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La letteratura italiana trova nel Quattrocento terreno poco fecondo poiché la gran parte delle opere è scritta in lingua latina.
I letterati umanisti[1] , infatti, tennero in poco riguardo il volgare in quanto lo consideravano carente dal punto di vista estetico e privo della necessaria sensibilità umana.
Quando posero il volgare alla loro attenzione lo fecero per il solo desiderio di elevarlo ai modi alti del modello latino.
Venne recuperato però il latino classico e non quello medioevale come si potrebbe pensare vista la contiguità dei periodi.
Sappiamo già che anche Petrarca e Boccaccio considerarono la lingua latina come strumento letterario privilegiato, nonostante abbiano acquisito fama e vengano ricordati soprattutto per la produzione volgare. La nuova cultura guarda dunque ai valori e alla lingua latina antica: una lingua morta e utilizzata ormai solo per la letteratura.
Il letterato umanista, fine nel gusto estetico, tiene parimenti in grande considerazione i sentimenti e le concezioni morali e spirituali; e la sua attività viene assicurata da un mecenate o committente che è sostanzialmente un borghese desideroso di nobilitare le sue basse origini e nel contempo di innalzarsi politicamente.
Su commissione dunque l’umanista va alla ricerca dei codici più fedeli all’originale classico; si formano allora le prime biblioteche private, e ciò a discapito del monopolio culturale riservato fino ad allora al mondo ecclesiastico; si diffonde conseguentemente il mestiere del libraio e, dopo la scoperta di Gutemberg della stampa, sul finire del Quattrocento si poterono contare nelle più importanti città italiane più di settanta stamperie[2].
La cultura aristocratica diviene elitaria, dato che si restringe al cenacolo dei letterati che scrivono tra loro o per omaggiare il loro mecenate.
Si affianca, in altre parole, alla tradizionale Università la cosiddetta Accademia, presente in ogni corte d’Italia, che è un circolo di dotti, ma anche un mezzo prezioso per educare gli eredi della nobiltà di corte[3].
L’Accademia fiorentina, voluta dai Medici e detta “platonica”, è di fondamentale rilievo: così come il Medioevo esalta Aristotele, il Quattrocento pone al centro della sua indagine la dottrina platonica, ovvero ammette l’esistenza di un mondo ideale differenziato sia dal mondo sensibile sia dalle costruzioni della mente umana.
L’idealismo platonico è appunto ricerca di armonia e di bellezza, perfezionamento del gusto, discrezione dei comportamenti, visione di un’umanità perfetta, di cui la corte può rappresentare lo specchio: in quest’ambito si cerca la sintesi tra l’umanesimo pagano e l’ascetismo cristiano, armonizzando spiritualità e sensibilità, anima e corpo, bellezza e verità, entro un disegno primordiale, da paradiso terrestre della perpetua innocenza.
La corte è proprio il luogo edenico ove la natura e l’invenzione collaborano all’avvento del regno della “Grazia”. Ci si vuole riappropriare del mondo e dell’umano, purificandoli alla luce dei valori cristiani.
Firenze è come detto, il primo centro della cultura umanistica grazie all’opera del Boccaccio.
Qui opera anche Coluccio Salutati[4], un politico che si occupa di letteratura; in lui essa si salda alla cosa pubblica[5], le humanae litterae sono addirittura un esempio per la conduzione della vita attiva; è una figura che ricorda Cicerone, l’oratore classico di cui scopre le Epistulae ad Familiares.
In particolare ed in dissonanza con i dotti del suo tempo abbandona la retorica medioevale a favore appunto di quella ciceroniana.
Sotto il profilo politico Coluccio esalta la Firenze democratica[6]: nel De Tyranno afferma al proposito l’ammissibilità del tirannicidio[7].
Nei vari trattati affronta poi il rapporto che c’è tra la fortuna e la libera volontà (tema che poi verrà ripreso, tra gli altri, da Machiavelli), cerca un’integrazione tra l’umanesimo e la scienza, si occupa della delicata relazione tra i miti pagani e le verità cristiane.
Coluccio Salutati sostituì infine negli studi classici la grafia gotica con la più leggibile minuscola carolina convinto che fosse la grafia romana: tale introduzione sarà importantissima per la nascita e la diffusione dei libri stampati[8].
A Firenze giunge anche la letteratura greca con Manuele Crisolora, un diplomatico e maestro del greco classico[9], emigrato da Costantinopoli in Italia nel 1397 – su invito del Salutati – che traduce in latino la Repubblica di Platone e le Vite di Plutarco, opere di grandissima risonanza nel secolo.
Per la lingua greca va ricordato anche il cardinale Bessarione, non solo per il suo tentativo di conciliare platonismo e Cristianesimo, ma soprattutto per il lascito (1468) a San Marco di Venezia di una grandissima biblioteca (primo nucleo della Marciana) di testi greci provenienti da Costantinopoli e dai conventi greco-ortodossi.
Allievo del Salutati e suo successore alla Cancelleria di Firenze è Leonardo Bruni (1374-1444) grecista[10], ma soprattutto storico[11] che esalta Firenze come la città ideale; scrive anche in volgare una Vita di Dante ed una Vita del Petrarca.
Niccolò Niccoli (1364-1437) fu grande ricopiatore e raccoglitore di libri[12] (tutti quelli del Boccaccio), ma scrittore di scarso peso; più che altro si ricorda perché fiero avversario della lingua volgare.
Il maggiore degli umanisti-filologi è senza dubbio l’aretino Gian Francesco Poggio Bracciolini (1380-1459), allievo a sua volta del Salutati e membro della stessa Cancelleria fiorentina.
Si tratta di un letterato libero da vincoli comunali e disposto assai più del Petrarca, a mettere la sua professionalità (il B. era anche notaio) a servizio dei committenti che più lo retribuiscono.
Fu straordinario cercatore[13] e ricopiatore di Codici anche per commissione della Curia romana.
A differenza del Salutati e del Bruni egli non concepisce la letteratura come strumento di intervento civile, ma come consolazione e bellezza opposte allo squallore e alla malinconia del tempo che passa. Mentre quelli proiettano in Firenze l’immagine dell’Eden Bracciolini pensa ad un Eden prettamente naturalistico[14].
Nel De avaritia e nel Contra Hypocritas Bracciolini polemizza poi contro i monaci ghiottoni che secondo lui esasperano i temi del peccato e delle pene e sono perciò da lui considerati i peggiori nemici della concezione umanistica di un mondo innocente in cui il piacere è libero da ogni colpa, come nell’Eden.
All’aspirazione di un mondo innocente si unisce nel Bracciolini, il senso della ineluttabile della fuga del tempo e della decadenza di tutte le cose; il mondo classico diventa così ragione di riflessione sulla caduta della antichi splendori.
Di Bracciolini ricordiamo in ultimo il Liber facetiarum [15] (1438-1452), la più importante raccolta di motti arguti del Qattrocento.
Nella Firenze della metà del XV secolo l’Umanesimo tende a diventare filosofico: il tema di fondo che affrontano gli umanisti è quello della dignità dell’uomo con il suo destino di creatura privilegiata.
La vera anima di questo umanesimo è Marsilio Ficino (1433-1499) che traduce per conto dei Medici tutta l’opera di Platone in latino, oltre alle opere del filosofo greco Plotino e di altri pensatori neoplatonici; si tratta di un sacerdote[16] che studia il greco e incoraggiato da Cosimo de’ Medici, fonda l’Accademia Platonica.
Con l’ausilio dei suoi studi elabora una filosofia cristiana che passa attraverso la valorizzazione totale dell’uomo, creatura completa perché possiede natura divina, angelica e animale. Ed in questo senso nella Theologia platonica de immortalitate animorum [17] Ficino tenta di raccordare ragione e fede non attraverso un procedimento aristotelico, bensì basandosi sulla circostanza che ogni elemento dell’universo, l’uomo incluso, manifesta la presenza di Dio[18].
L’arte e la poesia assumono per Ficino una valore altissimo: sono capaci di elevare lo spirito alla contemplazione di quel dono divino che è la bellezza.
Il suo commento del Simposio di Platone inaugurò la nozione di amore platonico[19], un particolare concetto di amicizia basato sull’amore di Dio, che fu fecondo per la letteratura del tardo Rinascimento.
Anche Pico della Mirandola (1463-1494) pone l’uomo al centro della sua meditazione nell’Oratio de dignitate hominis.
La dignità dell’uomo predominante nell’universo, così come esiste un amore universale che lega le creature fra di loro e le creature a Dio.
Amico del Ficino da cui fu avviato al platonismo[20], si aprì anche alle influenze della sapienza araba ed ebraica, ritenendo integrabili nel Cristianesimo alcuni elementi delle altre religioni (Caldei, Egizi, Ebrei) ; anche in lui che fu condannato dalla Chiesa per alcune tesi eretiche[21], c’è l’esaltazione della libertà e della vita contemplativa; negli ultimi anni accentua la propensione mistica, influenzato dal Savonarola.
Nell’area milanese mercenario della letteratura fu Francesco Filelio (1398-1481) che studiò il greco a Costantinopoli, lo insegnò a Firenze e poi divenne il letterato ufficiale di casa Sforza.
Quella di vendersi al migliore offerente e quindi di muoversi frequentemente fu una caratteristica di molti umanisti: non è più il centro di cultura che reca lustro al letterato, ma è il letterato che apporta lustro al centro di cultura.
Così Guarino Veronese (1374-1460) caratterizza la corte estense di Ferrara, ma fu prima a Firenze e a Venezia.
Vittorino da Feltre (1373-1446) è l’animatore dell’Accademia dei Gonzaga a Mantova.
Non lo ricordiamo per quello che ha scritto ma per ciò che ha fatto; ha istituito una scuola (la “Gioiosa”) ove lo studio dei classici latini e greci si inserisce in un generale piano educativo che prevede l’educazione globale del giovane, dall’esercizio fisico al comportamento, all’istruzione letteraria e scientifica, alla promozione morale e spirituale, entro un quadro di cristianesimo armonizzato con le esigenze terrene.
L’Accademia romana è frutto dell’opera dei papi[22] dopo il concilio di Costanza[23], che fecero venire nella capitale i migliori umanisti: Bracciolini, Valla, Aurispa e Leon Battista Alberti.
Un allievo del Valla, Pomponio Leto amava talmente il mondo classico da immedesimarsi completamente in un antico romano, tanto da essere accusato di tramare contro la Curia e di voler restaurare la repubblica romana.
Pio II ovvero al secolo Enea Sivio Piccolomini (Corsignano 1405- Ancona 1464) è uno storico senese allievo del Filelfo a Firenze e segretario di cardinali e papi[24]; in gioventù fu poeta e romanziere licenzioso e mantenne un atteggiamento libertino fino alla conversione avvenuta nel 1444, in seguito alla quale cambiò il tenore dei suoi scritti e si fece sacerdote, ottenendo il vescovado di Trieste e poi quello di Siena.
Nei commentari giovanili aveva sostenuto il primato del Concilio sul Papa, ma poi fece cambiò idea riconoscendo con sincerità il suo errore, così come, con franchezza, descriverà, una volta salito al soglio pontificio, i suoi trascorsi libertini e i compromessi del conclave che lo ha eletto al pontificato.
La sua sincerità è dovuta al disincanto per la vita umana, fascinosa e votata al decadimento (si sente l’influsso del Bracciolini), minacciata in quel periodo anche dai mussulmani, pronti ad invadere le terre cristiane. Di Pio II si ricorda soprattutto Commentarii rerum memorabilium quae temporibus suis contigerunt, ritratto splendido e amaro della sua vita e dei suoi tempi.
Il maggior pensatore dell’Umanesimo fu però Lorenzo Valla (Roma 1407-1457), grande spirito critico e polemista, cerca di smascherare, attraverso la indagine filologica[25], le falsificazioni storiche e ideologiche a cui è andato incontro il Cristianesimo nella sua storia: di qui la costante polemica antimonastica, il rifiuto della scolastica che cerca di racchiudere Dio nella ragione[26], la diffidenza per tutto ciò che suona disprezzo per l’uomo[27] e per il mondo.
Per il Valla la filologia significa confutazione del pensiero astratto e adozione del metodo critico, con l’analisi puntuale delle prove e dei documenti, come emerge nel De falso credita et ementita Costantini donatione, in cui si dimostra la falsità del documento su cui la Chiesa basava la legittimità del potere temporale[28].
Vivissimo nel Valla fu anche il problema linguistico: nell’Elegantiarum linguae latinae libri sex (1444), polemizza col latino usato come lingua viva, in quanto le parole sono sostitutive della realtà e quindi devono essere inserite nel contesto storico.
Pubblicata per la prima volta nel 1471, l’opera ebbe una notevole influenza sugli umanisti a venire, come lo stesso Erasmo da Rotterdam.
A Napoli gli umanisti trovano una ricchissima biblioteca ma anche un potere (gli Aragonesi) che esige la più servile cortigianeria; gli ospiti furono tutti dell’Italia superiore (Valla, Bracciolini, Bruni, Filelfo). Il più autorevole è comunque Giovanni Pontano (1426-1503), umbro d’origine ma napoletano di adozione.
Si tratta di un buon poeta latino (si distingue soprattutto nella poesia elegiaca ed epigrammatica), che esprime l’intimità dei sentimenti e le piccole cose realistiche del paesaggio e della domesticità. I toni tendono a farsi elegiaci, più sobri e sconsolati nella poesia più tarda, dopo la perdita del figlio e della moglie.
In Forlì è ancora da ricordare Flavio Biondo, il maggiore storico dell’umanesimo, che ricostruisce tutta la storia medioevale dalla caduta dell’Impero romano ai tempi presenti e fonda il concetto di Medioevo come “età di mezzo”.
In altre parole sembra che il termine Medioevo sia stato usato la prima volta dall’umanista Flavio Biondo, nelle Historiarum ab inclinatione romanorum imperii decades, scritta verso il 1450 e pubblicata nel 1483. Secondo l’autore, il termine indica una parentesi tra due epoche, nella quale è avvenuta una sospensione del progresso, una stasi culturale che si colloca tra la grandezza dell’età classica e la rinascita della civiltà all’inizio di una nuova era.
[1] Che furono detti tali per la scelta rigorosa della humanae litterae (poesia, oratoria, epistolografia, storiografia, filosofia morale).
[2] Con almeno un grande artista della stampa come Aldo Manuzio, autore dei più belli incunaboli (i primi libri a stampa, appunto ancora “in culla”) della storia.
[3] Si tratta del nucleo del futuro liceo, scuola “classica” per eccellenza.
[4] Nato a Signano Val di Nievole nel 1331 e morto in Firenze nel 1406. Fu prima notaio e poi cancelliere di Lucca e Todi ed infine segretario della Prima cancelleria di Firenze (il Cancelliere di Firenze era la più alta magistratura della Repubblica fiorentina anche se aveva alcun potere politico); divenne amico del Petrarca e confidente del Boccaccio,
[5] In questo senso v. le Epistulae e i trattati De saeculo et religione, De fato, fortuna, et casu, De tyranno.
[6] Soprattutto nel momento in cui Gian Galeazzo Visconti (1385-1402), novello Cesare, tenta invano di impadronirsene.
[7] L’uccisione del tiranno fu per la prima volta considerata legittima dal filosofo medievale Giovanni di Salisbury (metà del XII secolo). Il tirannicidio, in difetto di altra azione possibile, lo troviamo in seguito nel De Guelphis et Gebellinis e e nelle Glosse alla Costituzione enriciana Qui sint rebellis, opere del grande giurista trecentista Bartolo da Sassoferrato. La tematica sarà ripresa anche nel secolo dei Lumi con il Trattato sulla Tirannide (1777-1789) di Vittorio Alfieri ove si configurano come unici rimedi alla tirannia il suicidio o appunto il tirannicidio.
[8] Il processo sarà poi perfezionato da Poggio Bracciolini.
[9] Questa lingua in Grecia era stata soppiantata dal greco moderno.
[10] Traduce Platone, Aristotele, Senofonte e Plutarco grazie agli insegnamenti di Crisalora a cui viene affidata dal Salutati la cattedra di letteratura greca.
[11] Da ricordare di questo autore con particolare attenzione Le Historiarum Florentini populi libri XII (Dodici libri di storie fiorentine, 1420) che insieme ad altre opere (le Istorie fiorentine (1525) di Niccolò Machiavelli, la Storia d’Italia (1561-1564) di Francesco Guicciardini, e il Methodus ad Facilem Historiarum Cognitionem di Jean Bodin), abbandonavano la visione degli storici medievali legata a un concetto di tempo segnato dall’avvento di Cristo per sviluppare un’analisi degli avvenimenti che ha origine da un punto di vista laico del tempo e dall’atteggiamento critico verso le fonti. La storia divenne una branca della letteratura e non più della teologia. Gli storici del Rinascimento rifiutavano la divisione cristiana della storia che doveva avere inizio con la Creazione, seguita dall’incarnazione di Gesù Cristo e dal Giudizio Finale. La visione rinascimentale della storia esaltava il mondo greco e romano, condannava il Medioevo come un’era di barbari e proclamava la nuova epoca come quella della luce e della nascita del classicismo.
[12] Alla sua morte lasciò ottocento codici.
[13] Nel 1414 in seguito alla partecipazione al concilio di Costanza aveva ritrovato nelle abbazie di Cluny e di San Gallo molti codici, dati per scomparsi, conservanti le opere di autori latini come Quintiliano, Lucrezio (il De Rerum Natura), Ammiano Marcellino, Silio Italico, Stazio e Valerio Flacco.
[14] Tale paradiso lo ritroviamo in una celebre lettera dove il B. descrive le ricreazioni balneari di Baden, dove donne e uomini nudi giocano senza malizia in un clima fascinoso di primitiva innocenza;
[15] Una raccolta che consta di 273 facezie, di un’introduzione e di una conclusione. Dopo una diffusione manoscritta (anche in redazioni parziali in anni precedenti il completamento della raccolta), l’operetta ebbe una notevolissima fortuna di stampa: si contano poco meno di una trentina di edizioni, ad esempio, tra il 1470 e il 1500 molti autori prenderanno le mosse dal Bracciolini: Poliziano, Pontano, Baldessar Castiglione, Thomas More, Erasmo da Rotterdam ecc.
Il titolo dell’opera nelle intenzioni del Bracciolini sarebbe dovuto essere Confabulationes (conversazione famigliare), ma il termine facetiae (frase scherzosa ed arguta) si impose in quelli poi divulgati: Facetiae, Poggi Florentinii Facetiae, Liber facetiarum.
Dal punto di vista strutturale le facezie sono brevi racconti d’intrattenimento che vogliono insegnare con sagacità l’arte del vivere; gli umanisti utilizzano molte figure retoriche per ottenere l’effetto voluto come l’entimema (sillogismo che tende a suggestionare partendo da premesse solo probabili), la metafora, l’allegoria, la paronomasia (avvicinamento di parole di suono uguale ma di significato differente), l’ironia ecc.
In quanto al contenuto le facezie mostrano un desiderio di libertà dal consenso, dall’ordine costituito sia esso laico o religioso, di licenziosità e trasgressione anche delle convenzioni linguistiche (specie quando dalla logica si giunge al paradosso); il vir doctus et facetus si prende così l’impegno di smascherare la rusticitas, l’ottusità e la limitatezza della falsa od improvvisata cultura.
[16] Canonico della cattedrale di Firenze.
[17] L’opera Teologia Platonica (1482) è uno studio sull’immortalità dell’anima umana in cui il Ficino manifesta la conoscenza di san Tommaso d’Aquino; l’opera esamina anche la cosmologia trascendente di Plotino e l’influsso delle stelle sulla vita umana.
[18] La meditazione religiosa si incentra invece su Cristo, in cui natura umana e divina si congiungono nella verità che si fa creatura incarnata.
[19] Quello che non conosce o rifiuta l’appagamento dei sensi, con riferimento alla dottrina platonica del divino Eros che sospinge l’uomo dal desiderio della bellezza corporea alla contemplazione della bellezza ideale. Platone narra di un colloquio avvenuto tra Socrate e Diotima di Mantinea, una sacerdotessa esperta dei misteri d’amore. Gli insegnamenti di Diotima individuano un percorso che conduce l’individuo dall’attrazione carnale per la bellezza di un singolo corpo, alla fruizione del bello ideale, colto nella purezza della sua essenza. Eros, personificazione dell’aspirazione all’immortalità che pervade in varia misura l’intero cosmo, si pone in questo senso come mediatore per raggiungere verità eterne.
[20] Da una matrice aristotelica.
[21] All’età di ventitré anni Pico della Mirandola si stabilì a Roma, dove espose apertamente una lista di novecento tesi (Conclusiones philosophicae, cabalisticae et theologicae) riguardanti ogni sorta di argomento, offrendosi di difenderle in pubblico, cosa che non avvenne visto che Pico subì invece un processo e il papa Innocenzo VIII giudicò eretiche e condannò tredici di queste tesi connesse con la magia e la cabalistica.
[22] Eugenio IV divenuto papa nel 1431 e Niccolò V, pontefice dal 1447 e fondatore della Biblioteca Vaticana.
[23] Concilio della Chiesa cattolica riunitosi nella città imperiale di Costanza dal 1414 al 1418, convocato dall’antipapa Giovanni XXIII su richiesta di Sigismondo, sacro romano imperatore.
[24] Dapprima a seguito dell’antipapa Felice V e poi sia segretario di Eugenio IV che di Niccolò V diviene Papa nel 1458.
[25] Filologia (Dal greco philología, “amore per il discorso”), disciplina che studia i testi scritti analizzandone le caratteristiche stilistico-formali e i contenuti per determinarne l’autenticità o la correttezza, spesso compromesse da alterazioni materiali o errori di interpretazione concettuale.
[26] Mentre questa vale per il V. solo nel campo sperimentale.
[27] Nel dialogo De voluptate dimostra ad esempio che l’istintiva inclinazione dell’uomo al piacere non è in contrasto con la morale cristiana.
[28] Quest’opera metteva in discussione l’ingerenza della Chiesa cattolica nelle vicende politiche e nei rapporti di potere fra le nazioni. L’ardire di Valla provocò aspre controversie che culminarono nell’intervento dell’Inquisizione nel 1440; l’umanista fu rilasciato solo grazie all’intercessione del re.