Questo poeta si differenzia da Giuseppe Ungaretti perché in lui non c’è stato un mutamento formale[1] ed in secondo luogo perché in Montale non è cambiata l’ideologia: Ungaretti ha riscoperto la fede, Montale no[2].
Le idee di Montale, in una parola, sono già chiare dalle prime raccolte e vanno semplicemente approfondendosi con le ultime, attraverso un lento e schivo lavoro di scavo interiore.
Nato a Genova nel 1896 Eugenio Montale ha fatto qui gli studi classici[3]; iscrittosi alla facoltà di lettere ha dovuto interrompere l’università per la chiamata alle armi: partecipò come ufficiale di fanteria alla prima guerra mondiale[4].
Pochi sanno che voleva diventare cantante lirico ma abbandonò la professione dopo la morte del suo maestro, il baritone Ernesto Sivori[5].
Nel dopoguerra (1925) pubblicò la sua prima raccolta di versi, Ossi di Seppia.
Per una decina d’anni (dal ’27 al ’37) svolse le mansioni di direttore del “Gabinetto scientifico letterario G.P. Vieusseux” a Firenze, ma ne venne allontanato per il rifiuto di iscriversi al partito fascista.
Collabora intanto a varie riviste: Solaria, Pegaso, Letteratura e nel 1939 pubblica la sua seconda raccolta, Le occasioni.
Nel 1947 entra come redattore nel Corriere della Sera e quindi si trasferisce a Milano.
Nel 1956 pubblica un’altra raccolta, La bufera ed altro[6] (ricomprendente anche un’altra raccolta pubblicata nel ’43, Finisterre[7] ed altre poesie scritte tra il 1940 ed il 1944).
Nel 1967 Montale è nominato senatore a vita[8].
Pubblica due volte (nel ’66 e nel ’70) Satura; nel 1973 è la volta di Diario del ’71 e del ’72 e nel ’77 di Quaderno di quattr’anni.
Nel 1975 gli viene assegnato il premio Nobel per la letteratura[9].
Muore a Milano nel 1981.
Oltre all’attività poetica ha coltivato:
-la prosa: La farfalla di Dinard (prose e racconti)[10];
– le traduzioni: dall’inglese, soprattutto Eliot e Shakespeare[11];
– I saggi: raccolti nei seguenti volumi: Auto da fé, fuori di casa, Nel nostro tempo, Sulla poesia del 1976;
– la critica musicale[12].
OPERE
Ossi di seppia (1925) contiene il materiale di dieci anni di attività poetica e colpisce per parecchi motivi:
1) per lo stile talvolta sentenzioso (epigrammatico), talvolta discorsivo, molto vicino a quello pascoliano o dei crepuscolari ( in anni in cui Ungaretti aveva portato prima 1) alla frantumazione della parola 2) al recupero classicistico, v. a questo proposito anche La Ronda); uno stile in cui non disdegna di usare anche termini dialettali o tecnici; è uno stile, in definitiva, scabro, essenziale, antilirico che corrisponde appieno alla sua visione negativa della condizione umana.
2) Per la descrizione del paesaggio ligure che è privo delle seduzioni turistiche, quasi aspro (ad es. orto assetato; afa stagna; irti ramelli) addirittura nel suo dimesso squallore (ad es. scalcinati muri)
Linguaggio e paesaggio servono al poeta per estrinsecare il suo mondo interiore, una concezione del vivere i cui elementi essenziali sono:
– una cupa angoscia esistenziale;
– un inflessibile rifiuto per le facili consolazioni;
– il male di vivere concepito come una prigionia da cui l’uomo non può sollevarsi;
La poesia non può indicare il modo per uscire da questa situazione (non domandarci la formula che mondi possa aprirci) ma può offrire solo qualche storta sillaba e secca come un ramo, cioè può solo trascrivere, rinvenendola negli oggetti, la condizione di un cosmico male di vivere.
La poesia è consapevolezza del non essere, del mancato realizzarsi dell’uomo (anche se nell’ultima parte della raccolta vi è la speranza di trasformare in inno l’elegia).
Mentre Ungaretti si affida all’analogia, Montale cerca di oggettivizzare la realtà e da questa oggettivazione trarne un simbolo (ad es. vivere per M. è seguitare una muraglia/ che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia); in altre parole l’unico modo per esprimere un sentimento è per Montale (sulla scia di Eliot) quello di trovare un correlativo oggettivo, degli oggetti, una situazione che divenga la formula di quella particolare emozione.
Anche se in questa raccolta c’è molta negatività, ciò non esclude la ricerca della positività da parte del poeta: la ricerca è però destinata al fallimento (la lotta tra l’impotenza e il coraggio è sempre presente nella poesia montaliana).
Questa ricerca affiora nel tentativo di cercare un varco (nei Limoni) nella maglia rotta/ che ci stringe; questo tentativo è sicuramente da ritrovarsi nella descrizione del mare (v. le liriche della sez. Mediterraneo) visto come termine positivo (vera e propria lezione di vita) cui il poeta tende invano perché egli sa di essere della razza di terra.
In altre parole, per tornare a quanto detto prima, in Montale il mare è l’oggettivazione, il simbolo di ciò che Montale vorrebbe essere e non è (Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale/ siccome i ciottoli che tu volvi/ mangiati dalla salsedine…/ Altro fui).
Analizziamo brevemente due poesie tratte da questa raccolta:
– Non chiederci la parola[13] (1923): ha il valore di uno stato esistenziale non solo del poeta ma di un’intera generazione, di una professione di fede negativa, ferma e lucida (si parla a proposito di teologia negativa); la poesia non può più dare certezze ma solo aride e contorte sillabe in cui è espressa tale negativa consapevolezza; l’uomo, la vita, la storia possono essere colti dalla parola solo nel non essere.
Tuttavia il rigore morale con cui Montale afferma il deserto della esistenza diviene norma morale: rifiuto di ogni facile consolazione, di ogni mito; tutto ciò si traduce poi, nel pratico, in antifascismo militante (si trovano qui le idee gobettiane ed infatti la raccolta fu pubblicata nella Edizione Liberale di Pietro Gobetti).
– Spesso il male di vivere[14] (1924): una legge di sofferenza e di pena domina la vita e il poeta li coglie negli aspetti più dimessi, nel cavallo stramazzato, nella foglia riarsa e accartocciata, nel lamento quasi di creatura umana, di un ruscello strozzato; è un pianto delle cose che manifesta appunto il male di vivere; da notare il tema ripreso dai crepuscolari (la statua in un silenzioso parco) caricato però qui di valore emblematico.
Tale statua infatti rappresenta l’indifferenza, l’unico stato in cui l’uomo trova una possibilità di scampo, l’unico stato che fa dell’uomo quasi un dio.
Con la seconda raccolta (Le occasioni) Montale amplia ed approfondisce la sua tematica: dal mondo delle cose passa a quello della memoria, le occasioni della memoria appunto, intese come incontri, tappe della vita interiore ecc.
In qualunque modo si muova il poeta si sente determinato dagli incontri che ha sollecitato o subito; il paesaggio ligure lascia spazio ad un mondo più vasto anche se altrettanto dissonante e tumultuoso; in questo nuovo habitat (v. La Casa dei Doganieri) la bussola va impazzita all’avventura/e il calcolo dei dadi più non torna; in altre parole ritroviamo lo stesso senso di angoscia, di precarietà, lo stesso scacco esistenziale presente nella prima raccolta.
Il passato così come il presente non offre ancore di salvezza: i volti e i ricordi vengono dissolti irrimediabilmente dalla forbice del tempo (V. Non recidere forbice quel volto); i sentimenti sono descritti in modo sempre più simbolico rendendo difficile la comprensione delle liriche (ecco che Montale aderisce all’Ermetismo).
Esprimiamo qui un breve commento a due liriche:
– La casa dei doganieri (1930)[15]: nella casa dei doganieri il poeta ha vissuto una storia felice ma ora è altro tempo ed altri eventi si sono sovrapposti su quella esperienza; il ricordo serve solo a constatare l’attuale solitudine del poeta.
La lirica è un delle più alte ed esprime con vari accorgimenti, l’inesorabile erosione che il tempo opera sulla parte più gelosa di noi stessi, sui nostri sentimenti, sulla nostra memoria: vana è ogni resistenza.
– Non recidere forbice quel volto (1937)[16]: il recupero della memoria che per tanti altri scrittori del ‘900 (V. Proust, Saba) ha costituito un appiglio, per Montale una volta di più, non risulta possibile; il poeta è solo e non riesce più a dare un senso alle cose.
La lirica presenta nitida la tecnica del trasferimento di una situazione interiore in un’esemplificazione oggettiva (il recidere della forbice sul volto amato, il colpo di accetta che taglia l’acacia, il guscio di cicala, emblema quest’ultimo della felicità di cui resta solo uno scheletro, un fantasma buttato nella melma del ricordo).
Nella raccolta La Bufera sembrerebbe esserci lo spazio per il trascendente, ma il poeta riconferma poi sostanzialmente la sua ferma accettazione del destino, non riscattabile dalla fede; infatti in Piccolo Testamento, la lirica che chiude questa raccolta, riaffiora ancora la sua teologia negativa: il rifiuto delle facili certezze o del lume di chiesa e di officina.
Montale esprime anche la sua mancanza di fiducia nella storia, influenzato dalla terribile esperienza della seconda guerra mondiale.
La figura femminile è protagonista in queste liriche, rappresentando i valori che dovrebbero incarnarsi nella storia. Tuttavia, l’ipotesi dell’incarnazione dei valori nella storia si rivela illusoria.
Nell’ultima produzione pubblicata nel corso degli anni settanta è possibile trovare alcune novità: il prevalere di una componente epigrammatica e comica, una certa mescolanza di stili (Specie in Satura); in questo che sembra un rilassamento stilistico e contenutistico c’è in realtà la constatazione dalla inautenticità a cui l’uomo è condannato, il distacco da un mondo che viene descritto satiricamente in modo da fargli assumere la leggerezza del paradosso.
Da Satura è tratta l’ultima poesia che citiamo, Caro piccolo insetto[17], dal tono insolito ma non ironico (la sezione Xenia da cui è tratta non contiene poesie ironiche): è un ricordo della moglie scomparsa da poco[18].
[1] Montale non ha sperimentato il passaggio che ha compiuto Ungaretti dai versicoli dell’Allegria al recupero della tradizione di Sentimento del Tempo.
[2] Eppure nella sua lirica troviamo il grande influsso di Dante Alighieri.
[3] Al Liceo Giovanni Domenico Cassini.
[4] Nel 1917.
[5] Fu maestro di canto si Montale dal 1915 al 1923.
[6] Il titolo della raccolta è molto significativo: la “bufera” si riferisce sia alla tempesta particolare della guerra che alla tempesta universale della condizione umana. L’“altro” si riferisce a una complicata vicenda personale, che si intreccia alla guerra e al suo inferno.
[7] Legata all’esilio in Svizzera.
[8] Eugenio Montale è stato nominato senatore a vita il 13 giugno 1967 dal Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Saragat ha nominato Montale in base all’articolo 59 della Costituzione, “per avere illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo letterario e artistico”.
[9] Con la motivazione: ”per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni”
[10] “Farfalla di Dinard” è una raccolta di racconti brevi scritti tra il 1946 e il 1950 da Eugenio Montale per la terza pagina del Corriere della Sera e del Corriere d’Informazione. Questi racconti, composti in un linguaggio comune, traggono spunto da fatti o personaggi reali e da eventi autobiografici.
Il racconto che dà il titolo alla raccolta è ambientato nella cittadina francese di Dinard. Montale racconta che ogni giorno, mentre se ne stava seduto in un caffè di Dinard, una piccola farfallina color zafferano veniva a trovarlo2. Questa farfallina sembrava portare notizie della donna amata ormai lontana, o forse era solo un’illusione dettata dall’assenza.
Nel racconto, Montale si chiede se la farfalla venisse proprio per lui o se quell’angolino fosse semplicemente inscritto in un suo meccanico itinerario quotidiano3. Per risolvere il dubbio, decide di lasciare un buona mancia alla cameriera, insieme al suo indirizzo in Italia. Avrebbe dovuto scrivergli un sì o un no; se la visitatrice si era rifatta viva dopo la sua partenza o se non s’era più lasciata vedere.
Questo racconto è un esempio del modo in cui Montale mescola realtà e fantasia, creando un’atmosfera di malinconia e desiderio.
[11] Per quanto riguarda T.S. Eliot, Montale ha tradotto alcune delle sue poesie. Queste traduzioni sono state raccolte nel libro “Quaderno di traduzioni”, pubblicato nel 1948. Le poesie di Eliot tradotte da Montale includono liriche di Guillén e due delle poesie di Eliot, risalenti al 1928-29. La traduzione della poesia di Eliot ha segnato l’inizio del tirocinio da traduttore di Montale.
Per quanto riguarda William Shakespeare, Montale ha tradotto il “Giulio Cesare”. Questa traduzione è nata nel 1953 su richiesta di Paolo Grassi e Giorgio Strehler per il Piccolo Teatro di Milano. La versione montaliana del “Giulio Cesare” è stata apprezzata per la sua capacità di rendere la concentrazione, la tensione e il dinamismo del potente dramma storico senza che mai vada perduto il timbro peculiare del traduttore.
Inoltre, Montale ha anche tradotto alcuni sonetti di Shakespeare. Ad esempio, ha tradotto il Sonetto 33 di Shakespeare, che è stato pubblicato sul settimanale romano “Città” nel 1944, poi in “Poeti antichi e moderni tradotti dai lirici nuovi”, a cura di Luciano Anceschi e Domenico Porzio, Milano, Il Balcone, 1945
[12] Eugenio Montale ha avuto un’importante carriera come critico musicale. Dal 1954 al 1967, ha lavorato come critico musicale per il “Corriere d’Informazione”, edizione pomeridiana del Corriere della Sera. Ha recensito concerti e allestimenti operistici alla Scala, alla Piccola Scala e ai Festival di Spoleto e di Venezia.
Montale considerava la musica e il melodramma, da lui amati con particolare intensità il veicolo originario della sua vocazione poetica. La sua attività di critico musicale non era un semplice “secondo mestiere”, ma un elemento fondamentale della sua espressione artistica.
I risultati del suo lavoro come critico musicale sono raccolti nell’opera “Prime alla Scala”, descritta come un “libro di amori e di fastidi”. Questa attività ha avuto un ruolo importante nel plasmare la sua produzione poetica, con una ricerca quasi ossessiva dell’intima musicalità nel verso.
Montale per molti anni ha recensito tutte le inaugurazioni della stagione scaligera.
[18] La moglie del poeta, Drusilla Tanzi, era morta il 20 ottobre del 1963, dopo una dolorosa malattia.
[13] Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
[14] Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
[15] Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.
Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende…)
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
[16] Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre. Un freddo cala…
Duro il colpo svetta.
E l’acacia ferita da sé scrolla
il guscio di cicala
nella prima belletta di Novembre.
[17] Caro piccolo insetto
che chiamavano mosca non so perché,
stasera quasi al buio
mentre leggevo il Deuteroisaia
sei ricomparsa accanto a me,
ma non avevi occhiali,
non potevi vedermi
né potevo io senza quel luccichio
riconoscere te nella foschia.