alcun credito, essendo tagliati fuori dalla pratica forense; ma era vietato loro pure il conseguimento della laurea in medicina ed i malati che si fossero rivolti ad un medico ebreo sarebbero stati puniti per aver utilizzato un mezzo illecito di guarigione[1].

In Lombardia era possibile agli Ebrei la pratica dell’avvocatura, ma non quella della farmacia[2].

In Toscana accadeva l’esatto contrario: gli Ebrei potevano dedicarsi alla farmacia[3] e conseguire una laurea in legge, ma non potevano patrocinare.

Nel Ducato di Genova gli Ebrei potevano studiare e praticare da avvocati, medici, farmacisti e sensali.

Nel Ducato di Modena c’era una multa di venticinque scudi per gli Ebrei che tenessero scuole o insegnassero scienze ai Cristiani ed inoltre i Giudei non potevano leggere, fare conti, cantare, suonare, ballare e cose simili senza la licenza del Principe[4].

In Germania, perlomeno nel 1848, si erano fatti passi avanti ancora più evidenti dato che non solo gli Ebrei furono ammessi alle pubbliche scuole ma vennero anche abilitati all’insegnamento e ciò comportò che venissero considerati tra i primi cittadini[5].

Negli Stati Sardi nel 1648 si permise agli Ebrei di addottorarsi in medicina e chirurgia col consenso dell’Arcivescovo di Torino e nelle lauree minori oltre che all’accademia di Belle Arti. Si permise inoltre ai fanciulli lo studio negli Istituti tecnici perché destinati al commercio.

La storia del rapporto tra gli Ebrei e la medicina fu assai variegata a seconda dei luoghi: sotto il dominio islamico assunsero grande rilievo i lavori dei medici ebrei, tanto che gli Israeliti furono considerati a buon diritto gli intermediari della scienza medica tra Oriente ed Occidente.

In Europa i medici nel Medioevo erano soprattutto monaci, ma nell’XI secolo si interdì loro lo studio della medicina e quindi aumentarono i medici ebrei.

I Concili e l’interpretazione di grandi giuristi (ad es. BARTOLO da Sassoferrato) non permettevano in Italia ai medici ebrei di praticare la medicina sui Cristiani, ma diversi Papi[6] avevano medici israeliti[7] e non vi fu principe da Carlo Magno a Carlo V che non avesse medici ebrei[8].

Con le regie Patenti del 1816 si concesse ai Giudei non solo l’esercizio della mercatura, ma di qualunque arte e mestiere a condizione che ne osservassero le regole; il 14 agosto 1844  vennero abrogate anche le corporazioni di arti e mestieri e quindi gli ebrei ne ebbero indiretto giovamento[9].

Sicuramente dal 1829 gli Ebrei poterono svolgere la professione di librai e stampatori e tenere scuole di danza, musica e ballo.

Tuttavia si riteneva ancora nel 1848 che gli Ebrei fossero sudditi, ma non cittadini e quindi che non potessero svolgere le professioni connesse con i diritti politici che presupponevano la fede cattolica: non il soldato, il magistrato, il notaio, le alte cariche del Governo, il professore o l’istitutore, l’avvocato patrocinante[10], il procuratore legale[11].

Nel campo commerciale la convinzione comune era che un ebreo non potesse possedere la buona fede necessaria al traffico, che mancasse di fede ai patti e di moderazione nei guadagni e che si vendicasse duramente contro chi fosse considerato oppressore nelle contrattazioni[12].

La presunzione in capo agli Ebrei di pravità determinava dunque una certa regolazione dei rapporti commerciali. Ancora in una decisione senatoria del 2 dicembre 1729 si stimavano gli Ebrei pravi e tristi.

Il Re franco Clotario adottò la soluzione radicale del Concilio V di Parigi per cui nessun ebreo poteva intentare giudizio contro un Cristiano[13].

Napoleone stesso riprenderà la legislazione di Clotario e imporrà ai contadini di fare con gli Ebrei solo contratti d’immediata esecuzione e per l’effetto farà considerare non valevole in giudizio qualsiasi titolo di credito contro la gente di campagna[14].

Inoltre preciserà che debbano essere messe a carico della università ebraiche “oltre le multe pecuniarie tutte le spese di processo, custodia, manutenzione ed indennizzazione per delitti di fraude e d’inganno che da’ suoi membri ed amministrati si commettano[15].

Già Riccardo Cuor di Leone[16] stabilì che ogni loro contratto si facesse in pubblico, in presenza di testimoni, e se ne stendessero tre copie: una per il rappresentante del fisco, l’altra per un probo-viro, la terza per l’Ebreo creditore: tale sistema era deputato a far sì che l’Ebreo non potesse alterare il contenuto della scrittura.

Lo stesso Statuto di Genova del 1752 stabilisce che il contratto venga registrato in apposito libro oppure che intervenga un sensale cristiano[17].

Il Codice estense del 1771 prevede che “Ne’ libri de’ loro negozii non dovranno gli ebrei scrivere in lingua ebraica, ma bensì in lingua comune, che possa essere intesa da ognuno sotto la suddetta pena di scudi venticinque in caso di contravvenzione”.

Le Costituzioni ordinano agli Ebrei di tenere un libro in cui i contratti di vendita o di prestito fossero registrati[18] e di darne nota ogni mese alla segreteria del Tribunale di loro residenza[19]  che dovrà provvedere a registrare ogni mese le operazioni in un libro  “darà intiera fede tanto in giudizio, che fuori”[20]; vietano inoltre agli Ebrei di ricever o comperar o permutare cose di sorta dai minori[21].

Già il senatoconsulto Macedoniano[22] concesse il rimedio pretoreo dell’exceptio ai filii familias (i sottoposti all’autorità e al potere del pater familias) attraverso il quale essi potevano annullare le pretese dei creditori che avevano prestato loro denaro a mutuo senza il consenso del pater.

Fu in sostanza proibito dare in prestito danari ai figli di famiglia e ad altri discendenti soggetti al patrio diritto sotto pena di perderli e colla privazione al mutuante di ogni azione per ripeterli ancorché divenuto il figlio di famiglia di pieno suo diritto, o per l’emancipazione, o per la morte del padre, essendo una tale eccezione perpetua per esser nullo dal suo principio il contratto.

Il Senatoconsulto vietava però solo il prestito in contanti, non già in altra specie come grano, vino, olio ed altre cose, che consistono in peso e misura.

Giovava al padre e al fideiussore. Il figlio di famiglia non poteva rinunciare al beneficio di questo Senatoconsulto, perché non tutelava tanto il figlio, ma era stato emesso anche in odio dei creditori ed usurai per favorire il rinunciante ma pure il genitore e la pubblica utilità.

La morte del pater era ininfluente e così il conseguimento da parte del figlio di una qualche dignità.

Diversa però era l’ipotesi in cui il debito fosse stato contratto dopo aver conseguito una dignità che scioglieva dal patrio diritto.

Il soldato generalmente poi non poteva godere di tale beneficio. E così per il figlio che abitando separatamente dal padre esercitasse un’attività economica indipendente, oppure se sciolto dal vincolo paterno, avesse riconosciuto il suo debito, si fosse nuovamente obbligato, avesse pagata parte del debito ovvero dato un pegno.

Il Senatoconsulto non valeva ancora se il figlio di famiglia pur avendo contrattato all’insaputa del padre, avesse ottenuto da lui ratifica dell’affare tacita od espressa; del pari se l’affare fosse stato trattato col consenso paterno; se infine il figlio avesse ricevuto denari che il padre avrebbe dovuto somministrare per esempio inerente a libri per gli studi, per gli alimenti, vestiario, ed altro necessario.

La prescrizione che viene ripresa dalle Costituzioni verrà sostituita nel Codice sardo del 1837 dalla disciplina degli articoli 1919-1925 che ha tenore analogo al senatoconsulto Macedoniano[23].

Le Costituzioni  vietano poi agli Ebrei di contrattare, permutare, impegnare o trafficare oggetti che siano stati utilizzati per il culto divino[24] o di acquistare e vendere beni da persone sconosciute o sospette[25]. Queste disposizioni vennero sostituite dall’art. 688 C.p. del 1839.

Gli si impone nel caso di smarrimento di pagare il pegno secondo il valore indicato dal compratore[26], di non poterlo trasferire, salvo che nel caso di guerra o di peste e manifestando comunque il tutto in anticipo e con una pubblica grida[27].

Non a tutti gli Ebrei era poi concesso di tenere banchi di prestito con pegno, ma solo ad alcuni con autorizzazione regia, sebbene tutti gli Ebrei potessero esercitare il mestiere dell’usura[28].

(Continua)


[1] C. CATTANEO, Ricerche economiche sulle interdizioni della legge civile agli Israeliti, op. cit., p. 89 e ss.

[2] E ciò perché la piazza di farmacista era considerata bene immobile.

[3] Forse perché la laurea era in fisica, medicina, chirurgia e farmacia e quindi chi diventava fisico diventava anche medico e farmacista. L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 72.

[4] Tit. IX par. XV del Codice estense del 26 aprile 1771.

[5] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 68-69.

[6] Tra gli altri Bonifacio IX, Giulio III, Giulio II, Leone X, Innocenzo VII, Giovanni XXII, Benedetto XIII, Paolo III, Pio IV.

[7] Altri invece gli furono nemici: Eugenio IV, Niccolo V e Calisto III.

[8]  Si ricordano qui Ferdinando I di Napoli, Galeazzo Maria Sforza e Guglielmo Gonzaga di Mantova. Cfr. G. LEVI, op. cit., p. 199 e ss. G. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, p. 14.

[9] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 91.

[10] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 70. La laurea in legge era preclusa ancora nel 1848.

[11] Perché gli Ebrei erano considerati infami per diritto canonico e quindi non potrebbero diventare nobili come è successo ad alcuni procuratori. Tuttavia era possibile esercitare davanti al Tribunale mercantile perché permesso dall’art. 670 del cod. di commercio. J.  SESSA, Tractatus de Judaeis, op. cit.

[12] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 54.

[13] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 86.

[14] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 87.

[15] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 88.

[16] 1157-1199.

[17] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 53.

[18] Il paragrafo 4 stabilisce che “Dovranno gli Ebrei notar’ in un Libro i Contratti di Compra, Pegno, ed altri, che faranno co’ Criftiani, defcrivendo il nome, e cognome delle Perfone, con fpecificazione delle cofe contrattate,  fotto la pena, che fopra”.

[19] Al paragrafo 5 era sancito un altro obbligo che riprende analoga norma emanata da Carlo Emanuele I il 19 ottobre del 1620. “Di mefe in mefe fotto la fteffa pena dovranno dare la nota al Segretario del Tribunale, ove dimoreranno, delle fuddette Compere, e de’ Pegni, efprimendo chiaramente tutte le circostanze, fopra le quali avranno convenuto”.

[20] Il paragrafo 6 dispone per la precisione che “I fuddetti Segretarj faranno tenuti di ricevere dette Confegne ogni volta che loro fi prefenteranno, e quelle fedelmente regiftreranno, fotto la pena di Scudi venticinque d’oro, in un Libro a ciò deftinato che dovrà  da effi di mefe in mefe fosfriversi, ed al quale fi darà intiera fede tanto in giudizio, che fuori”. La giurisprudenza ci mise un po’ ad adattarsi a questa disposizione tanto che nel 1729 una sentenza stabilì che i libri dei mercanti ebrei fanno fede in giudizio “provata la buona riputazione del mercante”. L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 159.

[21] Il paragrafo 3 prevede che “Sarà ad effi interamente proibito di comprare, permutare, o pigliare Pegni dalle Perfone Minori, o da Figliuoli di famiglia, che non vivano feparatamente dal Padre, sotto la detta pena di Scudi venti cinque d’oro”.

[22] L. 4. Cod. “Derivò questo Senato Consulto da un tal Macedone infame usurajo il quale soleva somministrare denaro a figli di famiglia, e giungendo il tempo della restituzione, né avendo modo di farla insidiavano la vita, e macchinavano la morte dei Genitori per succedere nei loro beni, e cosi pagare. Teofilo lo deduce da un tal Macedone quale essendosi caricato di grandissimi debiti sulla speranza di pagarli cessato di vivere il Padre, ma questi menando una lunga vita, e non avendo il figlio come sbarazzarsi dai debiti contratti uccise il Padre”.  P. VERMIGLIOLI, Elementi ossiano Istituzioni civili di Giustiniano imperatore, volume primo, edizione seconda, Francesco Baduel, Perugia, 1830, p. 175-178.

[23]1919. Il mutuo fatto ad un figlio di famiglia, benché maggiore, senza partecipazione e consenso del padre od altro ascendente alla cui podestà sia soggetto, è nullo, quantunque l’obbligazione siasi palliata sotto l’apparenza di un altro contratto, o siasi in altro modo fatta frode alla presente legge”.

[24] Il paragrafo 1 è risalente ad Amedeo VIII. “Non farà permesso a verun’ Ebreo di contrattare a titolo di Vendita, permuta, o pegno, nè in altro modo trafficare Mobili di veruna sorta, ori, o argenti, che abbiano fervito al culto Divino, o delle Chiefe, fotto pena di Scudi venti cinque d’oro, e del doppio valore della roba contrattata, oltre alla reftituzione da farfi gratis delle robe, che aveffero ricevute in pegno, permutato, o contrattato”.

[25] Il paragrafo 2 attribuito a Rex Vitt. Amed. riguarda anche i beni extra commercium. “Non ardiranno gi Ebrei, sotto pena del Furto[25], di comprare Vafi, o Arredi d’oro, o d’argento, o Gemme, o Veftimenta, o qualunque altra sorta di robe, che ad effi fi vendano, o si diano per vendere da Perfone tanto non conofciute, che fofpette, o quando convenir anno d’un prezzo affai minore di quello, che comunemente fi venderebbero”.

[26] Il paragrafo 7 già vigente dal 15 dicembre 1603, inerisce il caso di smarrimento del pegno. “Occorrendo, che gli Ebrei perdeffero qualche Pegno, dovranno pagarlo fecondo il di lui valore, e non potendofi fufficientemente verificare per altre prove, fi ftarà al giuramento del Padrone di effo”.

[27] Il paragrafo 8 del capitolo V disciplina gli spostamenti dei beni pignorati. “Non potranno portar’ i Pegni a loro confegnati fuori dei Stati noftri, e fe per accidente di Guerra, o di pefte (che Dio non voglia) foffero neceffitati di trasferirfi dall’una all’altra terra delle noftre Città, e Terre, sarà permeffo ai medefimi di feco trafportarli, manifeftando però otto giorni avanti la partenza con pubblica Grida quefta loro rifoluzione, acciocchè, fe alcuno de’ Proprietarj voleffe rifcoterli, abbia il tempo di farlo”.

[28] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 84. Il paragrafo 9 disciplina in particolare l’attività dei banchieri come già da Carlo Emanuele I il 19 ottobre del 1620. “I Banchieri Ebrei, a’ quali  è da Noi conceffo di poter preftare danari fopra il Pegno, dovranno fotto la fteffa pena dare il rifcontro a quelli, che vorranno far’ i Pegni con un Bullettino, in cui farà notato in lingua volgare il Giorno, Mefe, ed Anno, col Nome, e Cognome di chi gli avrà impegnati, e vi fi defcriverà diftintamente la cofa, che farà rimeffa in Pegno, la fua vera qualità, e quantità, il pefo, o numero, o la mifura rifpettivamente di effa”.

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (ventunesima parte)

Il Capo II è intitolato “Che non poffano gli Ebrei fabbricare nuove Sinagoghe, né alzare la voce nelle loro Uffiziature.”

Ancora nel 1848 si riteneva che il mosaismo fosse un culto tollerato.

Si considerava tollerato un culto di cui non era lecito l’esercizio in pubblico, ma che si permetteva perché ciò consentiva di evitare maggiori danni.

Così dove non c’erano sinagoghe si permetteva che gli Ebrei potessero raccogliersi in case private[1]: ciò corrispondeva del resto ad un uso antico, visto che sino al III secolo e.V. non esistevano le sinagoghe in quanto edifici.

Ma questo permesso era concesso a patto che non partecipassero alle cerimonie Cristiani o Cristiane.

L’interdetto relativo ai Cristiani affonda le sue ragioni nel Concilio di Antiochia convocato da Costantino nel 341 e.V.

Nacque dall’intento di impedire che la comunità giudaica di Antiochia che era una delle tre comunità ebraiche maggiori del mondo antico, potesse continuare ad attrarre i Cristiani.

All’epoca questi ultimi si rivolgevano al tribunale della sinagoga perché ritenuto più giusto; pronunciavano giuramenti nella sinagoga perché li ritenevano maggiormente vincolanti.

Gli Ebrei erano ritenuti abili medici ed esorcisti. Le cerimonie ebraiche erano accompagnate dalla musica, incenso e cerimonie di grande effetto che avevano presa sui Cristiani i quali sostanzialmente si recavano nella sinagoga come se andassero a teatro.

I Cristiani partecipavano anche ai digiuni ebraici e mangiavano il pane azzimo[2].

Sia il concilio di Antiochia, sia quello di Laodicea impongono la scomunica per chi partecipa a pratiche giudaiche o alle feste degli Ebrei[3].

Siccome poi gli Ebrei dovevano rispettare il sabato, accadeva spesso che i Cristiani accendessero i lumi in questo giorno nella sinagoga o nelle case ebraiche, cosa che la Chiesa non poteva tollerare tanto che li considerò gesti di superstizione[4] che comportavano l’allontanamento dalla Comunione.

Già nel Concilio di Nicea del 325 si era peraltro stabilito il divieto di celebrare la Pasqua con gli Ebrei[5].

In virtù di queste tradizioni e precetti il paragrafo 3 del CAPO II dispone: “Gli Ebrei, che abiteranno in quelle Città, nelle quali non abbiano Sinagoga, potranno recitare nel modo di fopra[6] i loro Uffizi nelle Cafe da effi abitate, ma non avranno libertà di introdurre, sì nelle Sinagoghe, che nelle dette Cafe verun Criftiano, o Criftiana per il tempo, che tali efercizi dureranno, fotto pena di Scudi dieci d’oro”.

Chi però turbasse e impedisse l’esercizio del rito in Piemonte poteva però essere  multato o nei casi più gravi incarcerato (art. 169 Codice penale sardo).

Nemmeno la forza pubblica poteva arrestare gli Ebrei durante il culto o comunque in sinagoga (così stabiliva lo Statuto ligure).

Ma il furto nelle Sinagoghe non poteva godere dell’aggravante per ragione del luogo[7]: questa regola avrebbe fatto storcere il naso ai Romani che consideravano le sinagoghe loca religiosa e dunqueil furtodi oggetti sacriera considerato sacrilego sin dal tempo di Cesare e di Augusto; alcune sinagoghe sino a che non venne riconosciuto alle Chiese dagli imperatori cristiani, mantennero anche il diritto di asilo.

Nel diritto romano giustinianeo invece le Sinagoghe non erano considerate cose sacre, sante o religiose: vigeva il solo divieto di bruciarle e ai soldati di acquartierarsi in esse[8]: la mentalità sabauda era  avvicinabile alla giustinianea perché la religione di stato era quella cattolica; del resto ed in prospettiva storica quelli sulle sinagoghe sono stati insieme agli interventi sulle dignità e sul divieto della leva militare, i primi provvedimenti con cui la dottrina cristiana entra nel diritto romano.

C’è da aggiungere però che i governi in generale quando le casse erano vuote, specie dopo la Rivoluzione francese, non si facevano soverchio scrupolo a requisire sia gli argenti e gli ori non destinati al culto della Chiesa, sia gli argenti presenti nelle Sinagoghe: né è un solare esempio quanto accadde nella Repubblica  Ligure nel 1798[9].

Aggiungiamo qui ancora qualcosa sugli ufficiali del culto per quanto le norme delle Costituzioni non se ne occupino.

I rabbini erano gli ufficiali del culto: quelli delle università maggiori avevano un potere gerarchico sui rabbini delle università minori comprese nel circolo delle maggiori.

Il titolo di rabbino si conferiva da un collegio di professori di teologia rabbinica, dopo opportuna frequentazione universitaria, anche se il rabbino doveva essere nominato ed approvato dal Regio Governo ed essere suddito, salvo eccezioni approvate, di Sua Maestà.

Mentre in Francia, almeno dal 1831, potranno godere anche di pubblica pensione e il pubblico tesoro si farà carico anche delle spese per la scuola rabbinica, non così avveniva in Piemonte che stipendiava solo i ministri dei culti protestanti e quindi le spese del culto venivano sopportate dalla Corporazione israelitica.

Il rabbino era inoltre rimuovibile per giusta causa dall’università israelitica. Nel 1837 diventerà anche ufficiale dello Stato civile. Poteva infliggere la scomunica e ciò, abbiamo detto, si verificava di sicuro se non veniva pagata l’imposta sul reddito presunto.

(Continua)


[1] Il paragrafo 3 riprende analoga norma emanata da Carlo Emanuele I il 15 dicembre del 1603:”Gli Ebrei, che abiteranno in quelle Città, nelle quali non abbiano Sinagoga, potranno recitare nel modo di sopra i loro Uffizi nelle Case da essi abitate, ma non avranno libertà di introdurre, sì nelle Sinagoghe, che nelle dette Case verun Cristiano, o Cristiana per il tempo, che tali esercizi dureranno, sotto pena di Scudi dieci d’oro”.

[2] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 520 e 534.

[3] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 550.

[4] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 535.

[5] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 529.

[6] Ossia senza alzare la voce e recitando in tono modesto e sommesso (v. par. secondo)

[7] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 56-57.

[8] Codex. L. 9. 1.9.4. Imperatori Valentiniano e Valente a Remigio, Maestro di cerimonie.

Devi comandare che chi entra in una Sinagoga ebraica come se si sistemasse per acquartierarsi, si abitui per questa ragione ad entrare in case private, e non in luoghi di culto”.

Data a Trieste il 6 maggio del 365 o 370 o 373. La disposizione è stata ripresa anche nel Codex Theodosianus (7.8.2).

[9] Cfr. A. RONCO, Storia della Repubblica Ligure 1797-1799, Fratelli Frilli editori, 2005, p. 264.

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (diciannovesima parte)

Nel 1348 durante il periodo della peste nera alcuni Giudei furono accusati come peraltro in Spagna, Francia e Germania[1], di avvelenare le acque ed impiccati[2]. Nel 1358 Amedeo IV, detto il Conte Verde, concedette loro di fare dimora in Bressa[3].

Sappiamo che nel 1424 furono ammessi a stabilirsi in Torino perché prestavano il denaro a tassi d’interesse ritenuti convenienti e qui poterono, oltre a vivere in mezzo i Cristiani, anche esercitare la professione di beccaio (macellaio). Ma il Comune nel 1457 li costrinse a dimorare in luogo appartato[4].

Il primo nucleo corposo di norme di cui gli studiosi hanno rinvenuto traccia è costituito dagli Statuta Sabaudiae, due decreti[5]del duca Amedeo VIII[6] del 17 giugno 1430 da cui apprendiamo peraltro che diversi predecessori[7] avevano a loro volta concesso agli Ebrei privilegi, indulti e statuti.

Nel primo libro del decreto si prescrivono in particolare i limiti della tolleranza in funzione dei quali si lasciavano risiedere gli Ebrei negli Stati del Duca.

Si vieta pertanto la comunanza degli Ebrei e Cristiani: si proibiscono in particolare i rapporti tra Ebrei e Cristiani nei giorni festivi e negli altri si considera lecito soltanto il commercio, non si permette la coabitazione nemmeno per ragioni di lavoro; s’impone la segregazione nel ghetto; si vieta l’esercizio dell’usura, e si stabiliscono le regole con cui i convertiti dal giudaismo debbano essere trattati, riconoscendosi però nello stesso tempo il principio per cui nessuno può essere convertito forzatamente al Cristianesimo[8].

Si proibisce ancora la costruzione di nuove sinagoghe; il canto a voce alta nelle funzioni religiose; si minacciano pene severissime contro i bestemmiatori; si interdice l’uscita dal ghetto negli ultimi giorni della settimana santa[9].

La maggior parte di questi principi che provengono dal diritto giustinianeo si ritroveranno, come vedremo, anche nella legislazione dell’Età dei Lumi.

Come in età romana la vita degli Ebrei era regolata da condotte[10] che duravano in media dieci anni: gli Ebrei non erano, in altre parole, sudditi dei Savoia, ma si consideravano appartenenti a colonie di una nazione nomade a cui veniva accordato dal sovrano il diritto temporaneo a soggiornare in un dato territorio alle condizioni che il potere riteneva più vantaggiose.

Tale situazione cesserà solo con il Codice civile sardo del 1837 con cui si stabilì (art. 18) che “Ogni suddito gode dei diritti civili, salvo che per proprio fatto ne sia decaduto. I non cattolici ne godono secondo le leggi, i regolamenti e gli usi che li riguardano. Lo stesso è degli Ebrei”.

Quest’ultima norma è di sommo rilievo perché con essa viene a cessare in Piemonte l’autonomia ebraica (universalità ebraica)[11] e l’impossibilità di diventare proprietari di beni stabili[12], ma ciò non conferirà agli Israeliti i diritti politici strettamente collegati presso i Savoia con la religione dello Stato che era al tempo quella cattolica: quindi essi non potevano comunque concorrere ad impieghi pubblici o professare in pubblico il loro culto.

Il che è, si fa per dire, comunque un salto di qualità se si pensa che un secolo prima ci si domandava tra i  giuristi se chi uccidesse un Ebreo dovesse o meno essere soggetto alle pene ordinarie per omicidio e si considerava ancora presunzione legale la condizione di malvagità in capo agli Ebrei[13].

Un illustre giurista, già collaboratore di Napoleone e membro del Corpo Legislativo francese durante l’Impero, considerava il giudaismo come un morbo asiatico, “come la peste bubonica ed il vaiuolo entrato una volta in Europa, non fu più possibile spegnere quel germe, né si poté far altro che limitare l’espansione e moderarne la malignità[14] e a metà del secolo si sottolineava[15] che fosse credenza generalmente ammessa anche se contrastata, che il Talmud fosse contro natura[16] e avesse finalità anticristiane e antisociali[17].

(Continua)


[1] Parecchie migliaia furono in questi paesi bruciati vivi. Clemente VI allora li ospitò ad Avignone per sottrarli al massacro.

[2] E ciò perché morivano in pochi di peste: ma ciò era dovuto al fatto che gli Ebrei vivevano lontano dagli altri, avevano per religione una scelta più accurata dei cibi e delle bevande (bevevano il vino solo se era prodotto da loro) e conducevano una vita sobria.

Si pensa che la credenza fu alimentata anche dal fatto che gli Ebrei usavano lavarsi le mani anche nelle acque pubbliche dopo aver accompagnato i defunti al cimitero: e ciò perché le Sacre Scritture ritenevano impuro il contatto con il corpo dei defunti. Cfr. G. LEVI, op. cit., p. 23-24. Cfr. Cfr. Mishnà, VI ordine (Tahoròt) ed in particolare il trattato secondo Ohalòt ed il trattato undicesimo Jadàim. A.M. RABELLO, Introduzione al diritto ebraico, Fonti, Matrimonio e Divorzzio, Bioetica, op. cit. p. 32-33.

[3] V. L. CIBRARIO, Origini e progresso delle instituzioni della Monarchia di Savoia: specchietto cronologico, Stamperia Reale, Torino, 1855.

[4] V. L. CIBRARIO, Storia di Torino, vol I, Alessio Fontana, Torino, 1846, p. 592.

[5] Divisi in cinque libri perché vi si raffigurassero le principali virtù; nel primo le tre cardinali; nel secondo la prudenza; e nei tre ultimi la temperanza. V. F. SCLOPIS, Storia della legislazione italiana, volume secondo, Unione-Tipografico-Editrice, Torino, 1863, pp. 194 e ss.

[6] Bisogna dire che questo Duca prima di emanare i decreti (1426), su consiglio del provinciale dei domenicani, e del ministro dei Francescani di Chamberì, perseguitò dapprima i Giudei, ne fece ardere i libri, e ne costrinse un buon numero ad abiurare. L. CIBRARIO, Origini e progresso delle instituzioni della Monarchia Savoia, op. cit., p. 419 e ss.

[7] Il conte Edoardo nel 1319 ad esempio fece emanare alcune norme per correggere il vizio dell’usura.

[8] V. F. SCLOPIS, Storia della legislazione italiana, op. cit., pp. 194 e ss.

[9] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 13.

[10] L’utilizzo delle condotte rimase praticato sino al 1814. L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 13.

[11] Gli Ebrei da questa data non sono più tali, ma sudditi piemontesi, genovesi ecc.

[12] Impossibilità che era stata ribadita con una legge del 1822.

[13] Così per J. SESSA, Tractatus de Judaeis, Augusta Taurinorum, 1717.

[14] F. GAMBINI, Della cittadinanza giudaica, 1834, Tipografia di Giuseppe Pomba & C., Torino, p. 17 e 22.

[15] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 32.

[16] JEWS, Dissertazione sopra il commercio, usure, e condotta degli Ebrei nello Stato pontificio, Tipografia Perego Salvoniana, Roma, 1826, p. 3.

[17] G.B. DE-ROSSI, Dizionario storico degli autori Ebrei e delle loro opere, v. voce Talmud, Vol II, Della Reale Stamperia, Parma, 1802, p. 138 e ss.

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (diciottesima parte)

2. Gli Ebrei in Piemonte sino al XVIII secolo

Il modello romanistico descritto e la condizione or ora esposta si protrassero nei tempi seguenti in modo più o meno marcato nelle diverse città e luoghi; secondo i testi dell’Ottocento il trattamento in Italia fu però complessivamente più mite[1] rispetto a quello che gli Ebrei ricevettero purtroppo in Francia, in Germania[2] in Spagna[3]  e Portogallo.

Possiamo affermare in generale e con buona approssimazione che almeno nella seconda metà dell’Ottocento c’erano in Italia località favorevoli all’insediamento degli Israeliti (Lombardia, Parma, Venezia, Pisa e Livorno[4]), luoghi dove la legislazione era più mite (tra cui Genova, lo Stato Pontificio[5], il Regno delle Due Sicilie[6], il Ducato di Parma[7]) e dove invece era in vigore una normativa più severa (Ducato di Modena[8])[9].

Stimo di particolare rilievo quanto avvenne in Piemonte nei secoli precedenti perché la dottrina ottocentesca (nel particolare D’AZEGLIO) considerava la legislazione sabauda come la più dura e le pagine che seguiranno ne daranno debito conto.

Sull’insediamento degli Ebrei in Piemonte non si sono rinvenute molte notizie; è probabile che molti fossero profughi dalla Francia a cominciare dal 1180.

Filippo Augusto, come abbiamo già detto, per far fronte ai costi delle Crociate aveva, infatti, confiscato agli Ebrei tutti i beni immobili ed i preziosi e li aveva cacciati dalla Francia.

Abbiamo notizia che nel 1300 i Giudei pagarono alla monarchia sabauda lire 3481, 16 soldi e 6 danari viennesi.

E nel 1344 gli Ebrei dello Stato del Conte di Savoia pagavano l’annuo censo di 116 fiorini d’oro di Firenze alla fine di ogni mese.

Ciò accadde perché i Giudei nei tempi medi per entrare in un dato territorio, per dimorare su terra o prestare su pegno dovevano pagare al Principe un tributo annuo detto stagio che inizialmente era individuale e poi divenne collettivo. Si calcolava in ogni caso sempre per testa e i capi famiglia dovevano corrispondere una somma maggiore.

In paesi diversi dal Piemonte esistevano anche le decime ed un’imposta detta pretatico che l’universalità israelitica doveva pagare ai parroci limitrofi al ghetto.

In Toscana si pagava una tassa per l’esenzione dal servizio militare; nel Ducato di Modena una tassa sulla tolleranza.

In Germania si pagavano anche le tasse di abitazione, pigione e protezione che saranno abolite solo nel XVIII  secolo.

Quando poi gli Ebrei ricchi morivano, onde evitare noie alla progenie, facevano dei legati al Principe oppure effettuavano in vita ricchi donativi quando il Principe li richiedeva[10]: non acconsentire, infatti, comportava la persecuzione, il tormento, il bando e la confisca.

Anche se in Piemonte l’arbitrio fu limitato: abbiamo notizia che dal 1430 sino almeno al 1848 gli Ebrei furono sottoposti soltanto al tasso regio ed a un donativo che doveva effettuarsi al rinnovamento della condotta, ai tributi e gabelle comunali che andavano pagati al Podestà ed al Vescovo per la tolleranza della Santa Sede, a donativi una tantum[11] ai magistrati (primo magistrato ed avvocato fiscale della provincia) e alle Università per evitare che gli studenti li molestassero  nell’esercizio del commercio e del prestito.

Il Tasso regio era ad esempio a Torino di 17 mila lire antiche di Piemonte, e non poteva variare per tutto il tempo della condotta, mentre l’importo del donativo era variabile.

Però certamente nel 1714 potevano godere del sussidio di povertà di 250 franchi dopo il dodicesimo figlio, sempre che il parroco redigesse certificato di moralità[12].

Gli Ebrei erano poi soggetti ancora nell’Ottocento al pagamento ad ogni Università di una imposta sul patrimonio presunto[13].

Ogni Giudeo era tenuto a formare un inventario delle sue sostanze ogni 3 anni e poi ogni 5 e doveva pagare presso l’Università di suo domicilio  una tassa proporzionale che variava secondo la qualità e quantità del patrimonio.

Chi frodava l’Università o si sottraeva al contributo incorreva nella scomunica che veniva irrogata nella sinagoga e comportava una pubblica affissione: il contributo versato da ognuno rimaneva segreto, ma non per l’intendente e l’esattore nel caso l’inventario venisse ritenuto inveritiero; il debitore contribuente che avesse voluto opporsi al ruolo avrebbe però comunque dovuto pagare la metà della quota attribuita[14].

(Continua)

[1] M. D’AZEGLIO, Dell’emancipazione civile degli Israeliti, op. cit. p. 21.

[2] All’opposto furono molto tolleranti la Polonia e l’Olanda. In Polonia erano consentiti i matrimoni misti ed in entrambe i paesi si poteva abbandonare la fede cattolica per abbracciare quella giudaica. Cfr. G. LEVI, Op. cit., p. 294-295.

[3] Durante il Regno di Isabella e Ferdinando il Torquemada espulse dal Regno dopo averli depredati 80.000 Ebrei che furono per lo più condannati a morire di fame o a diventare schiavi. Solo Genova li accolse benevolmente. In Siviglia in quel mentre si giunse a violare i cimiteri ebraici per cercare oggetti preziosi. M. D’AZEGLIO, Dell’emancipazione civile degli Israeliti, op. cit. p. 16.

[4] A Livorno gli Ebrei non potevano essere molestati per debiti o delitti anteriori alla presa del domicilio (cosiddetta Livornina), né potevano essere attaccati dall’Inquisizione per eresia, nemmeno se prima di abbracciare l’ebraismo fossero stati cristiani.

[5] Le leggi pontificie assicuravano il godimento dei diritti civili.

[6] Al Sud in particolare gli Ebrei non erano tenuti a dimorare nel ghetto. Tuttavia dopo il 1745 furono cacciati e quindi la loro presenza nel regno delle Due Sicilie non era legale.  Lo stesso accadeva a Lucca. L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 119.

[7] Qui potevano essere soldati, avvocati, impiegati pubblici e consiglieri municipali. M. D’AZEGLIO, Dell’emancipazione civile degli Israeliti, Le Monnier, Firenze, 1848, p. 23.

[8] Qui ancora nel 1831 gli Israeliti pagavano un tributo per rimanere nel Ducato e dovevano usare come segno distintivo un nastro giallo.

[9] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 8.

[10] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 93 e ss.

[11] In occasione del Natale. Vennero aboliti solo nel 1822, perché in quanto sudditi gli Ebrei non dovevano omaggiare più nessuno.

[12] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 98. E ciò grazie alle regie patenti del 15 dicembre del 1603 (“Né parimenti che possano essere astretti a far prestiti di denaro per cause di sussidio meno per spontanea volontà loro…”)

[13] Era pure riscossa una tassa di fogaggio che veniva pagata da tutti gli individui ad eccezione dei rabbini e dei poveri, nel caso in cui non fosse possibile determinare l’effettivo patrimonio.

[14] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 140 e ss.

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (quattordicesima parte)

1c) L’arte feneratizia e la caccia all’usuraio

Leone l’Iconoclasta costrinse infine gli Ebrei al battesimo e interdisse le eredità ai non ortodossi.

Quest’ultima interdizione fu cruciale ed indusse gli Ebrei a dedicarsi all’arte del prestito. Ma in quei tempi colui che gestiva il denaro e ne ricavava anche un lecito interesse era considerato reo di usura; sulla scorta della dottrina aristotelica si pensava, infatti, che la moneta dovesse mantenersi improduttiva e che solo la terra potesse fornire un reddito[1].

Si tenga conto che a livello pratico questa opinione sulla improduttività della moneta  si scontrava contro una lunga ed antica prassi contraria: l’interesse mercantile fu stabilito sul tempo del trasporto e quindi non dell’anno, proprio dai Greci nel 20-30 per cento per i viaggi di andata e ritorno (peraltro in Grecia  l’obbligo di pagare interessi al mutuante era considerato anche nel mutuo civile un elemento naturale del prestito in denaro).

Sin dalla Roma arcaica si distingueva tra usura lucratoria, punitoria e compensatoria.

La prima era assolutamente vietata e veniva definita come la volontà di ricevere oltre il capitale qualche guadagno temporale per causa di mutuo o prestito.

La punitoria, che consisteva nella pena per il ritardato pagamento,  era quella pattuita nel contratto e l’interesse stava in luogo della pena; era considerata illecita se avesse avuto come funzione non quella di recuperare presto la sorte, ma di lucrare.

La compensatoria consisteva invece nel lucro perduto e nel danno sofferto ovvero nell’interesse che si esigeva per il pericolo di una determinata operazione ed era considerata lecita.

Vi era poi da considerare l’anatocismo che era illecito e che consisteva nella capitalizzazione della usura a fine anno in modo che si potesse produrre altra usura[2]. Si trattava dell’operazione più significativa che serviva  appunto per violare il limite legale delle usure.

In particolare si distingueva il caso in cui gli interessi scaduti, se non pagati, producessero a loro volta interessi (anatocismo separatus) dalla capitalizzazione che si verificava quando gli interessi già maturati venissero integrati nel capitale da restituire e sul coacervo si facessero decorrere gli interessi (anatocismo coniunctus) [3].

Secondo Tacito il divieto di anatocismo in Roma risale circa al IV secolo a.C.

Le XII tavole già fissavano un tetto massimo per le usure (tasso unciarum)[4].

Nel 342 a. C. con il plebiscito Genucio si sarebbe proibito il prestito ad interesse.

Nel 72-70 a. C. viene varato dal Licino Luculio per la provincia d’Asia il divieto di anatocismo e di richiedere come interesse il doppio del capitale. Il proconsole fissa il tasso massimo di interessi nella misura della centesima (1% al mese, 12% all’anno) e stabilisce che i creditori possono appropriarsi al massimo di un quarto del patrimonio del debitore. Chi avesse posto in essere un anatocismo coniunctus poteva essere sanzionato con la perdita del credito.

Il divieto di anatocismo viene esteso poi a Roma forse con Cesare[5].

Nel 51 a. C. Cicerone, nella qualità di proconsole della Cilicia, vieta la contrazione di un prestito per onorarne uno precedente e stabilisce il tasso legale nella misura della centesima.

Tale intervento non ha grande fortuna pratica perché la classe senatoriale aveva timore che il proconsole volesse aprire la strada alla remissione dei debiti.

Per superare il problema comunque i Romani utilizzavano, tra gli altri strumenti, la stipulatio ossia una promessa astratta con cui ci si obbligava a pagare una certa somma, ma non si distingueva quanto fosse dovuto per capitale ed interessi[6].

Sotto l’Imperatore Severo si stabilisce che l’interesse non possa superare il capitale originariamente prestato e che fossero vietati gli interessi su interessi nei limiti appunto del doppio del capitale. Si vieta inoltre la stipulatio e si dispone la restituzione dell’interesse[7].

Diocleziano nel 260 commina la sanzione dell’infamia[8] per coloro che facessero prestiti ad interesse applicando tassi oltre il limite consentito e coloro che ricorrevano illecitamente all’anatocismo[9]; nel 294[10] lo stesso imperatore dispone che il secondo creditore di un debitore non può esigere l’anatocismo separatus.

Nel 313 si stabilisce che gli interessi superiori alla centesima vengano ridotti ope legis entro i predetti limiti.

Nel 529[11] Giustiniano vieta l’anatocismo sotto qualsiasi forma e quindi pone fuori legge le cosiddette usurae usurarum ossia gli interessi su interessi. Per i prestiti di frutti ed altre cose fungibili si considerava addirittura lecito l’interesse del 50 per cento[12].

(Continua)


[1] Nel I libro della Politica Aristotele specifica che la destinazione naturale di un bene è il suo uso e non il suo scambio. A. BISCARDI, Diritto greco antico, op. cit., p. 190.

[2] P. VERMIGLIOLI, Elementi ossiano Istituzioni civili di Giustiniano imperatore illustrate e commentate, volume secondo, edizione seconda, Tipografia di Francesco Baduel, 1830, p. 16.

[3] F. FASOLINO, Studi sulle usurae, Bruno Libri, 2006, p. 14.

[4] F. FASOLINO, Studi sulle usurae, op. cit. p. 25.

[5] Sedcondo Mommsen.

[6] F. FASOLINO, Studi sulle usurae, op. cit. p. 19.

[7] F. FASOLINO, Studi sulle usurae, op. cit. p. 43-45.

[8] Ciò comportava l’esclusione dalle cariche pubbliche, la perdita della facoltà di essere rappresentati o di rappresentare in giudizio; talvolta l’incapacità di prestare testimonianza

[9] F. FASOLINO, Studi sulle usurae, op. cit. p. 61.

[10] C. 1.8. 13. 22.

[11] C. 1. 4. 32. 28.

[12] C. CATTANEO, Ricerche economiche sulle interdizioni della legge civile agli Israeliti, op. cit., p. 45; v. A. BISCARDI, Diritto greco antico, op. cit.,  p. 155-156.

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (dodicesima parte)

Si inibì inoltre ai Cristiani la partecipazione a feste religiose ebree[1]; e almeno all’origine furono integralmente proibiti i rapporti di lavoro o di servizio (famulato).

Con il Codice Theodosiano viene stabilita la liberazione di uno schiavo pagano o cristiano[2], la perdita dello schiavo e la punizione del padrone che lo avesse fatto ebreo[3], ed in seguito con le Novelle la pena di morte e la confisca dei beni per il padrone ebreo che avesse indotto alla conversione lo schiavo o con la persuasione o con la forza[4].

Già nel 335 Costantino stabilì in primo luogo che se un Ebreo avesse acquistato e circonciso uno schiavo cristiano, o di altra setta, il padrone avrebbe perso il diritto di proprietà sullo schiavo e questi avrebbe ottenuto la libertà.

Con il figlio Costanzo si stabilì la confisca dello schiavo comprato dall’Ebreo e la pena di morte per la circoncisione; se poi lo schiavo acquistato fosse stato cristiano l’Ebreo poteva perdere il possesso di tutti i suoi schiavi.

Con Teodosio I si facilità il riscatto dello schiavo cristiano, e con Teodosio II e Onorio si permise in un primo momento di mantenere la proprietà e patto che lo schiavo potesse mantenere la fede cristiana.

Ma nel 417 gli stessi imperatori ritornarono sul tema prevedendo appunto la pena di morte per chi avesse convertito lo schiavo unitamente alla confisca dei beni.

Il primo concilio di Macon nel 581 renderà poi obbligatoria l’accettazione del riscatto da parte dell’Ebreo per 12 solidi.

Gregorio Magno negherà in assoluto il diritto degli Ebrei di possedere schiavi cristiani e di ottenere indennizzo per il riscatto, a meno che la fede dello schiavo non sia messa in pericolo.

Con il IV Concilio di Orleans nel 538 si stabilì che lo schiavo cristiano poteva essere riscattato al giusto prezzo per il solo fatto di non voler servire un Ebreo e all’uopo i fedeli dovevano fare una colletta.

Lo schiavo poteva comunque chiedere il diritto d’asilo nelle Chiese ed il padrone non poteva punirlo per essersi ivi rifugiato.

Con Giustiniano si stabilì che il servo dell’Ebreo[5] che fosse divenuto cristiano avrebbe acquistato ipso facto la libertà, senza che ci fosse il bisogno di pagare un riscatto[6].

L’imperatore fissa inoltre il principio per cui “I Giudei saranno condannati alla confisca dei beni e con esilio perpetuo se sarà constato di aver circonciso un uomo della nostra fede, o dato mandato onde essere circonciso[7].

In pratica con Giustiniano nessun padrone (ebreo, eretico o pagano) può essere proprietario o possedere o circoncidere schiavi cristiani. L’Ebreo poteva dunque acquistare solo schiavi ebrei o pagani[8].

Tale divieto ha avuto un influsso dirompente sulla vita dell’Ebreo nel senso che gli ha fatto abbandonare completamente il lavoro della terra: all’epoca nessuna azienda, che non fosse di proporzioni modestissime, poteva mantenersi senza usufruire dell’ausilio di manodopera servile[9].

Nel 426 Teodosiano II e Valentiniano stabilirono che fosse proibito a genitori o avi ebrei o samaritani diseredare e lasciare fuori dal testamento figli o nipoti che avessero abbracciato il Cristianesimo; se ciò fosse avvenuto il testamento sarebbe stato invalidato e l’erede cristiano avrebbe ricevuto la sua porzione ab intestato[10].

La legittima spettava al figlio e al nipote anche se si fossero macchiati di gravi crimini e fossero stati dunque punibili[11].

Anche in tema di educazione l’intervento imperale fu pregnante perché si stabilì che “Essendovi genitori di diversa fede e religione, la sentenza di colui prevalga, che avrà prescelto di condurli alla fede ortodossa: benché sia anche il padre che si oppone: affinché da ciò, non prendendo occasione di adirarsi, li privi degli alimenti necessari o di qualunque altra spesa necessaria[12].

Si giunse inoltre ad interdire l’edificazione di nuove sinagoghe (438 d. C.)[13], la distruzione delle sinagoghe samaritane[14] e ad imporre agli avvocati ebrei che volessero esercitare il giuramento di fede cattolica (468 d. C.)[15].

Lo scopo dichiarato era che nessun Ebreo dovesse esercitare influenza, autorità o potere su Cristiani, e specialmente sui vescovi, per timore che se ne servissero per nuocere loro o per insultare la fede cristiana[16].

(Continua)


[1] Tuttavia il loro culto fu ammesso anche se veniva definito superstitio e gli Ebrei venivano considerati una secta. B. BIONDI, Il diritto romano cristiano, Giuffré, Milano, 1952, p. 337.

[2] C. Th. XVI, 9.1.

[3] C. Th. III. 1. 5.

[4] Nov. Th. III, 4.

[5] Per l’Ebreo può esserci anche la sentenza capitale (C. 1. 10. 1)

[6] C. 1. 10. 1. 2. Cfr. A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 578 e ss. e p. 714; cfr. anche sul punto V. A. DE GIORGI, Elementi di diritto romano considerati nello storico svolgimento, G. Franz, Monaco, 1854, p. 334.

[7] C. 1. 9. 16.

[8] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 788.

[9] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 785.

[10] Ossia la quarta parte del patrimonio.

[11] C. Th. XVI, 8. 28. Il principio venne ripreso anche nel Codex (C. 1. 5. 13). E ciò probabilmente contribuì ad alimentare la rivolta degli Ebrei contro l’Imperatore.

[12] C. 1. 5. 12.

[13] Era permesso solo di restaurare le sinagoghe pericolanti.

[14]Le sinagoghe dei samaritani son distrutte: e se tentano di farne altre, son puniti”. (C. 1. 5. 17). Non si sa se questa norma venne composta prima o dopo la rivolta dei Samaritani.

[15] Le leggi razziali del 1938-39 che richiesero ai Consigli dell’Ordine degli Avvocati di cancellare i legali ebrei dall’albo professionale ebbero dunque un ben triste ed antico precedente.

[16] CJ I, 5. 12 del 527; CJ I, 9. 18 (19). Cfr. A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 697.

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (undicesima parte)

Si impose poi fortemente una volontà politica di controllo delle nascite, intendimento che potremmo definire di durata ultra millenaria.

Basti pensare che dal XII al XVI secolo fu proibito, nella speranza appunto di limitare le nascite, alle donne cristiane di allattare o fare da levatrici per neonati ebrei.

Molte donne ebree dunque per evitare la morte ai propri figli dovettero dunque cederli a famiglie cristiane interrompendo per sempre i contatti con il loro bene[1].

Ancora nel 1347 fu arso sul fuoco un tal Giovanni Alard che aveva come colpa quella di avere avuto più figli da una giudea[2].

In Francia nel 1767 si ritenne di disporre l’assurdo principio per cui i figli illegittimi di genitori ebrei dovevano essere educati secondo la religione cattolica, anche nel caso di susseguente e legittimante matrimonio; e ciò perché i figli illegittimi si consideravano appartenenti al sovrano[3]. E chi avesse deciso di riprendere la fede giudaica dopo il battesimo veniva processato e punito per eresia [4] che comportava anche la confisca dei beni e pure nei confronti dei defunti[5].

Sino al 1837 in Piemonte si ritenne in virtù di questa legislazione e della sua evoluzione che matrimoni simili meritassero la pena di morte e che i figli nati da quest’unione dovessero considerarsi come incestuosi e quindi non potessero ereditare né ricevere gli alimenti[6].

In Roma fu dunque naturale conseguenza della volontà di limitare le nascite stabilire che tra Cristiani ed Ebrei non si stringesse alcun vincolo: non solo i matrimoni erano considerati nulli[7], ma costituivano altresì adulterio (388 d.C.) e venne attribuito ad ognuno lo ius accusandi[8].

Il fatto di considerare il matrimonio misto come adulterio comportava l’applicazione della pena di morte, con il diritto appunto concesso ad ognuno di esercitare l’azione penale; il Cristiano non poteva sottrarsi al giudizio convertendosi all’Ebraismo[9].

Al contrario nel caso in cui fosse stato un Ebreo a sposare una Cristiana e a convertirsi al Cristianesimo sarebbe caduta ogni accusa di adulterio[10].

Prima di  tale intervento di Valentiniano, Teodosio e Arcadio anche Costantino aveva emanato un editto nel 329 che vietava all’Ebreo di prendere in moglie una donna del gineceo (l’industria tessile imperiale) pagana o cristiana che fosse[11].

Fu la Chiesa spagnola che stabilì il divieto di contrarre matrimoni misti già nel Concilio di Elvira (300-306 d.C.), prima ancora che il Cristianesimo fosse riconosciuto come religione permessa.

La fanciulla che sposasse un ebreo non era punita, ma i suoi genitori venivano allontanati dalla comunione per cinque anni.

Il divieto riguardava il solo Cristiano che peraltro non poteva nemmeno avere una concubina pagana od ebrea perché ciò comportava cinque anni di scomunica[12].

La norma del Codex Theodosianus che considerava il matrimonio misto illecito alla stregua di un adulterio poi passò nel Breviarum Alaricianum e nella Lex Romana Burgundiorum.

La Chiesa in quei frangenti comminava la scomunica a tempo indeterminato, se non si cessava il matrimonio, proprio facendosi forza della legge civile[13].

In Spagna la legislazione fu ancora più aspra perché non si puniva il Cristiano, ma la parte ebraica privandola della patria potestà ed imponendo il battesimo cristiano.

Non si consentì[14] poi agli Ebrei nemmeno il matrimonio secondo le loro usanze (393 d.C.)[15]: in particolare venne vietato[16] il matrimonio tra zio materno e nipote[17] e pure il levirato, ossia il dovere del fratello di sposare la moglie di suo fratello, morto senza discendenza[18].

Tra Cristiani ed Ebrei fu assolutamente proibito coltivare reciproci sentimenti di amicizia o d’altro genere.

Nel Medioevo si arrivò a vietare le discussioni tra Cristiani ed Ebrei[19].

Ancora nel 1347 la regina Giovanna di Napoli vieterà addirittura agli Ebrei di entrare in un pubblico lupanare.

Gli Ebrei più in generale non potevano frequentare meretrici cristiane ed i Cristiani meretrici ebree: Giulio Claro, un giurista del XVI secolo, ci racconta che un ebreo fu condannato per questo delitto alla pena di dieci anni di galera[20].


[1] C. CATTANEO, Ricerche economiche sulle interdizioni della legge civile agli Israeliti, op. cit., p. 114.

[2] CATTANEO, Ricerche economiche sulle interdizioni della legge civile agli Israeliti, op. cit., p. 97.

[3] Così come gli Iloti in Sparta appartenevano allo Stato e solo da esso potevano essere liberati.

[4] Questa era la pena per chi abiurava la fede cattolica dal 1298.

[5] C. CATTANEO, Ricerche economiche sulle interdizioni della legge civile agli Israeliti, op. cit., p. 112.

[6] V. J.  SESSA, Tractatus de Judaeis, Augusta Taurinorum, 1717, p. 112.

[7] Peraltro anche per il diritto ebraico il matrimonio misto era vietato tranne il caso che il coniuge non ebreo si convertisse all’ebraismo. Cfr.  A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 606.

[8] Cfr. C. L. 9. 1. 9. 6. Imperatori Valentiniano, Teodosio e Arcadio a Cynegio, Prefetto del Pretorio. “Nessun ebreo sposerà una donna Cristiana, nessun uomo cristiano una donna ebrea. E se qualcuno compirà una cosa del genere, l’atto sarà considerato della natura dell’adulterio, e a chiunque sarà data la libertà di accusa”. Data in Tessalonica il 30 aprile del 388.

[9] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 746.

[10] Ovviamente ciò era condannato dall’Ebraismo.

[11] C. TH. XVI, 8.6.

[12] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 497 e 569.

[13] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 568.

[14] Solo agli Ebrei di Tiro Giustiniano (Novella 139) consentì di ottenere la validità di matrimoni rituali e la legittimità dei figli nati a patto che venissero versate al patrimonio privato dell’Imperatore dieci libbre d’oro. A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 813.

[15] Codex L. 9. 1. 9. 7. Imperatori Valentiniano, Teodosio e Arcadio a Infante, Conte d’Oriente

Nessun ebreo potrà scegliere il costume della propria gente nel contrarre matrimonio, né contrarre matrimoni diversi allo stesso tempo”. Data a Costantinopoli il 27 febbraio 393.

In merito ai gradi di parentela per cui era proibito il matrimonio la legge ebraica  era più liberale del diritto romano: di qui probabilmente la proibizione di legge.

[16] I divieti sussistevano già ai tempi di Diocleziano.

[17] Consentito dal diritto biblico e talmudico. Già Costanzo e Costante con una costituzione del 342 stabilirono per il caso la pena di morte. A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 750.

[18] Usanza questa prevista dal Deuteronomio 25. 4-13.

[19] M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 711.

[20] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 49.

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (decima parte)

Ci furono peraltro diversi pontefici che si mostrarono assai benevoli con gli Ebrei. Citiamo qui Pio IV, ma soprattutto Sisto V.

Quest’ultimo in particolare stabilì nel 1586 una disciplina illuminata: gli Ebrei ebbero libertà di movimento nei domini pontifici, poterono svolgere qualsiasi arte e commercio (eccettuati soltanto le negoziazioni di vino, frumento e animali), intrattenere rapporti di amicizia e di lavoro con i Cristiani, coltivare al meglio i loro riti, prendere in locazione le loro dimore a prezzi calmierati, studiare i loro libri che non fossero in contrasto con la dottrina cattolica, esercitare la medicina nei confronti dei Cristiani, acquistare la terra per le tumulazioni[1].

Si deve segnalare inoltre che diversi Pontefici cercarono di salvare la vita agli Ebrei perché si potesse compiere la profezia di Isaia[2]  secondo cui alla fine dei giorni essi si sarebbero convertiti al Cristianesimo[3].

Fu soprattutto in conseguenza dell’interdizione alla proprietà della terra che gli Ebrei ricorsero all’arte feneratizia e da tale attività derivò che fossero considerati malvagi ed usurai[4]: il che ha fatto riflettere a lungo storici ed economisti; la conclusione è stata che se questo divieto di proprietà dei beni stabili non fosse stato imposto, probabilmente la stessa storia del mondo occidentale sarebbe radicalmente mutata, almeno in termini di distribuzione della ricchezza.

La liberalizzazione della possidenza avrebbe potuto calmierare l’economia; l’interdizione fu pertanto anche un grave errore di valutazione economica: a metà dell’Ottocento si stimava, infatti, che il capitale fondiario rendesse al massimo l’interesse del 4%, e che quello mercantile producesse un interesse doppio. Nel giro di cento anni partendo dal medesimo capitale una famiglia di mercanti avrebbe quindi potuto divenire 440 volte più ricca di una famiglia fondiaria. Ma tornando indietro di qualche secolo il rapporto poteva arrivare anche a 1378 volte[5].

Gli Israeliti furono ancora costretti a non ambire a cariche civili o dignità: Ulpiano riferisce che Antonino e Severo avessero concesso loro onori e dignità; tuttavia tale liberale elargizione, sempre che ci sia stata effettivamente[6], s’interruppe certamente con Giustiniano che proibì agli Israeliti l’accesso alle magistrature, ad ogni amministrazione[7] e ad ogni dignità[8]: nel contempo però essi furono assoggettati a tutti gli obblighi possibili, come ad esempio quello del decurionato[9], senza però che potessero fruire di quel minimo d’onore connesso alla carica[10].

In Piemonte, ancora nel 1582, il Duca Carlo Emanuele concesse loro solo di avere uno stemma gentilizio e di possedere armi. Gli Ebrei non potevano essere dichiarati nobili né cavalieri, né ricevere onorificenze.

In Lombardia invece potevano diventare nobili e cavalieri perché qui gli ordini cavallereschi erano istituti politici e non religiosi[11].

Il divieto giustinianeo di ambire a carica e dignità ebbe risvolti pratici anche in campi insospettabili: in Piemonte esisteva ad esempio l’Avvocato dei poveri che tutelava gratuitamente chi godesse del gratuito patrocinio; ebbene anche in forza del divieto giustinianeo di non ambire a cariche dignità si ritenne di negare agli Ebrei che pur possedessero apposita dichiarazione di povertà rilasciata dall’Università ebraica, il gratuito patrocinio nelle cause giudiziarie[12].

(Continua)

[1] G. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, op. cit., p. 18-19.

[2] Richiamata da Paolo nella lettera ai Romani, 9,27 e pure in Matteo, 17.

[3] MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, op. cit., p. 8.

[4] Nel 1807 si riunì a Parigi un Gran Sinedrio (per volontà francese: il 30 maggio 1806 era stato annesso il Piemonte) che chiese agli Ebrei (decreto del 4 febbraio del Gran Sinedrio) di rinunciare a tali pratiche, ma nel contempo la Francia aveva concesso la possibilità di acquistare beni stabili. C. CATTANEO, Ricerche economiche sulle interdizioni della legge civile agli Israeliti, op. cit., p. 10; V. L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 130.

[5] C. CATTANEO, Ricerche economiche sulle interdizioni della legge civile agli Israeliti, op. cit., p. 44-45.

[6] C. 1. 9. 1. 9. 1. Imperatore Antonino a Claudio Tryponio.

“Nessuna petizione può essere avanzata per recuperare ciò che Cornelia Salvia lasciò per testamento agli Ebrei dell’università degli Antiochiani”. C’è però chi ritiene che detta prescrizione di Caracalla accolta nel Codex riguardasse solo il caso singolo e non fosse un precetto avente carattere generale. Cfr. A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 689.

[7] Cioè all’esercizio dei pubblici affari. “Con questa legge da valere per ogni tempo, ordiniamo, che a nessuno dei Giudei cui sono interdette tutte le amministrazioni e dignità non concediamo di esercitare nemmeno l’ufficio di difensore di un comune, né averne l’onore di padre;…” C. 1. 9. 18 (19).

[8] “… I Giudei ed i Samariti hanno divieto di avere magistratura e dignità, o amministrare giustizia, o di essere nominati difensori o padri delle città, affinché non abbiano facoltà di vessare o giudicare i cristiani e i vescovi. Del pari è loro vietato il militare eccetto, che se sieno nel novero dei coortalini”. C. 1. 5. 12.

[9] Ossia dell’amministrazione comunale. C. 1.9.5.

[10] Non avrà differente tenore l’art. 13 del regio decreto-legge 17 novembre 1938, n. 1728 (in Gazz. Uff., 29 novembre, n. 264). – Provvedimenti per la difesa della razza Italiana prevederà che “Non possono avere alle proprie dipendenze persone appartenenti alla razza ebraica:

a) le amministrazioni civili e militari dello Stato;

b) il partito nazionale fascista e le organizzazioni che ne dipendono o che ne sono controllate;

c) le amministrazioni delle provincie, dei comuni, delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza e degli enti, istituti ed aziende, comprese quelle di trasporti in gestione diretta, amministrate o mantenute col concorso delle provincie, dei comuni, delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza o dei loro consorzi;

d) le amministrazioni delle aziende municipalizzate;

e) le amministrazioni degli enti parastatali, comunque costituiti e denominati, delle opere nazionali, delle associazioni sindacali ed enti collaterali e, in genere, di tutti gli enti ed istituti di diritto pubblico, anche con ordinamento autonomo, sottoposti a vigilanza o a tutela dello Stato, o al cui mantenimento lo Stato concorra con contributi di carattere continuativo;

f) le amministrazioni delle aziende annesse o direttamente dipendenti dagli enti di cui alla precedente lettera e) o che attingono ad essi, in modo prevalente, i mezzi necessari per il raggiungimento dei propri fini, nonchè delle società, il cui capitale sia costituito, almeno per metà del suo importo, con la partecipazione dello Stato;

g) le amministrazioni delle banche di interesse nazionale;

h) le amministrazioni delle imprese private di assicurazione”.

[11] V. L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 74 e ss.

[12] Secondo le conclusioni dell’Ufficio dell’avv. Dei poveri del 12 giugno 1729 confermate con un decreto senatorio. Cfr.  L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., pp. 161 e ss.

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (nona parte)

1c. Le interdizioni

 

In questo contesto nel diritto romano si consolidarono tristemente alcune interdizioni in capo agli Israeliti che rimasero purtroppo invariate nei secoli a venire.

Ai Giudei venne interdetta la dimora nei luoghi dove risiedevano i cittadini romani: in osservanza di tale divieto si provvide a relegarli in quartieri separati e a dotarli di propri magistrati[1].

Per impedire qualsiasi tipo di relazione con i cittadini romani si costrinsero anche a portare segni distintivi che li facessero riconoscere[2]: a Roma gli uomini dovevano indossare un cappello azzurro e le donne un indumento che fosse del medesimo colore.

Possiamo aggiungere che dopo la diaspora[3] gli Israeliti furono obbligati a occuparsi esclusivamente di commercio.

Il traffico indotto poteva essere anche d’infimo livello. Con Luigi IX (1214-1270) si arriverà a stabilirne l’occupazione solo del commercio degli stracci[4].

In conseguenza del fatto che Ebrei potevano fare solo commercio Gregorio Magno, ben sette secoli dopo, si trovò ancora ad affrontare un problema spinoso che riguardava il traffico di schiavi che gli Ebrei effettuavano in Africa; ma non poté risolverlo alla radice vietando in assoluto la schiavitù; adottò invece una soluzione di compromesso, ossia  vietando che schiavi cristiani rimanessero in possesso di Ebrei.

E la ragione era semplice: gli Ebrei catturavano schiavi in Gallia per conto dei re franchi i quali li rivendevano in Italia che era a corto di manodopera; vietare dunque in senso assoluto il commercio di schiavi in Africa avrebbe danneggiato gravemente il commercio dei regnanti[5].

Originariamente i Giudei erano invece dediti alla vita dei campi ed i precetti mosaici tendevano ad evitare che si mischiassero agli altri popoli, proprio per impedire che mutassero la loro natura agreste in quella mercantile.

Anche se è indubitabile che a partire da Salomone i commerci ebbero una certa espansione.

Ancora nell’età merovingia in Francia, i Giudei si occupavano di commercio ma vivevano anche in campagna. Gli Ebrei coltivarono la terra anche in Spagna, Africa e Siria[6].

Per effetto dell’imposta attività commerciale si ritenne inutile consentire ai figli d’Israele di coltivare gli studi. Per diversi secoli gli Ebrei non poterono pertanto applicarsi allo studio della filosofia, della matematica e delle scienze.

Lo studio speculativo fu possibile solo in Spagna tanto che si attribuisce ad un ebreo, Mosè Maimonide, l’introduzione della metafisica speculativa che gli Ebrei europei non riuscirono nemmeno leggere se non in lingua ebraica.

S’impedì ai Giudei ancora di possedere beni immobili (beni stabili): a Roma la contrattazione dei beni immobili era inizialmente legata alla celebrazione di solennità religiose che erano interdette agli stranieri.

La mancipazione era una vendita immaginaria propria dei soli cittadini romani che si faceva con cinque testimoni cittadini romani puberi ed un libripende; questi cinque cittadini ricordavano le classi del popolo davanti a cui inizialmente si procedeva alle stipulazioni calatis comitiis.

I non cittadini o professanti un diverso culto potevano pertanto appropriarsi a Roma soltanto delle res nec mancipi: si trattava dei beni di minore rilevanza economica e sociale che passavano di mano in mano con la semplice traditio[7].

In Atene invece ai non cittadini comunque di stirpe greca poteva essere eccezionalmente garantito il diritto di commercio o di pascolo per cui veniva pagata apposita tassa che però non era commisurata all’attività, ma anche il diritto, sempre eccezionale, di possedere immobili (così anche ai meteci iscritti nella lista del demo). Talvolta veniva concesso anche il privilegio dall’esclusione della rappresaglia (un meccanismo simile si verificherà per gli Ebrei in alcune città d’Italia con il cosiddetto salvacondotto) [8]

Inoltre la mentalità degli antichi imponeva  che l’attribuzione di una proprietà fondiaria costituisse il riconoscimento di una dignità: e per molti secoli gli Ebrei, nei più differenti luoghi, non ne verranno considerati meritevoli, anche grazie ad una presunzione di infamità e malvagità che la stesse bolle pontificali contribuiranno ad alimentare.

(Continua)


[1] Si pensi che la magistratura dei Consiglieri della Comunione reggerà in Germania sino al 1863. G. LEVI, op. cit., p. 271.

[2] C. CATTANEO, Ricerche economiche sulle interdizioni della legge civile agli Israeliti, op. cit., p. 91.

[3] A partire dal 135 d.C. a causa della persecuzione cominciata sotto l’imperatore Adriano (dopo che Tito nel 70 d.C. aveva distrutto il tempio di Gerusalemme) che vietò agli Ebrei di abitare Gerusalemme di cui cambiò pure il nome in Aelia Capitolina. Cfr. A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit.  p. 372 e ss.

[4] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 47. Tale attività nei secoli successivi divenne fiorente anche a Benevento. Alla stessa professione li limitava una severissima bolla di Paolo IV del 1542. L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 90.

[5] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, Giuffré, Milano, 1988, p. 57.

[6] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 60 e ss.

[7] V. Codex Lib. I tit. X.

[8] A. BISCARDI, Diritto greco antico, op. cit. p. 87-89.

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (ottava parte)

I rapporti giuridici interni al mondo ebraico sino al 70 d. C. erano legati appunto alla tradizione orale perché all’epoca era severamente proibita la scrittura[1].

Sin dal II secolo a. C. i Romani si resero conto di quanto fossero importanti per gli Ebrei le leggi religiose e quindi gli consentirono di vivere in conformità.

Sino al 70 probabilmente i gli Ebrei mantennero la giurisdizione civile esclusiva, mentre quella penale rimase in mano a Roma.

Dopo il 70 Roma riconobbe il valore del diritto locale[2] ma la giurisdizione divenne concorrente, nel senso che si riconosceva anche ai tribunali romani di giudicare secondo il diritto ebraico.

Il rapporto tra diritto ebraico e diritto dello Stato nel campo dei diritti privati, almeno per quanto riguarda la validità degli atti giuridici, prevedeva che tutti gli atti che venissero redatti nei tribunali dei gentili fossero validi tranne gli atti di divorzio e di affrancazione degli schiavi, a meno che questi ultimi due non fossero rogati da pubblici ufficiali ed allora mantenevano la loro validità.

Se i Romani erano chiamati ad applicare il diritto ebraico e quindi ad esempio ad eseguire un “divorzio per costrizione”[3] stabilito da un tribunale ebreo, ciò veniva riconosciuto dall’autorità rabbinica se alle parti veniva concesso il diritto di seguire le usanze ebraiche[4].

Dopo il 135[5] Roma non riconobbe più alcuna autonomia: agli Ebrei però era conferita la possibilità di adire, di comune accordo, un tribunale rabbinico, la cui decisione era riconosciuta da Roma come un arbitrato.

L’arbitrato permise al Diritto ebreo di sopravvivere, ma il tribunale rabbinico doveva essere istituito dal Patriarca riconosciuto da Roma[6].

Le cose cambiarono radicalmente con una costituzione di Arcadio e Onorio del 398: “Gli ebrei che vivono sotto il diritto comune di Roma, devono nei casi  che non appartengono alla loro superstizione, nelle questioni di competenza, di legge, di diritto, andare in tribunale secondo il solenne costume ed agire e difendersi dalle azioni accordate dalle leggi romane. Ma se vogliono sottoporre la loro lite civile soltanto ad arbitri Ebrei, non è loro proibito di sceglier tale tribunale, e i giudici dovranno concedere l’esecuzione della loro decisione come se fosse emanata da un arbitro assegnato a sensi di legge”.  Data a Costantinopoli il 3 febbraio del 398[7].

Quindi la giurisdizione penale rimase in capo al potere romano; ad essa si aggiunse quella civile sebbene le parti potessero scegliere di comune accordo un tribunale rabbinico (entrambe le parti però dovevano essere ebree) che emetteva un lodo arbitrale avente eccezionalmente la stessa efficacia della sentenza[8]; il diritto strettamente religioso rimaneva invece in capo al tribunale rabbinico.

Con Giustiniano poi nel 429 venne abolita anche la giurisdizione ebraica in materia religiosa: il Diritto ebraico sopravvive quindi come diritto arbitrale[9].

In sostanza per le cause miste competente era solo il giudice ordinario da identificarsi col governatore della provincia, nella sua funzione giurisdizionale.

I Romani erano convinti che il diritto non esistesse se non in virtù dell’opera di una determinata società (ubi societas ibi ius); e conseguentemente pensavano che il diritto proteggesse solo i cittadini di quella società o coloro che la società riconosceva in qualche modo degni di protezione.

Quindi un popolo straniero, anche se non in guerra, era considerato non soggetto alla legge e potenziale oggetto di mira espansionistica nei beni e nelle persone.

Tali principi erano riconosciuti da Roma anche a favore degli altri popoli e quindi perché si instaurasse una relazione giuridica era necessario un trattato che sancisse i reciproci diritti ed obblighi[10].

In estrema sintesi possiamo dire che gli Ebrei furono considerati come una comunità estranea al territorio (universalità israelitica) soggetta però ai principi di diritto pubblico e di ordine generale.

Un esempio di osservanza del diritto comune riguarda il fatto che gli Ebrei furono obbligati a partecipare alle curie in Puglia ed in Calabria. I doveri curiali erano onerosi, e nel tardo impero ogni sforzo fu fatto per mantenere gli uomini all’interno della curia o del consiglio comunale delle varie città[11].

L’Universalità israelitica ebbe origine in verità prima ancora della caduta di Gerusalemme sotto Tito.

Troviamo che ai tempi in Alessandria di Egitto i numerosi Ebrei formavano una potente e regolare Comunione colla loro rappresentanza. A Cirene in Africa il capo della Comunione si chiamava Arconte.

Fu da principio forse unicamente religiosa; poi le si aggregò la giurisdizione civile; quindi ridivenne puramente religiosa.

In Occidente, sino alla fine del quinto secolo[12], in Oriente, fino all’undicesimo, si manterrà una specie di gerarchia sotto l’autorità dei rispettivi Patriarchi e Esilarchi.

Poi, sciolto ogni legame, ogni Comunione formerà un corpo morale indipendente.

Oltre ai bisogni del culto l’Universalità manterrà un ordine legale indispensabile soprattutto nelle tristissime condizioni del Medio Evo.

Tanto che nel secolo XII a Colonia il Principe pretenderà con scarso successo di dare la conferma alla nomina dei Ministri ufficianti.

Sempre in Germania, nel secolo XV un imperatore vorrà ancora dare a un famoso Rabbino autorità generale su tutti i Rabbini di Germania. La resistenza delle Comunioni sventerà il progetto.

In alcune cronache tedesche il Preside delle Comunioni di Mains, Worms, Spira, sarà chiamato addirittura Vescovo.

In molti luoghi il governo tedesco si riserverà l’appello anche nella civile giurisdizione.

In Polonia quattro Comunioni organizzeranno un sinodo civile e religioso, con annuali raduni; e per lungo tempo avranno grande influenza sugli ebrei di quei luoghi, e si scioglieranno solo alla caduta del regno di Polonia nel 1795[13].

I rapporti di questa Universalità israelitica con il governo romano erano altresì regolati sulla scorta di condotte o capitolazioni: si trattava di patti temporanei in base ai quali si fissavano i diritti e gli ulteriori doveri[14]  degli Israeliti; allo spirare del termine gli Ebrei presentavano dei memoriali suddivisi in capitoli che riassumevano la sostanza ed il divenire delle relazioni; tali capitoli potevano essere rinnovati parzialmente od interamente ovvero modificati ed arbitrio del governo.

(Continua)


[1] Successivamente si ricorda in particolare sotto Adriano la compilazione dalla Mishnat Rabbì Akiv e poi della Mishnà, divisa in 6 ordini e 60 trattati, che la fonte classica del diritto ebreo e si potrebbe definire il Digesto degli Ebrei, perché allo stesso modo del Digesto che raccoglie e dispone sotto diversi titoli le decisioni di 39 antichi giureconsulti relative al diritto romano, cosi parimenti la Mishnà è una collezione ordinata e metodica delle decisioni di antichi rabbini (anche quelle di minoranza) relative alla giurisprudenza civile e canonica che s’introdusse presso gli Ebrei dopo il loro ritorno da Babilonia.

Degna di rilevanza è anche la Baraità che contiene tredici regole di interpretazione della Torà e quindi consente di estrapolarne le regole giuridiche.

In seguito venne sentita la necessità di discutere i contenuti della Mishnà e di enucleare formalmente la norma da seguire anche per i nuovi casi che si erano presentati.

Da tale riflessione nacque prima il Talmud Babilonese (in lingua aramaica) o Ghemmara (che significa studio) e poi il Talmud Palestinese (in lingua siro-orientale) che dal V secolo continuò ad alimentarsi sino al XII secolo; sopra di questi testi si fondano anche il moderno giudaismo.

La discussioni che si ritrovano nel Talmud partono dalla Mishnà e cercano di fondare un precetto giuridico.

All’interno del Talmud vi è materiale vario: decisioni, tradizioni dei rabbini, ma anche miti e racconti che servono ad illustrare il testo e che potrebbero paragonarsi alle storie dei miracoli dei Santi.

[2] A seconda dei vari paesi.

[3] Il marito è costretto a dare il libello di ripudio quando la moglie vuole divorziare. V. amplius A.M. RABELLO, Introduzione al diritto ebraico, Fonti, Matrimonio e Divorzio, Bioetica, op. cit., p. 150.

[4] V. A.M. RABELLO, Introduzione al diritto ebraico, Fonti, Matrimonio e Divorzio, Bioetica, op. cit., p. 35.

[5] Rivolta di Bar Kochba.

[6] Così per un rescritto di Diocleziano (C. 1. 3. 13. 3.)

[7] C. L. 9 1. 9. 8. Imperatori Arcadio e Onorio a Eutichiano, Prefetto del Pretorio.

[8] E ciò per parificare gli Ebrei ai Romani che potevano sempre andare in arbitrato.

[9] “Se mai vi sia qualche contesa tra Cristiani e Giudei, venga definita non dai seniori dei giudei, ma dai Giudici ordinari”(C. 1.9.15) V. A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. pp. 65-70, 754 e 777.

[10] F. WALTER, Storia del diritto di Roma sino a Giustiniano, vol. 1 parte prima, Cugini Pomba e Comp. Editori, Torino, 1851, p. 89-90.

[11] Ce lo ricorda il Codex L. 9. 1.9.5. Imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio a Hypatio, Prefetto del Pretorio. “L’ordine su cui si basano gli ebrei, con il quale è stata concessa la libertà dagli oneri curiali, è annullato”. Data in Milano 18 aprile del 383.

[12] Quando venne abrogato il Patriarcato.

[13] Cfr. G. LEVI, Op. cit., p. 273.

[14] Derivante dallo jus singolare che alla loro categoria non assegnava privilegi, ma svantaggi.

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (sesta parte)

In questi secoli spesso dovettero sostenere di discendere da quegli Ebrei che avevano pianto le ceneri di Giulio Cesare e che quindi non avevano preso parte alla crocifissione di Gesù Cristo e non da quelli che Tito aveva portato da Gerusalemme[1].

S’iniziò anche a vietare l’accesso a determinate cariche, la carriera militare[2] e la costruzione di nuove sinagoghe.

Tali provvedimenti cercavano di allontanare gli Ebrei da posti di prestigio, di farli considerare psicologicamente indesiderabili e di rendere evidente ai Cristiani che il popolo ebreo era stato dimenticato dalla fortuna e da Dio che ormai privilegiava esclusivamente la Cristianità[3].

Con le invasioni barbariche arrivarono in Italia popolazioni ariane che erano di sicuro più tolleranti nei confronti dei Giudei rispetto ai Cristiani.

Teodorico proteggeva gli Ebrei dalle violenze e permise la ricostruzione delle sinagoghe in Ravenna ed in Roma; affermò inoltre in capo ai tribunali rabbinici la giurisdizione civile quando i contendenti fossero entrambi ebrei.

La condizione era così favorevole che gli Ebrei collaborarono in ogni modo con i Goti per fermare Belisario che conquistò la penisola per conto di Giustiniano.

In particolare i Giudei difesero la città di Neapolis con la forza della disperazione[4].

Ma Giustiniano non li ricambiò: venne esteso all’Occidente un Codice che conteneva leggi discriminatorie nei confronti dei Giudei.

Procopio attribuisce la politica religiosa di Giustiniano alla sua avidità di denaro ed al suo desiderio “demonico” di nuocere al genere umano e specifica come l’Imperatore perseguitasse le varie sette eretiche, i pagani gli Ebrei ed i Samaritani[5].

Per forzare verso la conversione Giustiniano utilizzava la pena di morte, ma pure la incapacità di testare o di succedere, l’esclusione dalle cariche civili, dall’esercito e dall’avvocatura, il divieto di trasferire la proprietà.

In Francia i precetti giustinianei non ebbero però una grande applicazione nei fatti.

Si vieta comunque ai chierici di mangiare con Ebrei, si proibiscono matrimoni misti, le magistrature, le posizioni di potere civile e militare, l’osservanza del sabato, il lavoro domenicale, la comparsa tra i Cristiani a Pasqua, il contatto con le monache e la residenza nei Monasteri, la conversione al Giudaismo degli schiavi. La Chiesa cerca di imporre la conversione forzata, determinando una migrazione.

Nel 629 Dagoberto, sotto l’influsso bizantino li cacciò forse dal paese e comunque sino al IX secolo ne sentiamo parlare solo in una piccola area della Francia, la Septimania[6].

In Spagna la politica nei confronti dei Giudei è ispirata alla tolleranza sino al 587 (si ripresero i principi del Codex Theodosianus) quando fu rimessa in piedi la macchina della legislazione antigiudaica (con il re Reccaredo i Visigoti erano passati, infatti, dall’arianesimo, al cattolicesimo); la politica discriminatoria si concluderà solo con gli Arabi nel 711[7].

La Chiesa anche in questo periodo non perse occasione per ribadire il primato spirituale ed il clero locale tradusse tale concetto in violenze nei confronti di Giudei[8]e Samaritani.

(Continua)


[1] G. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, op. cit., p. 38.

[2] C. TH. XVI. 8. 16, data a Roma il 22 aprile 404; C.TH. XVI. 8. 24, edita da Onorio e Teodosio II il 10 marzo 418.

[3] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. 1988, p. 55.

[4] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit., p. 205.

[5] V. A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit.  p. 240.

[6] V. A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. pp. 60-64.

[7] V. A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. pp. 65-70 e p. 617.

[8] Un argine a tale situazione fu posto da Gregorio Magno a cui si rivolsero spesso gli stessi Ebrei.

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (quinta parte)

Questa situazione portò gli Ebrei tra il III ed il IV secolo a stanziarsi in varie città del Sud ed in particolare in quelle portuali dove esercitavano i traffici marittimi e nelle principali città del Nord (Milano, Bologna, Ravenna ed Aquileia)[1].

Con il generalizzarsi della fede cristiana (IV secolo) l’avversione per gli Israeliti non smise di crescere.

Del resto quando nel 1789 caddero con la Rivoluzione Francese i privilegi dei Cristiani, non vennero però meno le interdizioni civili in capo agli Ebrei: esse furono rimosse con tutta calma soltanto nel 1791 quando gli Israeliti ricevettero la cittadinanza francese[2].

La Chiesa si assunse il ruolo di guida e quando non riusciva a convertire poteva accadere che istigasse alla violenza.

Lo stesso Vescovo Ambrogio si rammaricò di non aver potuto partecipare al rogo della sinagoga di Callinico: nel 338 il Vescovo di Callinico, piccola città sulle rive dell’Eufrate, con i monaci ed il popolo bruciarono appunto la sinagoga locale. Teodosio gli ordinò di ricostruirla ma ciò fu impossibile viste le rimostranze di Ambrogio[3].

Callisto, poi divenuto papa, ma in precedenza schiavo di dubbia fama condannato ai lavori forzati da Domiziano, aveva scacciato gli Ebrei da una sinagoga.

Il vescovo di Tortona Innocenzo nel IV secolo distrusse forse la sinagoga della città ed impose agli Ebrei il battesimo in alternativa alla morte[4].

Sotto Teodorico vennero distrutte le sinagoghe di Ravenna e di Roma.

Le autorità romane nel IV secolo si trovarono nella scomoda posizione di perseguitare dei cittadini romani e nello stesso tempo di vietare di interferire con i loro privilegi e libertà.

Nel V secolo invece l’ondata persecutoria a danno dei Giudei investe anche il diritto.

Nella legislazione romana s’introdusse il principio di una differenza nella capacità di diritto per la diversità della religione[5].

Si distinsero primariamente i Cristiani dai non Cristiani.

I Cristiani furono suddivisi in Ortodossi o cattolici e in Eterodossi od eretici.

Gli eretici erano coloro che non riconoscevano i concili ecumenici e che non potevano testare né ricevere per testamento. I Manichei e i Donatisti erano poi esclusi dai contratti, dalle azioni e dai diritti civili.

Tra gli eretici il Codex sistemò anche i Samaritani che vengono trattati dunque in modo separato dagli Ebrei.

E ciò perché probabilmente stavano diventando un gruppo troppo importante in Palestina[6].

I Samaritani erano una setta che assomigliava a quella dei sadducei e che non credeva nella resurrezione dei morti, nel giorno del giudizio, nella santità di Gerusalemme e nella natura divina degli angeli.

Sotto i Romani la zona dove era insediata questa setta era indipendente dalla Giudea, si trattava di una zona cuscinetto tra Giudea e Galilea.

Cominciò Antonino Pio a discriminarli dal momento che permise solo ai Giudei e non ai Samaritani di circoncidere i propri figli.

Poi continuò Commodo chiudendo le loro sinagoghe e bruciandone i libri.

Settimio Severo sottrasse la cittadinanza ad una loro città, Neapolis.

Nel III e IV secolo i Giudei ricevettero l’esonero dal culto dell’Imperatore, ma non i Samaritani.

Alessandro Severo, Decio e Diocleziano li perseguitarono e li convertirono forzatamente al culto dell’Imperatore.

Vi furono poi grandi contrasti tra Cristiani e Samaritani per il possesso dei luoghi dove stavano le tombe di Giovanni Battista e di Giuseppe.

Nel V secolo per raggiungere la maggioranza religiosa i Cristiani ed in particolare una banda armata di monaci utilizzarono mezzi violenti e quindi distrussero i luoghi di culto pagani, ebrei e samaritani.

Tra Cristiani e Samaritani, ma pure tra Samaritani ed Ebrei vi era molta ostilità; i Samaritani erano considerati idolatri e condannati dai padri della Chiesa[7].

I non Cristiani vennero suddivisi  in Pagani, Apostati ed Ebrei.

I Pagani erano trattati, ora con maggiore, ora con minor rigore; alcune volte crudelmente perseguitati e puniti; alcune altre, protetti contro le private arbitrarie violenze.

Gli Apostati avevano pure varie restrizioni nella capacità di diritto e più specialmente il divieto di testare, di succedere e di donare.

Gli Ebrei si trovarono apparentemente in una migliore condizione di tutti gli altri, essendo regolati dal diritto comune come i Cristiani ortodossi[8].

(Continua)


[1] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 53.

[2] Cfr. C. CATTANEO, Ricerche economiche sulle interdizioni della legge civile agli Israeliti, op. cit., p. 9 e 10.

[3] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. 1988, p. 101.

[4] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, Giuffré, Milano, 1988, p. 54.

[5] C. 1. 5. 5 (Gli Imperatori Teodosio e Valentiniano a Caio Florenzio Prefetto del Pretorio).

[6] V. A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, Giuffré, Milano, 1988, pp. 137-150.

[7] V. A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit.  pp. 218 e ss.

[8] P. BARINETTI, Diritto romano, parte generale, op. cit., p. 144-145.

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (quarta parte)

Tale concezione cadde soltanto quando i popoli giunsero a conoscere le pagine originali dell’Antico Testamento[1].

Per comprendere quanto i Romani si ingannassero si pensi soltanto al costume sessuale degli antichi giudei.

La donna doveva contare cinque giorni dalla prima comparsa del flusso mensile e aggiungervene altri sette di purificazione.

Soltanto dopo questi dodici giorni essa, dopo aver preso un bagno, poteva accostarsi al marito. La trasgressione di questo precetto veniva punita con la morte.

In questo periodo gli sposi non potevano neppure toccarsi con la mano[2].

La credenza dell’impurità degli Ebrei restò nei secoli così radicata che in Francia si arriverà anche a seppellire i cadaveri ebrei lontano da quelli cristiani per evitare la contaminazione: pertanto nel caso di vicinanza nella sepoltura le salme andavano dissotterrate e tumulate altrove[3].

Del resto false attestazioni si ritrovano ancora nel Rinascimento anche in opere letterarie celeberrime. Così nel Mercante di Venezia di Shakespeare ove è scritto falsamente che, a seguito di scommessa, fosse creditore di una libbra di carne un ebreo, quando all’opposto lo era un cristiano (l’ebreo era il povero debitore)[4].

 La confusione poteva essere ingenerata anche dal fatto che sia gli Ebrei, sia i Cristiani si rivolgevano e si rivolgono a Avinu shebashammaim, Padre nostro che sei nei Cieli[5].

Si tenga anche conto che l’unitarietà del Dio degli Ebrei era nei primi due secoli oggetto d’inestinguibile gelosia per i sacerdoti pagani.

Si aggiunga che i Romani spesso disprezzavano gli altri popoli per avere poi il diritto di dominarli[6].

Il III secolo fu invece abbastanza tranquillo per gli Ebrei romani. Varie fonti[7] indicano che Settimio Severo, Caracalla e Alessandro Severo[8] furono amichevoli con i Giudei.

Non si può dire la stessa cosa per Adriano che diede un terribile contributo al genocidio: Dione attesta che fece uccidere da Giulio Severo ben 580.000 Giudei, demolire 50 castelli fortificati, saccheggiare e bruciare 985 città: si pensi che la popolazione israelitica dell’epoca ammontava a circa due milioni e mezzo di Ebrei.

Autorevole studioso sostiene invece che Antonino Caracalla avesse conferito a tutti e quindi anche agli Ebrei la cittadinanza romana[9], tanto che essi potevano accedere alle cariche pubbliche ed avere dignità (e cioè le onorificenze attribuite alle più alte cariche amministrative)[10], veniva inoltre riconosciuto il loro uso del diritto privato giudaico[11] e la giurisdizione autonoma ebraica[12].

Diocleziano che fu feroce persecutore dei Cristiani, si comportò invece con tolleranza nei confronti dei Giudei.

(Continua)


[1] C. CATTANEO, Ricerche economiche sulle interdizioni della legge civile agli Israeliti, Galleria De Cristoforis, Milano, 1836, p.  120.

[2] A. SCHMIDT, Nuova Enciclopedia sessuale, ottava edizione, Curcio Editore, Roma, 1954, p. 1891.

Cfr. Levitico 18,19 (“Non ti accosterai a donna per scoprire la sua nudità durante l’impurità mestruale”). La Bibbia di Gerusalemme, 2009. Cfr. Mishnà, VI ordine (Tahoròt) che contiene dodici trattati, sulla purità e l’impurità delle cose e si modi di purificazione, ed in particolare il settimo trattato Niddà, <<impurità dalla mestruazione>> norme sulla impurità della donna durante il periodo mestruale. A. M. RABELLO, Introduzione al diritto ebraico, Fonti, Matrimonio e Divorzio, Bioetica, G. Giappichelli Editore, Torino, 2002, p. 32. Cfr. Corano, Sura II, 222 (“Non accostatevi alle vostre spose durante i mestrui e non avvicinatele prima che siano purificate”). Il Corano, versione grandi tascabili Newton classici a traduzione di Hamza Roberto Piccardo, 2006, p. 53.

[3] C. CATTANEO, Ricerche economiche sulle interdizioni della legge civile agli Israeliti, op. cit., p. 100.

[4] Cfr. G.LEVI, Op. cit., p. 296 che cita l’episodio effettivamente accaduto come raccontato dallo storico Giorgio Leti che lo inserì in un volume dedicato alla vita di papa Sisto V che condannò i due scommettitori alla pena di morte e poi li graziò.

[5] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. 1988, p. 767.

[6] Cfr. G. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, op. cit., p. 8 che riprende l’opinione del Bergier.

[7] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. 1988, p. 52.

[8] A.A.V.V., Nuovo dizionario istorico, Tomo XXVII, Michele Morelli, Napoli, 1794, p. 166 e ss.

[9] Non deve stupirci il dubbio visto che lo stesso Voltaire considerava un “eccesso di ridicolo” il concedere la cittadinanza agli Ebrei. L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 168.

[10] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. 1988, p. 52 e p. 782.

[11] Nonostante il fatto che i cittadini dovessero osservare la legge romana.

[12] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 665.

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (seconda parte)

1. Le interdizioni romane, l’arte feneratizia e le persecuzioni

 

1a) Cenni storici

Il primo contatto tra Roma e la Giudea risale al 161 a. C.[1] quando venne stipulato un trattato tra i due paesi[2].

I contatti degli Ebrei con gli altri paesi bagnati dal Mediterraneo furono più risalenti, tanto che si può ritenere che i Romani siano stati tra gli ultimi a venire in contatto con i Giudei. Per la Spagna ad esempio una tradizione vuole che vi sia stato un contatto già dai tempi di Salomone e che gli Ebrei si siano insidiati nelle colonie fenice della costa iberica (IX-VII sec. a.C.).

Il re di Sparta Areo I (365-309) avrebbe inviato al gran sacerdote Onias I (323-300) una proposta di amicizia basata sulla comune discendenza da Abramo.

In Grecia fu rinvenuta una delle più antiche sinagoghe conosciute (fine II secolo a.C.).

I Greci furono del resto più giusti nei confronti degli Ebrei: parlarono in loro favore Platone, Aristotele, Megastene, Porfirio ed altri[3].

Gli Israeliti furono condotti per la prima volta in Roma da Pompeo nel 62 a. C. dopo che il grande condottiero ebbe conquistato Gerusalemme[4]: la loro condizione era quella servile, ma furono presto liberati.

In questa fase Roma in sostanza rispetta la libertà religiosa dei Giudei e quindi legittima il loro autogoverno.

La popolazione era divisa tra cittadini romani e peregrini[5] che si raccoglieva attorno a congregazioni o sinagoghe[6].

Ogni sinagoga aveva un consiglio degli anziani, l’archisinagogo[7], personale amministrativo, e catacombe cimiteriali proprie.

L’organizzazione locale aveva la sua base nel diritto di assemblea che era considerato una eccezione per il diritto romano e che venne mantenuto anche dagli imperatori (unico limite fu il divieto di costruire nuove sinagoghe[8] e una politica scarsamente punitiva delle distruzioni e spoliazioni) sino a Giustiniano che con la Novella 37 negò agli Ebrei africani il diritto di riunione[9].

Gli insediamenti iniziali si verificano in Trastevere e nell’Isola Tiberina, ma erano zone malsane e sempre soggette ad inondazione; successivamente i Giudei si spostano nella Suburra in quartieri poveri[10] perché comunque essi erano di misera estrazione[11].

Buona parte degli Ebrei in questo periodo svolgevano la professione degli indovini, interpreti di sogni, maghi ed esorcisti, astrologi[12].

Col tempo i Giudei poterono anche dotarsi di scuole, archivi, biblioteche ed ospedali nonché mercati ove potevano acquistare merci preparate secondo le specificazioni rituali[13] e di cui i capi della comunità[14] avevano il diritto di stabilire il prezzo[15].

Cesare attribuì ai Giudei i primi privilegi: l’esenzione dal servizio militare[16] e di giudicare le proprie cause secondo il diritto ebraico[17].

(Continua)

[1] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, Giuffré, Milano, 1988, p. 115-116, 197.

[2] Il trattato che fu concluso da Giuda Maccabeo garantiva assistenza militare alla Giudea in caso di una nuova aggressione da parte siriana, che infatti si verificò nel 135, quando il re di Siria Antioco VII cinse d’assedio Gerusalemme. La situazione fu risolta grazie all’intervento diplomatico di Roma.

[3] Cfr. G. MORONI, op. cit., p. 8-9.

[4] Pompeo diede nel 63’ un nuovo ordinamento alla Palestina, ma lasciò in piedi la religione e le magistrature ebraiche. Nel 53 Gabinio affida il potere all’aristocrazia,  ma Cesare nel 47 restaura il potere del sovrano pompeiano Ircano II.

[5] Peregrini alicuius civitatis. Mentre in Giudea a partire dal 70 sarebbero stati dediticii ossia peregrini privi di civitas e che dovevano osservare lo ius gentium.

[6] Di edificio sinagogale in senso stretto si inizia tuttavia a parlare a partire dal III secolo d.C.  in base a modelli architettonici non religiosi dell’ambiente romano orientale A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 831.

[7] Era il detentore del potere locale nominato o perlomeno confermato dal Patriarca (a partire da Antonio Pio sino al 429 quando il Patriarcato si estinse) che era a sua volta nominato a vita dall’Imperatore e che era responsabile verso le autorità del buon comportamento degli Ebrei di Palestina e che rappresentava la nazione giudaica nei suoi rapporti esterni, sia in Palestina sia nella diaspora. A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 683.

[8] Peraltro assolutamente disatteso in Palestina. A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 839.

[9] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 688-689.

[10] Ove già erano state relegate le prostitute. L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 118.

[11] Originariamente gli Ebrei potevano dimorare liberamente in Roma, ma Augusto assegnò agli Ebrei la zona di Trastevere; Alessandro Severo (208-235 d. C.) concesse loro la regione transtiberina. V. G. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, p. 17.

[12] Unitamente ai matematici gli astrologi verranno condannati dalla legislazione imperiale. A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 771.

[13] Ad esempio la macellazione bovina rituale detta casher, vestiti in cui non ci sia misto di lana e lino.

[14] E sopra di loro il Patriarca.

[15] A seguito della violazione del principio una Costituzione di Onorio ed Arcadio del 396 (C. TH XVI, 8.10) stabilirà in seguito appunto che nessuno avesse il diritto di stabilire i prezzi nei mercati ebraici, se non gli Ebrei stessi. Questa Costituzione passerà anche nel Codex Iustinianus (C 1. 9.9).  A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 692.

[16] In Italia ancora nel 1848 gli Ebrei erano esenti dal servizio militare, tranne che in Lombardia e nel Ducato di Parma. Non potevano partire per la leva nemmeno da volontari Al contrario in Russia si arruolavano in marina anche a 12 anni; anche in Prussia venivano accolti nell’esercito.

[17] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, Giuffré, Milano, 1988, p. 46 e ss.

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (prima parte)

AVVERTENZA

La condizione degli Ebrei nei millenni ha messo duramente in crisi il concetto stesso di diritto naturale, quelle guarentigie minime che gli antichi ritenevano presenti presso tutte le genti, perché ci furono forse ben pochi popoli che nella storia ne subirono così fortemente il disconoscimento[1].

Già Mosé aveva anticipato agli Israeliti un particolare destino: “Il Signore vi disperderà fra i popoli e non resterete che un piccolo numero fra le nazioni dove il Signore vi condurrà[2].

Lo stesso Corano nella VII sura (Al-A‘râf) rievoca con queste parole un triste percorso:

“167. E il tuo Signore annunciò che avrebbe inviato contro di loro qualcuno che li avrebbe duramente castigati fino al Giorno della Resurrezione! In verità il tuo Signore è sollecito nel castigo, ma è anche per donatore, misericordioso”

“168. Li dividemmo sulla terra in comunità diverse. Tra loro ci sono genti del bene e altre [che non lo sono]. Li mettemmo alla prova con prosperità ed avversità, affinché ritornassero [sulla retta via]”[3].

Nel testo che seguirà ove cercheremo di descrivere sommariamente le loro traversie useremo diversi vocaboli per indicare gli appartenenti al popolo di Abramo.

Avvertiamo però che a rigore i vocaboli non sono del tutto fungibili.

Secondo una prima interpretazione, infatti, il termine Eber o Heber[4] venne dato dai Cananei ad Abramo perché giungeva dalla Caldea che si trova al di là del fiume Eufrate.

Secondo gli Orientali invece il termine Ebreo deriverebbe da Heber figlio di Sale e trisavolo di Abramo.

Il termine Israeliti indica i discendenti di Israel ovvero Giacobbe, nato da Isacco figlio di Abramo.

La parola Israel (che deriva dal termine shara ossia dominare) significa in ebraico “che prevale o che domina con Dio”; un angelo soprannominò così Giacobbe dopo che ebbe compiuto una lotta durante una visione a Macanàim ribattezzata da lui  Penuél[5].

Gli Ebrei amano in particolare chiamarsi israeliti perché è un termine che si ritrova nelle Sacre scritture.

Il termine Israele talvolta indica tutto il popolo, tal’altra la sola discendenza di Giacobbe e ancora il regno di Israele e delle dieci tribù distinte dal regno di Giuda (che ricomprendeva appunto la tribù di Giuda e di Beniamino).

Con il termine Giudei si indicano poi coloro che fecero ritorno a Gerusalemme dalla cattività babilonese: dal momento che non esisteva più il regno di Israele, gli Ebrei assunsero il nome dell’unico regno ancora in piedi che era appunto quello di Giuda.

Peraltro la Tribù di Giuda era anche la più potente e quasi l’unica rimasta nel paese.

Prima di quest’epoca si dava nome di Giudei solo agli abitanti del regno di Giuda; e prima della formazione del regno di Giuda[6], i discendenti di Giacobbe furono conosciuti solo come Israeliti od Ebrei[7].

Dopo quest’epoca i termini utilizzati per indicare il popolo di Erez Israel[8] sono appunto sostanzialmente Giudei, Ebrei; nella legislazione romana il termine utilizzato è ad esempio quello di Giudei, in quella sabauda si fa riferimento invece agli Ebrei, nelle leggi razziali fasciste del 1938 ai “cittadini italiani di razza ebraica”o “agli appartenenti alla razza ebraica”.

Ogni termine ha dunque un suo preciso significato anche storico e quindi la scelta che si opererà è dettata esclusivamente dal fatto che si vuole rendere più agevole e fluida la lettura.


[1] I paria delle Indie, gli schiavi dell’Oriente e di Roma, gli Iloti di Sparta (che erano privi dei diritti civili e politici e potevano essere uccisi impunemente) sono i tipi soli che possiamo qui mentovare onde farci un’idea del modo in cui vivevano gli Ebrei fra le nazioni cristiane; formando casta a parte da chi potevano aspettare protezione e giustizia? dalle loro universalità? Dalle nazioni che li ricettavano nel loro territorio e li ritenevano in condizione affatto precaria? Con ragione disse il Forti che il mancar di fede degli Ebrei non parve ai principi cosa riprovevole, il mancare ai medesimi di umanità non parve ai popoli contrario alla legge di Dio. L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, Tipografia Favale, Torino, 1848, p. 46.

[2] Deuteronomio, 4, 27. La Bibbia di Gerusalemme, 2009.

[3] Il Corano, versione grandi tascabili Newton classici a traduzione di Hamza Roberto Piccardo, 2006, p. 154. Il passo sarà citato all’inizio di una delle storie più famose del popolo ebreo dell’antichità (1189), quella di Samuele figlio di Giuda, che era passato alla religione islamica.

[4] Che sta in quanto preposizione per trans, al di là, ma anche come sostantivo per indicare il viaggiatore.

[5] Gen 32, 29. “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con gli uomini e con Dio ed hai vinto”. La Bibbia di Gerusalemme, 2009.

[6] Avvenuta con Roboamo, figlio di Salomone, che divise la Terra Promessa o Santa in due regni.

[7] Cfr. G. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, voce Ebrei, Tipografia Emiliana, Venezia, 1843, pp. 1-6.

[8] Così gli Ebrei chiamano la Palestina (che venne a suo tempo appellata così al tempo di Adriano).

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Istituto Nazionale per la Mediazione e l'Arbitrato - Organismo di Mediazione iscritto al n° 223 del registro tenuto presso il Ministero della Giustizia

Monica Poletti

Interior design is our passion

Via senza forma

Amor omnia vincit

telefilmallnews

non solo le solite serie tv

Briciolanellatte Weblog

Navigare con attenzione, il Blog si sbriciola facilmente

Vincenzo Dei Leoni

… un tipo strano che scrive … adesso anche in italiano, ci provo … non lo imparato, scrivo come penso, per ciò scusate per eventuali errori … soltanto per scrivere … togliere il peso … oscurare un foglio, farlo diventare nero … Cosa scrivo??? Ca**ate come questo …

Versi Vagabondi

poetry, poesia, blog, love, versi, amore

Marino Cavestro

avvocato mediatore

ANDREA GRUCCIA

Per informazioni - Andreagruccia@libero.it

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Un mondo piccolo piccolo, ma comunque un mondo

Carlo Galli

Parole, Pensieri, Emozioni.

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In dreams, there is truth.

giacomoroma

In questo nostro Paese c'è rimasta soltanto la Speranza; Quando anche quest'ultima labile fiammella cederà al soffio della rassegnazione, allora chi detiene il Potere avrà avuto tutto ciò che desiderava!

Aoife o Doherty

"Fashions fade style is eternal"

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romanzo a puntate di Ben Apfel

La Via della Mediazione

Perché niente è più costante del cambiamento

Psicologia per Famiglia

Miglioriamo le relazioni in famiglia, nella coppia, con i figli.

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Cento pensieri che provano a prendere forma attraverso una scrittura giovane e ignorante, affamata solo di sfogo.

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Dale la Guardia

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Parole a passo d'uomo

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La poesia nella natura

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Strumentisti di Parole/Musicians of words

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