Le leggi della mediazione in Europa

Senza pretesa di esaustività può essere di qualche interesse per la ricerca citare il numero dei provvedimenti più rilevanti con cui è disciplinata la materia nei singoli paesi[1].

Secondo una certa corrente di pensiero di matrice anglo-sassone la mediazione non dovrebbe essere imbrigliata dalle norme giuridiche e comunque le norme non dovrebbero mutare nel tempo, ma essere oggetto di sempre nuovi advisor, ossia di commenti in relazione all’evoluzione dello strumento nella pratica; ad esempio le norme federali sulla mediazione negli Stati Uniti hanno più di vent’anni ed è variato solo il commentario.

In quanto ai contenuti potremmo dire che sono i paesi dell’Est Europa i più inclini a dettagliare la fattispecie (ad esempio la Romania).

In Europa ci sono paesi invece che sono molto prolifici (Belgio, Francia, Finlandia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Romania) e all’opposto paesi molto avari in materia (Danimarca e Irlanda del Nord).

Talvolta l’abbondanza dei provvedimenti è correlata ai vari settori del diritto ove la mediazione è stata disciplinata.

In alcuni paesi (ad esempio l’Italia) non vi sono praticamente indicazioni sulla disciplina della procedura[2] che è lasciata ai regolamenti dei singoli organismi.

Un numero esiguo di provvedimenti oltre che alla corrente di pensiero predetta, è talvolta connesso anche al fatto che della mediazione sono stati disciplinati solo gli aspetti transfrontalieri (ad es. nel Regno Unito[3]).

In alcuni stati ci sono norme distinte per la mediazione preventiva e quella di Corte, in altri vi è una disciplina generale per tutti i tipi di mediazione.

Il numero nutrito dei provvedimenti non è tuttavia sempre in correlazione con un alto e proficuo uso delle mediazioni e quindi con una più capillare conoscenza dell’istituto.

La Danimarca che ha dato poco spazio alla legge anche in materia di formazione della mediazione risulta avere uno dei sistemi più efficienti, mentre la Romania che ha una legislazione cospicua è anche molto interessante per lo studioso della materia, non ha nel tempo visto un numero cospicuo di procedure (la buona volontà del legislatore è in Romania come in Grecia e precedentemente in Italia, stata frustrata da interventi delle rispettive Corte Costituzionali).

Quello che si può ancora notare è comunque una scarsa omogeneità delle disposizioni specie in relazione alla formazione del mediatore, ma pure con riguardo alla mediazione giudiziaria, in merito alle materie che in mediazione possono essere affrontate, all’esecutività degli accordi di mediazione, ai gestori statali o meno delle regole anche etiche.

Anche con riferimento ai registri nazionali che riguardano mediatori e le organizzazioni della mediazione, possiamo affermare con tranquillità che non ce n’è uno uguale all’altro.

Tabella – Numero dei provvedimenti più rilevanti in materia di mediazione nei paesi UE

1Francia44
2Romania26
3Portogallo22
4Italia20
  5Belgio Polonia16
  6Finlandia Germania Irlanda Paesi Bassi Ungheria15
7Lituania14
8Svezia13
9Austria Lussemburgo12
  10Croazia Spagna11
11Bulgaria Inghilterra e Galles Scozia9
12Malta8
13Slovacchia Slovenia7
  14Estonia Grecia Lettonia6
15Repubblica Ceca5
16Cipro Danimarca4
17Irlanda del Nord2
 Totale373

Passiamo ora in allegato alla citazione di ogni provvedimento di legge o di regolamento noto[4] che abbia a che fare con la mediazione (in nota ho inserito anche la traduzione in lingua italiana di ogni provvedimento).

Si farà riferimento anche alla Gran Bretagna anche se vi è stata come è noto la Brexit ed ora i paesi di area UE sono 27.


[1] Sono esclusi i provvedimenti attuativi regolamentari dell’ADR del consumo.

[2] A parte l’art. 8 c. 3 del Decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28: “3. Il mediatore si adopera affinché le parti raggiungano un accordo amichevole di definizione della controversia”.

[3] Ad esclusione della Scozia

[4] Anche sentenze delle Corti costituzionali.

Cenni di psichiatria sociale

 

Il papà della psichiatria sociale ha un nome: si chiama Eric Berne.

Iniziato il tirocinio da psicanalista negli anni 40’ Eric Berne cominciò a pensare ad uno strumento veloce per fare diagnosi (1940-43) sotto la guida di Paul Federn (primo allievo di Freud).

Ciò gli fu utile perché come psichiatra militare nel 1945 aveva a disposizione soltanto 45 secondi per fare una diagnosi e per stabilire dunque se i soldati avessero superato i traumi della guerra e potessero quindi tornare alle proprie famiglie.

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Nacque così in ambito freudiano la psichiatria sociale che ricomprende la più conosciuta Analisi Transazionale, ossia lo studio delle transazioni comunicative che due o più individui si scambiano.

Che cosa si intende per psichiatria sociale?

È un sistema di nozioni che ci aiutano:

A) a capire come siamo fatti,

B) come ci relazioniamo e come potremmo relazionarci meglio,

C) a migliorarci, entro certi limiti, in autonomia,

D) a curarci tramite un terapeuta formato.

Per capire come siamo fatti dobbiamo partire dal presupposto che il nostro IO può considerarsi tripartito e si può suddividere, in altre parole, in tre stati: IO GENITORE, IO ADULTO ed IO BAMBINO.

Questi stati dell’IO ci accompagnano dalla nascita alla morte; che sono presenti ce ne accorgiamo ad esempio dal cambio di tono di voce.

Che le cose stiano così lo possiamo verificare con un semplice esempio.

Sto guidando su una strada trafficata. Controllo continuamente la strada, i veicoli che ho intorno e i cartelli stradali: sono nello stato dell’Io Adulto ossia mi confronto col qui ed ora cercando di prevedere quel che può accadere per meglio fronteggiarlo.

Un’auto mi taglia la strada: mi spavento e rallento per evitare l’urto; la paura è una reazione al qui ed ora e dunque sono ancora nello stato dell’io Adulto.

Mentre l’auto si allontana scuoto la testa, faccio una smorfia con la bocca per disapprovare e dico ad alta voce: «A certa gente bisogna togliere la patente! »

Ora sono nello stato dell’Io Genitore: quando ero piccolo e sedevo accanto a mio padre che guidava l’ho visto varie volte scrollare la testa e fare smorfie di disapprovazione nei confronti degli altri guidatori e pure dire quella frase.

Arrivo in studio, sono in ritardo di qualche minuto: devo finire un atto urgente. In ascensore il cuore mi manca e sono preso dal panico, porto una mano alla bocca, strabuzzo gli occhi e sudo lievemente. Inclino la testa da una parte e muovo nervosamente un piede nell’attesa del piano.

Sono nell’Io bambino: provo le stesse emozioni che provavo quando arrivavo tardi a scuola e temevo la punizione della maestra; il panico però non è così giustificato in questa realtà.

Il cliente o il giudice non mi puniranno ora, come faceva il maestro e dunque provo paura perché mi assalgono vecchi ricordi anche se posso non esserne consapevole.

Poi penso: «Ma oggi è mercoledì, non giovedì, ho ancora 24 ore per finire l’atto»

Mi rilasso, sorrido, tolgo la mano da vicino alla bocca. Il mio è un sorriso da uomo adulto, non la risatina di un bambino spaventato. Sono tornato nell’Io adulto.

La tripartizione trova ispirazione nella famosa topica (rappresentazione della psiche) freudiana che immagina la mente umana come composta da IO, SUPER IO ed ES (inconscio).

In che cosa si differenzia Berne da Freud? soprattutto per il fatto che in base alla prospettazione freudiana non ci sono elementi esterni che possano indicare lo stato dell’IO di un ipotetico interlocutore; in Berne invece ci sono invece degli indicatori precisi, come abbiamo visto dall’esempio, che permettono di capire in che stato sia il soggetto osservato.

A che cosa mi serve conoscere lo stato dell’Io del mio interlocutore? A rapportarmi più efficacemente con lui.

E che cosa mi serve sapere che stato dell’Io preferenzialmente utilizzo io? A capire come sono fatto, se mi confronto con la realtà qui ed ora in modo diretto e da adulto, o se formulo pensieri, emozioni e attuo comportamenti che sono in qualche modo da mettersi in relazione con la mia parte genitoriale o bambina.

Si chiama analisi strutturale quella che mi permette appunto di capire che meccanismi mentali uso di preferenza. A che cosa può servirmi?

Lo scopo dell’analisi strutturale dell’Io è quella di aiutare l’Adulto a tenere sotto controllo il Bambino che è in me.

È importante tenerlo sotto controllo poiché la psicosi nasce dal fatto di utilizzare il Bambino come «sé reale».

L’Adulto, in altre parole, è come un muscolo che deve essere allenato affinché possa decidere di utilizzare il Genitore o il Bambino a sua discrezione.

Chi riesce a separare gli stati dell’Io ed a utilizzarli al momento opportuno affronta i suoi problemi

Ma la separazione va distinta dall’organizzazione degli Stati dell’Io che non risolve i problemi.

Perdonatemi l’esempio brutale, ma ci serve per capire.

Caio è un professionista di grande notorietà che fa il suo lavoro con grande bravura e risultato; nessun cliente né collega si è mai lamentato di lui.

Al venerdì Caio dice a tutti, compresi i suoi familiari, che va «a pescare» sul lago di Como dove possiede una villetta.

In realtà Caio non va a pescare. Dal venerdì alla domenica non fa altro che drogarsi.

La domenica torna a casa come se niente fosse e il lunedì ricomincia a fare il professionista di successo.

Caio separa gli stati dell’Io o li organizza?

Caio li organizza semplicemente.

Lui non ha cognizione del fatto che ogni venerdì lascia campo al suo Bambino negativo.

Al venerdì il suo Bambino diventa il «sé reale».

Ciò perché il papà di Caio è morto quando lui era molto piccolo e quindi Caio non si è potuto costruire dentro un genitore forte.

Ha un genitore fittizio che fa fare al Bambino ciò che vuole.

Un genitore assente per qualsivoglia motivo non si può ricostruire in modo efficace.

Caio quando è Bambino pensa di essere Adulto.

Se qualcuno che fosse a conoscenza del suo “segreto” gliene chiedesse conto risponderebbe con una razionalizzazione: “io non sono un drogato e smetto quando voglio” oppure “tutto ciò mi serve per rilassarmi, ma nessuno può mettere in dubbio che io non sia per questo un professionista impeccabile”.

In altre parole lo stato dell’IO BAMBINO di Caio si difende facendogli pensare che sta ragionando da ADULTO.

Questa tripartizione degli stati dell’IO è cosa acclarata.

Freud agli inizi del 900’ ci presenta due rappresentazioni della psiche (topiche): 1) Io, Super-io ed es (o id), 2 Conscio, subconscio, inconscio.

Berne appunto distingue a metà del secolo tra a) Esteropsiche, neopsiche e l’archeopsiche da cui derivano Genitore, Adulto e Bambino.

McLean nel 1989 ci racconta il cervello come suddiviso in tre parti: a) Rettiliano, b) Paleomammaliano c) Neomammaliano.

Nel 2010 Siegel riprende la teoria di McLean e nel 2014 Dehane ci racconta che in realtà i confini dell’IO sono forse più sfumati, in quanto a funzionamento, ma non mette in dubbio le teorie del passato.

Abbiamo detto che la psichiatria sociale è utile per comprendere come ci relazioniamo e come potremmo relazionarci meglio.

Per intenderci sul punto di “come ci relazioniamo” è necessario comprendere che esiste un modello di funzionamento della psiche: in altre parole quando comunichiamo se lo facciamo da GENITORE possiamo comportarci, sentire o pensare da GENITORE AFFETTIVO o da GENITORE NORMATIVO: questi due stati possono a loro volta essere positivi o negativi; quando invece comunichiamo da ADULTO, lo stato è unico e può essere soltanto positivo o negativo; se parimenti comunichiamo con lo stato dell’Io BAMBINO possiamo attivare il BAMBINO ADATTATO od il BAMBINO LIBERO.

Perché una comunicazione si mantenga in una interazione dovremmo far sì che le parti negative del nostro funzionamento si attivino il meno possibile.

Il BAMBINO ADATTATO (o ribelle) rispetta ciò che dall’esterno gli viene imposto.

Il bambino è cioè compiacente, remissivo, aderisce senza discussione a ciò che gli viene comandato perché ha capito che gli conviene (comportamenti automatici) oppure si ribella (ciò costituisce adattamento)

È positivo (OK), se ripropone da adulto comportamenti che sono adeguati alla nostra situazione da adulti (mi soffio il naso col fazzoletto, chiedo per favore).

È negativo (non OK) quando ripropone comportamenti che non si confanno alla situazione da adulto (metto il broncio) perché da bambino gli davano risultati (un adulto chiede invece direttamente ciò che vuole); oppure ad es. quando balbetta o arrossisce in pubblico (da piccolo è stato ripreso mentre parlava in pubblico) quando potrebbe farne a meno, perché è in grado di esprimersi fluidamente

Il BAMBINO LIBERO (o naturale): è quello che decide in autonomia di fare o non fare qualcosa che non viene censurato dagli adulti. Il bambino libero cioè non basa la sua scelta su una ponderazione, ma sul mero istinto e sulla spontaneità.

È ok, quando pone in essere comportamenti vantaggiosi (se ad esempio da bambino ho deciso di reprimere la rabbia e da adulto ciò mi ha portato in terapia, sono bambino libero ok quando sfogo la rabbia sul cuscino dell’analista).

È non ok, quando pone in essere comportamenti palesemente negativi (es. mi metto a ruttare ad un pranzo di gala; è vero soddisfo pulsioni non censurate, ma è anche vero che da adulto le conseguenze saranno peggiori).

Funziono da GENITORE quando da adulto mi comporto in modo da copiare i miei genitori; e posso essere

1) GENITORE NORMATIVO: critica e dà le norme, comanda, vieta; oppure 2) GENITORE AFFETTIVO: che accudisce, mostra affetto, protegge e dà i permessi.

Il GENITORE NORMATIVO è ok quando il suo comportamento mira a proteggere o a promuovere il benessere o a dare rispetto (“Non fumare che ti fa male, non attraversare la strada che vai sotto le macchine”).

È non ok quando svaluta l’altro (“Hai fatto di nuovo un errore!”).

Il GENITORE AFFETTIVO è ok quando si prende cura dell’altro con rispetto autentico (“Vuoi aiuto in quel lavoro? Fammelo sapere”); è non ok quando svaluta l’altro: «Dai qui, faccio io!»

Il GENITORE AFFETTIVO diventa negativo anche quando è iperprotettivo (es. la mamma fa mettere il maglione al bambino perché lei ha freddo; ciò che passa è una svalutazione: “Tu non sei capace di chiedere circa i tuoi bisogni”).

Funziono da ADULTO quando mi confronto con la realtà e adotto la strategia che essa richiede, opero un compromesso tra quello che voglio io e quello che vuole l’altro, cerco alternative per soddisfare i miei interessi ecc.

Non sempre l’ADULTO è considerabile positivo: quando si difende dalle emozioni il suo comportamento è negativo. Le emozioni dell’ADULTO sono comunque sempre adeguate a ad affrontare la situazione immediata.

Questi concetti tracciano una strada per comprendere quale è la migliore strategia comunicativa.

Intanto quando comunichiamo non ci rivolgiamo ad un interlocutore, ma ad un suo stato dell’IO: ad es. al suo ADULTO, o al suo GENITORE AFFETTIVO o al suo BAMBINO ADATTATO.

Perché lo facciamo? Perché vogliamo una risposta precisa e la nostra speranza è che sia proprio quello stato dell’IO a cui ci indirizziamo che ci risponda. Purtroppo però la risposta non dipende da noi, ma dall’altro; ci sono però delle accortezze che fanno sì che otteniamo quel che desideriamo.

In comunicazione è importante fornire un messaggio in modo tale da poter prevedere lo stato dell’IO che fornirà la risposta: come si può fare? Bisogna capire appunto quale è lo stile comunicativo prevalente del nostro interlocutore.

Se ad esempio ci troviamo di fronte un OSSESSIVO-COMPULSIVO (e noi legali lo siamo tutti in parte: la definizione come quelle che seguono riguarda il solo adattamento psicologico e non una malattia mentale) sapremo che preferisce rispondere come GENITORE NORMATIVO, mentre se avremo di fronte un ISTRIONICO al contrario preferirà che ci indirizziamo al suo BAMBINO.

Detto in soldoni con l’ossessivo-compulsivo dovremo inizialmente parlare di diritto, di nome e di doveri e con l’Istrionico invece potremmo fare riferimento ad es. alla bella giornata o alle sensazioni che determina il brutto tempo.

Se lo stile prevalente del nostro interlocutore è in armonia con il nostro ciò determina che la nostra interazione sia soddisfacente: se ad es. io sono un PARANOIDE tendo come sentire prevalente a voler proteggere il mio partner ossia a pormi nei suoi confronti da GENITORE, ma lui deve essere d’accordo ossia accettare che io mi rivolga al suo BAMBINO ADATTATO e rispondermi da tale. Se il mio partner avrà un adattamento ISTRIONICO, ben difficilmente accetterà questo “vettore comunicativo”, ossia non mi risponderà mai da BAMBINO a GENITORE e dunque la nostra relazione potrebbe rivelarsi fallimentare, per non dire pericolosa per il mio partner che cercherà di sottrarsi al mio controllo con tutte le sue forze.

Perché in una interazione tra due persone si sviluppi un comunicazione continua le transazioni (messaggio a cui corrisponde una risposta) devono essere complementari, ossia mi deve rispondere lo stato dell’IO che ho contattato, oppure sono io che in caso di risposta interruttiva devo essere in grado di cambiare stato dell’IO.

Bibliografia

  • Maria Saccà, Accarezza(mi). La mamma non ha sempre ragione, Franco Angeli.
  • Ian Stewart-Vann Joines, L’analisi transazionale, Garzanti, 1997
  • Ian Stewart-Vann Joines, Adattamenti di personalità, Felici Editori, 2014.
  • Michele Novellino-Carlo Moiso, Stati dell’Io, Astrolabio,
  • S. Brown, L’analisi transazionale e la psicopatologia delle comunicazioni
  • Sabrina Damanti, I giochi dell’analisi transazionale, Xenia
  • Fabio Ricardi, L’analisi transazionale, Xenia
  • Libri di Eric Berne:
  • 1) A che gioco giochiamo? Bompiani
  • 2) Analisi transazionale e psicoterapia, Astrolabio
  • 3) Intuizioni e stati dell’io, Astrolabio
  • 4) Ciao…E poi?, Bompiani
  • 5) Fare l’amore

Stili comunicativi

Il mediatore dovrebbe sapere che quando la mediazione non procede per il meglio ciò potrebbe dipendere da uno stile comunicativo non appropriato alla personalità di coloro che mediano.

Non esiste, infatti, uno stile comunicativo che possa andar bene per tutti coloro che si siedono al tavolo della procedura.

Certo in sessione congiunta non si possono adottare stili cuciti proprio su misura delle parti perché si potrebbe essere tacciati di imparzialità.

Ciò rende il lavoro del mediatore molto complesso e talvolta più difficile ad esempio del terapeuta che ha dalla sua perlomeno il tempo.

Ma in sessione riservata si può lavorare su una comunicazione più adeguata. Al proposito si può ricordare che solo variando il tono di voce si può dar vita ad almeno cinque stili comunicativi differenti.

In realtà quando le cose non sembrano andare per il verso giusto stiamo lavorando su un versante che la persona ha già affrontato da sola infruttuosamente, per questo si sente infastidita dal nostro stile comunicativo (es. così accade ad esempio quando si chieda di passare al secondo incontro dopo cinque minuti di interazione… questa richiesta non può che determinare disagio, a meno che i partecipanti alla mediazione non avessero raggiunto un accordo prima della sessione).

Non c’è nulla in altre parole che possiamo fare in fretta e costruttivamente nell’area in cui la persona ha già provato e fallito.

Può essere opportuno ricordare che per raggiungere ognuno di noi in una interazione ci sono tre porte: si possono definire porta aperta, porta bersaglio e porta trappola (sequenza di Ware).

La porta aperta è quella che normalmente usano le persone per entrare in contatto con le altre e da cui vogliono essere contattate; quella bersaglio invece è una porta che è raggiungibile solo attraverso un certo lavoro (ad esempio del terapeuta, del mediatore ecc.) che peraltro ha degli effetti sulla porta trappola ossia su quella area di noi ove addensiamo più difese e dove un contatto troppo tempestivo porterebbe all’interruzione della comunicazione.

Semplificando, per quanto possibile, ognuno di noi è un insieme di comportamenti, pensieri ed emozioni.

Se il comportamento è la mia porta trappola, l’emozione la mia porta bersaglio e la porta aperta è il pensiero, io amerò essere contattato e contattare col pensiero, lavorare poi sull’emozione in modo da cambiare quel comportamento che ho cercato di affrontare in tutti i modi, ma che da solo non sono riuscito a modificare perché da esso dipende il mio copione di vita (tendo cioè a perpetuare quel comportamento in ogni situazione possibile; Freud parla al proposito di coazione a ripetere e Berne di appunto di copione di vita; in neuroscienza si potrebbe dire che c’è una amigdala che tempesta di richieste una corteccia orbitomediale).

E dunque il mediatore deve sapere che io preferisco essere contattato tramite il pensiero e che ho bisogno di lavorare sulle emozioni insite nel conflitto che mi ha portato da lui.

Per contattare il mio pensiero potrà usare uno stile direttivo ovvero esplorativo, ma quando si tratta di lavorare sulle emozioni può essere necessario che lo stile muti e diventi emotivo o affettivo. Inoltre il mediatore deve essere in grado di capire quando è il momento di cambiare stile, il che come si può immaginare, non si impara certo dall’oggi al domani.

L’Adulto del mediatore, in altre parole, deve saper scegliere quello che di volta in volta è lo stile comunicativo migliore per interagire con lo stato dell’IO che il mediante privilegia.

Così si potrà entrare in empatia o stabilire una buona alleanza, concetto quest’ultimo proprio invero della terapia, ma che mi piace anche in capo al mediatore, seppure qui l’alleanza debba essere perlomeno duplice (o quadruplice vista la presenza degli avvocati).

 

Tecniche di costellazioni familiari in mediazione

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Seminario di “Tecniche di  Costellazioni Familiari in Mediazione”   tenuto dalla Professoressa Luhe Palma Coordinadora Académica del Área de Mediación y de Justicia Restaurativa del Instituto Andaluz Interuniversitario de Criminología Facultad de Derecho Universidad de Sevilla

Appunti di Carlo Alberto Calcagno

In tedesco il termine costellazioni significa configurazione, ossia immagine

In inglese ci si riferisce al sistema stellare

In spagnolo si usano due termini, configuration per immagini e constellation per sistema stellare.

Il termine che a noi interessa è configurazione, ossia immagine.

Ogni persona costituisce immagine di un sistema più grande. Così ci insegna Burt Hellinger di cui ho avuto l’onore di essere allieva.

Egli aggiunge che negli individui esistono problemi che arrivano da generazioni precedenti e che spesso la persona soffre senza nemmeno sapere il perché.

Con la costellazione familiare si può capire dove sta il problema.

Hellinger ha scoperto l’ordine sistemico che ha chiamato ordine dell’amore e scoprì anche come l’amore può scorrere.

Nel sistema tutto è incluso, non è contemplata l’esclusione: i morti e i vivi sono presenti così come è presente la vittima e l’aggressore. Diversamente ad esempio non si capirebbe come famiglie di ebrei abbiano partorito figli nazisti.

Questo aspetto ad esempio ci aiuta a capire i meccanismi di una malattia come la schizofrenia.

In tutte le famiglie ci sono dei disordini e per disordine si intende esempi di amore cieco.

Se ad esempio io soffro di attacchi di panico ed ho paura di morire, posso essere vittima di amore cieco per  qualche familiare. Può essere che un mio familiare stia per morire e che io non voglia accettarlo e che con la mia continua preoccupazione creda di poterlo aiutare. Ma in realtà questo non può accadere, perché nella famiglia i miei genitori sono le radici ed io un ramo; un ramo non può fare nulla per le radici, mentre sono le radici a poter fare per il ramo; e dunque a me non resta che ringraziare chi muore per tutto ciò che mi ha dato, per avermi donato la vita (io non posso fare altrettanto per lui, sono solo un ramo) ed accettare il mio posto di ramo ancora lasciato per un poco nel mondo.

I figli non possono morire per i genitori, ma sono i genitori che muoiono per i figli.

Noi sentiamo di crescere perché i nostri genitori ci alimentano. Se un figlio non ha genitori o chi li può sostituire alla fine muore. Ma al contrario se muore un figlio il genitore può sopravvivergli.

L’uomo che mette incinta una donna la mette a rischio di morte e di vita nello stesso tempo.

Esistono solo due categorie: la vita e la morte; il buono ed il cattivo e gli altri aggettivi che noi usiamo sono soltanto sciocchezze.

In questo senso l’aborto è una cosa terribile: i figli continuano a vivere nel cuore dei genitori anche se questi ultimi non lo sanno.

Quando in una stessa famiglia ad un neonato si dà il nome di un bambino in precedenza defunto, c’è il rischio di condurlo verso la morte perché gli si fa occupare un posto non suo.

In altre parole se il bambino non fosse morto, colui che prende il suo nome non sarebbe nato; la madre è rimasta incinta per superare il dolore della morte. Da ciò deriva che chi vive si senta inadeguato. Capita questa cosa l’inadeguatezza sparisce e si può vivere con gioia.

Noi siamo qui perché molti sono morti, camminiamo sopra i morti e non lo sappiamo, ma l’anima del sistema non lo dimentica .

Il sistema è come un sole ed i raggi sono gli individui: i raggi del sole non si possono rompere; è l’amore che unisce i raggi del sistema.

La stessa commissione dei delitti può spesso essere dovuta ad un atto di amore..

Per uscire da un sistema ed entrare in un altro bisogna fare qualcosa.

Ogni sistema è unico, non ci sono sistemi generali, ed in ogni sistema ci sono ordini e nessuno può essere escluso dall’amore che è sopra tutto; poi c’è l’ordine della gerarchia: coloro che sono più in alto gerarchicamente hanno maggiori diritti; se si cambia posto il sistema si destabilizza e le persone soffrono.

Noi cambiamo sovente la gerarchia e per questo soffriamo: se ad es. una donna si separa dal marito e considera il figlio migliore del padre e lo loda considerandolo perfetto, il figlio sostituisce il padre, ed in seguito accadrà che  comandi la madre e la faccia soffrire.

Ciò procura un disordine che fa venire fuori molti problemi.

O ancora se in un liceo arriva un professore ed afferma che sino a quel momento tutto quello che è stato fatto non va bene, gli altri professori si arrabbiano e fanno sì che il nuovo venuto non faccia alcunché; se invece il professore arriva e dice “che buon lavoro avete fatto, posso dare anche il mio contributo?” allora gli altri acconsentono; questo significa rispettare la gerarchia.

Se un figlio minore si colloca davanti al maggiore occupa un posto che non gli compete.

Ogni sistema va configurato, ma lo si deve fare con molto rispetto, con il consenso dell’altro.

Una mancanza enorme di rispetto è entrare in un sistema senza permesso; così come non si può entrare in un sistema per mera curiosità; il terapista deve sempre assicurarsi che il suo intervento sia o meno sufficiente chiedendolo al paziente; se il paziente dice che può bastare, l’indagine del terapista deve fermarsi.

Se una coppia con figlio si scioglie ed un coniuge si fa una nuova famiglia con un altro figlio c’è una gerarchia da rispettare se si vuol vivere serenamente: la seconda moglie deve rispettare la prima ed il secondo figlio deve rispettare il primo. Non importa che cosa pensi la prima moglie della seconda, perché ciò non impedirà al secondo nucleo che rispetti la gerarchia di trovare la serenità.

Costellazione in definitiva significa mantener il proprio posto.

Ci può aiutare a capire la teoria dei frattali: gli individui sono terminali di un enorme pc e di una enorme energia e tutti abbiamo accesso ad una informazione a livello incosciente. Non importa vivere o morire, separarsi o divorziare: il legame tra gli individui che sono e che furono non si rompe.

Il sistema ha dei vincoli che ci aiutano nel trovare il posto giusto

Il movimento della vita è come entrare in una piscina. Se non sappiamo nuotare affoghiamo. E quindi abbiamo anche bisogno di imparare tecniche per non affogare. Ma non basta perché è come se uno portasse una pietra attaccata al collo: e dunque saper nuotare non mi impedisce di andare a fondo; per nuotare liberamente bisogna anche che io sappia eliminare la pietra. Per eliminare la pietra devo conoscere quale è la mia posizione nella piscina, ossia nel sistema. Prima devo configurare il sistema e scoprire dove sono e siccome noi possiamo occupare un solo posto e non un altro, devo capire quale è il mio; io non sono né peggiore né migliore degli altri, ma sono unico ed unico è il mio posto.

A volte pensiamo che siamo migliori degli altri, ma la vita non richiede questo, la vita vuole che occupiamo il nostro posto ed allora siamo sereni e serena è anche la relazione con gli altri. E non dobbiamo pensare che cambiare di posto riguardi soltanto noi: ogni cambiamento si ripercuote nel sistema ed il sistema non si ferma ai vivi, può riguardare anche quattro generazioni.

Tutte le relazioni poi sono basate sul principio di compensazione.

Quando in una relazione faccio qualcosa che piace a lui provoco una decompensazione perché lui si sente in debito e vuole a sua volta compensare il suo debito facendo qualche cosa che piaccia a me; così la relazione cresce e si fa qualcosa che va a coprire la decompensazione.

Anche se diciamo ad esempio che siamo disinteressati se facciamo tre doni e non ne riceviamo alcuno ci arrabbiamo.

la vita però non possiamo compensarla, non possiamo compensare i nostri genitori che ci hanno dato la vita; questo grande debito possiamo compensarlo solo restituendo a qualcun altro la vita e allora abbiamo bisogno di fare qualcosa di buono per la società.

Ci facciamo frati, suore, adottiamo un figlio. Non è importante avere un figlio fisicamente, ma è pressante la necessità di dimostrare creatività agli altri.

Tutto ciò è dovuto alla nostra necessità di compensazione.

Ciò che accade nel bene, accade anche nel male.

Quando uno subisce un danno desidera che quello che lo ha provocato soffra a sua volta; il nostro sistema penale prevede che si restituisca meno dolore; così il reo si sente sempre debitore verso la vittima.

Ma nelle relazioni individuali e familiari chi attacca riceve un attacco ancora più forte  che viene compensato con un attacco sempre più pesante in una escalation senza fine.

La sentenza del giudice in generale non forma il meccanismo di decompensazione. e allora la compensazione sta nel pretendere una somma di denaro od i figli in affido.

Chi si occupa di conflitti deve preoccuparsi di guardare sempre dove sta la decompensazione. Bisogna indagare la necessità dell’uno e quella dell’altro.

La decompensazione e la compensazione creano molto problemi; anche il nostro fisico che si decompensa alla lunga si ammala.

Per questo in mediazione familiare quando una parte non accetta di partecipare, va sostituito con un attore  ( ad es. un allievo della scuola) che reciti quella data parte in modo da individuare in ogni caso gli elementi di decompensazione e compensazione nel coniuge presente.

Breve nota sull’arbitrato in corso di causa

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In attesa di sapere se la Camera approverà o meno il testo[1] licenziato dal Senato sull’arbitrato endoprocessuale, vorrei fare qui un salto nel passato.

Nel 1477 Re Ferdinando I, oltre a sposarsi, emanò una interessante prammatica  in materia di liti tra congiunti[2].

Il Sovrano istituì un arbitrato endoprocessuale facoltativo,  simile a quello di cui al decreto-legge 132-14, seppure su altra materia.

E’ l’unico caso che io abbia potuto rinvenire nella legislazione antica, di facoltatività a lite iniziata ed infatti, si parla di compromesso.

Esaminiamo dunque il testo che francamente mi pare migliore di quello originario od emendato del decreto 132-14, anche perché lascia le parti padrone dell’arbitrato[3].

Per togliere gli odj, che tra’ congiunti accadono, per cagion della lite fu stabilito, che tra i congiunti sino al quarto grado di consanguineità, o affinità inclusive, secondo il diritto civile, nelle cause civili, o miste, quante volte pria del termine dato a provare si domandi da qualunque di detti congiunti il compromesso, debb’accordarsi in persona di due altri congiunti o amici comuni, perché procedino e sentenziino de jure, o de facto, ovvero de jure aut de facto, come tra le parti si sarà concordato“.

Si tratta di una soluzione originale: a Roma le XII Tavole prevedevano in materia di misurazione dei fondi,  in caso di immissioni e per i beni contesi, la delegazione automatica in arbitrato[4]; anche nei secoli successivi fu previsto soprattutto in materia familiare e societaria[5] ed era di solito obbligatorio.

Poi sul finire del ‘700 troviamo una legislazione, quella del Principato di Trento, ove quello preventivo venne sostituito dalla mediazione (proprio da due mediatori che presero il posto dei due arbitri) perché evidentemente l’istituto arbitrale non aveva dato i frutti sperati.

L’arbitrato partenopeo non poteva avere luogo se sul caso fosse stato emesso un provvedimento giurisdizionale, e per obbligazioni liquide.

Il compromesso non avrà luogo dove sienv’istrumenti, sentenze, ed obbligazioni liquide, nemmeno nelle cause feudali”.

Per gli arbitri partenopei, ed in generale per i boni homines antichi[6], era previsto il giuramento.

Gli Arbitri devono giurare che nel procedere alla cognizione, e decision della Causa avranno Dio e la verità innanzi agli occhi“.

Il termine per l’emissione della decisione era molto stretto. I meccanismi di nomina del collegio arbitrale infallibili.

“Debbano la causa terminare per sentenza dentro due mesi, se saranno concordi, se discordi, nell’ultimo giorno, e pria  debbono eleggere un terzo non sospetto, chiamate la parti, le quali in promptu dovranno nominare i sospetti: il che se le parti, o alcuna di esse non voglia nominarli, l’arbitro eletto per parte di quella, che avrà nominato in contumacia dell’altra parte, che non volle nominare, elegga il terzo; e se l’una, e l’altra parte non abbino voluto nominare, essi Arbitri sotto simil giuramento eleggano il terzo, il quale entro un mese insieme con detti Arbitri, o con uno di essi, spedisca la causa col suo laudo”.

Ricordo anche al Ministro della Giustizia che calmiererà i compensi degli arbitri futuri[7] che un tempo agli arbitri andava la quinta parte del compenso destinato ai giudici a patto che avessero concordato il lodo: il dissenziente non veniva compensato.

Avranno gli Arbitri e il terzo, quando accaderà eleggerlo, per loro salario la quinta parte della trigesima, che un tempo si pagava ai giudici, da dividersi tra coloro, che siino stati concordi nel sentenziare”.

Peraltro questa ultima norma è stata confermata con real dispaccio del 22 maggio 1762 e dunque è presumibile che nell’Ottocento si rispettasse questa regola e proporzione.

Se il lodo non veniva emesso nei tempi vi erano pesanti sanzioni.

“Se dentro il prescritto termine non avranno spedita la causa, saranno tenuti alla pena del doppio di quello venisse tassato per loro salario, da pagarsi in solidum per qualunque d’essi Arbitri; e di più a domanda delle parti, o d’una di quelle sian costretti per nuova coercizione, e minaccia di multa, tostochè abbino accettato il compromesso, diffinire effettivamente la causa lor compromessa”.

Il lodo era impugnabile al giudice che doveva decidere entro un mese, senza formalità, se non c’era dolo degli arbitri.

“2.Se alcuna delle parti si sentisse gravata dalla sentenza , o laudo, adisca il giudice del luogo, dove fu promulgato il laudo, il quale intes’i i primi Arbitri, dentro un mese, senza figura di giudizio, visa facti veritate, atque esidem actis, se non arguisca dolo ex proposito vel re ipsa, spedisca la causa del gravame”.

Ma in caso di dolo si celebrava un vero e proprio processo, anche se il termine di un mese andava rispettato o al limite poteva prorogarsi di un altro mese. L’esecuzione della sentenza non era differibile, ma si poteva ricorrere successivamente[8].

Ma se si allegasse altra lesione, possa giustificarsi per altre prove nel termine da stabilirsi dal giudice purché dentro un mese, o al più d’un altro mese approvi, o disapprovi la sentenza degli Arbitri, o la modifichi, e ciò che per lui sarà giudicato si mandi in esecuzione, né si ascolti se si graverà, se non fatta l’esecuzione reale con pleggeria de restituendo in caso di ritrattazione. 

Dopo l’esecuzione, il Sagro Consiglio, o il deputando da quello, o la G.C. della Vicaria conosca il predetto gravame. Simile osservanza abbi luogo nei compromessi, e laudi fatti tra estranei, dopo il compromesso volontariamente fatto, e per gli arbitri accettato[9].

[1] Art. 1

Trasferimento alla sede arbitrale di procedimenti pendenti dinanzi all’autorità giudiziaria

  1. Nelle cause civili dinanzi al tribunale o in grado d’appello pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto, che non hanno ad oggetto diritti indisponibili e che non vertono in materia di lavoro, previdenza e assistenza sociale, nelle quali la causa non è stata assunta in decisione, le parti, con istanza congiunta, possono richiedere di promuovere un procedimento arbitrale a norma delle disposizioni contenute nel titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile.

Tale facoltà è consentita altresì nelle cause vertenti su diritti che abbiano nel contratto collettivo di lavoro la propria fonte esclusiva, quando il contratto stesso abbia previsto e disciplinato la soluzione arbitrale. Per le controversie di valore non superiore a 50.000 euro in materia di responsabilità extracontrattuale o aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro, nei casi in cui sia parte del giudizio una pubblica amministrazione, il consenso di questa alla richiesta di promuovere il procedimento arbitrale avanzata dalla sola parte privata si intende in ogni caso prestato, salvo che la pubblica amministrazione esprima il dissenso scritto entro trenta giorni dalla richiesta.

2.Il giudice, rilevata la sussistenza delle condizioni di cui al comma 1, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute, dispone la trasmissione del fascicolo al presidente del Consiglio dell’ordine del circondario in cui ha sede il tribunale ovvero la corte di appello per la nomina del collegio arbitrale per le controversie di valore superiore ad euro 100.000 e, ove le parti lo decidano concordemente, di un arbitro per le controversie di valore inferiore ad euro 100.000. Gli arbitri sono individuati, concordemente dalle parti o dal presidente del Consiglio dell’ordine, tra gli avvocati iscritti da almeno cinque anni nell’albo dell’ordine circondariale che non hanno subito negli ultimi cinque anni condanne definitive comportanti la sospensione dall’albo e che, prima della trasmissione del fascicolo, hanno reso una dichiarazione di disponibilità al Consiglio stesso.

2-bis. La funzione di consigliere dell’ordine e l’incarico arbitrale di cui al presente articolo sono incompatibili. Tale incompatibilità si estende anche per i consiglieri uscenti per una intera consiliatura successiva alla conclusione del loro mandato.

3.Il procedimento prosegue davanti agli arbitri. Restano fermi gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda giudiziale e il lodo ha gli stessi effetti della sentenza.

4.Quando la trasmissione a norma del comma 2 è disposta in grado d’appello e il procedimento arbitrale non si conclude con la pronuncia del lodo entro centoventi giorni dall’accettazione della nomina del collegio arbitrale, il processo deve essere riassunto entro il termine perentorio dei successivi sessanta giorni. È in facoltà degli arbitri, previo accordo tra le parti, richiedere che il termine per il deposito del lodo sia prorogato di ulteriori trenta giorni. Quando il processo è riassunto il lodo non può essere più pronunciato. Se nessuna delle parti procede alla riassunzione nel termine, il procedimento si estingue e si applica l’articolo 338 del codice di procedura civile. Quando, a norma dell’articolo 830 del codice di procedura civile, è stata dichiarata la nullità del lodo pronunciato entro il termine di centoventi giorni di cui al primo periodo o, in ogni caso, entro la scadenza di quello per la riassunzione, il processo deve essere riassunto entro sessanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di nullità.

5.Nei casi di cui ai commi 1, 2, 3 e 4, con decreto regolamentare del Ministro della giustizia, da adottare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, possono essere stabilite riduzioni dei parametri relativi ai compensi degli arbitri. Nei medesimi casi non si applica l’articolo 814, primo comma, secondo periodo, del codice di procedura civile.

5-bis. Con il decreto di cui al comma 5 sono altresì stabiliti i criteri per l’assegnazione degli arbitrati tra i quali, in particolare, le competenze professionali dell’arbitro, anche in relazione alle ragioni del contendere e alla materia oggetto della controversia, nonché il principio della rotazione nell’assegnazione degli incarichi, prevedendo altresì sistemi di designazione automatica.

[2] Odia, qua inter conjunctos pr. I, tit. 14 de Arbitris.

[3] Non si stabilisce come fa il nostro legislatore che “Restano fermi gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda giudiziale”.

[4] Cfr. C.A. CALCAGNO, Breve storia della risoluzione del conflitto, Aracne Editrice Srl, 2014, p. 407 e ss.

[5] Peraltro l’antenato della negoziazione assistita (1563) è proprio la conciliazione delegata su richiesta delle parti a soggetti che poi nell’Ottocento verranno detti arbitri-conciliatori.

[6] Cfr. C.A. CALCAGNO, Breve storia della risoluzione del conflitto, op. cit., p. 424 e ss.

[7] “5.Nei casi di cui ai commi 1, 2, 3 e 4, con decreto regolamentare del Ministro della giustizia, da adottare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, possono essere stabilite riduzioni dei parametri relativi ai compensi degli arbitri. Nei medesimi casi non si applica l’articolo 814, primo comma, secondo periodo, del codice di procedura civile”.

[8] Così anche per un editto del 1560 di Francesco II. Cfr. C.A. CALCAGNO, Breve storia della risoluzione del conflitto, op. cit., p. 427.

[9] ALESSIO DE SARIIS, Codice delle leggi del Regno di Napoli, Libro nono, Degli offici pubblici e degli officiali, 1796, pagg. 14-16.

Il legale e la mediazione


Libro

pagine: 220
formato: 17 x 24
ISBN: 978-88-548-6974-5
data pubblicazione: Aprile 2014
editore: Aracne
collana: Itinerari di ADR – Alternative Dispute Resolution | 3

http://www.aracneeditrice.it/aracneweb/index.php/pubblicazione.html?item=9788854869745

http://www.inmondadori.it/legale-mediazione-doveri-Carlo-Alberto-Calcagno/eai978885486974/

http://www.ibs.it/code/9788854869745/calcagno-c–alberto/legale-mediazione-doveri.html

http://www.deastore.com/libro/il-legale-e-la-mediazione-c-alberto-calcagno-aracne/9788854869745.html

http://www.libreriauniversitaria.it/legale-mediazione-doveri-pratica-avvocato/libro/9788854869745?utm_source=become&utm_medium=cpc&utm_term=9788854869745&utm_campaign=become_libuni_

Dal mos maiorum al Rapporto ONU sullo sviluppo umano 2013

Pompei 118

Estratto dal volume in corso di pubblicazione: C.A. CALCAGNO, Il legale e la mediazione. I doveri e la pratica dell’avvocato mediatore e dell’accompagnatore alla procedura. Tutti i diritti sono riservati.

Nel 2012 l’Assemblea Generale dell’Onu ha richiesto al Segretario Generale di lanciare una consultazione per stabilire quali siano le migliori prassi per una mediazione efficace.

Nella Guida per una efficace mediazione che ne è derivata l’ONU tiene a precisare chel’indagine condotta si è basata sul passato e sul presente[1].

Chi scrive coltiva la medesima convinzione e ritiene di dover iniziare l’attuale disanima proprio dal nostro passato.

L’oggetto del presente contributo può trovare una chiave di lettura nel concetto che la deontologiaha rivestito nella storia.

La deontologia[2], il “dovere” nasce in origine dalla convinzione su base soggettiva che un mezzo giusto porti ad un fine giusto.

Agli albori della civiltà romana era il costume degli antenati (mos maiorum) ad essere considerato ilmezzo giusto.

Le norme etiche del tempo su cui è stata elaborata tutta la società romana, si affidavano allatradizione orale di coloro che erano anche i detentori del potere religioso e politico[3] e spesso siconfondevano con i precetti religiosi.

E quali erano questi princìpi, quali questi mezzi giusti[4]?

la pietas, il rispetto verso la patria, i genitori, gli dei, gli amici;

la fides, la lealtà verso la parola data;

la frugalitas, la sobrietà nello stile di vita;

la probitas, il disinteresse e la gratuità;

la gravitas, la condotta irreprensibile dai modi controllati e lontani dagli eccessi[5];

il pudor, il sentimento di vergogna per ogni mancato rispetto della norma;

la sapientia, la saggezza politica, indispensabile nella vita pubblica.

L’insieme di tutte queste qualità costituiva per i Romani la virtus, termine che etimologicamente rimanda a vir, poiché è proprio al vir che spetta esercitarla.

La virtus si raggiungeva in guerra, tramite la gloria, e nella vita civile, tramite l’honos, l’onore dal quale nascono la dignitas e l’auctoritas, il riconoscimento pubblico del proprio ruolo e delle proprie prerogative[6].

Come si può notare questi non sono altro che i princìpi su cui si basa il Codice deontologico degli avvocati[7].

Ed i princìpi che stanno alla base della civiltà non possono che valere ovviamente anche per il mediatore avvocato e per l’avvocato accompagnatore alla procedura (rappresentante o assistente)[8]che devono avere rispetto in primo luogo della società[9].

Possiamo aggiungere poi, d’altro canto, che le prime forme di ADR ovvero di “giuria di periti” – la prima forma di summary jury trials[10] o di early neutral evaluation che troviamo ad esempio nel diritto americano attuale – si possono appunto rinvenire nella Roma arcaica, nell’attività delcollegio ponteficale o del pontefice massimo che in quanto esperto del costume degli antichi (appunto del mos maiorum) veniva designato ogni anno per respondere ossia per valutare il caso concreto alla luce dell’etica, per fornire un parere sull’andamento del futuro processo[11].

Il consiglio pontificale insomma non era altro che la base, il parere di fondo, su cui i litiganti facevano le loro valutazioni: scegliere il giudizio o la composizione bonaria.

La molla che ha portato ad una redazione scritta dei mores maiorum – anche se non è stato rinvenuto un testo scritto vero e proprio da cui si possano evincere, ma possiamo solo affermare che ispirarono le XII tavole – ha coinciso con la necessità del mantenimento della stabilità politica ed economica, in una parola con una più accorta gestione del potere: così la sintesi dei princìpi etici prima visti è divenuta norma giuridica di conoscenza generale.

Le XII Tavole sono state scritte in altre parole per controbilanciare i poteri dei patrizi e concedere ai plebei un minimum di certezze sui loro diritti. Un’operazione simile è stata realizzata peraltro dalla Comunità Europea in materia di ADR: le norme dettate dagli anni ’90 in poi sono sostanzialmentenorme quadro sul rispetto di requisiti minimi che i consumatori devono veder garantiti.

Peraltro l’incorporazione del mos nelle XII tavole ha portato alla valorizzazione “dell’accordo per via” e della conciliazione inter parietes e dell’arbitrato per le questioni legate al mondo agricolo e dunque al riconoscimento della funzione sociale degli strumenti alternativi.

Ma non solo si sono trascritti i mores, si è anche fatto il percorso inverso: dalla norma scritta, dai frammenti scritti di ius civile, si è evinto il potere di  stabilire “i mezzi giusti” per raggiungere giusti fini[12].

La categoria dei giuristi è nata – così almeno ci racconta Cicerone[13] – proprio nel momento in cui si è sostenuto che per essere pontefice massimo bisognasse conoscere lo ius civile e si è dunque invertita quella tradizione per cui necessitava essere pontefice massimo per divenire giurista.

Nel momento poi in cui si è ritenuto – fraudolentemente o meno[14] qui ci interessa poco – che ci dovessero essere dei corpi intermedi tra l’imperatore ed i sudditi le norme deontologiche propriamente dette sono tornate in auge, o meglio è nata la deontologia professionale ossia uncodice etico (comportamentale) elaborato dagli ordini professionali  ed imposto mediante l’esercizio dei poteri disciplinari[15].

Questa è la tendenza espressa ancora da ultimo nella Carta dei principi fondamentali dell’avvocato europeo (2013)[16]viene invocata una forte autoregolamentazione[17]dell’avvocatura, perché sola può garantire l’indipendenza dell’avvocato dallo Stato e dagli altri poteri in esso operanti, indipendenza che è considerata necessaria, quanto l’imparzialità del giudice[18].

Abbiamo detto che la deontologia nasce nei tempi antichi come un convincimento soggettivo.

A partire dall’Età dei Lumi si sente però l’esigenza di dare un fondamento oggettivo allaconvinzione che dall’uso dei mezzi giusti discendano fini giusti[19].

Kant in particolare, in età preromantica, afferma che una legge morale non possa essere determinata dalla natura dell’uomo o dalle circostanze in cui l’uomo è chiamato a vivere, bensì “a priori” in concetti di pura razionalità[20].

Le prescrizioni che si fondano sulla mera esperienza possono, per il grande filosofo, dirsi regole pratiche, ma non leggi morali.

È necessario dunque dare una metafisica ai costumi anche perché “i costumi rimangono soggetti a ogni genere di corruzione”[21].

Quando si riferisce ai costumi Kant intende il comportamento libero in generale[22].

Con il termine metafisica Kant fa invece riferimento ad “una conoscenza razionale pura da ogni empiria” [23].

Come rinvenire tale metafisica? Bisognerebbe che in presenza di un comportamento da porre in essere l’uomo si domandasse se l’azione o la non azione possa costituire o meno oggetto di una legge universale che valga dunque per tutti e che lui stesso in definitiva sia contento  di rispettare[24].

Il porsi questa domanda deriva dal considerare l’umanità come scopo, e non come semplice mezzo. Postulato quest’ultimo che non trova la sua fonte in una particolare esperienza, ma che ha carattere universale.

Quel comportamento che si vorrebbe in una legge universale costituisce dunque il nostrodovere[25]: massima questa che è comprensibile per ogni uomo[26].

Ed una legge che sia basata su doveri di tal natura non può che essere degna di rispetto.

Kant trova dunque il fondamento oggettivo della morale nella pura ragione che porta l’uomo a considerare l’umanità come un fine: si tratta di uno scopo oggettivo di tutti gli uomini razionali.

Ogni uomo per il grande filosofo ha il dovere di determinare la correttezza delle proprie azioni, ossia di verificare l’incidenza delle sua azioni sugli altri, perché ciò risponde alla ragione. Se tutti gli uomini in sostanza non operassero tale valutazione, ma pensassero esclusivamente alla propria felicità e questo principio divenisse universale, alla fine nessuno uomo potrebbe contare su un altro simile[27].

E dunque il dovere di trovare un contemperamento tra la propria e l’altrui felicità ha per il filosofo unfondamento logico assoluto: tanto è che Kant lo definisce imperativo categorico o imperativo della moralità[28].

Ed il contemperamento si specifica nell’agire come se appunto il comportamento dovesse diventare massima universale[29]: per Kant ciò costituisce esplicazione della nostra libertà.

Su una linea simile di pensiero si è posto nel 1971 il filosofo statunitense John Rawls il quale ha sostenuto che se un gruppo di individui, privati di qualsiasi conoscenza circa il proprio ruolo nella società, i propri talenti, il proprio livello intellettuale e culturale, le proprie caratteristiche psicologiche e i propri valori, dovesse scegliere secondo quali principi di fondo deve essere gestita la società in cui vivono non avrebbero dubbi anche se fossero totalmente disinteressati gli uni rispetto alla sorte degli altri, perché sarebbero costretti dalla situazione a scegliere una società gestita secondo criteri equi.

Questi fondamentali principi si può tentare di calarli anche nel dibattito che verte sulla mediazione come atto volontario o come atto imposto: se consideriamo la partecipazione ad una mediazione/conciliazione ovvero più genericamente la ricerca di un accordo come una espressione del dovere di verificare l’incidenza del nostro comportamento sugli altri, questi comportamenti si appalesano razionali, sono uno strumento che adempie ad un dovere potremmo dire naturale: la ragione giustifica il fatto che la partecipazione sia sentita eticamente obbligatoria[30], prima ancora che si traduca in una legge, e nello stesso tempo la ragione conferisce valore etico alla legge che ne prevede la obbligatorietà.

Non è un caso che all’epoca di Kant la conciliazione fosse obbligatoria in diversi paesi europei e del Mondo[31].

E razionale sarebbe anche il mantenimento nella procedura di un atteggiamento cooperativo, anche perché coloro che mediano non possono conoscere quale sia il limite della loro libertà se non conoscono esattamente quale sia il limite della libertà altrui.

Agli occhi del filosofo tedesco il comportamento assertivo e competitivo che a priori si tiene e che nelle Università e negli studi professionali ci hanno insegnato a tenere nelle aule di giustizia (e talvolta anche in mediazione purtroppo) sarebbe stato probabilmente illogico e contrarioall’imperativo categorico.

Il che potrebbe condurci sulla strada della riflessione sull’abuso del dirittoAbuso dei diritto che oggi sembra contrapporsi al concetto di “giusto processo [32].

In base a questo ultimo concetto lo Stato deve garantire che i cittadini possano esplicarepienamente i propri diritti e non deve opporre limitazioni.

E dunque ci si chiede se una mediazione imposta dalla stesso Stato che deve garantire tale libera esplicazione dei diritti sia o meno contrastante con il “giusto processo”.

Ma la risposta non è per nulla scontata, perlomeno se andiamo a vedere quelli che sono stati i lavori preparatori in Assemblea Costituente[33].

Martedì, 14 aprile 1947 fu proposto dall’Onorevole e magistrato Codacci Pisanelli[34] un emendamento all’articolo 19 (che poi sarebbe diventato il nostro art. 24 della Costituzione) che dava questa veste al primo comma della norma: “Nessuno può esercitare il proprio diritto o potere, pubblico o privato, per fini diversi da quelli per cui gli è stato riconosciuto”.

E ciò in luogo del noto principio che poi prevarrà “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”.

Il richiamo kantiano pare qui davvero evidente.

L’onorevole non si presentò a patrocinare l’emendamento e così fu fatto proprio dall’onorevoleDominedò[35] che voleva fortemente e coraggiosamente che in Costituzione fosse inserito il concetto di abuso dei diritti.

Il membro della Costituente fu però apostrofato dal Presidente della prima sottocommissioneTupini[36] secondo cui la Costituzione non poteva occuparsi della patologia, ma solo dell’uso “normale del diritto” ed un giurista, quale era il promotore dell’emendamento, non poteva non saperlo.

La domanda che credo ci si dovrebbe porre è se oggi siamo ancora o meno in una fase di “uso normale del diritto”[37] o se al contrario siamo scivolati nella patologia che almeno due dei padri costituzionali volevano strenuamente evitare.

Se l’emendamento non fosse stato “ritirato” e fosse stato approvato, probabilmente la storia della conciliazione italiana e dei metodi ADR sarebbe cambiata[38] e sarebbe cambiata forse anche la storia della nostra civiltà.

Così come è successo in Francia, al nostro confine: in fondo i supremi principi mutano spesso da luogo a luogo. Il Codice di procedura civile francese (l’art. 32-1) vigente prevede, infatti, che “Colui che adisce la giustizia in modo dilatorio o abusivo può essere condannato a una multa civile fino a 3.000 euro, fatti salvi eventuali danni che potrebbero essere rivendicati”.

Siamo comunque ancora in tempo perlomeno per continuare nel processo di diversificazione delle tutele[39].

Ci sono comunque diverse nazioni che cercano un contemperamento tra giusto processo eabuso dei diritti: vorrei qui citare a mo’ di esempio la California[40].

Il Codice di rito californiano stima che per ogni giorno di giudizio la spesa ammonti a 3.943$ e che tale costo può essere sensibilmente ridotto attraverso mezzi di ADR preventivi[41].

Si considera inoltre che un programma giudiziario di ADR possa avere successo nel momento in cui vi è un risparmio annuale di almeno 250.000 $[42] e che tutti gli operatori devono contribuire al raggiungimento di questo obiettivo che permette alle Corti di avere programmi di ADR finanziati.

Non aveva dunque visto male il Governo italiano nel momento in cui aveva spinto sulla mediazione delegata, coinvolgendo l’apparato amministrativo della Giustizia, ma purtroppo, come sappiamo, la norma è stata soppressa[43] in sede di conversione con la legge  7 febbraio 2012, n. 10.

Tra l’abuso del diritto ed il giusto processo, si è trovata in California una conciliazione nel senso che il diritto al trial si manifesta nel momento in cui si è provato a risolvere in modo collaborativola disputa.

E dunque dal 1994 in California sino a 50.000 $[44], la Corte ordina che si provi ad andare in arbitrato ovvero in mediazione per tutte le materie, sia che si sia privati individui, sia che si sia Agenzia federale[45].

Ogni atto relativo agli ADR che debba essere eseguito dalle parti può essere eseguito anche dai loro difensori[46].

Entro 30 giorni dalla scelta dell’ADR deve essere nominato un mediatore dalle parti o dal giudice se le parti non procedono nei primi quindici giorni[47].

Gli arbitri ed i mediatori sono pagati allo stesso modo dalla Corte, ma il mediatore non può essere pagato prima della dichiarazione di non accordo ovvero della chiusura della procedura[48].

Tutto questo potremmo dire che è un’applicazione del principio kantiano, visto che la logica impone che si risparmi il denaro dei contribuenti, se si vuole non solo continuare a tutelarli, ma pure ampliare la tutela.

Ma se non parliamo di legge, ma di come funzionano i nostri neuroni cerebrali, non sembra di poter approdare a conclusioni diverse.

Se il neurone smette di convogliare informazioni nell’assone e le sinapsi non le rilasciano nellospazio intersinaptico perché un altro neurone le possa appunto ricevere, alla fine muoiono entrambi i neuroni; la comunicazione è cioè un fattore che determina o meno la sopravvivenzadelle nostre reti cerebrali.

Si contrappone alla concezione di Kant[49] quella di Schopenhauer per il quale non esistono doveri assoluti, ma solo doveri ipotetici o condizionati (che già Kant aveva identificato accanto all’imperativo categorico); in sintesi il dovere di valutare l’incidenza delle proprie azioni non è frutto della ragione, ma della possibilità di ottenere un premio o di evitare una minaccia[50].

La presa di coscienza delle esigenze altrui (perno della mediazione moderna) non è determinata dunque da una logica assoluta ed inderogabile, ma dalla convenienza o dalla paura.

Mi pare che questa ultima dottrina si annidi talvolta anche nelle nostre teste: a ben vedere è quella stessa teoria che ci ha portato a scrivere che la mediazione è necessaria perché deve essere conosciuta, ma che deve essere una cosa provvisoria.

Peraltro tale impostazione sembra in parte essere stata recepita anche dalla legge laddove il decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28 all’articolo 5 c. 1-bis prevede che la condizione di procedibilità èsperimentale (“ha efficacia per i quattro anni successivi alla data della sua entrata in vigore. Al termine di due anni dalla medesima data di entrata in vigore è attivato su iniziativa del Ministero della giustizia il monitoraggio sugli esiti di tale sperimentazione.”).

Se non si considera la mediazione come un dovere imposto dalla ragione, in effetti, potrebbe essere necessario trovare una giustificazione ed apporre dei termini che la rendano “digeribile”.

In questa concezione il dovere è dunque un elemento relativo; prima e durante la scelta:

  • se comporre un conflitto oppure no,
  • e conseguentemente di uno strumento piuttosto che di un altro,
  • e quindi di una strategia piuttosto che un’altra (collaborativa o competitiva),

dovremmo porci un paio di domande: Mi conviene?  evito una minaccia?

Ben prima di Kant e Schopenhauer peraltro c’era qualcuno che in materia di composizione delle controversie aveva sintetizzato i due approcci, quello del dovere come esigenza imposta dalla ragione e l’altro, ossia quello del dovere come risposta ad un premio o ad una minaccia.

Si tratta di un passo dell’Evangelista Luca: “Quando vai con il tuo avversario davanti al magistrato, lungo la strada cerca di trovare un accordo con lui, per evitare che ti trascini davanti al giudice e il giudice ti consegni all’esattore dei debiti e costui ti getti in prigione. Io ti dico non uscirai di là finché non avrai pagato l’ultimo spicciolo.”[51]

Non si tratta di un principio religioso, per quanto fornisca naturalmente una indicazione a coloro che nel Vangelo credono. Si descrive qui semplicemente e si approva la pratica romana dell’”accordo per via” di cui abbiamo accennato prima, accordo che i Romani solevano trovare a seguito dellavocatio in ius che consisteva nell’invito al debitore di recarsi seduta stante nel Foro per essere giudicato.  

Se il debitore fosse stato recalcitrante il creditore lo poteva trascinava materialmente nel Foro, dopo aver richiesto l’assistenza di due testimoni.

Nel tragitto le parti spesso si accordavano ed il pretore peraltro sanzionava, ossia dotava di esecutorietà l’accordo, come ci ricordano le XII tavole.

Ebbene l’Evangelista ci suggerisce due comportamenti:

1) è più razionale accordarsi, qualunque sia l’accordo, piuttosto che affidarsi ad una sentenza da cui discendono almeno per una parte conseguenze sfavorevoli (l’avvocato ha peraltro un obbligo deontologico di non aggravare la posizione dell’avversario del suo cliente[52]);

 2) in assenza di un tentativo di contemperamento delle esigenze altrui si incorre certamentein una sanzione che potrà essere certa e molto pesante.

L’Evangelista non lo dice, ma se vogliamo davvero deflazionare il contenzioso, si potrebbe pensare anche ad una terza via, che i Romani conoscevano bene, ossia alla sentenza del pretore che ratificasse l’accordo; è questa anche l’ultima frontiera della mediazione delegata attuale, ma bisogna coinvolgere i giudici in questa nuova prospettiva “notarile” che dovrebbe vedere come unico limite all’accordo il buon costume e l’ordine pubblico.

E già comunque potrebbe costituire un passo avanti riprendere le norme tedesche che oggiimpongono all’avvocato, in un regime di mediazione volontaria (in Germania la condizione di procedibilità riguarda soltanto il settore familiare e la conciliazione), di indicare negli atti processuali introduttivi se si sia provato a negoziare prima del deposito e quali siano le ragioni che impediscono una definizione bonaria[53].

Quale che sia l’opinione del lettore, favorevole o meno agli strumenti di negoziato obbligatori[54], vorrei qui aggiungere che L’ONU ha appena pubblicato il Rapporto sullo sviluppo umano 2013 nell’ambito dell’United Nations Development Programme (UNDP)[55].

L’Italia ha un indice di sviluppo umano[56] che ci pone al 25° posto su 186 stati totali, ma anche al 25°[57] posto tra i 47 paesi che hanno uno sviluppo umano molto alto.

Tra i 24 paesi che ci precedono 22 hanno strumenti di negoziazione obbligatoria e nei restanti 2 (Paesi Bassi e Hong Kong) stanno pensando ad inserire la mediazione obbligatoria[58].

Si può dunque concludere con una qualche sicurezza che il tentativo di ricercare la pace sia indice dello sviluppo umano di un popolo[59].


[1] The General Assembly also requested the Secretary-General, in consultation with Member States and other relevant actors, to develop guidance for more effective mediation, taking into account, inter alia, lessons learned from past and ongoing mediation processes. United Nations Guidance for Effective Mediation, p. 2.http://www.un.org/wcm/webdav/site/undpa/shared/undpa/pdf/UN%20Guidance%20for%20Effective%20Mediation.pdf

[2] Deriva dal greco “deon” che significa dovere.

[3] Così a Roma facevano parte dello ius pontificale.

[4] Per approfondire cfr: Leges delle XII Tavole; Nevio, Bellum Poenicum, 43 Morel; Accio, Diomedes, v. 263 W.;      Epinausimache, v. 301 W.; Catone, De re rustica II, 1-5; Nepote, Vita Attici 1; 6; 13; 16-17; Cicerone, De Repubblica VI, 13-16; Catullo, Carmi 101, 109; Terenzio, Andria V, vv. 871-903; Sallustio, De coniuratione Catilinae 14-15;Virgilio, Georgiche 1, 122-148; Eneide, IV 584-602; XII 919-952; Tibullo, Elegie I, 10 vv. 1-25; Ovidio, Ars amatoria I, 629-644; Lucano, Bellum civile II 372-391; Tacito, Annales XIV, 7-8 Agricola 46; Svetonio, De vita Caesarum, Nero 34; Giovenale, SatiraVI, 1-20; 85-113; S. Ambrogio, Inno 4; S. Agostino, Confessiones X, 27-38 Epistulae 155, 18.

[5] L’Onu da ultimo con riferimento alla competenza del mediatore suggerisce che il mediatore sia “The mediator needs a level of seniority and gravitas commensurate to the conflict context and must be acceptable to the parties”.

[6] La virtus non può esistere senza una rigida delimitazione delle situazioni della vita civile:religiones, culti a fondamento dello stato; negotia, gli affari privati; otium, il tempo libero individuale o, per gli aristocratici, quello vacante da impegni pubblici.

[7] Cfr. Ad esempio gli articoli  5 (Doveri di probità, dignità e decoro),  6 (Doveri di lealtà e correttezza), 7 (Dovere di fedeltà) e 8 (Dovere di diligenza) nell’ultima versione aggiornata al 16 dicembre 2011 in http://www.consiglionazionaleforense.it/site/home/area-avvocati/codice-deontologico-forense.html.

[8] In oggi sono ripetuti anche dalla nuova legge sull’Ordinamento professionale forense (art. 3 c. 2): ”La professione forense deve essere svolta con indipendenza, lealtà, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo sociale della difesa e rispettando i princìpi della corretta e leale concorrenza”. Il Consiglio Nazionale Forense con decisione 30 maggio 2007 ha stabilito che i doveri di lealtà e correttezza (art. 6 CDF) devono ispirare l’attività dell’avvocato anche al di fuori dello stretto ambito processuale. Cfr. G. ROMUALDI, Dall’abuso del processo all’abuso del sistema giustizia, Giappichelli Editore, Torino, 2013, p. 75.

[9] Così anche per la nuova legge sull’Ordinamento Forense. Cfr. G. ROMUALDI, Dall’abuso del processo all’abuso del sistema giustizia, op. cit., p. 90.

[10] Alla fine della discovery di formano finte giurie presiedute da un giudice che in un processo simulato a seguito di procedure abbreviate forniscono verdetti (pareri consultivi) che possono essere base per una negoziazione.

[11] In Atene svolgevano funzioni analoghe gli esegeti in numero di tre. C. CANTÙ, Appendice alla Storia Universale, vol. Unico Delle Legislazioni, Pomba & C., Torino, 1839, p. 166.

[12] “Dovere è la necessità di una azione che va compiuta per rispetto della legge”. Cfr. Immanuel Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, JF Hartknoch, Riga, 1797.

[13] Cicerone (Delle leggi, 2, 29,47) ci racconta che Quinto Mucio, figlio di Publio, afferma di aver udito il padre che non può essere buon pontefice colui che non abbia conoscenza dello ius civile(ossia delle giurisprudenza e della prassi giudiziaria). Sino ad allora era la pratica pontificale che fondava lo ius civile e non viceversa (v. amplius A. SCHIAVONE, Il giurista, in L’uomo romano a cura di Andrea Giardina, Laterza, 2001, p. 92 e ss.).

[14] Il tutto sarebbe nato da una interpolazione fraudolenta di una glossa che assumeva l’esatto contrario.

[15] Il Codice deontologico forense italiano riguarda in particolare i principi e la modalità di esercizio dell’Avvocatura, a partire dalla tutela dei diritti e degli interessi della persona, assicurando la conoscenza delle leggi e contribuendo pienamente all’attuazione dell’ordinamento per i fini della giustizia.

Bisogna altresì considerare dal 2008 il Codice deontologico degli avvocati europei (ultima versione 2013; si può trovare in http://www.consiglionazionaleforense.it/site/home/area-cittadino/codice-deontologico-forense.html) che è altresì vincolante per gli avvocati e che riguarda i rapporti professionali tra gli avvocati di Stati membri diversi, o l’attività dell’avvocato svolta in uno stato membro diverso a prescindere dalla sua presenza ivi.

Il commento al Codice precisa che l’ambito di applicazione attiene a: “rapporti all’interno dello stato A, anche su questioni di diritto interno, tra un avvocato dello Stato A e uno dello Stato B; – tutte le attività svolte da un avvocato dello Stato A nello Stato B, anche se solo sotto forma di comunicazioni inviate dallo Stato A allo Stato B. Sono esclusi invece i rapporti intercorrenti tra avvocati dello Stato A, all’interno di quest’ultimo, su questioni riguardanti lo Stato B, se nessuna delle loro attività professionali si svolge in tale ultimo Stato”.

Si applica agli avvocati di 44 nazioni: Albania, Armenia, Austria, Belgio, Bosnia Erzegovina, Bulgaria, Cipro, Croazia, Danimarca, Estonia; Finlandia, Francia, Georgia, Germania, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Lussemburgo, Malta, Moldavia, Montenegro, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Repubblica di Macedonia, Romania, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia, Ucraina, Ungheria.

Le norme del Codice deontologico forense sono “interpretate e applicate in conformità” a quelle del Codice deontologico degli avvocati europei (Canone 1.3.2.).

[16] Si tratta di un documento elaborato dal Consiglio degli Ordini Forensi Europei e riguarda dieci principi comuni all’avvocatura europea. Cfr. per la versione più recente in lingua inglesehttp://www.consiglionazionaleforense.it/site/home/area-cittadino/codice-deontologico-forense.html

[17] Canone (J).

[18] Cfr. Canone 2.1.1. Codice deontologico degli avvocati europei.

[19] “Poiché qui, propriamente, la mia intenzione si dirige sulla filosofia morale, io limito la questione in questi termini: se non si pensi che sia assolutamente necessario elaborare una volta per tutte una filosofia morale pura, completamente liberata da tutto ciò che sia comunque empirico e appartenente all’antropologia”. Cfr. Immanuel Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, op. cit.

[20] “…tutti i concetti etici hanno la loro sede e la loro origine interamente “a priori” nella ragione”… Ora, l’uomo trova effettivamente in sé una facoltà con cui si distingue da tutte le altre cose, anzi, anche da se stesso in quanto riceve impressioni dagli oggetti: e questa facoltà è la “ragione”. Cfr. Immanuel Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, op. cit.

[21] “Ciò che ha da essere moralmente buono, infatti, non basta che sia “conforme” alla legge morale: esso deve anche avvenire “per” la legge morale”. Cfr. Immanuel Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, op. cit.

[22] Cfr. Immanuel Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, op. cit.

[23] “Ciò che ha da essere moralmente buono, infatti, non basta che sia “conforme” alla legge morale: esso deve anche avvenire “per” la legge morale”. Cfr. Immanuel Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, op. cit.

[24] “…puoi tu anche volere che la tua massima divenga una legge universale? Se non è così, la tua massima va respinta, e non già per un danno che possa derivarne a te, o anche ad altri, bensì perché essa non può entrare come principio in una possibile legislazione universale, verso la quale la ragione mi impone immediatamente rispetto”… “La questione è, dunque, la seguente: è una legge necessaria “per tutti gli esseri razionali”, che essi giudichino sempre le loro azioni secondo massime tali di cui sia possibile volere che servano da leggi universali?… “agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche al tempo stesso come scopo, e mai come semplice mezzo””. Cfr. Immanuel Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, op. cit.

[25] La necessità oggettiva di un’azione obbligatoria si chiama “dovere”. Cfr. Immanuel Kant,Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, op. cit.

[26] Nessuno, neppure il peggior ribaldo, per poco che sia abituato a fare uso della ragione, quando gli si presentino esempi di onestà nelle intenzioni, di costanza nel seguire le massime buone, di partecipazione al bene comune (anche se connesse con grandi sacrifici di vantaggi e comodità), manca di auspicare di essere anche lui dotato di siffatte intenzioni. Ma, questo, egli non riesce a realizzarlo in sé, a causa dei suoi istinti e inclinazioni: non senza che egli desideri tuttavia, al tempo stesso, di esser libero da tali inclinazioni viziose. Cfr. Immanuel Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, op. cit.

[27] “Ancora: un quarto, a cui le cose vanno bene, ma che vede altri intorno a lui lottare contro grandi difficoltà (ed egli potrebbe facilmente aiutarli) pensa: che cosa me ne importa? Sia ognuno felice tanto quanto il cielo gli concede, o quanto riesce a rendersi tale da sé: io non gli porterò via nulla e non lo invidierò; ma non ho nessuna voglia di contribuire al suo benessere o ad assisterlo nelle sue necessità. Ora, senza dubbio, se questo modo di pensare divenisse una legge universale di natura, il genere umano potrebbe benissimo sussistere; e, senza dubbio, meglio che quando ciascuno chiacchiera di partecipazione e di benevolenza, e anche mostra zelo quando se ne presenta l’occasione, ma, per contro, non appena può, mente, si lascia corrompere o infrange in ogni modo i diritti altrui. Ma, sebbene sia possibile che sussista una legge universale di natura ispirata a quella massima, è tuttavia impossibile volere che un tal principio viga in ogni caso, come legge di natura. Infatti, una volontà che volesse questo contraddirebbe se stessa, potendosi ben presentare casi in cui essa ha bisogno dell’amore e della partecipazione altrui, e in cui una legge siffatta, uscita dalla sua stessa volontà, impedirebbe a lei stessa di sperare nell’aiuto desiderato…”In quarto luogo”, per quel che riguarda il dovere supererogatorio verso gli altri, lo scopo naturale, proprio di tutti gli uomini, è la loro felicità. Ora, l’umanità potrebbe, bensì, sussistere anche se nessuno contribuisse alla felicità degli altri senza tuttavia detrarre nulla ad essa intenzionalmente: se non che questo è un concordare solo negativo, e non positivo, con l’”umanità come fine in sé”, quando nessuno si sforzi di promuovere, per quanto può, anche i fini degli altri. Infatti, il soggetto fine a se stesso è un soggetto tale che i suoi scopi, se quella rappresentazione ha da avere presso di me “tutta” la sua efficacia, devono anche, per quanto possibile, essere scopi “miei”.”. Cfr. Immanuel Kant,Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, op. cit.

[28]“La rappresentazione di un principio oggettivo, in quanto necessario per una volontà, si chiama comando (della ragione), e la formula del comando si chiama imperativo… Ora, gli “imperativi” in genere comandano, o “ipoteticamente”, o “categoricamente”. I primi ci presentano la necessità pratica di un’azione possibile come mezzo per raggiungere un qualche scopo che si vuole (o che è possibile che si voglia). Imperativo categorico sarebbe, per contro, quello che presenta un’azione come oggettivamente necessaria per se stessa, indipendentemente dal rapporto con un altro scopo… Ora, se l’azione si presenta come buona solo “per altro”, in quanto mezzo, l’imperativo è “ipotetico”, mentre se è rappresentata come buona in “sé”, e pertanto come necessaria per una volontà di per sé conforme a ragione e come principio della volontà stessa, l’imperativo è “categorico”… Tale imperativo può dirsi imperativo della moralità… L’imperativo categorico è, dunque, uno solo, e precisamente il seguente: “agisci solo secondo quella massima che tu puoi volere, al tempo stesso, che divenga una legge universale”…. l’imperativo universale del dovere potrebbe anche suonare così: “agisci come se la massima della tua azione dovesse, per tua volontà, divenire una legge universale di natura”… e porre a base la formula generale dell’imperativo categorico: “agisci secondo una massima che possa farsi al tempo stesso legge universale”.”. Cfr. Immanuel Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, op. cit.

[29] “Così, per esempio, io devo cercar di promuovere la felicità altrui, non perché m’importi qualcosa il suo esistere (vuoi per una inclinazione immediata, vuoi, anche, per un compiacimento indiretto, mediato dalla ragione), bensì unicamente perché una massima che la escludesse non potrebbe essere compresa in una stessa volontà come legge universale”. Cfr. Immanuel Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, op. cit.

[30] “…dunque, una volontà libera e una volontà sottoposta alla legge morale sono la stessa cosa”. Cfr. Immanuel Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, op. cit.

[31] A tacere dei provvedimenti ordinari almeno sedici Costituzioni nel mondo hanno costituzionalizzato tra il secolo XVIII ed il XIX gli strumenti alternativi prevedendo espressamente la conciliazione obbligatoria: Regno di Napoli (1799 e 1812), Regno delle Due Sicilie (1822), Francia (1791 e 1795), Cantone di Zugo (1814), Costituzione della Repubblica Ligure (1797), Costituzione della Repubblica Cisalpina (1798), Costituzione del Cantone di Zurigo (1814),  Carta Costituzionale del Regno di Polonia (1815), Costituzione del Cantone di Unterwal Il Basso (1816), Costituzione politica della monarchia spagnola (1812), Costituzione del Portogallo (1826), Costituzione politica della Repubblica del Perù (1823), Costituzione del Cile (1823 e 1833),  Costituzione dell’Impero del Brasile (1824). Cfr. C.A. CALCAGNO, ADR e Costituzioni nei secoli XVIII e XIX, inhttp://mediaresenzaconfini.org/2013/02/01/adr-e-costituzioni-nei-secoli-xviii-e-xix/

[32] Cfr. sul punto l’esaustivo lavoro di G. ROMUALDI, Dall’abuso del processo all’abuso del sistema giustizia, Giappichelli Editore, op. cit.

[33] Il presidente Obama ha firmato il National Defense Authorization Act per l’anno fiscale 2012 al 31 dicembre 2011, che consente al governo degli Stati Uniti di detenere a tempo indeterminato degli americani (detenzione a tempo indeterminato senza processo: Sezione 1021) senza il diritto al giusto processo. Se vi è motivo di sospettare una persona sta collaborando con “… forze associate che sono impegnate nelle ostilità contro gli Stati Uniti o dei suoi partner della coalizione”, la legge prevede ora che il diritto al giusto processo è “congelato” e il sospetto di terrorismo può essere detenuto “senza processo, fino alla fine delle ostilità” in base all’Iraq Resolution del 2002.

[34] Libero docente in Diritto Amministrativomagistrato, pretore di Tricase, componente dell’Assemblea costituente, più volte deputato, ministro della difesa nell’8º gabinetto De Gasperi, rettore del Consorzio Universitario Salentino, presidente dell’Unione Interparlamentare, ministro per i rapporti con il Parlamento nei governi Fanfani e Leone, sindaco di Tricase, nel Salento, dal quale proviene la sua famiglia, dal 1962 al 1968 e rettore dell’Università del Salento. Fonte Wikipedia

[35] È stato Sottosegretario di Stato agli affari esteri nel VI Governo De Gasperi con delega per gli italiani all’estero, nel VII Governo De Gasperi con delega per l’emigrazione, e nel VIII Governo De Gasperi.

Ha ricoperto lo stesso incarico anche nel Governo Pella, nel I Governo Fanfani e nel Governo Scelba.

Con il III Governo Fanfani è stato nominato Sottosegretario di Stato alla Giustizia, e nel IV Governo Fanfani ha ricoperto l’incarico di Sottosegretario di Stato alla Marina mercantile, diventando Ministro dello stesso Dicastero con il I Governo Leone. Fonte Wikipedia.

[36] Ex Ministro alla Giustizia dei Governo Bonomi II e III (1944-45). Fonte Wikipedia. Vicepresidente della Costituente e Presidente della prima sottocommissione.

[37] L’Italia nella Doing Business Mondiale del 2013 redatta dalla Internacional Finance Corporatione dalla Banca Mondiale ci dice che:

1) l’indice di forza dei diritti legali è pari a 3 (la Malesia ha indice 10).

2) Il nostro sistema giudiziario in tema di commercio è al  160° posto mondiale su 183 paesi (enforcing contracts).

http://www.doingbusiness.org/~/media/giawb/doing%20business/documents/profiles/country/ITA.pdf

Il Doing Business del 2014 ci pone al 128 posto mondiale, a mediazione obbligatoria reintrodotta. Cfr.http://www.doingbusiness.org/~/media/GIAWB/Doing%20Business/Documents/Annual-Reports/English/DB14-Full-Report.pdf

[38] “Aggiungo che la proposta di menzionare in Costituzione l’abuso del diritto significa affermare il concetto che l’eccesso di potere è condannato: ciò avrebbe una larga possibilità diffusiva anche nei confronti del diritto privato…” DOMINEDO’.

[39] La giurisprudenza comunque dal 2007 sta cercando di dare una mano in questo senso: cfr. sul punto G. ROMUALDI, Dall’abuso del processo all’abuso del sistema giustizia, op. cit., p.p. 11-34. A seguito della riformulazione dell’art. 111 anche gli articoli 88, 89 e 96 C.p.c. potrebbero avere una funzione di argine contro condotte contrarie al corretto svolgimento del processo, ma a ben vedere gli articoli 88 e 89 C.p.c. reprimono l’abuso nel processo e non del processo. Solo l’art. 96 C.p.c. potrebbe reprimere l’abuso del processo, ma comunque tutte le norme indicate sanzionano la parte e non il difensore (se si eccettua l’art. 88 c. 2 C.p.c. che comporta la segnalazione al Consiglio dell’Ordine) che è invece l’artefice delle strategie processuali. Non vi è inoltre alcun ristoro in queste norme per l’amministrazione della giustizia e l’interesse più in generale dell’ordinamento (G. ROMUALDI, p. 36 ed in particolare pp. 55 e ss.). Ruolo chiave invece per perseguire l’abuso del processo sarebbe per l’autrice l’applicazione dell’art. 49 del Codice Deontologico (G. ROMUALDI, p. 81). In sostanza “solo riconoscendo al giudice il potere di sanzionare l’avvocato per la violazione delle norme deontologiche (v. Trib. Cagliari 19 giugno del 2008, n. 2247) queste ultime possono costituire un valido baluardo contro l’abuso del processo” (G. ROMUALDI,  p. 95).

[40] Noi peraltro lo avevamo già fatto nel Codice di procedura civile del regno delle Due Siciliee nel Codice di procedura civile del 1865, attraverso il criterio sistematico.

Il legislatore californiano trova e dichiara che:

(A) La risoluzione pacifica delle controversie in modo equo, tempestivo, in maniera appropriata e conveniente è una funzione essenziale del ramo giudiziario del governo dello Stato ai sensi dell’articolo VI della Costituzione della California.

(B) Nel caso di molte dispute, il litigo che si conclude con un processo è costoso, richiede tempo, ed è stressante per le parti coinvolte. Molte controversie possono essere risolte in un modo giusto ed equo attraverso processi meno formali.

(C) Processi alternativi della risoluzione delle controversie per la riduzione dei costi, del tempo e dello stress, come la mediazione, sono stati effettivamente utilizzati in California e altrove. Nei casi opportuni la mediazione fornisce alle parti una procedura semplificata ed economica per ottenere la risoluzione rapida ed equa delle loro controversie ed una maggiore possibilità di partecipare direttamente a risolvere le dispute.

La mediazione può anche aiutare a ridurre l’arretrato di cause che gravano sul sistema giudiziario. È nel pubblico interesse che la mediazione sia incoraggiata ed utilizzata, se del caso, da parte dei giudici.

(D) La mediazione e simili processi alternativi possono risultare di maggior beneficio per le parti in un procedimento civile, quando siano utilizzati al più presto, prima della discovery e che altre spese processuali siano sostenute. Dove appropriato, le parti di una controversia dovrebbero essere incoraggiate ad utilizzare la mediazione e altre alternative al processo per risolvere le loro differenze nelle prime fasi di una causa civile.

(E) Così come accade in un progetto pilota a Los Angeles County e in altre contee che scelgono di applicare questo titolo del Codice, i giudici dovrebbero essere in grado di attribuire le disputeprocessi appropriati di risoluzione delle controversie, come   l’arbitrato giudiziario e la mediazione, in qualità di alternative al processo, in coerenza con il diritto delle parti di ottenere un processo nel caso in cui la controversia non sia risolta attraverso un processo alternativo.

(F) L’obiettivo di questo titolo è quello di incoraggiare l’uso di metodi alternativi di risoluzione delle controversie connessi al processo, in generale, e della mediazione in particolare. Si stima che il costo medio per la Corte della trattazione di una causa civile  attraverso il giudizio è di  3.943 dollari(3.943 dollari) per ogni giorno, e che una parte sostanziale di questo costo può essere eliminato se questi casi sono risolti prima del processo.

Il Consiglio giudiziario, attraverso l’Ufficio Amministrativo della Corti, procede a un sondaggio per determinare il numero di casi risolti con la risoluzione alternativa delle controversie prevista dal presente titolo, e valuta i risparmi derivanti e realizzati dai tribunali e dalle parti. I risultati del sondaggio sono incluse nella relazione presentata ai sensi della Sezione 1.775,14. I programmi autorizzati dal presente titolo si considerano efficaci se provocano un risparmio stimato di almeno 250 mila dollari ($ 250.000) per i tribunali e un risparmio corrispondenti per le parti.

[41] Sezione 1775 punto F del Codice di Procedura civile della California: “It is estimated that the average cost to the court for processing a civil case of the kind described in Section 1775.3 through judgment is three thousand nine hundred forty-three dollars ($3,943) for each judge day, and that a substantial portion of this cost can be saved if these cases are resolved before trial”.

[42] Sezione 1775 punto F del Codice di Procedura civile della California, comma secondo.

[43] Il d.l. 22 dicembre 2011, n. 212 all’art. 12 c. 1 stabiliva che:

“1. Al decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28,  sono  apportate  le seguenti modificazioni:  

a) all’articolo 5, dopo il  comma  6,  è  aggiunto,  in  fine,  il seguente:   “6-bis.   Il   capo   dell’ufficio   giudiziario   vigila sull’applicazione di quanto previsto dal  comma  1  e  adotta,  anche nell’ambito dell’attività di pianificazione  prevista  dall’articolo 37, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito,  con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n.  111,  ogni  iniziativa necessaria a favorire l’espletamento della mediazione su  invito  del giudice ai sensi del comma 2, e ne riferisce, con frequenza  annuale, al Consiglio superiore  della  magistratura  ed  al  Ministero  della giustizia.”;

  b) all’articolo 8, comma 5, al secondo periodo  sono  anteposte  le seguenti parole: «Con ordinanza non impugnabile pronunciata d’ufficio alla prima udienza di comparizione delle  parti,  ovvero  all’udienza successiva di cui all’articolo 5, comma 1,».”

[44] Valore determinato dalla Corte ai soli fini dell’ADR.

[45] Sezione 1775 5

[46] Sezione 1775 1  punto B.

[47] Sezione 1775 6.

[48] Sezione 1775 8 e 9.

[49] “…non la paura, e neppure l’inclinazione, ma soltanto il rispetto per la legge sia un movente capace di dare all’azione un valore morale” Cfr. Immanuel Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, op. cit.

[50] Già il codice di Manù del VI secolo a. C. recitava nel VII libro al precetto 15:”Il timore del castigo dà a tutte le creature mobili ed immobili di godere quanto è loro proprio, e toglie loro lo scostarsi dai propri doveri”.

[51] Luca 12, 58-59.

[52] ART. 36. – Autonomia del rapporto.

(Omissis)

I – L’avvocato non deve consapevolmente consigliare azioni inutilmente gravose, né suggerire comportamenti, atti o negozi illeciti, fraudolenti o colpiti da nullità.

(Omissis)

Ma vedi anche l’art. 49 per cui l’avvocato non deve gravare con onerose e plurime iniziative giudiziali la situazione debitoria della controparte, se non vi sia un apprezzabile interesse della parte assistita. Cfr. sul punto G. ROMUALDI, Dall’abuso del processo all’abuso del sistema giustizia, op. cit., p. 81.

[53] Il § 253 comma (3) ZPO (il Codice di rito tedesco), è ad esempio riformulato come segue:

“(3) La domanda deve contenere:

1 una dichiarazione che indichi se, prima del deposito del ricorso, abbia avuto luogo una mediazione od altro processo di risoluzione dei conflitti extra-giudiziale, nonché una dichiarazione relativa al fatto che sussistano motivi che ostacolino una definizione bonaria;” (omissis).(§ 253 Absatz 3 wird wie folgt gefasst:

„(3) Die Klageschrift soll ferner enthalten:

1. die Angabe, ob der Klageerhebung der Versuch einer Mediation oder eines anderen Verfahrens der außergerichtlichen Konfliktbeilegung vorausgegangen ist, sowie eine Äußerung dazu, ob einem solchen Verfahren Gründe entgegenstehen;…).

[54] Hanno strumenti di negoziazione obbligatoria tra gli altri i seguenti stati del Mondo che costituiscono più di un quarto degli stati totali: Giappone, Afghanistan, Algeria, Bangladesh, Germania, Italia, Stati Uniti, Romania, Israele, Irlanda, Argentina, Colombia, Australia, Giappone, Taiwan, Repubblica delle Filippine, Nuova Zelanda, Canada, Dubai, Nigeria, Botswana, Ghana, Capo Verde, Egitto, Gambia, Guinea-Bissau, Malawi, Mauritius, Lesoto, Namibia, Ruanda, Sierra Leone, Sudafrica, Uganda, Zimbawe, Cina, Francia, Inghilterra, Belgio, Danimarca, Svezia, Estonia, Norvegia, Grecia, Slovenia, Repubblica Ceca, Finlandia, Cipro, Svizzera, Islanda, Slovenia, Spagna, Liechtenstein, Repubblica di Corea. Per ulteriori informazioni consultahttp://mediaresenzaconfini.org/2012/11/03/mediazione-obbligatoria/

[55] hdr.undp.org/sites/default/files/hdr2013_summary_italian.pdf‎

[56] L’indice di sviluppo umano è utilizzato dall’ONU così come gli Stati utilizzano il Prodotto interno lordo. Sono naturalmente diversi i parametri di riferimento nel senso che l’ONU verifica come un paese affronti e risolva determinate disuguaglianze e discriminazioni interne.

[57] I Paesi che hanno uno sviluppo umano superiore al nostro sono i seguenti: 1 Norvegia 2 Australia 3 Stati Uniti 4 Paesi Bassi 5 Germania 6 Nuova Zelanda 7 Irlanda 7 Svezia 9 Svizzera 10 Giappone 11 Canada 12 Corea, Repubblica di 13 Hong Kong, Cina (sAR) 13 Islanda 15 Danimarca 16 Israele 17 Belgio 18 Austria 18 Singapore 20 Francia 21 Finlandia 21 Slovenia 23 Spagna 24 Liechtenstein.

[58] Questa è la situazione in dettaglio:

1) Norvegia: ha il tentativo preventivo di conciliazione obbligatorio.

2) Australia: I tribunali degli stati che la compongono hanno il potere di ordinare alle parti, in considerazione delle circostanze concrete, di partecipare alle ADR, sia prima sia durante il processo.

3) Stati Uniti: hanno la mediazione obbligatoria e anche l’arbitrato (California)(seppure non vincolante).

4) Paesi Bassi: i legali olandesi vedevano la mediazione italiana obbligatoria (ante decreto del fare) come necessaria; ultimamente il Mediation Training Institute la sta invocando per le procedure di divorzio; il nuovo progetto olandese sulla mediazione richiede l’inserimento in citazione dei motivi per cui non si intende mediare e spinge verso la mediazione delegata.

5) Germania: ha la conciliazione obbligatoria in 16 dipartimenti; la mediazione familiare può essere in taluni casi obbligatoria.

6) Nuova Zelanda: ha progetti pilota di mediazione giudiziaria obbligatoria dal 2009.

7) Irlanda: ha la mediazione obbligatoria quando si tratti di sinistri che abbiano cagionato danni alle persone.

8) Svezia: ha la conciliazione obbligatoria in materia di locazione commerciale ed il tentativo giudiziale di conciliazione obbligatorio preventivo; è obbligatoria la mediazione familiare nel caso di divorzio.

9) Svizzera: ha il tentativo preventivo di conciliazione giudiziale obbligatorio (dal 1° gennaio 2011 può essere sostituito dalla mediazione).

10) Giappone: la mediazione è obbligatoria in materia di locazione e di famiglia; si fa luogo a mediazione preventiva obbligatoria in tre ipotesi: 1) quando i diritti e le obbligazioni delle parti sono chiari e necessita solo un aggiustamento nell’interesse della relazione, 2) non ci sono norme legislative o regolamentari relative alla fattispecie ovvero sussistono settori in cui il Governo è meglio che non entri; 3) in casi dettagliati e specifici che sono più adatti ad essere risolti con la mediazione.

11) Canada: L’Ontario ha la mediazione obbligatoria in alcuni casi specificati dalle giurisdizioni municipali. La mediazione in Canada per i servizi bancari e finanziari sarà obbligatoria dal 1° maggio 2014http://www.mondaq.com/canada/x/283292/Securities/OBSI+Mandatory+ADR+for+All+Canadian+Securities+Registrants+Coming+May+1+2014&email_access=on

12) Corea: ha la conciliazione preventiva obbligatoria.

13) Hong Kong: ha la mediazione dagli anni ’80; si sta pensando introdurre la mediazione giudiziaria obbligatoria sul modello australiano (cfr. Research Trends and Conclusions: Commercial Mediation 2013 in http://whoswholegal.com/news/analysis/article/30713/)

14) Islanda: ha la mediazione delegata obbligatoria.

15) Danimarca: La conciliazione è obbligatoria per le imprese nel settore del turismo in merito ai viaggi e all’alloggiamento e nel settore dei mutui ipotecari.

16) Israele: ha la mediazione obbligatoria preventiva

17) Belgio: la conciliazione è obbligatoria per le industrie in diversi settori (telecomunicazioni, assicurazioni, poste, diritti dell’infanzia, rapporti con il governo, rapporto con le istituzioni dell’Unione Europea, banche, energia, collocamento privato, pensioni, prodotti finanziari).

18) Austria: dal 2002 si tiene un tentativo preventivo ed obbligatorio se il bene è ubicato ove sussiste il servizio di conciliazione, per la locazione ed in tema di proprietà immobiliare anche pubblica.

19) Singapore: han la mediazione obbligatoria in materia di divorzio quando i figli hanno meno di 14 anni (http://www.mediate.com/SingaporeMediators/)

20) Francia: il giudice può in generale disporre sessioni informative obbligatorie di mediaizone/conciliazione; la mediazione familiare è obbligatoria preventivamente in materia di famiglia qualora si invochi la revisione delle modalità per l’esercizio della potestà dei genitori o del contributo al mantenimento e all’educazione del bambino

21) Finlandia: il tentativo di conciliazione è obbligatorio in materia di consumo. Dal 1993 è obbligatoria la conciliazione giudiziaria che il giudice può riproporre in qualsiasi momento del processo.

22) Slovenia: il giudice può ordinare la mediazione: le parti possono rifiutare, ma se il rifiuto è irragionevole pagano le spese.

23) Spagna: la mediazione/conciliazione è obbligatoria in materia di lavoro.

24) Liechtenstein: ha la mediazione preventiva obbligatoria.

[59] Non è un caso che in Brasile il progetto di legge sulla mediazione richieda che 1) il Ministero della Pubblica Istruzione debba incoraggiare gli istituti di istruzione superiore ad includere la disciplina della mediazione come materia di studio e 2) che il Consiglio federale brasiliano dell’Ordine degli Avvocati includa le questioni relative alla mediazione nelle prove d’esame per gli avvocati (Cfr.http://senado.jusbrasil.com.br/noticias/112215575/projeto-que-disciplina-a-mediacao-judicial-e-extrajudicial-e-aprovado-pela-ccj).

Il 4 dicembre 2013 i magistrati di GEMME (l’associazione europea dei giudici per la mediazione) hanno chiesto al Ministro della Giustizia spagnola di cambiare il modello di mediazione processuale e di introdurre la sessione informativa di mediazione obbligatoria.http://www.lawyerpress.com/news/2013_12/0412_13_001.html

Anche in Russia dal 28 dicembre 2011 (http://www.kremlin.ru/news/14088) si sta pensando di introdurre la mediazione obbligatoria. Il tutto doveva trovare attuazione entro il primo maggio 2012 ma il Ministero della Giustizia ci sta ancora lavorando su.

Inchiesta sulla mediazione (quarta parte): il primo incontro (di avv. Giorgio Pernigotti)

Inchiesta sulla mediazione (quarta parte): il primo incontro

di Avv. Pernigotti Giorgio – 20/01/2014

Come si svolge il primo incontro di mediazione? Intervista ad un mediatore, l’avv. Calcagno Carlo Alberto

Inchiesta sulla mediazione (quarta parte): il primo incontro

“IL PRIMO INCONTRO”

Dopo avere affrontato, negli articoli precedenti, alcuni temi più generali sulla mediazione, ho ritenuto interessante, sempre per fini culturali e divulgativi, ascoltare l’opinione di un formatore e mediatore su alcuni aspetti critici della mediazione civile italiana, alla luce della normativa vigente.

Ringrazio della disponibilità l’Avv. Carlo Alberto Calcagno, formatore e mediatore dell’Organismo di mediazione e formazione dell’Ordine degli Avvocati di Genova, che non ha esitato un istante ad accogliere l’invito.

Gratitudine che vuole andare oltre l’intervista che segue, avendo l’Avv. Calcagno accettato di collaborare, mettendo a disposizione la propria esperienza e professionalità, in futuro e liberamente, sulle pagine di questo sito. Un evento accolto come un dono e che apre nuovi orizzonti e prospettive su materia complessa, dove domina, come abbiamo avuto modo di dimostrare, una diffusa reticenza a parlare, a dialogare; fatte, ovviamente, le debite eccezioni invero già segnalate.

Benvenuto caro Carlo Alberto, a nome di tutto lo staff!

  1. Ci racconti, in termini semplici anche per non “addetti ai lavori”, come si svolge il primo incontro davanti al Mediatore: come inizia, i primi approcci e la fase conclusiva?

Un principio fondamentale che riguarda la procedura di mediazione è la riservatezza: nel procedimento giudiziario chiunque di norma può recarsi in udienza; alla mediazione possono invece partecipare solo le persone coinvolte dalla controversia e coloro che sono autorizzati da queste ultime.

Primaria cura dell’Organismo ed in mancanza del mediatore è dunque quella di verificare se le persone che si sono presentate in mediazione abbiano o meno titolo per discutere ed eventualmente decidere di comporre una data questione che li accomuna.

Tale valutazione si effettua di solito prima della data fissata per il primo incontro di mediazione, ma quando non si verifichi tale preventiva attività si provvede subito dopo che le persone si sono sedute al tavolo della mediazione.

Il mediatore dopo essersi presentato ed avere spiegato il suo ruolo di mero facilitatore della comunicazione (egli non prende nessuna decisione e non attribuisce torto o ragione), domanda ai partecipanti il loro nome e cognome e può chiedere di esibire le carte di identità, i tesserini dei consulenti; il mediatore verifica solitamente anche i poteri dei rappresentanti o assistenti.

In questa fase sorgono talvolta problemi delicati specie quando si presentano in mediazione i soli rappresentanti sprovvisti di idonea procura ovvero ad esempio delegati non avvocati privi di procura notarile; l’istituto della mediazione da noi ha solo tre anni e dunque non siamo abituati a considerare che in essa non valgano le stesse regole procedurali del processo, che i due istituti abbiano in buona sostanza di mira principi differenti; su questo i mediatori dovranno lavorare ancora molto.

Verificati dunque l’identità ed i poteri dei presenti il mediatore spiega la natura della mediazione (un dialogo continuo), i suoi vantaggi (economicità, esenzione da bollo e registro fino ad un certo ammontare, credito di imposta ecc.) e quali sono i principi che la informano: appunto la riservatezza di ogni partecipante, l’imparzialità, la neutralità e l’indipendenza del mediatore, la volontarietà, l’autodeterminazione (nessuno può essere costretto a fare o a dire alcunché) e la collaborazione delle parti.

Il mediatore precisa poi che la procedura potrebbe dividersi sostanzialmente in due parti: una a cui partecipano tutti coloro che siedono al tavolo, che si concreta nella manifestazione e chiarimento del punto di vista di ciascuno a beneficio della comprensione del mediatore e dell’avversario (sessioni congiunte) ed un’altra che invece viene affrontata dal mediatore con ciascun singolo partecipante accompagnato dal suo legale, ed in cui si vagliano le esigenze di ognuno ed i modi per soddisfarle (sessioni riservate).

Nelle sessioni riservate ciò che viene discusso non viene messo in comune: rimane in altre parole confidenziale; il mediatore potrà riferirne per qualche aspetto soltanto se a ciò autorizzato. Normalmente il mediatore si fa autorizzare per iscritto se ritiene che siano emersi profili la cui rivelazione può portare ad un avvicinamento delle parti nel senso di una comunicazione di migliore qualità.

Sono poi elencate almeno due regole di comportamento: non interrompersi e spegnere il telefono cellulare; il mediatore si occupa, abbiamo detto, di facilitare la comunicazione e sa bene che le interruzioni del dialogo e le telefonate sono acerrime nemiche della cooperazione.

Detto ciò, a seguito delle recenti modifiche legislative, si aprono due filoni di pensiero: ci sono mediatori che consentono l’esposizione delle parti in sessione congiunta (ed eventualmente conducono sessioni riservate) a cui segue l’invito alle parti e ai loro consulenti a pronunciarsi sulla continuazione a pagamento della procedura, e mediatori che invece ritengono di passare direttamente all’invito alle parti senza affrontare minimamente l’oggetto della controversia. Probabilmente ogni scelta può essere legittimata dal caso concreto: la mediazione è una procedura flessibile.

In ogni caso se le parti o una delle parti non vuole continuare la mediazione il mediatore ne prende atto e redige un verbale di chiusura della procedura in modo tale che chi lo ritiene possa rivolgersi al giudice.

Se invece le parti sono disposte a corrispondere quanto dovuto per procedere oltre ci sono due possibilità: le parti versano quanto dovuto alla segreteria dell’organismo (ci sono delle tariffe preventivamente conoscibili) e la mediazione continua senza soluzione di continuità, ovvero il mediatore dà atto che le parti si impegnano a saldare l’Organismo entro il termine fissato per altra data di riunione.

Il tutto avviene all’interno dei tre mesi stabiliti dalla legge: la deroga temporale sarà possibile solo su richiesta delle parti; uno sforamento del termine potrebbe, secondo alcuno, comportare una perdita dei benefici fiscali che accedono alla mediazione e dunque il mediatore non si accolla autonomamente delle responsabilità.

Se la procedura continua può concludersi con un mancato accordo (le parti possono abbandonare la trattativa in ogni momento) o con un accordo; nel primo caso il mediatore è tenuto a verbalizzare che le parti non si sono accordate e il verbale viene sottoscritto da tutti i partecipanti; in tal caso chi lo desidera può chiedere copia del verbale e rivolgersi al giudice. Se invece le parti si accordano il mediatore ne dà atto nel processo verbale che viene sempre sottoscritto dalle parti, ma il corpo dell’accordo viene inserito in altro documento che al verbale si allega, ma che resta ad esso estraneo e che viene semplicemente siglato dal mediatore a dimostrazione che si riferisce proprio a quella data mediazione.

Gli avvocati con la loro sottoscrizione dell’accordo attestano e certificano la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico.

E a questo punto se l’accordo non viene adempiuto si può provvedere all’esecuzione senza che sia apposta la formula esecutiva.

Qualora gli avvocati non ritengano di certificare ed attestare quanto sopra, le parti possono, secondo alcuno, sottoporre il loro accordo all’omologazione del Presidente del tribunale.

  1. Ho notato, tra i commenti di alcuni Mediatori, qualche criticità circa la verbalizzazione nel caso in cui le parti non intendano proseguire la mediazione; ci puoi esprimere il tuo pensiero?

Il nostro paese, come dicevamo, non ha ancora una grande esperienza in materia di mediazione ed anche i giudici stanno in oggi rischiando di particare pericolose derive processualistiche (ad esempio vedi l’invocata applicazione dell’art. 91 c.p.c.).

Del resto è anche vero che in altri paesi inizialmente si è posto il quesito se privilegiare le esigenze della riservatezza e dunque verbalizzare soltanto in merito alla comparsa o meno delle parti e circa l’esito (accordo o non accordo), ovvero se al contrario consentire alle parti di inserire a verbale la dissenting opinion rispetto alla chiusura anticipata della procedura, ovvero all’effettuazione di proposte delle parti che poi possono essere sottoposte al giudice ai fini del merito ovvero soltanto per l’attribuzione delle spese processuali.

Ma col tempo all’estero è sempre prevalsa la riservatezza ed anche nei paesi di common law ove sono normali le proposte tra le parti durante il processo (v. ad esempio l’istituto della offer to settle), non si registra sul verbale di mediazione (o sul form che viene inviato al giudice dal mediatore a seguito della mediazione nel corso del processo) che l’indicazione della comparsa o meno delle parti e dell’esito della procedura (accordo, mancato accordo, accordo parziale); ciò che invece rileva ai fini del processo anglofono è il rifiuto immotivato di sedersi al tavolo, ossia la mancata comparsa priva di qualsivoglia giustificazione.

Ritengo dunque che anche il nostro paese non possa che stigmatizzare il rifiuto immotivato di mediare, ma che debba imboccare per il resto la strada della assoluta riservatezza, pena la perdita di specificità dell’istituto.

Peraltro un comportamento difforme sarebbe contrario ad un principio, appunto quello di riservatezza (e se vogliamo anche quelli di autodeterminazione e di volontarietà) che si è imposto nell’Europa continentale a partire dal 1790, con la legge francese sulla conciliazione, e non è mai è venuto meno.

  1. Cosa pensi delle norme in tema di responsabilità delle parti nel successivo giudizio: disciplina delle spese, condanna al pagamento degli oneri e delle indennità?

In parte credo di aver già risposto. Dal mio punto di vista va perseguito soltanto l’immotivato rifiuto di mediare, così come peraltro accade da due secoli a questa parte con riferimento alla conciliazione. La disciplina dell’articolo 13 del decreto sulla mediazione che tu ben richiami (spese, condanna al pagamento degli oneri e delle indennità) è fuori contesto in Italia: è stata prelevata da ordinamenti che hanno approcci completamente difformi dal nostro. A titolo di esempio posso richiamare l’esperienza californiana nella quale l’istruzione della causa viene demandata ad un soggetto denominato refereeche è un avvocato con grandissima esperienza ovvero un giudice in pensione. È chiaro che se le parti chiedono al referee di arbitrare la controversia e poi impugnano il lodo, ci sono forti probabilità che il giudice della fase processuale possa adottare nella sentenza soluzione identica o analoga al lodo già emesso e che quindi la parte impugnante sia sanzionata per aver fatto celebrare un processo a vuoto. Ma da noi vi può essere difficilmente una perfetta coincidenza tra proposta del mediatore e sentenza (personalmente non sono edotto di alcun caso in cui ciò sia accaduto), perché il mediatore in primo luogo può non essere un giurista e perché le parti avvedute che richiedano una proposta fanno comunque sì che il mediatore si pronunci anche sulle loro esigenze che il giudice non prenderà mai in considerazione.

  1. Quali aspetti, secondo Te, andrebbero migliorati rispetto alla disciplina vigente?

L’attuale modello italiano di mediazione ha riscosso l’apprezzamento europeo: bisogna riconoscerlo. Tuttavia non riscuote il mio apprezzamento: la gratuità del primo incontro fa sì che quel che il mediatore spiega alle parti nel primo incontro non sia credibile.

Il mediatore è assimilato in altre parole ad un venditore (senza offesa per i venditori, ma fanno un lavoro diverso) che magnifica i suoi prodotti ai fini della vendita: in questo modo si vanifica ogni tentativo di diffondere la cultura della mediazione e si rende la procedura una mera formalità, così come affermano da alcuni anni (o meglio secoli se ci riferiamo alla conciliazione) i detrattori dell’istituto.

Bisognerebbe ritornare alla condizione di procedibilità effettiva estendendola ad altre materie (ad esempio a quella degli appalti) come accade in Argentina ove il rimando è quasi totale. Nel contempo sarebbe a mio giudizio utile eliminare dalla trattazione della mediazione civile e commerciale quegli aspetti squisitamente attinenti al regime della famiglia (ad esempio la materia della divisione familiare o la trattazione dei crediti alimentari da separazione/divorzio) che allo stato non possono che essere riservati ad un mediatore, quello familiare, che ha la necessaria competenza e formazione per affrontarli.

Sarebbe auspicabile inoltre normare il raccordo tra la disciplina della mediazione e quella civilistica degli incapaci: cosa che era ad esempio efficacemente prevista nel codice di rito del 1865.

Sarebbe infine importante, a mio parere, che quella del mediatore diventasse una professione riconosciuta con apposito albo e che l’attività di mediazione fosse condotta in esclusiva in presenza di avvocati accompagnatori alla procedura specializzati nell’attività di accompagnamento.

© Riproduzione Riservata

Giorgio Pernigotti, “Inchiesta sulla mediazione (quarta parte): il primo incontro (quarta parte)”, in ProfessioneGiustizia.it, alla pagina

“http://www.professionegiustizia.it/notizie/notizia.asp?id=406” del 20/01/2014

Il mediatore di fronte alle complessità familiari- Appunti di convegno

Convegno nazionale S.I.Me.F

Il mediatore di fronte alle complessità familiari

Firenze

4-5 ottobre 2013

 Appunti di Carlo Alberto Calcagno

 

Dott.ssa Marina Lucardi (ex presidente  S.I.Me.F)

La famiglia di fronte alle complessità della mediazione

C’è il rischio di perdere l’identità del mediatore familiare?

Non ci sono centomila forme di mediazione a secondo della complessità familiare.

In Italia si fa mediazione familiare da 25 anni e dunque sarebbe un peccato perdere l’identità.

La mediazione familiare possiede alcune caratteristiche specifiche: alcune riguardano il mediatore, altre l’oggetto.

Il mediatore familiare è diverso dalle altre figure perché il suo background è assai vario, ciò lo rende anche poco comprensibile; la sua è una identità secondaria e non primaria e ciò specie per i genitori che vengono in mediazione.

Spesso chiedono se siamo psicologi piuttosto che avvocati.

E il mediatore risponde che non è né l’uno né l’altro, che è solo un mediatore.

Ma non ha poi molto senso che il mediatore spieghi il suo ruolo, così probabilmente si perde una occasione.

Meglio sarebbe trasformare la richiesta in una domanda: “Che vorrebbe da me se fossi avvocato? Che vorrebbe da me se fossi psicologo?”

Sono le esigenze che le persone tirano fuori rispondendo a questa interrogazione che qualificano il mediatore; il mediatore non si definisce con le risposte e con le certezze che pure crediamo di avere, ma con le domande.

Il mediatore familiare intende poi il conflitto come fisiologico, per lui è naturale ma per coloro che vengono in mediazione questo non è un dato scontato perché magari provengono da luoghi ove il conflitto è controllato, prevenuto.

Per i Giordani ad esempio litigare è contro natura: il mediatore in tal caso non può rassicurare le parti che il conflitto è naturale perché farebbe il pedagogista e dunque perderebbe ancora una occasione.

Le connessioni sempre più strane tra le famiglie e l’unicità della mediazione familiare dovrebbero poi comportare un aumento di curiosità del mediatore e quindi portarlo a fare più domande.

Lo stesso pregiudizio che il mediatore si porta dentro con riferimento alle complessità familiari dovrebbe essere uno stimolo per chiedere se le cose stanno o meno in un certo modo.

Le diversità potrebbero diventare così un elemento di vicinanza piuttosto che di lontananza.

  

Lo sguardo sulle complessità familiari: voci a confronto

(avvocato, sociologo, terapeuta familiare)

partecipano: M. Blasi, D. Mazzei, C. Saraceno

 Prof.ssa Chiara Saraceno (sociologa)

La complessità della famiglia ha due significati: 1) complessità interna, 2) complessità della percezione di sentirsi famiglia nel contesto.

Questa ultima complessità costituisce spesso una esplosione di differenze.

Le differenze si percepiscono anche nella complessità interna.

Il modello tradizionale di famiglia è esploso grazie all’invecchiamento delle parentele: ci sono più generazioni che convivono nello stesso spazio temporale, ma i membri di ogni generazione sono sempre meno.

Spesso si è costretti ad “inventare” le parentele: così lo zio può diventare cugino per un bimbo, quando cugini non ce ne sono.

L’essere figli e l’essere genitori non cessa mai, anche quando si diventa nonni.

Negli Stati Uniti sono sempre più i nonni che chiedono in tribunale il diritto di visita: si parla peraltro sempre del diritto degli adulti e mai di quello dei bambini.

L’occupazione materna della donna ha profondamente modificato il suo ruolo nella società.

Un bambino su  quattro poi nasce in Italia al di fuori del matrimonio. E noi questo dato di fatto non lo accettiamo nei nostri modelli normativi.

Solo da ultimo abbiamo avuto una equiparazione tra figli naturali e figli legittimi.

Quasi tutti i matrimoni sono preceduti da una convivenza che è lunga, addirittura generazionale. Falso è dunque il pregiudizio che la convivenza non sia orientata nel futuro; la media delle convivenze è attualmente di un anno.

Aumenta anche l’instabilità coniugale: le separazioni hanno raggiunto ormai il 30% dei matrimoni.

Nel Sud le separazioni stanno crescendo maggiormente anche se si parte da più basse percentuali.

Aumenta anche la proporzione delle separazioni che sfociano in un divorzio.

Di conseguenza aumentano anche le famiglie ricomposte e le famiglie unico generative in cui ci possono essere fratrie parzialmente o totalmente differenti: figli di lui, figli di lei, figli comuni.

I confini di queste famiglie sono sempre più permeabili. Quindi si pone il problema della genitorialità intermittente (pendolare) e della genitorialità allargata (i genitori non sono più due ma possono essere tre o quattro).

Sono anche cambiati i modelli familiari: dal ’75 è possibile riconoscere i figli nati prima ed in costanza di matrimonio. Oggi è sempre più possibile avere figli non biologici, attraverso adozione o fecondazione assistita con donatore e donatrice.

Ciò rende precario il destino del bambino perché il genitore non biologico potrebbe non riconoscerlo.

Ci sono poi le famiglie messe in moto da coppie omosessuali che accedono a filiazione omosessuale.

La questione del riconoscimento della famiglia omosessuale nasce e si sviluppa da uno sviluppo interno alla famiglia eterosessuale dato che lo scopo della procreazione per la famiglia etero non è dirimente (non rileva l’incapacità a procreare, ma il suo rifiuto); in altre parole il matrimonio è indissolubile anche se non si può procreare.

Infine le tecniche di procreazione assistita hanno reso possibile anche la generazione biologica di almeno uno dei genitori. 

 

Lo sguardo sulle complessità familiari: voci a confronto

(avvocato, sociologo, terapeuta familiare)

partecipano: M. Blasi, D. Mazzei, C. Saraceno

Dott. Dino Mazzei (psicologo e terapeuta, direttore della scuola di terapia familiare di Siena)

Trattare il tema della complessità nelle vesti di terapeuta ad una platea di mediatori familiari porta con sé tanti dubbi.

Il tema scelto riguarda le difficoltà che il terapeuta incontra di fronte alla complessità.

Cominciamo dal significato del termine “complessità”.

Il termine “semplice” ha due contrari: il vocabolo “complicato” ed il vocabolo “complesso”.

Questi ultimi però  hanno un etimo differente: complesso deriva da cum + plecto ossia che abbraccia, che comprende, mentre il termine complicato deriva da cum + plico, piegare insieme arrotolare.

In terapia quando si parlava un tempo di complessità si pensava appunto ad un allargamento che dovesse includere anche il terapeuta che entrasse in contatto con una determinata realtà.

Il vocabolo complicato rimanda invece alla pratica dell’osservazione, della descrizione-spiegazione.

Oggi per complessità si intende invece una qualità intrinseca di un fenomeno che lo rende irriducibile ad una sola spiegazione (pluralità di punti vista, inclusione dell’osservatore nel sistema osservatore-oggetto osservato ecc.); attualmente non basta quindi pensare alla inclusione del solo osservatore, ma anche delle plurime generazioni che oggi compongono la famiglia.

Un esempio significativo di complessità è costituito dalle famiglie separate e ricomposte: le persone arrivano a questo secondo legame col desiderio di non commettere gli errori precedenti e di non soffrire nuovamente.

Questo assetto non è neutro per il terapeuta. Che cosa se ne fa il terapeuta?

Il rischio è che il terapista rassicuri e cerchi di normalizzare le richieste implicite. Ciò per affrontare la complessità e ridurla a semplicità.

Ciò accade quando si cerca di trasformare il dolore e la paura in senso evolutivo: ma ciò impedisce di conoscere il dolore e la paura delle persone.

Le persone si devono sentire riconosciute rispetto a dove stanno in quel dato momento e in quello che sono state.

Sempre più accade che i genitori non si diano un tempo per passare dalla situazione del passato a quella del presente.

Bisogna invece avere consapevolezza che l’operazione non è indolore né immediata. Non si può ad esempio separarsi e pretendere che i propri figli frequentino da subito le seconde compagne/i secondi compagni.

È necessario non frantumare il contatto con l’originaria rete parentale e amicale: molti figli interrompono il rapporto con i nonni o con gli amici perché la mamma o il papà ci soffrirebbero. Ciò non è corretto perché aumenta l’ansia, non si può dare per normale la mancanza di interazione. La normalizzazione passa per il procedimento opposto ossia dal riconoscimento.

Un altro ostacolo è quello della indifferenziazione: sotto la pressione del cambiamento non si coglie più la diversità. Non è la medesima cosa se il terapista convoca il figlio originario e non il nuovo figlio della coppia. Nel momento in cui si cercano nuove appartenenze è necessario sempre riconoscere le differenze.

Spesso il terapista lavora sui confini: che cosa significa il terzo genitore? Che cosa significa la nuova coppia?

Il confine è originariamente un solco sul terreno, un solco tirato dal un aratro. Il confine in questo senso limita.

Limen può però significare anche zona che definisce il territorio (apertura, soglio, passaggio) .

Il terapeuta deve tenere presente questa duplice distinzione: dove c’è un limite c’è sempre un’apertura.

Noi abbiamo dei modelli dentro di noi che agiscono pesantemente nell’inconscio: io non ho solo quei due genitori lì, ma ho anche delle rappresentazioni dentro di me che deformano. Quando parliamo di confini interni non possiamo ignorare che agiscano rappresentazioni del passato.

I terapeuti hanno un approccio trigenerazionale per comprendere e perché le generazioni sono delle risorse.

Si deve infine tener presente che il confine è traslucido: si vedono le forme, ma non i confini. 

 

Lo sguardo sulle complessità familiari: voci a confronto”

(avvocato, sociologo, terapeuta familiare)

partecipano: M. Blasi, D. Mazzei, C. Saraceno

Marina Blasi (avvocato)

Negli stati africani il cambio del modello  di famiglia è palpabile nelle decisioni dei tribunali.

Nel momento in cui in Italia c’è una coppia mista accade che il giudice italiano accetti l’ordinamento straniero applicandolo integralmente (salvo che per alcuni temi eccezionali): l’avvocato non può non tenere conto di tutto ciò e dunque deve avere conoscenza di quell’ordinamento.

Dagli anni ’70 l’Italia è passato da essere un paese di emigrazione ad un paese di immigrazione. Quindi in Italia ci sono delle comunità straniere stabili di seconda-terza generazione.

Una prima tendenza è quella di mantenere chiuse le comunità: ad esempio tra gli islamici ci si sposa solo tra i membri della comunità islamica. In altri casi si vede invece l’aumento delle coppie miste che subiscono inevitabilmente influenze reciproche.

Ripudio e poligamia sono risolte dalla legislazione attraverso la legge 218/95: queste situazioni sono ammesse da noi solo con riferimento alla tutela dei figli minori.

In Asia (si parla della Cina e delle Filippine perché sono le comunità più rappresentative) c’è una forte identificazione con i valori asiatici: hanno addirittura una carta dei diritti asiatici  (LA CARTA DEI DIRITTI UMANI DELL’ASIA, dal 1998).

Nelle Filippine il divorzio non esiste, la separazione viene concessa solo per gravi motivi. Si ricorre allora alle invalidità del contratto di matrimonio.

In Cina la famiglia ha uno statuto ordinamentale e quindi prima del divorzio si deve ricorrere agli arbitri (comitati popolari) che cercano di dissuadere le coppie.

La casa viene comunque e sempre assegnata al marito perché essa può essere intestata solo a lui.

In Cina c’è pero un forte rispetto per gli anziani ed è vivo il riconoscimento per il nuovo genitore; il nuovo genitore deve rispettare i figli di primo letto e viceversa.

Nelle Filippine non sono riconosciute le coppie di fatto. Per quelle coniugate esiste solo il regime della comunione legale.

Essere omosessuale è reato in diversi paesi: ad esempio in Russia.

Il terzo ordinamento del mondo è quello di diritto islamico e quindi il mediatore non può non tenere in considerazione le sue caratteristiche.

Per l’Islam il matrimonio è un contratto che non ha nulla a che fare con la religione e che ha per oggetto delle prestazioni sinallagmatiche sperequate; il vincolo serve soltanto a legalizzare le prestazioni sessuali.

Il musulmano coniugato può avere rapporti con la moglie e con la schiava.

La donna in buona sostanza in cambio delle prestazioni sessuali ha diritto all’alloggio e alla protezione.

La donna deve sposarsi col tutore e non può sposare un uomo che sia di rango inferiore.

Gli Islamici hanno l’istituto della dote che però non ha nulla a che fare con la nostra: gli uomini pagano il prezzo della sposa che può finire alla sposa stessa o alla famiglia; la dote è tutto ciò che la moglie può possedere in esclusiva.

Il contratto di matrimonio islamico può avere delle condizioni aggiuntive: 1) clausola di monogamia, 2) clausola di rispetto dei figli di un precedente matrimonio, 3) clausola che concede l’uscita solitaria, 4) clausola contenente il divieto di essere picchiata, 4) clausola con cui si permette di viaggiare o di recarsi all’estero.

Queste clausole possono essere aggiunte solo dal notaio: c’è dunque sempre un controllo.

Il divorzio in un primo tempo era concesso soltanto all’uomo: noi lo conosciamo con il nome di ripudio. Il ripudio può essere temporaneo o definitivo (ci voglio però tre ripudi).

Un tempo il ripudio definitivo si faceva davanti a testimoni: lo sposo proferiva per tre volte la parola talāq. Oggi va fatto davanti ad arbitri (possono essere anche dei familiari) che devono convincere le parti a stare insieme.

l ripudio non richiede la presenza della moglie e può essere esercitato anche da terzi con apposito mandato. Si tratta di un atto unilaterale non ricettizio.

Solo di recente la moglie può “autoripudiarsi” e quindi inserire la clausola di autoripudio nel contratto di matrimonio.

L’affidamento dei figli è regolato in modo molto semplice: quando i figli sono piccoli spettano alla madre, quando crescono al padre.

Per il Corano si possono sposare quattro mogli a patto che si possano mantenere. Ma siccome non si può essere equi con tutte le mogli come vorrebbe un altro versetto del Corano, in alcuni Stati la poligamia è solo affermata a livello di principio.

La poligamia è molto diffusa tra i giovani che si sposano per forza con clausole di ripudio e di autoripudio.

La dote inizia da poco ad essere concordata e viene consegnata alla donna solo in caso di ripudio.

Nell’Islam l’adozione è vietata.

Il diritto di famiglia indù è ancora meno flessibile di quello islamico. Quello indù è un matrimonio sacamentale ma i riti sono otto: il rapporto sessuale imposto è uno di questi riti.

La conoscenza del rito celebrato è fondamentale per capire sei coniugi sono sposati o meno.

La Turchia ha da ultimo adottato il codice della famiglia svizzero, ma è allo stato inapplicato.

Per saperne di più v. Marina Blasi – Giulia Sarnari, I matrimoni e le convenzioni internazionali, G. Giappicchelli Editore, 2013

 

II parte (pomeriggio 4 ottobre)

Complessità familiare e separazioni

Dott. Francesco Canevelli

(Genitorialità senza coniugalità e separazione)

Spesso accade che non essendoci coniugalità si arrivi a pensare che tra quei due genitori non vi sia stata condivisione.

I genitori mai coniugi possono appartenere a diverse categorie. Come le guardiamo?

In realtà le situazioni che si posso presentare sono molto diverse tra di loro. Si è provato ad isolarne quattro tipi: 1) genitorialità come “agito” non elaborato, 2) genitorialità come legame assoluto (coniugalità perfetta in genitorialità senza coniugalità): non c’è stato patto esplicito, ma solo implicito; si tratta del caso in cui non ci si è mai scontrati con la violazione del patto di condivisione, 3) genitorialità come coniugalità perfetta: fecondazione artificiale, 4) genitorialità senza legami.

Il mediatore davanti a queste situazione deve affrontare alcuni pregiudizi: 1)  la mancanza di patto esplicito come deficit di negoziazione, 2) la mancanza della esperienza di condivisione come genitoriale come limite nella rappresentazione del figlio: si parlano cioè linguaggi differenti, 3) la mancanza di riconoscimento dell’altro come partner può vedersi come blocco a riconoscere ogni altro riconoscimento (in particolare quello di genitore), 4) mancanza di una storia comune some elemento produttivo della non mediabilità.

La pratica della mediazione però ci dice il contrario, che in realtà è la coniugalità a costituire un grave ostacolo per la mediazione.

Se i dati della pratica sono veri coloro che non sono sposati dovrebbero essere i soggetti ideali dato che si muovono solo sul campo della genitorialità.

Dai pregiudizi precedentemente elencati però potrebbe e dovrebbe nascere anche la curiosità del mediatore che potrebbe dunque usare il pregiudizio come una risorsa.

1)      Mancanza del patto esplicito= libertà di nuovi patti;

2)      Mancanza della esperienza di condivisione = esaltazione delle differenze nella rappresentazione del figlio. Argomento importante è appunto quello delle cose su cui non si è d’accordo, le rappresentazioni diverse dello stesso figlio;

3)      Mancanza del riconoscimento dell’altro come partner = maggiore possibilità di riconoscimento come genitore separato;

4)      Mancanza di una storia comune = curiosità per l’altro.

Cominciamo dunque a rinunciare alle tipizzazioni: ciò va contro il movimento della curiosità. Più singolare è la storia e più dovrebbe incuriosirmi. Bisogna poi superare il giudizio di non mediabilità.

Il pregiudizio che dovrebbe sostituire tutti gli altri è quello della molteplicità genitoriale come dimensione particolarmente idonea a soddisfare i bisogni evolutivi dell’infanzia/adolescenza in questo inizio di millennio.

 

Dottoressa Paola Re (nuova presidente SIMEF)

Genitorialità adottiva e separazione

La separazione dei genitori adottivi rimanda immediatamente alla responsabilità genitoriale ed alla scelta di coppia.

Di solito i minori sono inferiori di undici quando i genitori adottivi decidono di separarsi.

Che cosa si può vedere nei genitori adottivi che chiedono una consultazione o una terapia?

Essi pensano che il figlio gli venga torlo e che venga affidato all’altro genitore considerato migliore oppure arrivano a pensare all’espulsione, all’allontanamento del figlio.

Poi è forte il senso di colpa: ”Il bambino ha già tanto sofferto ed ora gli proponiamo anche una separazione”.

Alcuni invece lamentano al disfunzionalità del figlio rispetto alla loro unione.

Hanno poi un forte senso di fallimento sociale, perché la società si aspetta che il rapporto coniugale tenga.

Questi elementi attengono a due grandi aree: una interna ed una esterna o sociale.

Il figlio fa diventare genitori e trasforma la coppia, introduce esso stesso delle dimensioni conflittuali.

La genitorialità adottiva è fortemente ancorata al sociale. Per essere genitori adottivi bisogna essere sposati; tra l’altro al coppia deve dichiarare di non essere separata nemmeno di fatto.

Che influenza ha questo fatto sulla coppia? Che fantasia introduce la norma in questa coppia?

La genitorialità adottiva nasce con una autorizzazione sociale; è tutto un percorso interno che viene portato all’esterno: la società ti ritiene idoneo come genitore.

Che movimenti interni determina questa autorizzazione esterna?

La genitorialità adottiva si confronta dunque con tanti terzi che introducono delle dimensioni interne che poi ci ritroviamo nella stanza di mediazione.

Tutti e due i genitori possono aver avuto esperienze di separazione e di lutto. La maggior parte dei genitori adottivi è infertile e quindi ha subito ferite e lutti perché loro non sono come i loro genitori.

Anche il figlio adottivo ha subito l’abbandono e molte fratture. Ciò inserisce una discontinuità.

Quando parliamo dei genitori non è difficile che si chieda “Che progetti avevate?”, ma ciò non accade con i genitori adottivi che certo non avevano il progetto di adottare, quanto quello di avere un figlio proprio. E dunque i genitori adottivi danno una famiglia ad un bambino che ha avuto degli altri genitori originari.

Il bambino ha delle fantasie sui genitori originari che poi si ritrovano nella stanza di mediazione. Le fantasie sono concorrenziali con quelle dei genitori adottivi.

La separazione può essere una risorsa nel momento in cui si pensa che il bambino l’ha già subita e quindi dovrebbe essere più flessibile al cambiamento: ma queste sono solo ipotesi.

Le coppie di genitori adottanti che si separano di solito si rivolgono a centri privati perché si vergognano, si sentono dei falliti a livello sociale. È anche un pregiudizio del mediatore? Che abbiano maggiore fragilità e dunque minore competenza e dunque minore capacità di negoziazione?

 

Prof. Ritagrazia Ardone (docente di psicologia sociale) , Milena Lombardi (psicologa)

(Genitorialità interculturale e separazione)

La differenza culturale non è una variabile causa-effetto. Nella stanza di mediazione c’è una moltiplicità di variabili. Non è nemmeno corretto eludere la interculturalità.

Il problema è che ci sono famiglie che non sanno affrontare l’interculturalità: la genitorialità per esse diventa dirompente dato che la mentalizzazione delle differenze non è stata elaborata.

Le unioni interculturali in Italia sono formate per il 75% da marito italiano e moglie straniera che è dunque doppiamente penalizzata, prima come donna e poi come straniera.

Tuttavia le unioni interculturali non godono di una salute peggiore delle unioni che non lo sono.

I principali problemi che incontrano e dunque le sfide che si trovano ad affrontare gravitano su tre punti: 1) disapprovazione del contesto sociale, 2) mancanza di sostegno di amici e familiari, 3) barriere linguistiche.

Le unioni interculturali d’altro canto mostrano maggiore impegno e pazienza rispetto alle unioni che interculturali non sono.

 

III Parte (mattina 5 ottobre 2013)

Il mediatore familiare e la genitorialità interculturale

Alessandra Bongiana

La mediazione familiare con le coppie miste e straniere: un’indagine esplorativa.

Le coppie miste vivono nelle differenze e coltivano le differenze.

Tre donne straniere su 4 sposano un italiano. Le donne italiane invece preferiscono invece accompagnarsi con africani.

I confini delle coppie miste non sono omogenei: nella cultura italiana che è individualistica si fa tutto per il proprio figlio, in quella collettivistica (ad esempio quella islamica) il figlio è a servizio della famiglia e si sposa per proseguirne il lignaggio.

La donna nella cultura collettivistica passa dalla proprietà del padre a quella del marito.

Quali sono le motivazioni che portano ad una coppia mista? 1) Convivenza, 2) facilitazione, 3) riparazione, 4) elezione (matrimonio d’amore), 5) matrimonio intellettuale (dettato da curiosità), 6) matrimonio per motivi culturali: le persone cercano di respingere la loro cultura d’origine.

Non può esistere un funzionamento mentale al di fuori della cultura. La cultura risponde a domande: chi sono io? Chi è la madre? Chi è il padre? La cultura fa sì che si “favoleggi” anche il paese d’origine.

Le donne delle coppie miste vengono primariamente dall’Europa dell’Est e dal Sudamerica.

In mediazione parlano soprattutto del ruolo genitoriale e e degli accordi di separazione.

Le coppie miste sono maggiormente conflittuali di quelle straniere.

Per un mediatore è importante conoscere il contesto, la diversa concezione del ruolo genitoriale, i diversi stili educativi, i diversi codici di comunicazione, e avere le competenze linguistiche.

La cultura è un contenitore, la pelle del psichismo umano.

Una donna musulmana non può sposarsi con un non musulmano. I musulmani maschi possono sposare donne della religione del Libro.

Bisogna stare attenti agli “incidenti critichi”: se ad esempio un mediatore entra in un bilocale di una famiglia musulmana noterà che un locale è destinato alla preghiera e che i bambini della famiglia non vi hanno accesso. Dovrà dunque resistere alla tentazione di spingere i genitori a dare al locale per la preghiera una destinazione promiscua.

Altro esempio: per un musulmano il benessere dell’adolescente è che stia col suo papà e dunque non potrà tentarsi di convincere il musulmano a sperimentare un altro tipo di affidamento.

 

Lia Mastropaolo (psicologa e mediatrice)

(Percorsi di mediazione nella multiculturalità)

Ho lavorato molti anni in un servizio pubblico dove ho istituito un centro di mediazione e di terapia. Successivamente ho lavorato nell’angiporto di Genova in un servizio di mediazione e terapia. Altra occasione per incontrare la multiculturalità è stato il master di mediazione familiare che ho condotto per molti anni a Barcellona e Relates una associazione che coinvolge in rete diversi specialisti del settore familiare dell’America Latina.

Lavorare con altre culture vuol dire non dare mai qualcosa per scontato.

I riferimenti, i miti, le premesse, i significati delle cose sono diversi.

I nativi di un posto non possono “vedere” la loro cultura sino a che non ne incontrino un’altra.

L’operato non può fare l’errore di considerare una cultura nel giusto e la propria nell’errore e viceversa. Il problema degli islamici non è certo di essere islamici, ma che alcuni sono integralisti.

Nel lavoro con diverse culture si devono tenere presenti tre fattori:1) multiculturalità, 2) multi interventi, 3) complessità: cambiamento sui modi di pensare.

Bisogna avere conoscenza delle culture, delle abitudini di vita, dei valori sociali e morali di un paese. Si deve offrire alla persona la possibilità di scegliere ciò che fa per lei e non di imporgli ciò che a noi sembra meglio che scelga.

Per chi crede ancora che la mediazione sia nata ad Harvard

Il passo che segue è del 1836 e mi ha commosso; ora so che i miei antenati erano grandi mediatori e che non è stata colpa mia se la mediazione è tornata in Italia solo nel 2010; è colpa di chi ha calpestato le mie origini ed ha fatto sì che l’Italia rimanesse divisa perché una Italia divisa si governa meglio.

“Non basta che il conciliatore sia semplicemente amabile; è d‘uopo ancora che sia esperto. Ei deve non solo ravvicinare spiriti, ma, ciò ch‘è molto più difficile, trovare il punto in cui si riuniscano gli interessi delle due parti, e mostrare ad uno in che possa cavar partito dal piano che all’altro conviene. Per compier l‘opera che gli è imposta, bisogna che il conciliatore conosca a fondo la posizione e il carattere di coloro co’ quali ha che fare, né soltanto sapere ciò che ognuno d’ essi domanda, ma ciò che ciascuno realmente vuole, e ciò che in fatto gli starebbe bene; mettere nella bilancia della divisione i mezzi che l’uno può avere per far valer la sua parte, e l’ inclinazione dell’altro che può essergli motivo a valutar maggiormente la propria; saper stornare un progetto che inceppi la conciliazione, col sostituirne un altro che la faciliti; in una parola aumentare, direi quasi, i beni in quistione, in modo che ciascheduno rimanga soddisfatto di quella parte che riceve di un tutto, il quale intero bastava appena a saziare il suo desiderio; operare, per così esprimermi, il miracolo della moltiplicazione de’ pani. Dopo l’ accomodamento,i litiganti maravigliati del trovarsi contenti, ammirano il prodigio del conciliatore. Ma questo prodigio non accade di spesso, né il carattere di conciliatore appare sempre che si voglia. È un talento che si manifesta, data l’occasione, e le occasioni non si presentano ad ogni passo, a meno che il conciliatore non si faccia ambasciatore: allora le occasioni non gli mancheranno, ma bisogna far conto di quelle soltanto in cui riusciranno in bene li suoi maneggi. Il carattere dell’uomo che possiede uno spirito conciliante s’approssima a quello dell‘uomo amabile. Dotato di quello spirito trova egli nelle più opposte opinioni il punto che le congiunge, nelle passioni più inacerbite, il motivo che potrebbe raddolcirle. Conciliatore può dirsi solo colui che giunge ad ottenere il suo intento. Lo spirito conciliante trova i mezzi che dovrebbero condurre a conciliare, ma non è sicuro che sempre riescano. Il carattere conciliante vorrebbe tutto accomodare, ma può darsi chi fin dalle prima non miri giusto, e non colga nel segno. V’ ha del comico in un personaggio di questa spezie. Lo vedrete affannarsi ad ogni minima apparenza di divisione, cercar di riunire tutti i pareri, prevenire ogni disputa, farsi insopportabile a coloro che tormenta perennemente per impegnarli a rimanere in pace, e per ciò solo ch’egli ama appassionatamente la concordia, movere a tutti querela”.

Il Gondoliere Giornale di amena conversazione. Redattore: Paolo Lampato, Volume 3, 1836, p. 355

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