Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto XI e XII – Sintesi

Inf. 11 Baccio Baldini, Dante e Virgilio sedut...
Inf. 11 Baccio Baldini, Dante e Virgilio seduti presso la tomba di Anastasio (Photo credit: Wikipedia)

Canto XI

Siamo sempre nel VI cerchio in cui vengono puniti gli eretici ed in particolare i monofisiti (coloro che riconoscono in Cristo la sola natura umana).

Virgilio e Dante giungono sull’estremità di un’alta riva posta al di sopra del VII cerchio, costituita da un’enorme quantità di grosse pietre e qui, a causa dell’orrendo fetore che sale dal “profondo abisso”, sono costretti a ripararsi dietro al coperchio di una grossa tomba sulla cui superficie è scritto che all’interno giace papa Anasta­sio II (498-496)[1] (ritenuto eretico per errore della tradizione) distolto dalla retta via e quindi dal diacono orientale Fotino[2].

Virgilio comprende che D. deve abituarsi gradatamente all’odore e allora fa una sosta.

Dante chiede allora al Maestro di trovare qualche argomento in modo che il tempo dell’attesa non trascorra inutilmente: perciò Virgilio si accinge a spiegare l’ordinamento del profondo inferno (che segue la tripartizione aristotelica: incon­ti­nenza, violenza o matta bestialità, malizia).

All’interno della riva costituita dai grossi sassi vi sono tre cerchi più piccoli di quelli precedenti, abitati da altri spiriti dannati.

Tali spiriti sono sistemati nei diversi cerchi secondo un certo ordine dovuto alle colpe commesse.

In generale, il fine d’ogni peccato è un'”ingiuria”, cioè un’ingiustizia, portata a compimento con la forza o con l’inganno a danno altrui, ma poiché l’inganno è proprio esclusivamente dell’essere umano, offende Dio in modo ancor più grande ed è per questo motivo che i fraudolenti sono condannati nei cerchi più bassi.

Il primo dei tre cerchi è occupato dai violenti, ma poiché la violenza può essere attuata in tre modi diversi, tale cerchio è diviso in tre gironi infatti si può commettere violenza verso Dio, verso se stessi e verso il prossimo sia nella persona sia nelle cose.

Nel primo girone sono dunque condannati i violenti verso il prossimo nella persona, cioè gli omicidi e i feritori, e i violenti verso il prossimo nelle cose, cioè i

guastatori e i predoni.

Nel secondo girone sono condannati i violenti verso se stessi nella persona (suicidi e scialacquatori: violenti verso se stessi nelle cose).

Nel terzo girone sono condannati i violenti verso Dio nella persona che negano la sua natura o la sua bontà (bestemmiatori) i violenti verso Dio nelle cose (usurai, sodomiti).

Virgilio espone poi le forme di malizia (o frode): contro chi non si fida (ipocrisia e lusinga), contro chi si fida (tradimento).

La prima forma di frode è meno grave poiché rompe soltanto quel vincolo d’amore che la natura ha stabilito tra gli uomini: e quindi i dannati (ipocriti, adulatori, maghi, falsari, simoniaci, ruffiani, barattieri ecc.) occupano il secondo cerchio (le malebolge).

I dannati della seconda forma che rompono oltre al vincolo d’amore anche quello di fiducia sono puniti nel terzo cerchio (cocito), dove è situato il punto ove Lucifero è conficcato e dove sono puniti per l’eterno tutti i traditori (vv. 1-66)

Dante vuol saper perché gli altri dannati (incontinenti) incontrati si trovano fuori dalla città di Dite: Vitgilio replica che secondo Aristotele (trattato VII dell’Etica[3]) l’incontinenza offende Dio in modo minore ed è quindi meno biasimevole.

Pur soddisfatto della risposta Dante chiede a Virgilio perché l’usura offende Dio: Virgilio risponde che la filosofia aristotelica spiega come la natura abbia la sua origine dall’intelletto divino e dall’operare di tale intelletto e che, secondo la Fisica di Aristotele, l’arte dell’uomo segue, per quanto è possibile, la natura, come il discepolo segue il maestro, in modo tale che l’arte dell’uomo è, si può dire, nipote di Dio.

Dalla natura e dall’arte, come dice il libro della Genesi, conviene che il genere umano prenda i mezzi per vivere e avanzare progredendo e, dato che l’usuraio segue un’altra via, cioè vive e si arricchisce col denaro dato in prestito, disprezza l’arte e la natura offendendo in tal modo Dio.

Quindi Virgilio esorta Dante a seguirlo, poiché i pesci guizzano per l’orizzonte, cioè si avvicina l’alba e l’altra riva si può discendere in un punto più lontano (vv. 67-115).

XII Canto

Virgilio e  Dante discendono a causa di una frana, custodita dal Minotauro e causata dal terremoto seguito alla morte di Cristo, nel 7° cerchio dei violenti diviso, come abbiamo accennato, in tre gironi: il primo è costituito dal Flegetonte, fiume di sangue bollente in cui sono immersi i violenti contro la vita e le sostanze del prossimo tra cui i tiranni: Alessandro Magno[4] (per altri Alessan­dro di Fere), Dionisio, Attila, Ezzelino da Romano, ed altri; inoltre si fa cenno a due predoni (Rinieri da Corneto e Rinieri Pazzo).

Stanno a guardia il Minotauro ed i Centauri che saettano i dannati qualora escano più del dovuto dal sangue (vv. 1-99); Chirone[5], su richiesta di Virgilio, affida ai due poeti come guida Nesso (traghettatore che aveva tentato di violentare la moglie di Ercole, Deianira) che parla di alcuni dannati e li trasporta in groppa al di là del Flegetonte nel 2° girone (vv. 100-139) dove sono puniti i violen­ti contro se stessi ed i propri averi.


[1] Anastasio II invece che condannare la dottrina monofisita preferì il dialogo e la conciliazione e gli ambienti romani non lo perdonarono.

[2] Fotino di Tessalonica fu accolto benevolmente dal Papa e questo atteggiamento gli portò la condanna della Curia.

[3] È dedicato alle debolezze morali.

[4] Alessandro, succedendo al padre, aveva fatto strage dei parenti e dei numerosi fratellastri che avrebbero potuto contendergli il trono, se questi omicidi avevano almeno una spiegazione politica, altre efferatezze nacquero solo da arroganza e da ira incontrollata: nel 328 a.C. ad es. uccise l’amico fraterno Clito (che nella battaglia di Granico gli aveva salvata la vita), solo perché questi, durante un banchetto, insisteva nel dichiararlo meno glorioso di Filippo II.

[5] Il più saggio e capo dei Centauri; era immortale: fu precettore in vita di Achille, Giasone, Asclepio ecc.; si scambiò con Prometeo per morire.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto I – Sintesi

Inf. 01 Dante e Virgilio Giovanni di Paolo (c....
Inf. 01 Dante e Virgilio Giovanni di Paolo (c.1403–1483) (Photo credit: Wikipedia)

 

Il primo canto dell’Inferno è generalmente considerato proemio generale del poema, mentre il secondo è il proemio della sola prima cantica.

La descrizione vera e propria dell’Inferno comincia soltanto con il canto terzo.

I primi due canti ci forniscono gli antece­denti e le ragioni del viaggio ultraterreno.

Non ci si deve meravigliare se nel primo canto l’astrazione prevale sulla concretezza degli elementi naturalistici descritti, se i concetti cioè tendono a soffocare le immagini, se la filosofia e la teologia prendono il sopravvento sulla poesia.

L’azione nel primo canto ha inizio all’alba dell’8 aprile (o 25 marzo) del 1300, anno del Giubileo[1]; ma il viaggio negli inferi vero e proprio sarà intrapreso la sera dello stesso giorno ed ha la durata di 24 ore.

I personaggi del canto sono: le tre fiere (lonza, leone, lupa); Virgilio, simbolo della ragione umana; il Veltro.

Dante si è smarrito (ha smarrito il cammino del bene[2]) senza sapere come[3], di notte, in una selva oscura (del peccato[4]) a metà della vita (all’età di 35 anni[5] il venerdì santo del 1300)[6].

Dopo una notte di dolore e crisi disperata – tanto che l’orrore della selva, selvaggia (perché incolta e disabitata), aspra (perché intricata di pruni) e forte (perché difficile da traversare), rinnova il terrore solo a pensarvi – il poeta tenta di uscirne (per ritrovare la via della salvezza), trova un varco e giunge al mattino ai piedi di un colle (allegoria della redenzio­ne), illuminato dal pianeta[7]sole (luce divina; grazia illuminante che assiste chi vive virtuosamente) (vv. 1-18).

La vista del colle allontana un po’ la paura e D. (che si sente ormai liberato dalle tenebre del peccato), dopo essersi brevemente riposato[8], si accinge a riprendere la via per il pendio solita­rio[9] che conduce al colle con il piede che avanza ancora malfermo, dopo aver riguardato il luogo da cui è scampato[10], come il naufrago che si volge terrorizzato alle acque tempestose da cui si è ormai salvato (Dante trema come un naufrago perché si è salvato dalla morte) [11] (vv. 19-30).

Al cominciar della salita una lonza dal mantello maculato, agile e snella[12] impedisce il cammino al poeta e ostacola tanto i suoi passi che D. si volta più volte per tornare indietro (vv. 31-36).

L’ora fresca del mattino (la mattina dell’equinozio di primave­ra), il sole sorgente nella costellazione dell’Ariete, come al tempo in cui Dio iniziò la creazione, sembrano ridare al poeta momenta­neamente la speranza di giungere la sommità del colle; ma la speranza dura poco perché appare un leone[13] spavaldo e affamato, che diffonde nell’aria un angoscioso spavento, sembra venire contro al poeta e gli toglie quel primo conforto (vv. 37-48).

E subito dopo appare una lupa[14] che nella sua magrezza sembra carica di tutti i desideri e sbigottisce tanto D. che dispera ormai di poter salire (vv. 49-54)[15].

Dante si trova un po’ come nelle condizione dell’avaro che, se perde ciò che ha messo insieme con molte cure, si addolora e si dispera e a questo punto reso inquieto, appunto come l’avaro, precipita verso il basso (vv. 55-60)[16].

Mentre retrocede verso la selva Dante scorge una figura umana[17] che appare dalla voce fioca per non aver parlato da molto tempo[18]; il poeta implora pietà, anche se non sa distinguere se si tratti di un’ombra o di un uomo vivo; l’ombra, senza dire il proprio nome, risponde di non essere vivente ma di esserlo stato, che i suoi genitori erano entrambe lombardi[19] e mantovani (vv. 61-69).

Aggiunge di essere nato sotto Giulio Cesare[20] ma troppo tardi per conoscerlo[21] (e farsi apprezzare), di essere vissuto sotto il buon Augusto al tempo degli dei falsi e bugiardi (vv. 70-72), di essere un poeta e di aver cantato del giusto[22] figliol d’Anchise che venne da Troia dopo che la rocca fu distrutta (vv. 73-75).

Publio Virgilio Marone nasce il 15 ottobre del 70 a.C. ad Andes nei pressi di Mantova, che si può forse identificare con l’odierna Pietole.Sua madre è Magia Polla e suo padre Virgilio Marone un  piccolo possidente terriero che può e desidera assicurare al figlio un istruzione accurata.

Pertanto V., dopo aver vissuto i primi dodici anni a Mantova, frequenta le scuole di Cremona, Milano e Roma.

A Roma attende alla scuola di eloquenza del retore Elpidio: nella capitale incontra Ottavio (il futuro imperatore Ottaviano Augusto) e Marco Antonio che combatterà contro Ottaviano Augusto la famosa battaglia di Azio del 31 a.C., ove Menenio Agrippa (luogotenente di Augusto) sconfiggerà le diciannove navi della flotta di Cleopatra amante di Marco Antonio (guerra tolemaica).

Nella capitale V. dimostra scarso interesse per la eloquenza, e questo si verifica anche per il carattere timido e riservato del Mantovano; al contrario si dedica con fervore alla lettura dei c.d. poeti nuovi: Elvio Cinna, Cornelio Gallo, Catullo; si interessa alla poesia alessandrina, a quella epigrammatica ed alle elegie.

Da Roma si sposta alla volta di Napoli per studiare matematica e medicina e seguire le lezioni di Sirone, lezioni di filosofia su Epicuro che era stato fonte di ispirazione, proprio in quei momenti, di un grande poeta, Lucrezio, nel De rerum natura.

Ma già a Roma, come è stato detto, la poesia alessandrina nata non per il popolo ma per la corte aveva assai impressionato l’animo di V.: il risultato si nota nelle prime opere che vanno sotto il nome di Appendix Virgiliana; Appendix che fu scoperta ottanta anni dopo la morte del poeta e che si compone nel modo seguente:

1) Catalepton (versi spiccioli): 14 poesie di genere epigrammatico; nella quattordicesima in particolare V. invoca l’aiuto di Venere per comporre l’Eneide.

2) Culex (la zanzara): epillio in esametri, dedicato forse ad Ottaviano dove si parla di un pastore che uccide una zanzara; questa gli appare in sogno la notte successiva rimproverandolo per la sua azione poiché l’aveva morsicato soltanto per avvertirlo della presenza di un serpente; inoltre gli descrive il mondo sotterraneo e gli chiede sepoltura.

3) Ciris (l’airone bianco): poemetto amoroso in esametri che narra la passione di Scilla per Minosse che stava assediando Megara, e la trasformazione di lei in uccello marino a seguito del tradimento in favore del re minoico.

4) Aetna: poemetto in esametri sulle eruzioni vulcaniche per cui Virgilio, sulla falsa riga del De Rerum Natura di Lucrezio, assume che si possono spiegare razionalmente.

5) Dirae (le maledizioni): carme in esametri che espone, nella sua prima parte, le maledizioni di un colono spodestato del suo campo e nella seconda parte un canto d’amore.

6) Copa (l’ostessa): breve idillio in 19 distici in cui si narra di una giovane ostessa che invita i viandanti ad entrare nella sua taberna.

7) Moretum (la torta) in cui si parla di un contadino che impasta acqua e farina per fare quattro pani ed una rustica torta.

8) Priapea: tre poesie scherzose in onore di Priapo, il dio campestre rappresentato come spauracchio per gli uccelli.

A Napoli V. compone la sua prima opera di grande rilievo, le Bucoliche, un poema pastorale (42-39 a.c.) formato da 10 egloghe disposte secondo un criterio non cronologico ma estetico.

Tale composizione ha talmente successo a Roma che viene addirittura musicata; inoltre essa impone V. all’attenzione di Ottaviano e di Mecenate, tanto che al poeta fu donata una villa sull’Esquilino.

Due fondamenti stanno alla base delle Bucoliche: i precetti epicurei che invitavano l’uomo ad amare la vita semplice, la campagna, a liberarsi dalle ambizioni, dalle superstizioni (circa orridi mostri infernali e divinità); le vicende politiche che portarono e seguirono alla morte di Cesare (44 a. c.) e che toccarono vivamente il poeta.

Infatti dopo la battaglia di Filippi i triumviri assegnarono come premi di guerra ai loro veterani, le terre dei municipi rimasti fedeli all’idea repubblicana.

Ne fanno quindi le spese i territori di Cremona e Mantova (che pure non rientrava tra le città fedeli) e di conseguenza anche i poderi di V. sono affidati ai legionari di Ottaviano; due volte il poeta li perde e due volte li riacquistò per l’opera prima di Alfeno Varo e poi di Asinio Pollone, governatore della Gallia Cisalpina.

Nelle Bucoliche Virgilio narra appunto gli avvenimenti della vita campestre, esalta il sereno lavoro dei pastori e dei contadini; ma, in considerazione delle sue vicende personali, parla anche di veterani insolenti che costringono i contadini ad abbandonare le proprie terre, di madri che piangono la morte dei propri figli.

Su tutto domina la visione del tempo che sconvolge ogni cosa, del buio che avvolge la vita umana, la quale fiorirebbe senza che a noi sia dato modo di percepirne il significato, per la forza cieca del fato.

Assecondando il tentativo di riforma dei costumi intrapreso da Ottaviano, Virgilio vede però anche qualcosa al di là del dolore funesto delle passioni e degli egoismi: vede l’evoluzione, il progresso, le conquiste del lavoro e dell’ingegno umano; quindi il dolore e l’affanno sono solo il prezzo che l’umanità deve pagare per la sua redenzione.

Da questo mutato stato d’animo nasce la seconda grande opera di Virgilio, le Georgiche (37-30 a.C.), poema didascalico di 2183 esametri, scritto a Napoli, che si articola in quattro libri ove sono descritti vari tipi di attività agresti: I) la coltivazione dei campi, II) la coltura degli alberi III) l’allevamento del bestiame IV) l’apicoltura.

Il mondo delle Georgiche è sempre quello delle Bucoliche: la campagna, lo scenario sereno dei campi, contadini e pastori; ma questo mondo non è più concepito come possibile rifugio dove evadere dalla realtà dolorosa della vita ma come mondo ove il lavoro dei campi innalza l’uomo al di sopra del dolore, della violenza, dell’arbitrio.

Le Georgiche sono dunque una celebrazione del lavoro dei campi e della terra, con termini semplici e concreti, non idealizzando la campagna e i suoi abitatori ma calandoli nella realtà.

Compiuta questa seconda fatica il poeta si dedica alla stesura dell’Eneide (29-19 a.C.) poiché sia l’imperatore sia Mecenate erano rimasti entusiasti delle Georgiche e desideravano la redazione di un poema epico; prepara prima uno schema in prosa e poi lavora a diverse parti contemporaneamente; tra il  27 e il 25 a.C. Augusto ne chiede notizie, ma Virgilio leggerà all’Imperatore soltanto parte dell’opera, a partire dal 22 a. C. (II, IV e VI canto).

Nel 19 a.C., a prima stesura ultimata, il poeta, non essendo soddisfatto, decide di recarsi in Grecia ed in Asia Minore per vedere i luoghi ove si svolgono alcuni canti del poema.

Imbarcatosi incontra ad Atene Augusto che torna dall’Oriente e che lo convince a tornare con lui in Italia.

Ma dopo una visita a Megara, Virgilio prostrato da un sole fortissimo e già minato da altri mali, viene colto dalla febbre e approdato a Brindisi si aggrava e muore (22 settembre  del 19); viene sepolto a Napoli lungo la Via di Pozzuoli.

Nel testamento lascia tutti i suoi scritti agli amici Vario e Tucca e chiede che l’Eneide venga bruciata; ma Augusto vuole che l’opera venga pubblicata proprio da Vario e Tucca.

Virgilio chiede a Dante perché stia ritornando nella selva tanto molesta (o dolorosa) [23] e non salga invece il monte del bene, principio e ragione di ogni gioia (vv. 76-78).

Dante risponde con reverenza e retoricamente se l’anima sia quella del Virgilio[24] fonte viva dell’eloquenza; se potrà servirgli ad ottenere l’aiuto del Mantovano il grande amore ed il grande studio con cui D. ha affrontato l’Eneide e le Bucoliche[25].

D. chiama V. suo maestro e modello da cui ha appreso lo bello stile[26] che gli ha procurato tanto onore tra i contemporanei (vv. 79-87).

A questo punto D. supplica V. (definito saggio, cioè poeta) di salvarlo dalla lupa (vv. 88-90).

Virgilio afferma che per D., il quale sta piangendo, è necessario compiere un altro viaggio per uscire dalla selva; perché è impossibile sfuggire alla fiera che gli mette tanta paura, essa (carica di vizi di infiniti) non fa passare alcuno dalla sua strada e chi ci prova muore.

Virgilio gli spiega la natura malvagia della fiera che non è mai sazia di desideri e dopo un pasto ha più fame di prima; aggiunge che sono molti gli animali[27] con cui la lupa (l’avarizia) si unisce;  e dichiara che <<più saranno ancora>>, che cioè l’opera nefasta della stessa continuerà fino a che non giungerà un veltro[28] (cioè un salvatore) a liberare il mondo della sua presenza (vv. 91-102).

Con linguaggio oscuro come si addice alle profezie, il veltro è designato per alcune caratteristiche: non si ciberà né di terra né di peltro[29] (di danaro), ma sarà nutrito solo di sapienza, di amore e di virtù, e la sua nascita non avverrà tra le mollezze (“tra feltro e feltro”[30]) (vv. 103-105).

Sarà la salvezza dell’Italia che ora è caduta così in basso, per la quale[31] sono morti ammazzati (“di ferute”) i primi eroi cantati da Virgilio (Camilla, Eurialo, Turno, Niso), e caccerà finalmente nell’Inferno la lupa, che era uscita primariamente dall’invidia del demonio[32] (vv. 106-111).

Virgilio spiega infine a Dante che lui reputa come unica via di salvezza[33] il lasciare quei luoghi[34] e si offre quindi come guida per un viaggio attraverso l’Inferno (il “luogo etterno”) dove il poeta potrà udire le grida disperate dei dannati, anche più antichi, che ricercano una seconda morte che possa porre fine ai loro tormenti[35] e attraverso il Purgatorio dove le anime sono contente di purifi­carsi col fuoco[36] perché così sanno di poter raggiungere il Paradiso (vv. 112-120)

Se poi Dante vorrà salire al regno dei Beati un’anima più degna lo guiderà[37], perché a lui pagano, Dio, che come imperatore regna nel Cielo, ha vietato di accedere al Paradiso perché lui non si è sottomesso alla sua legge (non ha cioè ricevuto il battesimo) (vv. 121-126).

V. spiega a D. che Dio domina in tutte le parti dell’universo ma solo nei Cieli si manifesta re perché qui vi è la sua casa ed il suo trono; e conclude che è certamente beato colui che può risieder­vi (vv. 127-129)

Dante chiede a Virgilio di guidarlo nei luoghi che ha appena indicato perché è ansioso di poter vedere la porta del Purgatorio[38] da cui passano le anime che V. dice essere tanto meste; V. comincia  a camminare e D. lo segue (vv. 130-136).


[1] Proclamato da Bonifacio VIII.

[2] Non perduto, ma smarrito perché Dante spera di ritrovarla.

[3] Il poeta non si è accorto di esser entrato nella selva, perché il suo animo era assonnato ed intorpidito dopo aver abbandonato la virtù. Numerose sono le fonti spirituale e scrittu­rali che identificano il peccato col sonno; si veda ad esempio la lettera ai Romani di San Paolo (XIII, 11): <<hora est iam nos de somno surgere>>.

[4] Personale di Dante dopo la morte di Beatrice e della umanità dopo la confusione tra potere temporale e spirituale.

 [5] Che la metà della vita coincida con il trentacinquesimo anno Dante lo afferma nel Convivio (IV, XXIII, 7-9).

[6] La perifrasi è tratta da Isaia e poiché Isaia è il profeta che per primo parlerà della cattività babilonese e della liberazio­ne, ne consegue che il poema assume da subito un tono profetico.

[7] All’epoca di Dante il sole era uno dei sette pianeti.

[8] Dante ignora che per vincere il peccato e conseguire la vita virtuosa non basta la volontà umana, troppo debole in seguito al peccato originale, ma occorre un aiuto divino.

[9] Il pendio rappresenta il momento di transizione tra la vita peccami­nosa e quella virtuosa ed è deserto perché sono pochi coloro che si ravvedono.

[10] Il passaggio attraverso il quale non lasciò mai persona viva: il peccato è la morte dell’anima, la dannazione eterna.

[11] Si tratta della prima delle 597 similitudini del poema.

[12] Una specie di leopardo o pantera, indicante la lussuria, nell’allegoria morale, e la città di Firenze, volubile, per l’instabilità di governo, nell’allegoria politica (una leonessa era infatti tenuta in gabbia presso il palazzo del Comune di Firenze come simbolo della città); per altri rappresenterebbe l’invidia o ancora l’inconti­nenza, una delle tre categorie dei peccati infernali; per altri infine la frode, perché sono in minor numero i peccatori che cadono in questo peccato.

[13] Il leone rappresenta la superbia come vizio capitale, e la prepotenza della monarchia francese, con particolare riguardo a Filippo IV il Bello, perché questo monarca svolse una politica di prepotenza contro la chiesa (v. trasferimento della sede pontificia da Roma ad Avignone, scioglimento dell’ordine dei Templari ecc.); ancora si sostiene che essa rappresenti la seconda categoria dei peccati infernali: la matta bestialità o violenza.

[14] L’avarizia per quanto riguarda la degradazione morale, e la Curia romana, nel suo significato politico, perché Papa Bonifacio secondo Dante era pieno di cupidigia per i beni temporali; o ancora la terza categoria dei peccati infernali: la malizia o frode; per altri infine rappresenterebbe l’incontinenza perché è il peccato più diffuso tra gli uomini.

[15] Il poeta riesce quindi ad evitare le lusinghe della lonza, la violenza del leone, ma non il pauroso fascino della lupa che lo risospinge senza tregua verso la selva.

[16] Le tre fiere sono già presenti  in un passo delle lamentazioni di Geremia (V,6) che quindi avrebbe ispirato il poeta: “Il leone della selva  li ha percossi, il lupo vespertino li ha devastati, il leopardo sta in agguato presso le loro città”, passo che è rivolto contro i ricchi di Gerusalemme e in cui – secondo S. Gerolamo – il leone rappresenterebbe Nabucodo­nosor o l’Impero babilonese, il lupo l’impero medo-persiano, il leopardo l’impero macedonico.

 [17] Si tratta di Virgilio che rappresenta la ragione umana che libererà D. dal peccato e lo condurrà sino al Paradiso terrestre (simbolo della felicità naturale); e poiché l’uomo non può realizzarsi se non vivendo in società, Virgilio rappresenta anche l’autorità dell’Im­pero, che deve guidare il genere umano verso la felicità naturale. D. lo sceglie come guida perché nel Medioevo V. aveva fama di sommo scienziato, di profeta di Cristo (la IV ecloga per bocca di Pollione console parla dell’avvento di un fanciullo di natura divina), e di mago; sia perché per le sue idealità politiche (cantore dell’Impero romano) e religiose (cantore del regno dei morti), poteva meglio di ogni altro essere un precursore degli ideali e della poesia dantesca.

[18] Il v. 63 ha dato luogo a molte interpretazioni, perché il silenzio non rende fiochi, e perché D. non poteva accorgersi che V. fosse fioco se non aveva ancora parlato. Forse si dovrebbe intendere: “una figura d’uomo che per lunga abitudine al silenzio sembrava aver perduto ogni efficacia di parola”. Il senso allegorico che qui prevale su quello letterale è invece evidente: Virgilio rappresenta la ragione umana, quando il peccatore comincia a ravvedersi sembra assai fioca e solo quando il peccatore si è ravveduto essa acquista chiarezza e forza.

[19] Cioè dell’Italia settentrionale. La Lombardia vera e propria prenderà questo nome solo cinque secoli dopo Virgilio, con i Longobardi.

 [20] D. fa affermare da Virgilio che nacque “sub Iulio” sia perché le ombre usano la lingua che parlarono in vita, sia perché nel Medioevo le espressioni latine erano di uso comune.

 [21] Visto che V. nasce nel 70 e Cesare muore nel 44; le Bucoliche infatti sono state composte tra il 42 ed il 44 a.C.

[22] V. indica proprio nel primo canto dell’Eneide Enea come il più giusto (Aen. I 544-545).

[23] Quella di Virgilio è un’esortazione a D. perché si liberi degli orrori del peccato.

[24]  D. sa di trovarsi di fronte a Virgilio e allora dimentica per un momento il pericolo, per manifestare la sua sorpresa ed ammirazione.

[25] In Inf. XX, 114 D. affermerà di conoscere l’Eneide tutta a memoria. Più incerta è la conoscenza di Dante delle Georgiche.

[26] Nel De Vulgari Eloquentia D. aveva distinto tre tipi di stile: quello tragico, alto e solenne proprio dell’epica e della grande lirica (D. chiamerà l’Eneide <<tragedia>>), quello comico o stile mediocre (perciò il titolo del poema <<commedia>> o <<come­dia) e quello elegiaco o stile umile. Il bello stile che ha fatto grande D. è lo stile nobile ed elevato con cui lo stesso ha composto le canzoni morali e allegori­che, anterior­mente al 1300. Anche nel Purgatorio (XXI, 95) per bocca di Stazio D. non perde l’occasione di lodare l’Eneide.

[27] Secondo alcuni si fa qui riferimento alle persone, secondo altri ai vizi.

 [28] Secondo le interpretazioni più accreditate potrebbe essere: 1) un imperatore o un rappresentante della corona imperiale: perché D. afferma nella Monarchia che l’imperatore possedendo tutto non ha più cupidigie e quindi naturale nemico della lupa; in tal caso potrebbe essere a) Arrigo VII di Lussemburgo che si è trovato all’improvviso imperatore e a cui D. alluderà anche alla fine del Purgatorio (XXXIII, 37 e ss.) e nel Paradiso (XXX, 133 e ss.); b) Uguccione della Faggiuola, che morto Arrigo VII, fu uno dei più potenti capi ghibellini in Italia e sconfisse i Guelfi di Firenze nella battaglia di Montecatini (1315); c) Can Grande della Scala, che dopo la cacciata di Uguccione della Faggiuola da Pisa e da Lucca, divenne a sua volta un potente capo ghibellino, ed ebbe il titolo di Vicario imperiale in Italia (1318) e che per la corri­spondenza del nome (cane-veltro), per l’estensione dei suoi domini (tra Feltre nel Bellunese e Montefeltro nelle Marche), e per l’elogio che ne fa D. nel c. XXVII del Paradiso, si avvicina in più punti ai dati della profezia dantesca.

2) Un pontefice riformatore o una figura mistica: a) Benedetto XI (1303-1304) che fu uomo santo nato a Treviso, cioè sulla linea d’aria che congiunge Feltre nel Bellunese a Montefeltro nelle Marche; fu questo Pontefice ad inviare a Firenze nel 1304 il cardinale Niccolò da Prato, allo scopo di rappacificare i Neri coi Bianchi esuli; ma il tentativo fallì e il cardinale si allontanò da Firenze lanciando un interdetto; b) Gesù Cristo che deve venire a giudicare i vivi e i morti: poco plausibile perché la figura di Cristo ne verrebbe rimpicciolita e perché Cristo deve venire solo alla fine dei tempi; c) lo Spirito Santo: in base alla dottrina di Gioacchino da Fiore sulla terza era.

3) Il veltro e D. medesimo e l’opera sua, perché le cose che D. voleva dire all’umanità erano tali da far morire la lupa; poco plausibile perché D. è già venuto e perché nè D. né il suo poema sono nati “tra feltro e feltro”.

4) Il veltro è una persona indeterminata: e l’interpretazione degli antichi commentatori e forse la più accettabile.

[29] È una lega di argento e stagno ma qui significa metallo in genere e più propriamente ricchezze, denaro.

[30] Il feltro è un panno di lana non tessuta ma battuta, con cui si facevano indumenti di poco prezzo, per cui l’espressione potrebbe significare che il Veltro sarà di umili natali; ma altri intendono come si è visto, che il riferimento sia geografico.

[31] Più propriamente quindi l’Italia laziale.

[32] Che l’aveva fatta uscire per tentare l’uomo e privarlo in tal modo di quella felicità che godeva nel Paradiso terrestre.

 [33] Poiché la lupa domina nel mondo.

[34] V. in altre parole propone a D. di abbandonare la vita attiva e di abbracciare la vita contemplativa.

[35] Sulla “seconda morte” ci sono diverse interpretazioni: per alcuni si tratterebbe della morte dell’anima dopo quella del corpo, per altri che si fondano sulle Sacre Scritture (Apocal. XX, 14) e sul Cantico di S. Francesco (<<Beati quilli che trovarà ne le sue santissime voluntati, – ca la morte non li poterà far male>>) si farebbe qui riferimento alla morte come <<dannazione>> e in tal caso i dannati imprecherebbero alla loro dannazione.

[36] Veramente nel Purgatorio le uniche anime che si purificano col fuoco sono i lussuriosi.

[37] Si tratta di Beatrice che come vedremo rappresenta la Grazia santificante, e, in genere, tutti quei mezzi che Dio pone a disposizione dell’uomo, per rendere possibile la sua salvezza (Verità rivelata, Teologia, Autorità ecclesiastica ecc.).

[38] Per altri si intende quella del Paradiso.

Dante Alighieri – Vita Nova

Si tratta di un’operetta autobiografica in cui Dante tocca il vertice dello stil novo[1], composta tra il 1283 ed il 1292 e raccolta nel 1293-94; il suo tema è la vita giovanile del poeta ma soprattutto la vita spiritualmente rinnovata dall’amore per Beatrice.

Non sappiamo molto di quest’ultima ma abbiamo tre testimonianze sulla sua storicità, da parte di Bambaglioli Graziolo (1323), di Pietro (figlio di Dante), e di Boccaccio; inoltre vi sono alcuni particolari assai realistici presenti sia in quest’opera che nella Divina Commedia.

Forse Beatrice fu figlia di Folco Portinari e andò sposa a Simone De Bardi prima del 1288; morì l’8 giugno del 1290.

Dante ne fornisce una visione incorporea e indeterminata: ciò rientrava nei canoni del dolce stil novo ove l’amore veniva celebrato come un sentimento che si nutre solo di sé stesso, di adorazione umile e muta.

Ma la donna-angelo assume qui un signi­fi­cato più vasto e profondo, quello della Salvezza (concetto questo già in parte presente in Guinizzelli: v. il sonetto Io voglio del ver la mia donna laudare e che D. esprimerà magistralmente nella canzone Donne che avete intelletto d’amore) e della Grazia, sigillate dalla stessa morte di Beatrice, secondo un disegno provvidenziale.

Beatrice è colei che è beata e che dona beatitudi­ne, è davvero “donna della salute”, portatrice della salvezza.

In altre parole la dimensione descritta da D. non è soltanto emotiva e formale, ma compiutamente religiosa: la poesia iniziale (nel capitolo III: A ciascun alma presa e gentil core), cavalcantiana, esprime un amore visto come pena e dissidio, ma in seguito esso dispande beatitudine e appunto salvezza.

Il libro, diviso in 42 capitoli, dispone cronologicamente 25 sonetti, 4 canzoni una stanza ed una ballata[2][3] più alcuni com­men­ti in prosa delle liriche, che verranno composti ed inseri­ti soltanto nel 1293-94; sono queste prose, decisamente più mature delle poesie, a dare all’opera un tono tra il mistico e l’allucina­to (si descrivono spesso sogni, visioni ed incubi)[4].

Come nella Commedia D. è sia autore che protagonista dell’opera che, allo stesso modo, costituisce un exemplum di rinnovamento della vita morale

La trama si impernia soprattutto su due incontri che il poeta ebbe con Beatrice a nove e a diciotto[5] anni (quando se ne innamorò perdutamente) e soprattutto su un saluto che da Beatrice ricevette nel secondo incontro[6].

Vi sono poi citati vari altri avvenimenti, dal momento che siamo in presenza di una raccolta di poesie di diverso periodo ed occasione: la finzione del poeta di amare una donna diversa da Beatrice (donna-schermo) per evitare che altri possa conoscere il segreto del suo amore; la morte di un’amica di Beatrice; la sostituzione della prima donna schermo che si allontana da Firenze con una seconda[7] e quindi, in relazione alle chiacchiere della gente sulla presunta “infedeltà”, la negazione del saluto da parte dell’of­fesa Beatri­ce[8]; una visione di Amore che convince D. a parlare apertamente del suo amore a B. e la burla (il gabbo) della stessa e di altre donne per l’improvviso smarrimento del poeta che trema ad una festa nuziale di fronte alla donna amata [9]; il colloquio con alcune donne[10] circa la natura dell’a­mo­re di Dante[11] ed il proposito di utilizzare solo Beatrice come oggetto delle sue rime[12], dal momento che il saluto, unico oggetto del suo amore, è venuto meno[13].

Da quest’ultimo proposito nascono le nuove rime iniziate con le canzoni di lode “Donne che avete intelletto d’amore” e “Amor e ‘l cor gentil sono una cosa” e proseguite con alcuni sonetti che sono capolavori del dolce stil novo e di tutta la poesia italia­na: “Ne li occhi porta la mia donna Amore“, “Tanto gentile e tanto onesta pare“, “Vede perfettamente onne salute[14].

Tra il primo ed il secondo dei sonetti sopra citati è narrata la storia della morte del padre di Beatrice; segue poi la descri­zione del delirio di Dante (di nove giorni) in cui il poeta vede la morte di Beatrice (cantata nella canzone “Donna pietosa e di novella etate“), mentre viene portata in cielo dagli angeli e tutta la natura si copre di segni luttuosi (con evidente riferi­mento alla morte di Cristo ed ai suoi effetti di sacrificio redentivo).

In queste poesie Beatrice è ormai considerata una creatura angelica; grande è il dolore di Dante per la morte (già prefigu­rata nel capitolo III e nel capitolo XXII) che poi effettivamente avviene (capitolo XXVIII) e che viene immortalata nella canzone “Li occhi dolenti per pietà del cuore” (capitolo XXXI).

Trascorso però un anno dalla morte di Beatrice una donna gentile (la filosofia) da una finestra muove segni di pietà e quindi D., seppure riluttante, se ne innamora; a questa passione sono dedicati quattro sonetti  (Videro li occhi miei; Color d’amore; L’amaro lagrimar; Gentil pensiero).

Beatrice appare in sogno a D. che piange per il rimorso della temporanea infedeltà (altro sonetto: Lasso per forza di molti sospiri).

Nel penultimo sonetto (Deh peregrini che pensosi andate) Dante invita alcuni pellegrini diretti a Roma a piangere anch’essi Beatrice.

Nell’ultimo sonetto (Oltre la spera che più larga gira), dopo una visione in cui contempla Beatrice oltre il primo empireo, il poeta afferma che non parlerà più di lei finché non sarà in grado di dire quello che non fu detto da alcuno (è palese il richiamo alla Commedia); in altre parole D., anche se non sa ancora che scriverà la Commedia, si rende conto che quella che sta descrivendo è ancora una donna reale e che i mezzi stilnovi­stici sono insufficienti a dire di più, ad esprime­re la funzione redentiva di Beatrice; egli si ripropone quindi di cantarla in modo nuovo e straordinario ed allora tronca il libello.


[1] La stagione poetica che si consuma negli ultimi decenni del Duecento tra Bologna e Firenze è definita <<dolce stilnovo>>: è un primo punto d’arrivo della lirica italiana.

È Bologna, città all’avanguardia negli studi a dare l’avvio a questo movimento poetico con l’opera di Guido Guinizzelli, ma sarà Firenze, tra il 1280 ed il 1310, ad imporsi come nuova capitale della poesia italiana: fiorentini sono i due principali esponenti della nuova scuola, Dante Alighieri e Guido Cavalcanti, i quali insieme a Cino da Pistoia, non furono comunque estranei all’in­fluenza dell’ambiente bolognese.

Il dolce stil novo è nuovo perché sceglie come tematica quella amorosa, tralasciando i temi politici e morali tipici di Guitto­ne, anche se l’impostazione è certamente filosofica.

Guido Guinizzelli (1230 o 40-1276), un giudice bolognese di parte ghibellina – che nel 1270 fu pure podestà di Castelfranco Emilia, ma quando nel 1274 la parte guelfa ebbe la meglio, dovette andare in esilio, rifugiandosi con la moglie e il figlio a Monselice, dove morì pochi anni dopo – ne è l’iniziato­re (o il precursore secondo alcuni) perché è il primo a formulare poeticamente un’organica teoria dell’amore.

Nella poesia guinizzelliana sono compresi entrambi i filoni che saranno ripresi e approfonditi dai fiorentini: il tema della lode ad una donna ineffabile, ammirata esteticamente in un trionfo di luce (tema che viene ripreso da D. che accentua la spiritualiz­zazione), il tema dell’amore visto come passione tormentosa dei sensi che provoca angoscia e morte (tema ripreso dal Cavalcan­ti).

L’idea fondamentale da cui parte il Guinizzelli è quella dell’identità di amore e cuore gentile, per cui l’amore può nascere solo nel cuore di una persona gentile il cui sguardo sia così puro da poter riflettere la luce che proviene dagli occhi della donna, così come gli angeli riflettono la luce di Dio.

La donna angelicata ha in sé tanta virtù da mettere nel cuore gentile la volontà di sottomettersi a lei, realizzando così l’unione spirituale beneficante. Al contrario un cuore vile non può sentire quest’amore.

Quando il poeta morirà e Dio gli farà notare di aver riservato l’onore a Lui dovuto ad una donna, il poeta risponderà che tale donna aveva sembianze d’angelo e amare lei era come amare una creatura del paradiso.

Mentre nella poesia trovadorica il rapporto tra la donna ed il poeta è, come abbiamo già visto, di vassallaggio, di ordine sociale, in quella stilnovistica il rapporto di lontananza tra l’amante e l’amata è di ordine morale, religioso, per cui la donna è vista come incarnazio­ne della virtù (la donna-angelo) e il distacco è quantitativo e non qualitativo, per cui il poeta ottiene attraverso l’amore di elevarsi spiritualmente.

La figura femminile insomma si fa portatrice dei valori di nobiltà e purezza, che innalzano l’amante devoto, cosicché l’amore profano, benché caduco ed effimero, assurge a principio di virtù e non di perdizione.

Nel dolce stil novo il problema è infatti quello di conciliare l’amore per Dio e l’amore per la creatura: la donna è chiamata a mediare questo contrasto facendosi tramite tra i due livelli; quando la passione per essa rimane legata all’anima sensitiva, la donna può essere solo uno strumento per esaurire le forze del vitali del poeta.

Il dolce stilnovo è “dolce”: i poeti che vi aderiscono hanno tutti la preoccupa­zione di rinnovare l’espressione attraverso una selezione accurata del lessico e della sintassi poetica; vengono abbandonate le oscure sperimentazioni stilistiche di Guittone; essi devono essere dolci perché tale dolcezza, ossia una più facile cantabilità del verso, corrisponde ad una aristocrazia del sentire, ad una maggiore elevatezza della lode della donna.

Anche la lingua usata è nuova, dal momento che viene privilegiato il fiorentino illustre, depurato sia dai municipalismi plebei, sia dai provenzalismi e sicilianismi, sentiti ormai come ingombran­ti ed usurati.

[2] In cui si discosta dalla lirica di Guittone (che ricompa­rirà nel De Vulgari Eloquentia) per abbracciare la poesia di Guido Guinizzelli.

[3] In essi D. non rievoca la sua vicenda amorosa in quanto tale, ma ciò che questa riverbera nella sua anima, a partire dal 1274, allorché bambino di nove anni, vede per la prima volta la gentilis­sima Beatrice.

[4] Nella composizione della Vita nuova Dante poté rifarsi a un autorevole modello di prosimetro. il testo tardo-latino De consolatione philosophiae di Severino Boezio, un dialogo fra l’autore e la Filosofia, personificata, che con i suoi consigli di sapienza allevia al primo il dolore provocato dalla prigionia. Un ruolo altrettanto importante nella composizione dell’opera dantesca hanno senza dubbio giocato i generi provenzali delle «vidas» (cioè, le biografie idealizzate o romanzate dei trovatori) e delle «razos» (le esposizioni dei motivi ispiratori e le analisi tematiche e retoriche che i provenzali elaboravano sulle loro stesse poesie).

[5] I numeri sono multipli di tre, simbolo della Trinità divina.

[6] D. ode il saluto di Beatrice e fugge turbato, dalla presenza degli uomini, si raccoglie inebriato nella solitudine di una camera; qui lo coglie un “soave sonno”, e nel sonno una visione che è quasi un compendio del suo amore. Amore gli appare con involta nelle braccia Beatrice in un drappo sanguigno; il dio costringe la giovane a mangiare il cuore del poeta. Ma passa poco tempo e Amore prorompe in  un pianto e sparisce con la donna verso il cielo.

[7] Donne a cui apparentemente il poeta dedica il suo amore.

[8] Saluto che D. non riottiene nemmeno scrivendo una ballata in cui dichiara la sua fedeltà a lei sin dalla puerizia.

 [9] Da ciò nascono due sonetti ove D.confessa come la passio­ne lo porti là dove spera di vedere la sua donna e lo getti  nel più profondo sconforto quando la vede.

 [10] Che hanno nella storia funzione di intermediarie.

[11] Irrealizzabile in quanto non può più sostenere lo sguardo di Beatrice.

[12]A seguito della convinzione del poeta di dover amare Beatrice disinteressatamente, senza aspettarsi una ricompensa.

[13] In questo senso la Vita nova è la storia di un progressi­vo distacco dei due protagonisti, così che la morte di Beatrice, preparata da tutta una serie di indizi, diventa in un certo senso indispensabile affermazione dell’affetto interiorizzato di D.: è la vicenda dell’io che interessa, non un rapporto obiettivo.

[14] Queste poesie serviranno poi  sia  a D. per il Purgatorio e per il Paradiso, sia a Petrarca per il suo Canzoniere.

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