Dante Alighieri – Rime

Sono pervenute a noi liriche[1] che si attribuiscono[2] a Dante e che sarebbero state composte in un tempo non continuativo, tra il 1283 ed il 1307(1308?) durante la stesura della Vita Nova, nel periodo che va da detta composizio­ne all’esilio e durante l’esi­lio stesso contemporaneamente quindi alla stesura del De Vulgari eloquentia e del Convivio[3]; non è facile però stabilire né la datazione precisa, né i fatti o le persone a cui si riferiscono.

Possiamo considerare queste liriche il “laboratorio della Commedia”.

In relazione alle composizioni di Dante si parla di <<rime>> e non di <<canzoniere>>, come nel caso delle poesie del Petrarca, perché l’autore non ne curò mai direttamente l’ordinamento e la struttura: la sequenza che noi leggiamo oggi è frutto di una ricostruzione critica[4], basata su criteri di ordine cronologico e tematico.

Anche se non è facile stabilire la datazione precisa delle liriche nel corpus delle rime si possono riconoscere e distinguere alcune fasi di produzione.

Due serie formano il gruppo delle rime giovanili.

1) le rime prestilnovistiche, improntate al modello guittoniano, ancora acerbe ed immature;

2) le rime stilnovistiche escluse dalla Vita nuova (dette extravaganti) o perché non pienamente rappresentative del nuovo stile o perché destinate ad altre donne: nelle liriche amorose sono presenti varie donne (Beatrice, Fioretta, Lisetta); D. imita la poesia siciliana e guittoniana; si ritrovano quindi situazioni psicologiche convenzionali narrate con moduli espressivi astrusi e rigidi; il poeta risente poi dell’in­fluenza dei versi del Cavalcanti (con l’accettazione della dottrina cavalcantiana dell’amore e quindi con la personale conquista di una lingua e una poetica dense di complessità intellettuali) e del Guinizzelli.

Nel cuore della stagione stilnovistica si situano il sonetto Guido, i’ vorrei[5], quello per Violetta, la ballata Per una ghirlandetta, il sonetto Sonar bracchetti: tutti facenti parte di un unico amichevole clima, quello della scuola del Dolce Stile, tutti debitori in qualche modo della tradizione del plazer di marca provenzale e giullaresca.

Al magistero di Cavalcanti e alle requisitorie antiguittoniane (prima nella Vita nuova, poi nel De vulgari eloquentia) subentra progressivamente il Guinizzelli: nei sonetti De li occhi de la mia donna e Ne le man vostre e nelle canzoni E’ m’incresce di me e Lo doloroso amor, che preparano la strada al ciclo delle dottrinali.

Vi sono poi le rime della maturità e del tempo dell’esilio comprendono:

1) le rime allegoriche: commentate nei libri II, III e IV del Convivio; alle  rime allegoriche appartiene la più bella canzone scritta da Dante durante l’esilio (Tre donne intorno al cor mi son venute): la giustizia umana, quella divina e la legge, scacciate dagli uomini, divengono tre nobili donne, esuli e mendiche, che sono venute da Dante per avere il conforto di essere ascoltate; il poeta a questo punto si sente orgoglioso del suo esilio (<<l’essilio che m’è dato, onor mi tegno>>), considera il suo destino come un riflesso di un destino di decadenza che ha colpito tutta la umanità.

2) Le tre canzoni dottrinali: una sulla leggiadria, un’altra sulla liberalità ed una terza sulla nobiltà che entra a far parte del Convivio; sono però liriche, secondo alcuni, di poco spessore poetico.

3) Due canzoni (“Io son venuto al punto della rota“; “Così, nel mio parlar[6]), una sestina (“Al poco giorno“) ed una sestina doppia (“Amor, tu vedi ben che questa donna“), dedicate ad una donna insensibile chiamata Pietra.

Sono le cosiddette <<rime pietrose>> (1296) in cui non vi è la descrizione di un amore incorporeo ma di una passione violenta, sensuale ed amara, di un amore duro, difficile, aspro[7]: alcuni sostengono che Petra sia soltanto un’immagine allegorica della conquista della sapienza; altri vi vedono un’allegoria di Firen­ze.

Come lo stesso D. conferma nel De Vulgari Eloquentia[8], que­ste poesie hanno una funzione sperimentale. In effetti più che ad una donna l’Alighieri si ispira al poeta provenzale Arnaut Daniel, facendo un arduo esercizio di stile aspro (così detto <<trobar clus>>).

4) Rime varie, tra cui si annoverano canzoni, sonetti, rime di corrispondenza con altri poeti: tra queste ultime ritroviamo versi che sono oggetto di una tenzone con Forese Donati[9] (scritti tra il 1294 ed 1296 anno in cui Forese morì) di cui D. farà ammenda nel XXIII canto del Purgatorio: il Donati lo accusava di povertà ed avari­zia, D. replica dipingendolo come un violento ed un ghiottone (il linguaggio è assai realistico, addirittura scurrile e volgare: qui D. fa le prove per certe espressioni dell’Inferno ed in particolare delle Malebolge).

Nelle rime allegoriche come in quelle dottrinali, del resto, c’è già il mondo della Commedia, sebbene la mano dell’artista non sia ancora matura.

5) Ventisei rime la cui attribuzione a Dante è discussa.

Nel complesso le Rime rivelano la capacità artistica di Dante nell’affrontare qualunque materia in qualunque stile.


[1] In totale il corpus delle Rime conta 54 componimenti: 34 sonetti (di cui uno rinterzato), 15 canzoni (tra cui due stanze isolate, una sestina e una sestina doppia), cinque ballate.

[2] Ventisei rime sono ancora molto discusse.

[3] Al 1283 corrisponde probabilmente la stesura del sonetto dedicato a Beatrice, A ciascun alma presa e gentil core, scelta poi per inaugurare la Vita nuova ed inviata a tutti i rimatori fiorentini, come ci fa sapere Dante stesso (Cap. III della Vita nuova). Al 1307 risale probabilmente la canzone Le dolci rime d’amor ch’i’ solia, commentata per inaugurare il quarto libro del Convivio e al 1308 l’ultima canzone “O montanina mia canzon” che il Momigliano ascrive alle rime pietrose.

[4] Condotta da Michele Barbi che aveva adoperato, in un suo studio del 1915, il titolo di Canzoniere poi abbandonato da successivi editori.

[5] Destinato a Guido Cavalcanti testimona l’amicizia che legò i poeti stilnovisti (“il sodalizio tra i fedeli d’amore”),  una ristretta schiera di persone elette sul piano morale ed intellettuale (“gentili”) che “ragionano sempre d’amore”. Tuttavia nella lirica si fa riferimento anche ad un sodalizio tra donne gentili tra cui spicca per virtù Beatrice (“quella ch’è sul numer de le trenta” fa riferimento alla prima donna-schermo della gentilissima). Anche le donne gentili (cfr. Voi ch’avete intelletto d’amore) sono considerate un uditorio privilegiato, anzi l’unico a cui destinare le “nuove rime” (le  rime della lode: cfr. la Vita nuova). Questo duplice sodalizio è trasferito su un piano fantastico, in una dimensione di sogno ed incantesimo grazie al riferimento al vascello incantato (creato da “un buon incantatore“: il mago Merlino), che D. deriva dalla narrativa cortese in lingua d’oil e che viene tradotta in lirica nel plazer(elencazione di cose piacevoli) dai provenzali; questo motivo che lega la poesia alla tradizione pre-stilnovistica, ne giustifica forse l’esclusione dalla Vita Nova.

[6] Dal Momigliano considerata la migliore delle rime pietrose ed una delle più originali della lirica contemporanea (v. A. Momigliano, Bullettino della società dantesca italiana, 1908, p. 132; cfr. A. Momigliano, Antologia della letteratura italiana –volume primo, Messina, Giuseppe Principato, 1937, p. 119). Per un commento autorevole di questa composizione v. E. G. Parodi, in Le rime, nel volume collettivo Dante, Milano, Treves, 1921, p. 63.

[7] Si legga come esempio del registro stilistico il congedo della lirica Così, nel mio parlar:

Canzon vattene dritto a quella donna

che m’ha ferito il core e che m’invola

quello ond’io ho più gola,

e dàlle per lo cor d’una saetta;

chè bell’onor s’acquista in far vendetta.

[8] In cui parla di queste rime come <<di qualcosa di nuovo e non ancora tentato in poesia>>.

[9] Un gruppo di sei sonetti nelle Rime costituiscono la Tenzone con Forese Donati. Si tratta di un dialogo in versi che ci è giunto frammentato in due gruppi di codici, il che è all’origine delle discussioni sulla loro datazione e sul loro ordine.

Dante Alighieri – Vita Nova

Si tratta di un’operetta autobiografica in cui Dante tocca il vertice dello stil novo[1], composta tra il 1283 ed il 1292 e raccolta nel 1293-94; il suo tema è la vita giovanile del poeta ma soprattutto la vita spiritualmente rinnovata dall’amore per Beatrice.

Non sappiamo molto di quest’ultima ma abbiamo tre testimonianze sulla sua storicità, da parte di Bambaglioli Graziolo (1323), di Pietro (figlio di Dante), e di Boccaccio; inoltre vi sono alcuni particolari assai realistici presenti sia in quest’opera che nella Divina Commedia.

Forse Beatrice fu figlia di Folco Portinari e andò sposa a Simone De Bardi prima del 1288; morì l’8 giugno del 1290.

Dante ne fornisce una visione incorporea e indeterminata: ciò rientrava nei canoni del dolce stil novo ove l’amore veniva celebrato come un sentimento che si nutre solo di sé stesso, di adorazione umile e muta.

Ma la donna-angelo assume qui un signi­fi­cato più vasto e profondo, quello della Salvezza (concetto questo già in parte presente in Guinizzelli: v. il sonetto Io voglio del ver la mia donna laudare e che D. esprimerà magistralmente nella canzone Donne che avete intelletto d’amore) e della Grazia, sigillate dalla stessa morte di Beatrice, secondo un disegno provvidenziale.

Beatrice è colei che è beata e che dona beatitudi­ne, è davvero “donna della salute”, portatrice della salvezza.

In altre parole la dimensione descritta da D. non è soltanto emotiva e formale, ma compiutamente religiosa: la poesia iniziale (nel capitolo III: A ciascun alma presa e gentil core), cavalcantiana, esprime un amore visto come pena e dissidio, ma in seguito esso dispande beatitudine e appunto salvezza.

Il libro, diviso in 42 capitoli, dispone cronologicamente 25 sonetti, 4 canzoni una stanza ed una ballata[2][3] più alcuni com­men­ti in prosa delle liriche, che verranno composti ed inseri­ti soltanto nel 1293-94; sono queste prose, decisamente più mature delle poesie, a dare all’opera un tono tra il mistico e l’allucina­to (si descrivono spesso sogni, visioni ed incubi)[4].

Come nella Commedia D. è sia autore che protagonista dell’opera che, allo stesso modo, costituisce un exemplum di rinnovamento della vita morale

La trama si impernia soprattutto su due incontri che il poeta ebbe con Beatrice a nove e a diciotto[5] anni (quando se ne innamorò perdutamente) e soprattutto su un saluto che da Beatrice ricevette nel secondo incontro[6].

Vi sono poi citati vari altri avvenimenti, dal momento che siamo in presenza di una raccolta di poesie di diverso periodo ed occasione: la finzione del poeta di amare una donna diversa da Beatrice (donna-schermo) per evitare che altri possa conoscere il segreto del suo amore; la morte di un’amica di Beatrice; la sostituzione della prima donna schermo che si allontana da Firenze con una seconda[7] e quindi, in relazione alle chiacchiere della gente sulla presunta “infedeltà”, la negazione del saluto da parte dell’of­fesa Beatri­ce[8]; una visione di Amore che convince D. a parlare apertamente del suo amore a B. e la burla (il gabbo) della stessa e di altre donne per l’improvviso smarrimento del poeta che trema ad una festa nuziale di fronte alla donna amata [9]; il colloquio con alcune donne[10] circa la natura dell’a­mo­re di Dante[11] ed il proposito di utilizzare solo Beatrice come oggetto delle sue rime[12], dal momento che il saluto, unico oggetto del suo amore, è venuto meno[13].

Da quest’ultimo proposito nascono le nuove rime iniziate con le canzoni di lode “Donne che avete intelletto d’amore” e “Amor e ‘l cor gentil sono una cosa” e proseguite con alcuni sonetti che sono capolavori del dolce stil novo e di tutta la poesia italia­na: “Ne li occhi porta la mia donna Amore“, “Tanto gentile e tanto onesta pare“, “Vede perfettamente onne salute[14].

Tra il primo ed il secondo dei sonetti sopra citati è narrata la storia della morte del padre di Beatrice; segue poi la descri­zione del delirio di Dante (di nove giorni) in cui il poeta vede la morte di Beatrice (cantata nella canzone “Donna pietosa e di novella etate“), mentre viene portata in cielo dagli angeli e tutta la natura si copre di segni luttuosi (con evidente riferi­mento alla morte di Cristo ed ai suoi effetti di sacrificio redentivo).

In queste poesie Beatrice è ormai considerata una creatura angelica; grande è il dolore di Dante per la morte (già prefigu­rata nel capitolo III e nel capitolo XXII) che poi effettivamente avviene (capitolo XXVIII) e che viene immortalata nella canzone “Li occhi dolenti per pietà del cuore” (capitolo XXXI).

Trascorso però un anno dalla morte di Beatrice una donna gentile (la filosofia) da una finestra muove segni di pietà e quindi D., seppure riluttante, se ne innamora; a questa passione sono dedicati quattro sonetti  (Videro li occhi miei; Color d’amore; L’amaro lagrimar; Gentil pensiero).

Beatrice appare in sogno a D. che piange per il rimorso della temporanea infedeltà (altro sonetto: Lasso per forza di molti sospiri).

Nel penultimo sonetto (Deh peregrini che pensosi andate) Dante invita alcuni pellegrini diretti a Roma a piangere anch’essi Beatrice.

Nell’ultimo sonetto (Oltre la spera che più larga gira), dopo una visione in cui contempla Beatrice oltre il primo empireo, il poeta afferma che non parlerà più di lei finché non sarà in grado di dire quello che non fu detto da alcuno (è palese il richiamo alla Commedia); in altre parole D., anche se non sa ancora che scriverà la Commedia, si rende conto che quella che sta descrivendo è ancora una donna reale e che i mezzi stilnovi­stici sono insufficienti a dire di più, ad esprime­re la funzione redentiva di Beatrice; egli si ripropone quindi di cantarla in modo nuovo e straordinario ed allora tronca il libello.


[1] La stagione poetica che si consuma negli ultimi decenni del Duecento tra Bologna e Firenze è definita <<dolce stilnovo>>: è un primo punto d’arrivo della lirica italiana.

È Bologna, città all’avanguardia negli studi a dare l’avvio a questo movimento poetico con l’opera di Guido Guinizzelli, ma sarà Firenze, tra il 1280 ed il 1310, ad imporsi come nuova capitale della poesia italiana: fiorentini sono i due principali esponenti della nuova scuola, Dante Alighieri e Guido Cavalcanti, i quali insieme a Cino da Pistoia, non furono comunque estranei all’in­fluenza dell’ambiente bolognese.

Il dolce stil novo è nuovo perché sceglie come tematica quella amorosa, tralasciando i temi politici e morali tipici di Guitto­ne, anche se l’impostazione è certamente filosofica.

Guido Guinizzelli (1230 o 40-1276), un giudice bolognese di parte ghibellina – che nel 1270 fu pure podestà di Castelfranco Emilia, ma quando nel 1274 la parte guelfa ebbe la meglio, dovette andare in esilio, rifugiandosi con la moglie e il figlio a Monselice, dove morì pochi anni dopo – ne è l’iniziato­re (o il precursore secondo alcuni) perché è il primo a formulare poeticamente un’organica teoria dell’amore.

Nella poesia guinizzelliana sono compresi entrambi i filoni che saranno ripresi e approfonditi dai fiorentini: il tema della lode ad una donna ineffabile, ammirata esteticamente in un trionfo di luce (tema che viene ripreso da D. che accentua la spiritualiz­zazione), il tema dell’amore visto come passione tormentosa dei sensi che provoca angoscia e morte (tema ripreso dal Cavalcan­ti).

L’idea fondamentale da cui parte il Guinizzelli è quella dell’identità di amore e cuore gentile, per cui l’amore può nascere solo nel cuore di una persona gentile il cui sguardo sia così puro da poter riflettere la luce che proviene dagli occhi della donna, così come gli angeli riflettono la luce di Dio.

La donna angelicata ha in sé tanta virtù da mettere nel cuore gentile la volontà di sottomettersi a lei, realizzando così l’unione spirituale beneficante. Al contrario un cuore vile non può sentire quest’amore.

Quando il poeta morirà e Dio gli farà notare di aver riservato l’onore a Lui dovuto ad una donna, il poeta risponderà che tale donna aveva sembianze d’angelo e amare lei era come amare una creatura del paradiso.

Mentre nella poesia trovadorica il rapporto tra la donna ed il poeta è, come abbiamo già visto, di vassallaggio, di ordine sociale, in quella stilnovistica il rapporto di lontananza tra l’amante e l’amata è di ordine morale, religioso, per cui la donna è vista come incarnazio­ne della virtù (la donna-angelo) e il distacco è quantitativo e non qualitativo, per cui il poeta ottiene attraverso l’amore di elevarsi spiritualmente.

La figura femminile insomma si fa portatrice dei valori di nobiltà e purezza, che innalzano l’amante devoto, cosicché l’amore profano, benché caduco ed effimero, assurge a principio di virtù e non di perdizione.

Nel dolce stil novo il problema è infatti quello di conciliare l’amore per Dio e l’amore per la creatura: la donna è chiamata a mediare questo contrasto facendosi tramite tra i due livelli; quando la passione per essa rimane legata all’anima sensitiva, la donna può essere solo uno strumento per esaurire le forze del vitali del poeta.

Il dolce stilnovo è “dolce”: i poeti che vi aderiscono hanno tutti la preoccupa­zione di rinnovare l’espressione attraverso una selezione accurata del lessico e della sintassi poetica; vengono abbandonate le oscure sperimentazioni stilistiche di Guittone; essi devono essere dolci perché tale dolcezza, ossia una più facile cantabilità del verso, corrisponde ad una aristocrazia del sentire, ad una maggiore elevatezza della lode della donna.

Anche la lingua usata è nuova, dal momento che viene privilegiato il fiorentino illustre, depurato sia dai municipalismi plebei, sia dai provenzalismi e sicilianismi, sentiti ormai come ingombran­ti ed usurati.

[2] In cui si discosta dalla lirica di Guittone (che ricompa­rirà nel De Vulgari Eloquentia) per abbracciare la poesia di Guido Guinizzelli.

[3] In essi D. non rievoca la sua vicenda amorosa in quanto tale, ma ciò che questa riverbera nella sua anima, a partire dal 1274, allorché bambino di nove anni, vede per la prima volta la gentilis­sima Beatrice.

[4] Nella composizione della Vita nuova Dante poté rifarsi a un autorevole modello di prosimetro. il testo tardo-latino De consolatione philosophiae di Severino Boezio, un dialogo fra l’autore e la Filosofia, personificata, che con i suoi consigli di sapienza allevia al primo il dolore provocato dalla prigionia. Un ruolo altrettanto importante nella composizione dell’opera dantesca hanno senza dubbio giocato i generi provenzali delle «vidas» (cioè, le biografie idealizzate o romanzate dei trovatori) e delle «razos» (le esposizioni dei motivi ispiratori e le analisi tematiche e retoriche che i provenzali elaboravano sulle loro stesse poesie).

[5] I numeri sono multipli di tre, simbolo della Trinità divina.

[6] D. ode il saluto di Beatrice e fugge turbato, dalla presenza degli uomini, si raccoglie inebriato nella solitudine di una camera; qui lo coglie un “soave sonno”, e nel sonno una visione che è quasi un compendio del suo amore. Amore gli appare con involta nelle braccia Beatrice in un drappo sanguigno; il dio costringe la giovane a mangiare il cuore del poeta. Ma passa poco tempo e Amore prorompe in  un pianto e sparisce con la donna verso il cielo.

[7] Donne a cui apparentemente il poeta dedica il suo amore.

[8] Saluto che D. non riottiene nemmeno scrivendo una ballata in cui dichiara la sua fedeltà a lei sin dalla puerizia.

 [9] Da ciò nascono due sonetti ove D.confessa come la passio­ne lo porti là dove spera di vedere la sua donna e lo getti  nel più profondo sconforto quando la vede.

 [10] Che hanno nella storia funzione di intermediarie.

[11] Irrealizzabile in quanto non può più sostenere lo sguardo di Beatrice.

[12]A seguito della convinzione del poeta di dover amare Beatrice disinteressatamente, senza aspettarsi una ricompensa.

[13] In questo senso la Vita nova è la storia di un progressi­vo distacco dei due protagonisti, così che la morte di Beatrice, preparata da tutta una serie di indizi, diventa in un certo senso indispensabile affermazione dell’affetto interiorizzato di D.: è la vicenda dell’io che interessa, non un rapporto obiettivo.

[14] Queste poesie serviranno poi  sia  a D. per il Purgatorio e per il Paradiso, sia a Petrarca per il suo Canzoniere.

Dante Alighieri – le opere in breve

Domenico di Michelino, La Divina Commedia di D...
Domenico di Michelino, La Divina Commedia di Dante (Dante and the Divine Comedy). 1465 fresco, in the dome of the church of Santa Maria del Fiore in Florence (Florence’s cathedral). Dante Alighieri is shown holding a copy of his epic poem The Divine Comedy. He is pointing to a procession of sin. (Photo credit: Wikipedia)

Affronteremo ora i tratti essenziali di nove opere del grande poeta  partendo da un breve schema e premesso che la produzione letteraria di Dante appartiene per la maggior parte agli anni dell’esilio.

In lingua  volgare Dante scrive:

– Fiore e Detto d’Amore (1285-1295)

– Vita nova (1290-1294)

– Rime (1283-1307)

– Convivio (1303-1304)

– Divina Commedia (?)

In lingua latina sono invece:

– De Vulgari Eloquentia (1304-1305)

– Monarchia (?)

– Quaestio de aqua et terra

– Egloghe

– Epistole

Tra le prime opere troviamo dunque il Fiore e il Detto d’Amore.

Si tratta di due poemetti, diversi sia per forma metrica sia per contenuto, che sono stati tramandati insieme da un unico manoscritto privi dell’indicazione dell’autore e del titolo.

Solo nel secolo scorso i due testi furono separati e pubblicati dai loro primi editori con i due titoli distinti con cui ancora oggi vengono designati.

Dopo svariate attribuzioni, in una edizione critica (1984) Gianfranco Contini ha definito le due opere «attribuibili» a Dante per i numerosi elementi stilistico-formali che le accostano alle rime e alla Commedia.

Per il registro comico intensamente realistico, addirittura con punte di violenza verbale talvolta stupefacenti, apparterebbero alla produzione con ogni probabilità. alla fase pre-stilnovistica.

Sia il Fiore sia il Detto d’Amore traducono in parte il poema allegorico in francese antico Roman de la rose[1],composto nel secolo XIII la cui diffusione è databile tra il 1237 ed il 1280.

La composizione dei due poemetti è perciò ascrivibile a un periodo compreso entro il decennio 1285-1295: vi compaiono infatti alcuni aspetti della vita politica di quel periodo di tempo, fra cui la lotta fra borghesi e magnati a Firenze, e le persecuzioni religiose, subite da alcuni gruppi ereticali e dai filosofi averroisti.

Il Fioree formato da una «corona» di 232 sonetti, i cui personaggi allegorici (ripresi dalla trama del Roman de la rose), come la Rosa, la Vecchia Falsembiante, raffigurano la conquista dell’unione carnale con la donna (fuori d’allegoria, per «fiore » si intende, come già abbiamo accennato, il sesso della donna).

Assai vigorosa è anche la polemica contro gli ordini religiosi francescano e domenicano, responsabili per Dante della morte del filosofo averroista fiammingo Sigieri di Brabante (considerato invece, dal futuro autore della Commedia, degno del paradiso) che era venuto a tenzone con San Tommaso.

Il testo è di non facile leggibilità, dovuta soprattutto all’affastellarsi di francesismi che danno luogo a una sorta di «franco-toscano».

Il Detto d’Amore è composto da 480 settenari in rima baciata, ed offre una sintesi delle caratteristiche e delle regole comportamentali dell’amor cortese; in esso si avverte la forte influenza della cultura provenzale, come già sappiamo il modello più diffuso prima che Dante elaborasse la sua originale versione stilnovistica dell’amor cortese.

La Vita Nova è composta di liriche alternate a brani in prosa che raccontano la storia d’amore di Dante per Beatrice e la morte di lei; nel “libello” (come lo chiama Dante)  le vicende vissute sono interpretate simbolicamente, in chiave stilnovistica: Beatrice infatti viene descritta come creatura divina e angelica, strumento di elevazione dell’uomo verso Dio.

Le Rime comprendono 54 liriche autentiche e 26 di attribuzione più incerta, composte da Dante durante tutto l’arco della sua vita e ordinate dopo la sua morte. I temi sono diversi e spaziano dal fantasioso e sognante (“Guido, i’ vorrei che tu e Lapo e io“), al musicale (“Per una ghirlandetta“), dal passionale (“Così nel mio parlar“), al solenne (“Tre donne intorno al cor“).

La diversità di temi, stile e periodo di composizione permette di seguire l’evoluzione del pensiero e della poetica di Dante.

Il Convivio è un’esposizione enciclopedica del sapere medioevale, scritta in volgare e non in latino perché, nell’intenzione del poeta, doveva rivolgersi ad un vasto pubblico: misto di prosa e di versi, non fu completata e dei 15 trattati progettati solo 4 ne furono composti.

La Divina Commedia, iniziata in  esilio forse nel 1304, è il racconto in prima persona di un viaggio compiuto da Dante all’età di trentacinque anni nei tre regni dell’oltretomba cristiano.

Le due guide principali del poeta in questo viaggio sono Virgilio (Inferno – Purgatorio) e Beatrice (Paradiso).

Il poema si compone di tre cantiche, l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. Ciascuna cantica comprende trentatré canti, a cui si deve aggiungere il primo canto dell’Inferno (che quindi ne ha trentaquattro), che funge da introduzione a tutta l’opera. I versi sono endecasillabi raggruppati in terzine a rima incatenata.

Quest’opera rappresenta una summa di cultura, di valori etici ed estetici del Medio Evo.

Attraverso una visione metaforica di un viaggio nell’oltretomba, il poeta esprime con una sapiente e ricca regia compositiva motivi politici, storici, teologici e personali (vedi la sua posizione nei confronti dell’amata e criticata Firenze).

In questo viaggio verso la perfezione divina, Dante assume il compito di raccontare la sua esperienza al mondo con la speranza che questo ne tragga insegnamento.

Rimase invece incompiuta una grandiosa opera in latino, il De vulgari eloquentia, un trattato intorno all’origine e all’essenza del nostro linguaggio. Dante indica come modello ideale di lingua letteraria, o volgare illustre, una lingua che prenda i suoi termini da ogni dialetto, nessuno dei quali adatto di per sé all’uso letterario.

Nel De Monarchia Dante espone le sue convinzioni politiche sulla necessità di un impero universale, unico garante di giustizia e libertà.

Affronta inoltre un problema molto dibattuto ai suoi tempi, cioè quello del rapporto tra le due supreme autorità: il papa e l’imperatore, le due grandi guide dell’umanità; essi per il poeta hanno ricevuto direttamente da Dio la loro autorità e la devono esercitare in due sfere distinte, quella spirituale e quella temporale, per il conseguimento della felicità celeste e terrena.

Questo trattato tuttavia ai tempi di Dante non incontrò l’approvazione della chiesa e a nulla servì che nelle parti conclusive il poeta indicasse comunque una supremazia spirituale del papa sull’imperatore; nel 1329 fu fatta addirittura bruciare ed in epoca più tarda fu inserita nell’indice dei libri proibiti..

Importanti in lingua latina anche le Epistole, soprattutto le tre scritte per la venuta di Arrigo VII. Meno interessante il trattatello scientifico Quaestio de aqua et terra: nel 1319 mentre Dante si trovava a Mantova, come ci racconta il poeta stesso, partecipò ad una grossa disputa che concerneva il fatto se l’acqua in qualche punto fosse più alta della terra, visto che per i dotti l’elemento più nobile deve stare sempre in alto (fuoco su aria, aria su acqua, acqua su terra).

Interessanti sono in conclusione anche due Ecloghe sempre in latino dal tono malinconico e speranzoso indirizzate a Giovanni del Virgilio, umanista bolognese che lo aveva invitato nella sua città per ricevere l’alloro poetico.


[1]  Fra i testi più fortunati della lingua d’oil troviamo il Roman de la Rose (<<Il romanzo della Rosa>>), poema sul tema dell’amor cortese. Si tratta di un’opera in due parti, scritta nel corso del XIII secolo da due poeti francesi, Guglielmo De Lorris (per i primi 4.000 versi composti nel 1237) e Giovanni De Meung (per i successivi 18.000 che si possono datare attorno al 1280). La prima parte, attribuibile al De Lorris è il racconto dei sentimenti personificati (rappresentanti l’autore) che cercano con le parole di cogliere nel giardino dell’Amore (che rappresenta la vita cortese) una Rosa (simboleggiante la donna amata); dopo un alternarsi di insuccessi e speranze, l’amante non riesce a soddisfare la propria passione amorosa. La seconda parte, composta dal De Meung, è la descrizione dei vari episodi attraver­so cui l’autore riesce a raggiungere la Rosa, ben custodita in una torre. Entrambi gli scrittori si servono di procedimenti didattico-simbolici tipicamente medievali, e non di rado indulgono nel sensualismo più audace; ma il De Meung, meno fornito di sensibilità narrativa, tende alla compilazione enciclopedica, infarcendo il discorso di nozioni scientifiche relative ai vari settori dello scibile medioevale; inoltre la sua composizione si allontana dal tema di fondo: agli ideali cortesi viene sostituita l’esaltazione degli aspetti più materiali dell’amore, la figura femminile diventa oggetto di pesanti attacchi, mentre a valori come la carità o la rinuncia si preferiscono agi e ricchezze.

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