Da sempre l’uomo tende al trascendente e guarda quasi con invidia alla condizione degli dei:lo facevano già gli eroi omerici che aspiravano ad una vita breve e gloriosa, tale da lasciare dietro di sé una grande fama ed un ricordo imperituro. Esiodo aveva tentato di spiegare con il Mito delle Cinque Età la progressiva degradazione dell’uomo da uno stato di beatitudine simile a quello degli dei all’infelice stato di mortalità che affligge l’uomo, costretto a procacciarsi da sé ogni bene per sopravvivere…altro che ambrosia! Molti sono gli autori del mondo classico che trattano questo topos letterario e che tentano in qualche modo di consolare i lettori trovando qualche escamotage per raggiungere un’”immortalità” , ma oggi la mia attenzione va in particolare ad Orazio ed alla sua celeberrima Ode III, 30.
Non omnis moriar…più che un augurio è l’orgogliosa constatazione che Orazio condivide con il lettore concludendo la raccolta dei primi tre libri delle Odi e facendo un bilancio della sua opera di poeta lirico. In questo carme Orazio sottolinea non solo di aver coscienza dell’altezza della sua poesia, ma esprime anche la sua fiducia nell’immortalità della fama di poeta, raggiunta secondo un itinerario che da umili origini lo ha portato al prestigio di poeta nazionale.
Exegi monumentum aere perennius
regalique situ pyramidum altius,
quod non imber edax, non Aquilo impotens
possit diruere aut innumerabilis
annorum series et fuga temporum.
Non omnis moriar, multaque pars mei
vitabit Libitinam; usque ego postera
crescam laude recens, dum Capitolium
scandet cum tacita virgine pontifex.
Dicar, qua violens obstrepit Aufidus
et qua pauper aquae Daunus agrestium
regnavit populorum, ex humili potens
princeps Aeolium carmen ad Italos
deduxisse modos. Sume superbiam
quaesitam meritis et mihi Delphica
lauro cinge volens, Melpomene, comam.
“Ho compiuto un’opera monumentale più duratura del bronzo e più alta della regale mole delle piramidi, che non potrà distruggere né la pioggia che corrode né l’impetuoso Aquilone o l’infinita serie degli anni e la fuga dei secoli. Non morirò del tutto e molta parte di me eviterà la morte: continuerò a crescere fresco nella lode dei posteri, finchè il pontefice salirà al Campidoglio con la silenziosa vestale. Dove l’Ofanto risuona impetuoso e Dauno, povero d’acque, regnò su un popolo di contadini, si dirà che io da umili origini sono diventato potente e per primo ho trasferito la poesia eolica nei ritmi italici. Fai tuo il vanto conquistato coi tuoi meriti, o Melpomene, e cingi se vuoi la mia chioma con alloro delfico”.
Orazio celebra la vittoria della poesia sul tempo che tutto inghiotte e divora, tranne la fama del vate. L’ode può essere divisa in due sequenze principali. Nella prima parte (vv. 1-5) Orazio si volge al passato per considerare l’itinerario poetico da lui percorso (exegi) e paragonando la sua opera ad un grande monumento, più duraturo del bronzo e più grandioso delle piramidi tale che con orgoglio egli può ben dire che non morirà mai del tutto, ma i suoi versi lo renderanno immortale (da notare la funzione solennizzante che ha al verso 6 che, con quell’allitterazione della nasale e l’immagine della morte incarnata nella metonimica personificazione della dea Libitina, protettrice dei funerali e della morte, viene posto in modo magistrale a far da cerniera alle due parti del carme). Nella seconda parte (vv. 7-14) il poeta volge lo sguardo al futuro (si noti dal punto di vista semantico il passaggio dal perfetto al futuro) sempre per sottolineare la sopravvivenza della sua opera e legarla all’imperituro impero romano. In questi versi in particolare Orazio insiste sui luoghi dell’Apulia che lo hanno visto crescere e sul fatto che egli è stato l’iniziatore (princeps)di un nuovo corso poetico riprendendo la lirica eolica di Saffo e Alceo e trasferendo metri e tematiche nella lingua e nello spirito romano. Proprio in questo sta la sua grandezza nonché la sua novitas. L’epilogo del carme è costituito da un’apostrofe a Melpomene, la musa il cui nome significa letteralmente “la cantante”. In questi ultimi due versi Orazio si veste di modestia ed attribuisce il vanto del suo primato poetico alla musa, chiedendole che sia proprio lei a cingere il suo capo con l’alloro così caro ad Apollo.
La poesia intesa come eternatrice di valori è un leitmotiv caro già alla lirica greca. Si pensi ad esempio a Pindaro che nelle Pitiche VI, 10 ss. così si vantava: “ho innalzato un tesoro di inni nella valle di Apollo, splendida di ricchezze, che né la pioggia tempestosa, esercito spietato di tuonanti nubi che su di esso si abbatta, né il vento che lo colpisca con frammenti di ogni genere, potranno trascinare nei recessi del mare”. Ugualmente si ricordi il threnos per i caduti alle Termopili di Simonide di Ceo nel quale il poeta afferma “Tale sudario né la ruggine lo distruggerà, né il tempo che tutto corrode”.
Eppure la tematica è sempre attuale ed un’eco simile si trova negli splendidi versi di Mario Luzi:
“Solo
la parola all’unisono di vivi
e morti, la vivente comunione
di tempo e eternità vale a recidere
il duro filamento d’elegia.
E’ arduo. Tutto l’altro è troppo ottuso.”
oppure nella lirica In una radura del poeta contemporaneo Carlo Alberto Calcagno, nella quale la poesia sopravvive all’autore donando però allo stesso tempo immortalità:
“ So
che differisci
dall’ulivo
e dalla quercia
ma tu
e noi
siamo mortali.”
Dagli antichi ai moderni la Parola, la Poesia viene dunque sempre celebrata come eternatrice non solo di valori, ma anche della stessa spiritualità umana, di quella tensione all’immortalità che ci spinge a guardare verso il Cielo.
Giulia Del Giudice