Dante Alighieri – Divina Commedia – Purgatorio – Canto IX – Riassunto e commento

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G. Dorè, l’angelo portiere

Ci troviamo inizialmente ancora nella valletta fiorita dell’Antipurgatorio di cui il custode è Catone e successivamente nei pressi della Porta del Purgatorio di cui custode è l’angelo portiere, tra il tramonto del 10 aprile 1300, domenica di Pasqua ed il mattino dell’11 aprile, lunedì di Pasqua.

I personaggi descritti nel canto sono: Lucia santa martire siracusana[1] e l’angelo portiere.

ELEMENTI PRINCIPALI

1) Tema allegorico: la caratteristica più evidente del canto è la ricchezza di elementi allegorici e simbolici, da cui si intuisce chiaramente che ci troviamo di fronte ad uno dei punti chiave della cantica. Il primo dato è costituito dal sogno di D., dove l’aquila dalle penne d’oro che lo solleva fino alla porta del P. è simbolo della Grazia divina e della giustizia imperiale, che si raccolgono nella figura umana di S. Lucia, colei che aiuta il poeta a superare miracolosamente le difficoltà che gli impediscono di salire al vero regno della penitenza.

Il secondo elemento sono i tre gradini della porta del P., simbolo delle tre fasi della confessione (contritio, confessio oris, satisfactio operis), che sola può introdurre l’anima sinceramente pentita al luogo della purificazione.

Infine si può considerare allegorico tutto l’episodio dell’angelo custode del P., con la spada di fuoco simbolo della giustizia, le due chiavi simbolo del potere ecclesiastico ad ammettere il peccatore alla salvezza, e le sette P. segnate sulla fronte di D., simbolo dei sette peccati capitali, che verranno man mano cancella­ti dall’e­spiazione e penitenza nelle varie cornici.

2) Tema strutturale: la porta del Purgatorio. Nell’arco della narrazione, il canto rappresenta un momento importante poiché chiude una lunga introduzione con i luoghi e le anime dell’Antipu­rgatorio, ed immette direttamente al vero e proprio secondo regno dei morti. Questo passaggio è evidenziato fisicamente dalla presenza della porta.

Da ricordare che una porta aveva anche introdotto all’Inferno (cfr. canto III dell’Inferno); da notare anche come l’Antipurgatorio occupi molto più spazio, quasi un terzo della cantica, mentre la descrizione dell’Antinferno si era risolta in un solo canto. La porta si apre a fatica e pesantemente, a sbarrare il passo al peccato ma anche ad indicare come siano pochi coloro che vi entrano, nonostante la misericordia di Dio, sottoli­neata dalle parole dell’angelo (cfr. v. 127-129).

Dall’aper­tura della porta subito esce il suono di un canto di lode a Dio, così che l’entrata del Purgatorio subito si assimila all’entrata in una cattedrale.

3) L’angelo custode. L’angelo posto a guardia della porta del Purgatorio è la figura che domina il canto, al di là dei signifi­cati allegorici[2] che si concentrano nella sua figura e nelle sue parole. D. aveva già visto esseri angelici: il primo ad aprirgli la porta della città di Dite nel canto IX dell’Inferno, poi l’angelo nocchiero nel II di questa cantica, quando V. gli aveva annunciato che ne avrebbe visti molti (il primo dei quali – nel purgatorio vero e proprio – sarà l’angelo dell’umiltà che cancellerà – canto XII – la prima P, relativa alla superbia, dalla fronte di Dante); ancora nel canto precedente gli angeli che stanno a guardia della Valletta dei Principi.

Questo è però l’angelo che introduce al vero regno dei destinati alla salvezza, dove altri angeli simili a lui si mostreranno sempre più di frequente, ad occupare ed a popolare i luoghi a loro destinati da Dio, come è per i diavoli in Inferno.

Questo angelo ha ancora un altro importante motivo di interesse: si inserisce in quella particolare categoria di personaggi che svolgono la funzione di custodi di un determinato luogo, tanto più in evidenza come l’entrata dell’intero regno purgatoriale.  Esso completa la figura di Catone e propone il confronto con alcune figure infernali, quali Caronte, o Minosse, Flegias e altre ancora.

4) Il sogno. È da rilevare il fatto che D. usi qui un sogno, luogo tipico della retorica letteraria, per narrare come poté superare la ripida costa che portava alla porta del Purgatorio. È espediente tradizionale per inserire avvenimenti miracolosi e fantastici, che il poeta aveva usato in altre opere come la Vita Nuova, ma che colpisce per la sua novità nella Commedia. Si ripeterà ogni notte passata nel Purgatorio (cfr. c. XIX e c. XXVII).

RIASSUNTO TESTO E VERSIONE IN PROSA

Alle tre di notte, quando in Italia l’aurora già si appresta ad imbiancare il cielo, D., vinto dal sonno, si stende sull’erba dov’era seduto insieme ai suoi compagni di viaggio e si addormenta.

Poi, verso l’alba, quando i sogni si fanno più veritieri, vede sul monte Ida, e sopra di sé, in alto, librarsi un aquila dalle penne d’oro, che dopo aver roteato un poco, si cala a piombo su di lui, lo ghermisce e lo rapisce su nel cielo, incendiandosi.

Il calore delle fiamme sognate risveglia D. bruscamente; spaventato il poeta si guarda attorno non riconoscendo il luogo dove si trova (vv. 1-42).

Di fianco a sé D. vede solo V., sono svaniti Sordello e i due principi. Il sole è già alto ed il maestro, riconfortandolo, gli dice che si trova alle soglie del Purgatorio: mentre dormiva infatti, era giunta S. Lucia che presolo tra le braccia lo aveva trasportato fin lassù. Quindi la donna santa, dopo avergli mostrato l’entrata, si era dileguata poco prima che D. si risvegliasse.

Egli allora si rianima e Virgilio, vista cancellata ogni traccia d’ansia sul viso del compagno, si alza per intraprendere la salita alla porta del Purgatorio, seguito da Dante (vv. 43-69).

Dopo un avvertimento al lettore perché noti l’elevarsi dello stile in questo passaggio decisivo del viaggio, D. racconta che, avvicinandosi al punto in cui la cinta di roccia sembra rotta, egli vede una porta con tre gradini di diverso colore[3].

Sull’ultimo è seduto l’angelo: silenzioso, splendente in volto, ha una spada in mano che riflette i raggi del sole verso i due pellegrini, tanto da non poter essere guardata.

L’angelo chiede loro che cosa vogliano e con quale autorizzazione si presentino lì; V. cita la donna santa che li ha guidati, e subito il guardiano, divenuto cortese, li invita ad avanzare.

Dante sale il primo gradino, di marmo bianco, così liscio e lucente che vi si specchia, quindi il secondo, in pietra grezza, nera e crepata, infine il terzo di porfido rosso come il sangue, su cui l’angelo posa ambo i piedi, sedendo sulla soglia, dura come il diamante (vv. 70-105).

Su richiesta di V., D. si getta ai piedi dell’angelo, percuoten­dosi il petto e chiedendo di aprirgli la porta del secondo regno.

L’angelo allora con la punta della spada gli incide sulla fronte sette P. esortandolo a cancellarle nella salita verso la cima del monte.

Poi, tratte da sotto la veste grigia (è il colore della penitenza: tutti gli altri angeli hanno invece la veste bianca)  due chiavi, una d’oro, l’altra d’argento, apre la porta, spiegando come ogni volta che una delle due non funziona, quell’uscio non si apre.

La più preziosa è quella d’oro, simbolo della potestà, ma l’altra, che simboleggia la scienza, esige troppa arte e ingegno per aprire, così da essere quella che scioglie il nodo del peccato.

L’angelo aggiunge che ha avuto le chiavi da Pietro, con la raccomandazione di essere piuttosto indulgente che severo. Quindi spinge l’uscio della porta sacra, avvertendo che chi si volga indietro ne uscirà subito fuori (vv. 106-132).

La porta si apre girando sui cardini massicci con un gran ruggito, (più forte di quello della rupe Tarpea quando Metello volle impedire a Cesare di impadronirsi del tesoro custodito nel tempio di Saturno) che si stempera nel dolce suono di un coro che canta il Te Deum, accompagnato da un suono come di organo (vv. 133-145).

[1] Vergine e martire (Siracusa 283 circa – 304 circa). Martirizzata sotto Diocleziano, il suo culto è molto antico, come testimonia la presenza del suo nome nel canone della messa fin dai tempi di Gregorio Magno. È invocata come protettrice della vista, forse dallo stesso suo nome (L., da luce) oppure da una leggenda secondo cui si sarebbe strappata gli occhi e li avrebbe inviati a Pascasio, innamorato di lei. Festa il 13 dicembre. In molte città e centri italiani, particolarmente dell’Emilia e del Veneto, il giorno di santa L. si usa fare doni ai bambini; nelle zone in cui si festeggia santa L. non c’è la tradizione dei regali natalizi. Come sappiamo è già intervenuta all’inizio del viaggio dantesco (cfr. If. II, 97), qui trasporta D. addormentato dalla valletta fiorita all’ingresso del Purgatorio vero e proprio, sotto forma di aquila, nel sogno del poeta. Per alcuni commentatori è simbolo della Grazia illuminante, per altri della giustizia, per altri ancora, infine della fede. D. la rivedrà nella gloria dell’Empireo (Pd. XXXIII 137).

[2] Posto alla custodia del purgatorio, rappresenta il sacerdote che confessa i peccati. Siede, col volto splendente e la spada sguainata – simbolo della giustizia divina – sulla soglia dura come il diamante, indice della fermezza nell’assegnazione della penitenza. I suoi piedi poggiano sull’ultimo gradino, che simboleggia l’amore ardente per Dio, di cui l’angelo si nutre. Sulla fronte di D. pentitosi, l’angelo traccia con la spada le sette P che significano i sette peccati da purgare nelle sette cornici. L’abito dell’angelo è dimesso perché umile è il sacerdote servo di Dio, ma le chiavi che le vesti nascondono sono d’argento e d’oro a rilevarne i poteri divini, quelli della scienza e della autorità.

[3] Il primo è bianco e simboleggia il primo stadio della confessione, cioè la contrizione; il secondo è violaceo e corrisponde alla confessio oris ed il terzo simboleggia la satisfactio operis: è rosso per l’ardore che occorre nel formare il proponimento di non peccare più.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Purgatorio – Canto V – Riassunto e commento

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Siamo nel secondo balzo dell’Antipurgatorio di cui il custode è Catone.

Il personaggi descritti nel canto che è drammatico mentre il precedente era, come abbiamo visto,  elegiaco sono: Jacopo del Cassero, Bonconte da Montefeltro, Pia dei Tolomei; ciascuna di queste anime narra la sua tragica morte, dovuta alla ferocia umana e all’anar­chia politica.

I poeti incontrano una terza schiera di peccatori: essa è costitui­ta dagli spiriti negligenti, che appunto morirono di morte violenta e si pentirono solo al momento di questo evento.

La pena è quella di girare affannosamente intorno al monte del Purgatorio cantando il Miserere; essa non è tuttavia determinata nel tempo perché forse varia secondo la natura più o meno grave dei peccati o secondo la minore o maggiore profondità del pentimento.

Il tema principale: la vanità e l’assurdità dell’odio e della vendetta.

I due poeti si sono allontanati dalla schiera dei negligenti, quando uno di questi si accorge che forse D. ha un corpo umano, e allora lo indica e avverte ad alta voce i compagni che D. non risplende come le anime del P.[1] e fa ombra a sinistra (i poeti danno ora le spalle ad oriente ed il sole li colpisce dalla parte destra, facendo ombra a sinistra). D. si gira a guardare, le anime si meravigliano (forse per il ricordo e per la speranza di tornare un poco alla loro vita mortale) (vv. 1-9).

  1. rallenta quindi il cammino. e V., per paura che possa verifi­carsi di nuovo un episodio come quello di Casella, lo rimprove­ra un po’ aspramen­te[2]: la sua mente non deve distrarsi, non deve importar­gli ciò che nel P. si dice e deve lasciar dire, deve stare saldo come una torre che non muove la cima per il vento; non deve accadere che un pensiero si sovrapponga ad un altro e ne indeboli­sca la forza: diversamente D. rischia di rimandare ad altro tempo il perseguimento dei suoi impegni e delle sue responsabilità (vv. 9-18).
  2. risponde che si affretta e arrossisce di vergogna per il rimprovero, di quel rossore che talvolta fa l’uomo degno di perdono (D. è cioè sinceramente pentito) (vv. 19-21).

I due poeti vedono avanzare lungo la costa del monte, di traverso, una schiera di anime che cantano il salmo della penitenza Miserere (Signore, abbi pietà di me: ciò aiuta la purificazione) un verso dopo l’altro; le anime si accorgono che D. non fa passare i raggi del sole e sostituiscono il salmo con una esclamazione di meraviglia lunga e rauca[3] (vv. 22-27).

Due anime in funzione di messaggeri corrono incontro ai due poeti e domandano di renderli edotti circa la loro condizione (forse queste due anime sono curiose perché hanno lasciato la terra da poco tempo).

  1. dice alle anime che possono tornare indietro e riferire che effettiva­mente D. è di carne; esse devono essere contente di questo fatto perché il poeta, se sarà accolto con cortesia, renderà loro la desiderata carità della preghiera (vv. 33-36).
  2. afferma che la velocità con cui le due anime tornarono a riferire verso l’alto alle altre è superiore sia a quella delle stelle cadenti, sia a quella dei lampi che attraver­sano le nubi d’agosto al tramonto[4]; con la stessa velocità le anime ricongiunte corrono sfrenatamente[5] verso i due poeti (vv. 37-42).
  3. invita D. ad ascoltare le preghiere delle anime ma a non rallentare il cammino, per evitare di perdere troppo tempo (vv. 42-45).

Le anime in coro si rivolgono al poeta (conformemente alla legge spirituale che è propria del Purgatorio), riconoscono che egli, ancor vivo, sta facendo un cammino di purificazione e gli chiedono di rallentare affinché possa eventualmente riconoscere qualcuno tra loro, per riportare notizie ai cari in terra; comprendono con dispiacere il fatto che D. non si fermi[6] e gli fanno presente di essere stati uccisi tutti violentemente e di essere stati peccatori fino all’ultimo momento[7], aggiungono poi però, ed è questo il messaggio principale non solo del canto ma di tutta la cantica, che nel momento della conversione hanno anche perdonato i loro uccisori e si sono pacificati con Dio[8] (vv. 46-57).

  1. risponde alle anime con estrema gentilezza: egli non ne riconosce alcuna ma, in nome di quella pace che egli sta cercando (ossia la pacificazione con sé stesso, con gli altri e con Dio), si dispone ad esaudire le richieste che le anime desiderano muovere (vv. 57-63).

Una delle anime, che poi si rivelerà Jacopo del Cassero[9], afferma di non avere bisogno di giuramenti per rassicurarsi circa la volontà di D. di pregare per le anime, perché la sola impossibilità potrà troncare una tale volontà.

Aggiunge poi di essere la prima a parlare tra le anime e supplica D., se mai si dovesse recare nella Marca anconeta­na, di pregare per lei in Fano, così che le persone in grazia di Dio possano accomunarsi a tale preghiera e Jacopo riesca così a purgarsi i suoi gravi peccati (vv. 64-72).

Jacopo afferma di essere originario di Fano ma di essersi procurato altrove le sue profonde ferite da cui sgorgò il sangue ove l’anima sua ha sede[10]; precisamente nel grembo di Anteno­re[11], cioè nel padovano, là dove Jacopo si credeva al sicuro dalle vendette del marchese Azzo VIII (vv. 73-76); là questi lo fece uccidere perché lo aveva in odio più di quanto al Cassero interes­sasse perseguire la giustizia, cioè oltre il limite del giusto[12] (vv. 77-78).

Jacopo aggiunge che se fosse fuggito verso Mira[13], quando fu raggiunto dai sicari ad Oriago, forse sarebbe ancora vivo; ma al contrario decise di correre verso la palude dove si impigliò nelle canne e nel sangue e cadde; e lì si vide cadere in una pozza di sangue[14](vv. 79-84).

Subito un altro personaggio augura a D. di poter raggiungere la cima del Purgatorio ed in cambio chiede la sua preghiera, dal momento che sua moglie Giovanna ed i suoi cari[15] non pregano per lui, ed è per questo che triste cammina tra le anime a testa bassa (v. 85-90). Si tratta di Buonconte di Montefeltro[16] a cui D. chiede immedia­ta­mente notizie circa la sua fine e la sua sepoltura, dal momento che nessuno ne conosce il luogo[17] (vv. 85-93).

L’anima risponde che giunse a piedi[18] e macchiando di sangue la pianura a causa di un foro in gola là dove il fiume Archiano[19],  affluente di sinistra, si confonde con l’Arno[20]; qui perse la parola e la vista ma spirò con il nome di Maria sulle labbra ed in quel luogo rimasero soltanto le sue spoglie mortali, il peso inerte della carne (vv. 94-102).

Subito si accese una disputa tra il demonio e l’angelo di Dio che prese l’anima di Buonconte; il demonio non potendo utilizzare gli stessi argomenti che aveva utilizzato con Guido di Montefeltro[21], ricorre all’ironia (che è una forma di protesta) affermando che un’anima non può salvarsi per una lacrimetta[22]. Ma perduta l’anima al demonio non rimane che infierire sul corpo (vv. 103-108)[23].

Buonconte che si affida alla sapienza di Dante gli ricorda, sintetizzando la teoria aristotelica della pioggia, che nell’aria si condensa in nubi quel vapore acqueo che appena sale nell’atmo­sfe­ra ed incontra le correnti di aria fredda, diventa acqua.

Aggiunge che è potere e fu volere del demonio muovere appunto le nubi per scatenare una tempesta[24]: sopraggiunta la notte infatti Satana coprì di nebbia la valle del Pratomagno e rese l’aria così satura di umidità che si trasformò in tanta acqua che la terra non riuscì ad assorbire; e appena tale acqua confluì nei torrenti arrivò così velocemente in Arno che nulla poté trattenerla (vv. 109-123).

Così l’Archiano trovò il corpo gelato di Buonconte sulla foce e lo sospinse in Arno con una violenza che sciolse la croce che il montefeltrino aveva formato sul suo petto quando lo vinse il dolore dei propri peccati; il povero corpo fu voltato e rivoltato sulle rive e sul fondo del fiume e alla fine coperto di detriti[25] (vv. 124-129).

A questo punto della narrazione si fa sentire la voce di una terza anima che chiede a D. di ricordarsi di lei quando ritornerà nel mondo; dice di chiamarsi Pia[26], di essere nata a Siena e di essere morta in Maremma, come sa bene[27] colui che prima di sposarla l’aveva inanellata con una gemma (Pia si è cioè fidanzata e sposata nella stessa cerimonia) (vv. 130-136)[28].

[1] Ciò ci è già stato detto da D. con riferimento a V. ai vv. 29-30 del III canto (<<di retro a quel condotto/ che speranza mi dava e facea lume>>) nel momento in cui i due stanno risalendo la montagna del  Purgatorio con grande difficoltà.

 [2] Alcuni commentatori, ad esempio il Tommaseo, hanno ritenuto sproporzionata la reazione di V. per un piccolo rallentamento (ma forse proprio i piccoli rallentamenti sono i più pericolosi e comunque la vicinanza dei pigri richiedeva un intervento alto e vibrante). Forse D. si riferisce in particolare a coloro che criticavano il suo atteggiamento politico e morale che gli aveva precluso il suo ritorno in Firenze. Non c’è dubbio che V. esorta il discepolo non soltanto a non distrarsi dal suo dovere religioso (la conquista del libero arbitrio) ma anche da quello terreno, morale-poitico: una volta presa una decisione, bisogna agire, checché ne dica la gente.

[3] D. infatti può portare notizie nel mondo ed incitare i mortali a pregare per loro.

[4] La similitudine delle stelle cadenti e delle nuvole trapassate dai lampi – ripresa poiché la scienza medievale (v. Brunetto Latini, Tresor III)  riferiva i due fenomeni ad una stessa causa, all’accensione dei vapori – indica il grande entusiasmo delle due anime, nell’impeto di un promettente colloquio.

[5] Sussiste un forte contrasto, certamente voluto, tra il comportamento dei pigri e queste anime, desiderose di ottenere suffragi.

[6] Nelle anime c’è un’ansia e un accoramento rappresentato con energia; sentono di avere diritti da difendere sulla loro memoria, ma più di tutto chiedono di non essere abbandonati alla loro pena.

[7] E’ questo un anticipio sulla narrazione dei casi partico­lari che avverrà in seguito.

[8] Le anime sono pacificate con Dio, e quindi anche con gli uomini e con sé stesse. Il male che gli altri ci fanno potremo veramente perdonarlo solo quando saremo consapevoli del male e che ci viene perdonato.

[9] Nato nel 1260 fu valente uomo d’arme e saggio politico: occupò molte cariche. Fu podestà di Bologna nel 1296 e, per la sua fama, fu chiamato podestà a Milano negli ultimi anni del Duecento.

Durante il periodo bolognese si inimicò il marchese Azzo VIII d’Este (che D. pone nell’Inferno come parricida: If XII 110-112) che, con odio irriducibile, mentre il Cassero si stava recando a Milano, passando dal territorio di Padova, lo fece assassinare da alcuni sicari ad Oriago sulle rive del Brenta. La sua salma venne riportata a Fano e seppellita nella chiesa di San Domenico. La sua notorietà come uomo di governo discendeva anche da Martino, l’avo giurecon­sul­to autore di numerose pubblica­zioni di diritto, professore all’Univer­sità di Bologna, e poi domenicano. D. conobbe  Jacopo in Toscana, allorché questi fu messo a capo delle truppe fanesi, intervenute a favore di Firenze nella battaglia di Campaldino contro gli Aretini, e il canto infatti, nel proseguimento dell’epi­sodio di Buonconte, s’intrattiene sui particolari della stessa battaglia.

[10] Per i contemporanei di D. l’anima aveva sede nel sangue; e ciò in base ad un versetto del Levitico (VIII, 14): <<Anima omnis carnis in sanguine est>>.

[11] Dal momento che Antenore è considerato il prototipo dei traditori politici non si può escludere che D. pensasse ad una possibile connivenza tra Estensi e Padovani.

[12] L’uccisione di Jacopo del Cassero fu uno degli scandali del secolo; le offese recate ad Azzo VIII sono nella Cronica di fra Salimbene.

[13] Un borgo tra Oriago e Padova.

[14] Le due visioni che D. ci presenta raccontano di uno Jacopo che ha orrore del proprio sangue; stesso discorso D. propone nel canto XXXIII dell’Inferno con la figura del conte Ugolino. Ma mentre il conte è disperato per l’ingiustizia patita dai suoi figli, Jacopo ritiene che i suoi peccati fossero gravi, gravi le offese recate e che quindi l’ira del marchese fosse giustificata; come Manfredi Jacopo ammette i suoi peccati, anche se la vendetta era stata sproporzionata. Jacopo non è risentito contro i suoi uccisori, è stato odiato e D. si compiace di vederlo salvo, di farlo persuasore di mitezza; anche se un po’ lo “usa” per condanna­re gli Estensi, come fa in altri luoghi della Commedia ed anche in altre opere.

[15] La figlia Manetessa ed il fratello Federico, podestà di Arezzo.

[16] Il tema della guerra non è interrotto; Buonconte comandò l’esercito di Arezzo contro Firenze, e tra Poppi e Bibbiena, l’11 giugno el 1289, avvenne la battaglia di Campaldino. Per D., Buonconte è un avversario. Ha sofferto rievocando Jacopo, alleato di Firenze ed ora passa nel campo nemico. Vincitori e vinti, trascorsa la fatalità del momento, tutti chiedono, in ragione del Cristianesimo e dei diritti umani, la pietà. Buonconte, ghibellino, figlio di Guido (cfr. Inf. XXVII, 19-132) morì durante la battaglia di Campaldino, in cui gli Aretini ebbero 1700 morti e duemila prigionieri; c’è chi, tra i critici, sostiene addirittura che fu ucciso da Dante stesso ed è per questo che D. lo pone tra i salvi, per una sorta quasi di rimorso; in realtà D. vuole soltanto correggere gli errati giudizi umani sul conto delle vittime, colpite oltre nel corpo, nella memoria; D. assicura che la misericordia divina non abbandona l’uomo. Ed infatti mentre Guido da Montefeltro viene portato nel girone dei frodatori dal demonio e San Francesco non può far niente, qui, come vedremo, l’Angelo di Dio strappa l’anima di Buonconte al male.

[17] La difficoltà di ritrovare il corpo di Buonconte dipese dal fatto che non fu ferito a Campaldino.

[18] E fece più di cinque chilometri!

[19] Che nasce anche da un torrente che scorre sopra l’eremo di Camaldoli.

[20] A Bibbiena dopo aver attraversato la pianura casentinese.

 [21] Assolvere non si può chi non si pente, né ci si può pentire e volere il peccato insieme (Inf. XXVII 118-120).

 [22] Come nell’episodio di Manfredi D. vuol sottolineare che l’ultima parola spetta nel giudizio a Dio: gli uomini – anche il Papa – e lo stesso diavolo nulla possono contro la sua giustizia severa e misericordiosa.

[23] Ed è inutile l’odio infernale, proprio come è inutile l’odio umano quando non sia strumento della giustizia divina; e sarà inutile oltreché assurda se ricongiunta allo scopo, anche la furia degli elementi naturali, nel proseguio. Complesso e inutile l’odio, semplici e sicure la bontà e la pietà.

[24] D. ricorda che dopo la battaglia di Campaldino ci fu un temporale ma accetta il parere che fu anche di San Tommaso, che i diavoli hanno il potere di suscitare la tempesta.

[25] Buonconte aveva sin qui sempre parlato come anima, distinguendo da sé il corpo; improvvisamente però con esso si identifica nel momento in cui dice “voltommi” e “mi coperse e mi cinse”; l’accoramento di Buonconte per la cieca e spropositata crudeltà degli uomini è in queste parole decisamente più esplicito.

[26] Pia della famiglia dei Tolomei di Siena, sarebbe andata sposa a Nello dei Pannocchieschi, podestà di Volterra e di Lucca, e poi sarebbe satata uccisa in circostanze misteriose: forse dallo stesso marito che la punì per l’infedeltà o che voleva risposarsi con Margherita degli Aldobrandeschi, a suo tempo sposa del conte Umberto di Santa Fiora.

[27] Se Pia non fu colpevole di essere uccisa questi versi potrebbero essere intesi nel senso che neppure ella sa la ragione della sua morte: la conosce solo il marito che le aveva dato la fede, simbolo e pegno dell’altra fede, a cui ella non è mai venuta meno.

[28] Pia ha partecipato al suo tragico dramma ma in lei non c’è alcun dissidio da colmare; per questo al “disfecemi” non fa seguito la narrazione la cronaca della fine; tre versi sono dedicati allo sposalizio e tre versi alla preghiera. Pia non ha rancore né biasimo per colui che l’ha uccisa, sente solo la malinconia di ricordare che colui che ha posto fine alla sua vita era suo marito. Lo ama ancora e le dispiace che sia stato malvagio. Ma forse si può dire anche di più: c’è in Pia un affetto che manca sia a Jacopo che a Buonconte che pure si erano dimostrati cortesi con D. (il primo non chiedendo giuramenti ed il secondo con l’augurio della purificazione); c’è quella sollecitudine tutta femminile, materna, per le piccole cose della vita, per la quale gli uomini restano sempre e a qualunque età, dei bambini per le donne che li amano (Pia chiede di essere ricordato dopo che D. si sarà riposato: “e riposato de la lunga via”). E si noti anche la sua discrezione nel chiedere suffragi: Pia come Buonconte è una “dimenticata”, non ha che D. per sperare in qualche preghiera, ma così come non accusa nessuno di averla uccisa non accusa nessuno (come fa Buonconte) di averla dimenticata.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Purgatorio – Canto III – Sintesi e commento

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Ci troviamo sempre sulla spiaggia dell’Antipurgatorio di cui il custode è Catone.

Il personaggio descritto nel canto è Manfredi.

I peccatori sono gli spiriti contumaci, che hanno come pena quella di rimanere nell’Antipurgatorio trenta volte il tempo che vissero nella scomunica.

Il tema principale è quello dell’apoteosi del perdono, ma anche quello della insufficienza della ragione umana, seppur insosti­tui­bile come guida dell’uomo, a penetrare i grandi misteri.

I poeti si affrettano verso il monte, D. sa che deve salire per purificarsi ma non può far a meno di stringersi a Virgilio che rappresenta la ragione, senza la quale non avrebbe potuto né intraprendere né continuare il cammino (vv. 1-6).

A D. sembra che V. sia contrito per essersi lasciato sviare dal canto di Casella, per aver abbandonato per un attimo la sua funzione di maestro e di guida; e nonostante che i rimproveri di Catone non riguardassero i due poeti, ma le anime, D. sottolinea che la contrizione è più forte, anche per un lieve peccato, laddove la coscienza è pura (vv. 6-9).

Quando V. rallenta il passo, ed il suo movimento si fa “decoro­so” (onesto, secondo gli insegnamenti del tempo), cioè riprende appieno la sua dignità dopo il “picciol fallo”, Dante abbandona il cruccio relativo al rimprovero di Catone ed il ricordo dell’a­mico Casella, e rinfranca­to si rivolge ad altro oggetto: indiriz­za lo sguardo verso il monte (vv. 9-15).

 I raggi del sole colpiscono il dorso di D. ed il poeta si turba nel vedere solo davanti a sé la terra oscurata dalla propria ombra; teme di essere stato abbandonato da Virgilio, perché non sa che il corpo aereo di V. non può fare ombra (vv. 16-21).

Virgilio lo conforta e gli chiede come mai abbia tanta paura di essere abbandonato; che sul suo corpo, ove in vita si proiettava l’ombra, è ora l’ora del tramonto[1] (vv. 22-27).

Poi V. aggiunge che se davanti a lui non c’è ombra D. non si deve meravigliare più di quanto si meraviglia nel vedere che i diversi strati dell’atmosfera fanno passare i raggi: i corpi dei purganti possiedono la stessa “materia”[2] dei cieli.

V. gli enuncia poi la natura misteriosa delle ombre, anche se a rigore, dopo l’episodio di Casella, non ce ne sarebbe bisogno: la Virtù divina ha disposto che, sebbene aerei, i corpi dei purganti sopportino tormenti, caldo e gelo, ma non vuole che i mortali sappiano come ciò avviene[3] (vv. 28-33).

È pazzo (o sciocco) colui che tenti di ripercorrere con la ragione la via infinita che segue Dio, uno e trino, cioè i misteri divini[4]: se la ragione fosse in grado di conoscere i misteri, non ci sarebbe stato bisogno che Cristo, seconda persona della Trinità, fosse nato da Maria per rivelarcela: l’uomo si deve accontentare di conoscere il quia, cioè che le cose sono[5] (vv. 37-39).

Non contano le capacità umane per raggiungere il mistero ed anzi chi è più dotato, più soffre nel constatare il suo desiderio e la sua impotenza; addirittura il desiderio di conoscenza, in quanto non appagato, è dato come pena mortale a coloro che dimorano nel Limbo (vv. 40-42)[6]: V. fa riferimento ad una tripartizione di delusi, Aristotele[7], Platone[8] e a molti altri (V. allude a sé stesso) e a questo punto china la fronte turbato e non proferi­sce più parola alcuna (vv. 43-45).

Giungono ai piedi del monte e si rendono conto che in quel punto è impossibile salire: il territorio tra Lerici e Nizza, allora senza strade e con scogliere impervie, è una scala acces­sibile e aperta, in confronto alla montagna del Purgatorio (vv. 46-51); si arrestano ed intanto V. medita il da farsi[9]: si chiede da che parte la montagna è meno ripida che possa salirvi chi non ha le ali (vv. 52-54).

Mentre V. riflette e D. guarda in alto, da sinistra giunge una schiera di anime che, colpite da scomunica, si pentirono in morte e quindi morirono senza essere riconciliate con la chiesa[10]; esse procedono in senso contrario a D. e V., lentissimamente[11] perché non hanno alcuna ragione di affrettarsi visto il tempo che devono rimanere sulla spiaggia (v. 55-60);

D. considera la prudenza di Virgilio come atto di incertezza e gli propone di chiedere quale sia il giusto cammino alle anime (vv. 61-62); V. con fare rassegnato (o rasserenato) propone a D. di andare verso coloro che si muovono lentamente e di rafforzare la sua speranza di aver consiglio da quelle anime (vv. 63-66);

V. e D. hanno fatto mille passi, ma le anime che costeggiano la parte più bassa del Purgatorio, sono ancora lontane un lancio di pietra; eppure si addossano alla roccia, l’una sull’altra, dubbiose e timorose (vv. 67-72)[12];

V. si rivolge a loro cercando di catturarne la benevolenza; chiede se possono indicare la strada per salire perché chi più sa, conosce il valore del tempo e non lo vuole sprecare (vv. 72-78).

Le anime sono paragonate ad un gregge di pecore, timide, semplici e quete[13] che, uscendo dall’ovile, seguono e si compor­tano come le prime di loro (<<della mandra fortunata[14]>>), senza sapere il perché; le prime della “mandria” infatti, appena si accorgono che il corpo di Dante, illuminato da sinistra, fa ombra verso la montagna, si ritraggono impaurite e coloro che le seguono fanno altrettanto, senza saperne la ragione (vv. 79-93).

V. spiega alle anime degne di salvezza che D. sta salendo la montagna per volere divino (perché solo il volere divino può consentire tale salita ad uomo mortale) ed esse gli mostrano col dorso delle mani la stessa direzione verso cui esse sono dirette ed aggiungono che i due poeti devono tornare indietro e camminare innanzi (vv. 94-102).

Qui si situa il colloquio con il re siciliano Manfredi, inse­pol­to[15], che racconta la storia della sua salvezza e prega D. che solleciti suffragio di preghiere dalla figlia Costanza.

Una delle anime, bionda, bella e  di gentile aspetto ma con una ferita che divide un ciglio[16], chiede infatti a D. di girarsi verso di lui e di meditare per vedere se lo riconosce. Ma D. dopo averlo fissato intensamente, gli dichia­ra di non averlo visto mai (103-108).

L’anima allora si rivela per re Manfredi[17], nipote di Co­stan­za imperatrice (e quindi re legittimo)[18] e prega il poeta, quando sarà torna­to nel mondo di annunciare alla figlia Costan­za[19] la sua salva­zione, anche se sulla terra si dice altrimenti (vv. 109-117).

Manfredi dichiara poi di essersi pentito in punto di morte[20], dopo essere stato colpito al ciglio ed al petto, e nonostante gli orrendi peccati, di essere stato perdonato da Dio nella sua infinita misericordia[21](vv. 118-123).

Ma i suoi avversari[22], non conoscendo la misericordia di Dio e l’inutilità dell’odio umano, hanno infierito sui suoi poveri resti, che, disseppelliti dal ponte di Benevento sul fiume Calore, dove Carlo d’Angiò li aveva posti sotto a delle pietre, vennero sparsi dal Cardinale di Cosenza, con una cerimonia religiosa, con i ceri spenti e capovolti  all’in­giù, al di là dei confini del regno, lungo il fiume Verde (nel Medioevo Liri, ora Garigliano) (vv. 124-132).

M. aggiunge che nonostante gli anatemi ecclesiastici[23] l’amor eterno è stato più forte: anche la scomunica ecclesiastica si paga, con un’attesa prima di cominciare l’espiazione, uguale a trenta volte il periodo vissuto in contumacia con la Chiesa, attesa che però si abbrevia se i vivi pregano (vv. 133-141).

D. dovrà rivelare a Costanza sia che Manfredi è salvo, sia che, nonostante il divieto di entrare in Purgatorio prima di un certo tempo, con la sua preghiera ella può abbreviare l’attesa nell’Antipurga­torio (vv. 142-145).

[1]  A Napoli dove la salma di Virgilio è stata trasportata da Brindisi, siamo infatti tra le 15 e le 18, in quanto l’Italia è a 45° rispetto a Gerusalemme.

[2] Nella concezione medioevale i cieli sono formati dalla quinta essenza che fa passare i raggi: le altre essenze sono la terra, il fuoco e l’aria e l’acqua.

[3] D. ritorna sulla natura delle ombre per invitare agli uomini ad accontentarsi di quelle che sono le cose senza volerne indagare il perché.

[4] Ed infatti lo stesso Manfredi che le gerarchie ecclesia­sti­che ritenevano dannato perché scomunicato, si è invece salva­to.

[5] E’ la dimostrazione a posteriori fondata, come nel caso del mistero trinitario, sull’autorità del Dio rivelante. Dagli effetti, se Dio ci aiuta, possiamo conoscere l’esistenza dell’Es­sere necessario.

[6] Si tratta della pena della saggezza filosofica senza fede, il “lutto” della ragione, la crisi sublime della civiltà antica.

[7] Che proponeva una filosofia dell’essere partendo dalla cognizione delle cose sensibili per arrivare all’idea metafisica.

[8] Che si fondava sulle idee reali sussistenti, ed esempla­ri, fuori dalla nostra mente, per arrivare alla spiegazione della vera scienza.

[9] L’incertezza rispecchia l’insufficienza della ragione a condurre alla salvezza.

[10] Esse devono stare nell’Antipurgatorio trenta volte il tempo che passarono in stato di scomunica. Mentre i ritardatari semplici stanno sulla Montagna sebbene al di fuori della porta del Purgato­rio, gli scomunicati sono confinati sulla spiaggia dell’isola del Purgatorio.

[11] La lentezza è sinonimo del ritardo nel pentimento.

[12] Vedendo i due poeti procedere nella direzione  opposta alla loro, fatto evidentemente insolito, e con passo assai più svelto e deciso, le anime si fermano perplesse, addossandosi allaroccia, <<come per dar libero passo>>, e stringendosi l’una all’altra.

[13] Gli scomunicati sono contenti perché in vita non hanno seguito le leggi di Dio ed hanno rifiutato la guida del Pastore che li ha espulsi, ma ora vi sono rientrate; ogni singolo è lieto di confondersi con tutti gli altri nella legge di Dio; vissero in guerra ed ora sono quete, furono superbi ed ora sono umili. Solo qui tuttavia il poeta guarda con benevolenza al comportamen­to delle pecore: nel Convivio le pecore sono coloro che di­sprezzano il volgare, seguendo ciecamente l’opinione altrui; mentre nel Paradiso (V, 80) sono pecore coloro che si comportano in modo leggero in materia di voti. Si tratta comunque di “pecore speciali” perché sono “pudica in faccia e ne l’andare onesta”, portamenti questi che sono degli uomini superiori e che D. come abbiamo già visto attribuisce a Virgilio (v. 10-11).

 [14] Gli scomunicati che si salvano, come D. tiene ad osserva­re, sono molti.

[15] Perché gli scomunicati non potevano essere sepolti in terra consacrata.

[16]Così viene descritto anche Rolando nella Chanson de Roland e Davide nella Bibbia.

[17]Insieme a Federico II è per D. l’ultimo grande principe italiano­ (De Vulgari Eloquentia I, XII 4), cortese e valoroso: essi furono i promotori della poesia in volgare. Figlio naturale appunto di Federico II e di Bianca Lancia di Monferrato, nacque intorno al 1232 e morì nel 1266 e fu sia antagonista dell’Impero che del Papa. Compiuti gli studi a Bologna e a Parigi, alla morte del padre (1250) divenne principe di Taranto e reggente del regno di Sicilia e dell’Italia meridio­nale, fino a che non giunse dalla Germania (1250), il figlio legittimo di Federico II, Corrado IV, già imperatore d’Italia e di Germania, per assumere la corona. Manfredi chiese quindi aiuto agli Aragonesi ed in particolare al futuro Pietro III d’Aragona cui concesse la Figlia Costanza. Morto Corrado IV (1254) lasciando la tutela del figlioletto Corradino al tedesco Bertoldo di Hohenburg, Manfredi tentò di ottenere il riconoscimento di Corradino (e con ciò della propria posizione) da papa Alessandro IV, ma di fronte all’ostilità del pontefice si ritirò a Lucera (1254) in modo da disporre del tesoro degli Svevi e delle fedeli truppe saracene e mosse una guerra di tre anni contro il legato pontificio riconquistando tutto il regno. Fatta diffondere ad arte la voce della morte di Corradino fu incoronato re di Napoli e di Sicilia a Palermo nel 1258. Il papa Innocenzo IV, tutore di Corradino, lo scomunicò e la lotta proseguì sotto gli altri due papi Ales­san­dro IV e Urbano IV che a loro volta lo scomunicarono, anche per la sua condotta immorale (fu infatti epicureo, miscredente e nemico della Chiesa, ma anche colto, appassionato di poesia e di scien­za). Per ampliare il suo dominio durante le discordie cittadine italiane, interven­ne a favore dei ghibellini di Toscana (rese possibile la sconfitta di Montaper­ti del 1260 ed anche l’esilio della casata degli Alaghieri) e nella Padania sbaragliò a Cassano d’Adda (1259) una lega di signori e comuni capeggiata da Ezzelino da Romano, signore di Treviso;  finché la sua politica non urtò con gli interessi della Chiesa (Roma era passata infatti dalla parte di Manfredi) con la politica angioina; a questo punto Urbano IV(1261-64), papa francese di nascita ed in seguito Clemente IV (1265-68), invitarono il fratello del re di Francia, Carlo d’Angiò (che D. salva in PG. VII, 113), ad occupa­re il regno di Manfredi. Carlo d’Angiò giunse a Roma con il finanziamento dei banchieri fiorentini e venne incoronato re di Napoli il 28 febbraio 1265. Manfre­di fu costret­to a guerra difensiva ed accettò battaglia presso Benevento, nella pianura di S. Maria di Grandella il 26 febbraio 1266. I soldati saraceni e alemannni di Manfredi furono sgominati e Manfredi morì con le armi in pugno. Il suo cadavere fu ricoperto con un cumulo di pietre, fu disse­polto per ordine del Vescovo di Cosenza ed i resti furono sparsi oltre il fiume Liri.

[18] Si tratta di Costanza figlia di Ruggiero d’Altavilla re di Sicilia e di Beatrice  dei conti di Rhetel, ultima dei Norman­ni in Sicilia (nasce nel 1146 e muore nel 1198); dopo essere stata suora fino a trent’anni divenne moglie di Arrigo VI (figlio di Federigo Barbarossa) nel 1186 e madre di Federico II; D. la glorifi­ca nel cielo della Luna del Paradiso insieme a Piccarda Donati. D. non cita quest’ultimo perché è un eretico e quindi danna­to.

­[19] Moglie di Pietro III d’Aragona e madre di Alfonso re di Aragona, Giacomo di Sicilia e Federico re di Aragona (succede ad Alfonso), visse fino al 1302.

 [20] Su questo ci sono diverse leggende nel Duecento, ad esempio la storia narrata da Fra Jacopo d’Acqui nell’Imago Mundi, in cui un ossesso riferisce le ultime parole del re svevo: “Deus propitius esto mihi peccatori”; forse D. conosceva un libro sulla vita di Aristotele (Liber de pomo sive de Morte Aristotelis) per cui M. aveva scritto nella prefazione che per raggiungere la perfezione l’uomo non deve contare sulla giustizia terrena, ma solo sulla misericordia divina, oppure D. si rifece alle ammis­sioni degli stessi cronisti guelfi o al fatto che lo stesso Federico II si era convertito in punto di morte.

 [21] L’immagine sembra tratta dalla parabola del Figliol prodigo o dai crocifissi trecenteschi; M. ha a sua volta perdona­to i suoi nemici.

[22]Il cardinale Bartolomeo Pignatelli, arcivescovo di Cosenza (1254-1266) aveva trattato con papa Clemente IV e Carlo d’Angiò per la spedizione contro Manfredi. Ora come un cacciatore viene incitato dal pontefice a porre in esecuzione le norme di diritto canonico che negavano agli scomunicati la sepoltura.

[23]Con la bolla del 1259 M. fu scomunicato per l’assassinio di Borello d’Anglona, la violazione di fedeltà alla Chiesa, l’alleanza con i saraceni, per aver osato essersi fatto incorona­re re di Sicilia, per aver invaso la Marca Anconitana.

Introduzione al Purgatorio

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L’idea di purgatorio è piuttosto recente nella storia del pensiero occidentale.

Infatti il mondo antico aveva immaginato un regno dei morti in cui i rei, relegati nel Tartaro, fossero distinti dai suicidi o dalle anime dei beati che, nei Campi Elisi, attendevano di reincarnarsi in una nuova vita, mentre le anime di coloro che non avessero avuto esequie, si raccoglievano nel vestibolo.

Il VI libro dell’Eneide virgiliana ci offre un quadro esauriente dell’oltremondo pagano.

L’idea di un focum purgatorium compare nei primi secoli dell’era cristiana: il filosofo Beda il Venerabile (672-735) per primo immagina un luogo di purgazione.

Il concetto si definisce dopo il XII secolo, grazie ai contributi di san Bernardo di Chiaravalle, Pier Lombardo (Sentenze, 1155-1157), papa Innocenzo III, Tommaso di Chobhan (Somma dei confessori, 1215 ca), il monaco cistercense H (Purgatorio di san Patrizio, XII sec.), Guglielmo d’Alvernia (1180-1249).

Nel XIII secolo grandi teologi come sant’Alberto Magno, san Tommaso d’Aquino, san Bonaventura da Bagnoregio sanciscono la credenza di un luogo dove le anime, non più vagabonde, possano purificarsi dei peccati e ascendere ai cieli perfettamente riconciliate con Dio.

Il Concilio di Lione del 1274 ne costituisce la registrazione ufficiale della Chiesa, mentre proprio il giubileo del 1300, indetto da papa Bonifacio VIII, diffonde presso tutta la comunità cristiana la conoscenza del valore dei suffragi.

Storicamente possiamo collegare la nascita dell’idea di purgatorio, come nota lo studioso Jacques Le Goff (La nascita del Purgatorio, Torino, 1982), all’affermazione della borghesia come classe sociale intermedia fra i potenti (chierici e cavalieri) e la massa dei contadini e della plebe: essa, infatti, introduce nella mentalità occidentale una nuova prospettiva che sfuma il divario fra nobili e plebe, mediando fra coloro che alla ricchezza assommano il potere e quanti si vedano negate entrambi.

Dante non pone il Purgatorio sotto terra come aveva fatto Virgilio ma lo descrive all’aria aperta, certamente per creare anche paesisti­camente la differenza con l’Inferno.

Immagina quindi un isola nell’oceano della sfera australe e su questa isola un monte altissimo (simmetrico alla voragine dell’Inferno) con la punta smussata.

La caduta di Lucifero ha infatti causato il ritrarsi delle terre che sono sbucate nell’emisfero australe, generando il monte dell’espiazione che sorge circondato dal mare.

Il purgatorio finirà con il giudizio universale, quando il mondo terreno, scomparendo, non genererà più peccatori.

Il monte è circondato da una spiaggia che corrisponde al   vestibolo infernale.

Dalle foci del Tevere l’Angelo nocchiero trasporta le anime che sono destinate all’espiazione e alla redenzione sino a detta spiaggia che, insieme alla prima parte del monte, costituisce l’Anti­purgatorio (sotto la sorveglianza di Catone Uticense, simbolo del desiderio umano di libertà dal peccato) dove stanno:

a)     coloro che si pentirono quando non avevano più la possibilità di continuare a peccare[1] e pertanto devono attendere un tempo più o meno lungo per essere ammessi ad espiare (invenzione dantesca);

b)    gli scomunicati;

c)    i principi giusti, ma negligenti nelle cure religiose.

La seconda parte del monte divisa in sette cornici (per ogni vizio capitale o peccato mortale) costituisce il vero e proprio Purgato­rio a cui si accede attraverso la porta del Purgatorio, custodita dall’Angelo confessore. Egli apre una pesante porta con due chiavi, secondo un rito che configura la confessione: tutto l’itinerario di Dante costellato infatti di riti, preghiere, gesti di espiazione che sottolineano i momenti più importanti della liturgia cristiana e il procedimento spirituale che conduce alla coscienza di sé.

Come i dannati sono divisi nelle tre categorie degli incontinenti, violenti e fraudolenti, così i peccati degli espianti sono originati da tre cause fondamentali, che corrispondono (vv. Pg XVII) alla mancanza di amore verso il prossimo (vizi di superbia[2] nella prima cornice, di invidia[3] nella seconda, iracondia[4] nella terza), alla mancanza di amore verso Dio (accidia[5] nella quarta cornice), al troppo amore per i beni terreni (avari e prodighi[6] nella quinta cornice, golosi[7] nella sesta, lussuriosi[8] nella settima).

Ogni cornice è custodita da uno o più angeli: essi impersonano la pace (XVII), la misericordia (XVII), la sollecitudine (XVIII-XIX), la giustizia (XIX-XX-XXI-XXII), l’astinenza (XXII-XXIII-XIV), la castità (XXV-XXVI-XVII), la carità (XXVII).

Ognuno angelo cancella una delle sette P, incise sulla fronte di Dante dall’angelo guardiano della porta del purgatorio.

Nell’ambito di ogni cornice, uno o più personaggi incontrano Dante e discorrono con lui.

Fra i molti troviamo un papa, Adriano V, e due re, Ugo Capeto e Manfredi. Ma ci sono maestri di poesia, il Guinizelli e Arnaldo Daniello; amici e poeti, da Casella a Bonaggiunta, da Belacqua a Forese Donati.

Ovunque Dante raccoglie preghiere, notizie, o profezie: ma per una terra distaccata, e a un tempo presente come ineliminabile oggetto di passioni, di riflessioni, di speranze.

Gli espianti, a differenza dei dannati che restano fissati per l’eternità al luogo in cui devono pagare la loro colpa, percorrono tutte le cornici purgatoriali, fermandosi in ciascuna a seconda dell’intensità delle colpe.

L’espiazione implica, oltre alla pena fisica che risponde alla legge del contrappasso, anche momenti di riflessione e di pentimento: perciò le anime sentono voci o vedono scene che ricordano episodi di virtù premiata o di colpa punita.

In particolare in ogni cornice sono offerti con diverse modalità (tramite recitazione e grida e canti, o tramite sculture,  visioni) esempi di virtù e vizi.

In cima al monte, in una pianura è situato il paradiso terre­stre, perfettamen­te antipode di Gerusalemme[9].

Il paradiso terrestre,  è una foresta spessa e viva: corrisponde all’Eden biblico.

Qui vissero Adamo ed Eva prima del peccato originale; qui sarebbero vissuti gli uomini nelle generazioni e nel tempo, se non fosse stato consumato il peccato originale.

Qui si svolge una grande processione allegorica, e qui Beatrice scende, rimprovera Dante, e infine lo conforta e conduce con sé.

Qui, dopo che si è allontanata l’ultima visione drammatica, quella della Chiesa schiava del re di Francia, Dante, già purificato dal fiume Lete, può essere immerso da Matelda nel fiume della virtuosa ricordanza, l’Eunoè; e qui trovarsi, alla fine, “puro e disposto a salire alle stelle”.

Guide di Dante nel Purgatorio sono: Virgilio e, dalla quinta cornice, Stazio, ma il primo dilegua all’apparire di Beatrice, sul Paradiso terrestre. Cosi la ragione umana cede alla Verità rivelata.

Il viaggio attraverso il P. dura tre giorni: dal 10 aprile 1300, notte inoltrata, al 13 aprile mercoledì.

*.*.*.*

Il Purgatorio si distingue dall’Inferno anche per come i peccati, non valutati solo astrattamente, vengono considerati: nel secondo la distinzione tra di essi è capillare e si rifà a testi aristo­te­lici e giuridici; nel primo D. si rifà ai testi della Chiesa, seppure filtrati dalla dottrina tomistica; i dannati scontano infatti specifiche responsabilità (<<attuali>>) di cui non si sono pentiti.

Le anime purganti invece hanno cancellato con il pentimento e l’assoluzione il loro peccato (che quindi non necessita di tante descrizioni) e scontano qui soltanto la loro inclinazione al peccato.

Mentre il dannato sconta poi nell’inferno la sua colpa più grave, i penitenti espiano  nelle varie cornici tutte le loro impurità.

Il Purgatorio è ancora il regno di D., dove il poeta sa di dover tornare; mentre le anime dell’Inferno sono troppo basse per lui e quelle del Paradiso troppo alte.

Nel Purgatorio, in altre parole, Dante è tra i suoi pari, vede sé stesso, peccatore avviato alla salvezza.

Salvezza che è una conquista personale, un superamento faticoso del peccato che abbisogna di tempo, del tempo umano.

Ecco perché c’è nel Purgatorio non l’eternità delle altre due cantiche ma il recupero della dimensione temporale: gli espianti oscillano cioè tra il rimorso delle colpe passate e la certezza della salvezza; vivono di speranza che non è riservata ai dannati, né per opposte ragioni ai beati: quindi c’è sicuramente meno drammaticità rispetto all’Infer­no e maggiore abbandono al sogno, alle visioni, agli smemoramenti.

Il poeta recupera nel P. anche il paesaggio terrestre, il ricordo della sua giovinezza in Firenze, degli amici, di Beatri­ce.

I suoi sentimenti nei confronti dei purganti (che sono meno numerosi dei dannati) sono soltanto di dolore e reverenza, addirittura talvolta non parla del loro peccato (ad es. di Casella nel II canto o di Sordello nel IV), o non lo considera tale (ad es. Stazio), oppure se ne dichiara partecipe (ad es. con Forese nei canti XXII e XXIV); le anime stesse sono mansuete perché sono state perdonate da Dio ed hanno a loro volta perdona­to i fratelli.

Quanto alla lingua la cifra stilistica del Purgatorio è una “medietà” che, senza implicare uniformità, accosta il linguaggio a quello d’uso quotidiano: in tal modo evidenzia la misura, il senso del limite, l’autocoscienza illuminata che sono fondamentali per un vero rinnovamento nelle anime espianti. Così, anche se non mancano spunti di registro comico o termini” forti” (assai più frequenti nell’Inferno) come il «bordello» italiano del Canto VI o la «femmina balba» del Canto XIX o la «puttana sciolta» del XXXII, per lo più le espressioni propendono per una misura vagamente impregnata di elegia o di nostalgia.

Solo in taluni punti di eccezionale solennità il registro elevato compare a sottolineare un’ardita metafora astronomica (Canto II) o a proporre quei “neologismi danteschi” che appariranno frequenti in Paradiso.


 [1] In Pg XI 89-90 Oderisi da Gubbio dice:<< Di tal superbia qui si paga il fio: e ancor non sarei qui, se non fosse che, possendo peccare, mi volsi a Dio>>; v. anche in Pg XXIII 79-84 quanto afferma Forese Donati.

[2] I superbi avanzano lentamente gravati da enormi e pesanti massi.

[3] Gli invidiosi  recano il cilicio e hanno gli occhi cuciti.

[4] Gi iracondi sono avvolti da un denso e acre fumo poiché il loro amore peccò per troppo di vigore.

[5] Gli accidiosi sono colpevoli di amore difettoso per mancanza di vigore e sono quindi  costretti a correre affannosamente in atto di ansiosa sollecitudine.

[6] Stanno bocconi per terra, in dimensione animale, con le mani e i piedi legati.

[7] I golosi sono ridotti ad estrema magrezza dall’insaziata fame e dall’insaziata sete.

[8]  Sono avvolti dalle fiamme, siano essi lussuriosi carnali, siano essi sodomiti.

[9] Il Purgatorio sarebbe così diviso in dieci zone: spiag­gia, Antipurgatorio, sette gironi e Paradiso terrestre; così come l’Inferno (vestibolo + nove cerchi) e il Paradiso (dieci cieli).

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canti XIX-XX Sintesi

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XIX Canto

Nell’ottavo cerchio.

Nella terza bolgia i poeti trovano i Simoniaci, che hanno fatto commercio di cose sacre, confitti e capovolti entro piccoli pozzi e con le piante dei piedi accese di viva fiamma (vv. 1-30); vengono sprofondati più in basso nelle buche, man mano che sopraggiungono nuovi dannati.

Come in vita pensarono a riempire le loro borse, ora sono « imborsati» nelle buche; presi dai beni materiali, non sollevarono lo sguardo al cielo, ed ora sono infilati con la testa nella terra; rovesciarono la legge della Chiesa, e si trovano capovolti; calpestarono la fiamma dello Spirito Santo, che ora 1ambisce i loro piedi, a mo’ di un’aureola a rovescio, simbolo della loro dannazione eterna.

I poeti si fermano a parlare con Niccolò III[1], della famiglia Orsini, il quale profetizza la dannazione dei suoi successori, dice che egli cascherà più in basso quando il suo posto sarà preso da Bonifacio VIII[2] (1313), a cui succederà a sua volta Clemente V (1314)[3] (vv. 31-87).

Dopo l’invettiva di Dante contro i Papi Simoniaci, l’avarizia dei pontefici e la donazione di Costantino (vv. 88-120), i due riprendono il cammino e giungono al ponte della quarta bolgia (vv. 121-133).

XX Canto

 Nell’ottavo cerchio.

Nella quarta bolgia del cerchio ottavo i poeti vedono gli indovini ed i maghi, costretti a camminare lentamente con il viso stravolto sulla schiena tacendo e lagrimando (vv. 1-18).

In vita eccedettero nel parlare e ora devono tacere, corsero con la mente troppo in avanti e ora sono costretti a un passo lento e legato. Ma, soprattutto, volsero lo sguardo oltre il limite concesso agli umani e ora hanno il viso eternamente rivolto l’indietro.

Dante ne prova compassione e Virgilio lo rimprovera (vv. 19-30). Appaiono Anfiarao[4], Tiresia[5], Arunta[6], Manto[7] (vv. 31-57); il maestro additando Manto tebana, dà la spiegazione dell’origine di Mantova (vv. 58-99) e nomina infine altri indovini: Euripilio[8], Michele Scotto[9], Guido Bonatti[10], Asdente[11] (vv. 100-130).


[1] Niccolò III (Roma 1210 ca. – 1280), papa (1277-1280), perseguì una politica di progressivo affrancamento dello Stato Pontificio dall’influenza dei sovrani stranieri. Nato da una ricca famiglia guelfa, al secolo Giovanni Gaetano Orsini, divenne cardinale nel 1244 e lavorò nella diplomazia pontificia. Fu eletto papa il 25 novembre 1277; durante il pontificato cercò di ostacolare le ambizioni del re di Sicilia Carlo I d’Angiò, non rinnovandogli l’incarico di senatore romano e vicario di Toscana. Nel 1278 indusse Rodolfo I d’Asburgo a consegnare i domini della provincia romagnola al papato, proteggendo in seguito con abilità le nuove acquisizioni. Nel 1279 Niccolò emanò una bolla per riunificare temporaneamente i francescani dopo una disputa interna riguardante l’interpretazione del concetto di povertà perfetta. Sostenitore di grandi opere pubbliche in Vaticano, fu il primo papa del suo secolo a vivere a Roma. Secondo il Villani ricevette denari da Giovanni da Procida per dare il suo assenso alla congiura contro Carlo d’Angiò. Dante mette in bocca a lui la profezia della dannazione di Bonifacio VIII e Clemente V, cosi da assegnare loro un posto nell’Inferno mentre sono ancora vivi

[2] Bonifacio VIII (papa) (Benedetto Caetani; Anagni ca. 1235-Roma 1303). Papa dal 1294, dopo l’abdicazione di Celestino V, lottò per affermare di fronte alle nuove forze politiche e alle nascenti nazionalità i princìpi della teocrazia medievale (bolla Unam sanctam, 1302). Tutti i suoi sforzi ebbero una conclusione drammatica  nell’oltraggio di Anagni che precipitò la sua fine: nel settembre 1303, poco prima di pronunciare la scomunica contro il re di Francia Filippo IV il Bello, fu catturato in Anagni dagli emissari di quest’ultimo, Guglielmo di Nogaret e Sciarra Colonna. Frutto di leggende lo schiaffo che Sciarra avrebbe dato al papa e da cui prese nome l’episodio (schiaffo di Anagni). Grande nemico di Dante, di cui provocò l’esilio, Bonifacio VIII fu accusato dal poeta di tutti i peggior vizi e dannato in anticipo tra i simoniaci, per essersi insediato sul trono papale con l’inganno e per avere perseguito una politica di potere e arricchimento personale.

[3] Clemente V (Villandraut, Gironda 1260 ca. – Roquemaure, Gard 1314), papa (1305-1314), il primo a risiedere nella città di Avignone, che rimase sede pontificia fino al 1377. Al secolo Bertrand de Got, studiò diritto canonico a Orléans e a Bologna. Dopo essere stato vescovo di Comminges (1295-1299) e arcivescovo di Bordeaux (1299-1305), fu eletto papa soprattutto grazie alle manovre di Filippo IV di Francia. La decisione di Clemente di vivere ad Avignone dal 1309, determinata dall’importanza della Francia in quel periodo e dai disordini politici romani, legò il pontefice al giogo di Filippo IV. Nel 1312 Filippo, che aveva bisogno di denaro per le guerre fiamminghe, costrinse Clemente a sopprimere l’ordine dei templari per impossessarsi delle loro ricchezze. Clemente si oppose però al tentativo del re di infliggere una condanna postuma per eresia a papa Bonifacio VIII, che a suo tempo gli si era opposto energicamente. Clemente fondò l’università di Perugia nel 1307 e istituì le cattedre di lingue orientali a Parigi e a Oxford. Le Constitutiones Clementinae, una raccolta di decretali, promulgate da Clemente nel 1311, sono di grande importanza per il diritto canonico. Dante lo pone tra i simoniaci perché si dice che comprò il pontificato appunto col favore di Filippo IV il Bello, promettendogli l’uso delle decime del reame per cinque anni. Inltre è visto in modo molto negativo perché con lui inizia la cattività avignonese e perché si oppose alla politica imperiale di Arrigo VII.

[4] Anfiarao. Fu uno dei sette re di Tebe. Prevedendo la propria fine in battaglia, si nascose, tradito dalla moglie, fu costretto alI’ assedio di Tebe, dove morì, inghiottito dalla terra che si spalancò sotto i suoi piedi.

[5] Tiresia. Indovino ebano. Ovidio narra che si mutò in femmina dopo aver colpito con una verga due serpenti in amore; solo sette anni più tardi riacquistò il suo sesso, colpendo di nuovo i due serpenti.

[6] Arunte. Indovino etrusco; predisse la vittoria di Cesare contro Pompeo.

[7] Manto. Indovina tebana, figlia di Tiresia. Sfuggì alla tirannide di Creonte, re di Tebe, dopo la morte del padre. Dopo aver vagabondato per diverse terre, si fermò nel luogo dove sarebbe sorta la città di Mantova, che da lei prese il nome.

[8] Euripilo. Greco, partecipò alla spedizione di Troia. lnsieme a Calcante indicò alla flotta greca il momento proprizio per saIpare dal porto di Aulide.

[9] Michele Scotto. Scozzese vissuto nella seconda metà del XIII secolo. Fu alla corte di Federico II come astrologo e filosofo.Tradusse dall’ arabo molte opere di Aristotele.

[10] Guido Bonatti. Vissuto nel 1200, forlivese, astrologo alla corte di Federico II e, più a lungo, a quella di Guido da Montefeltro.

[11] Asdente. Benvenuto da Parma, calzolaio e indovino vissuto nel 1200. Aveva denti grossi e disordinati, da cui l’ironico soprannome (asdente = senza denti).

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto XIII– Sintesi

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IN BREVE

(Ancora nel 7° cerchio) I poeti entrano nell’orri­da selva dei suicidi che non conservano aspetto umano ma sono rinchiusi nei tronchi degli alberi, le cui foglie sono straziate dalle arpie (vv. 1-22).

Dante sente dei gemiti senza capire da dove provengono e su consiglio di Virgilio spezza il ramoscello di un pruno, dal quale escono parole e sangue.

Chi parla è il cancelliere di Federico II, Pier delle Vigne, che esalta il suo signore, si difende dall’accusa di infedeltà, prega il poeta di riabilitarlo.

Spiega come le anime si chiudano nei tronchi e aggiunge che dopo il giudizio universale, i dannati riprenderanno il loro corpo che rimarrà appeso alle piante (vv. 22-108).

D. e V. vedono due cagne infernali che straziano due sperperatori delle loro sostanze: Lano da Siena e Jacopo da Sant’Andrea; quest’ultimo si appiatta dietro ad un cespuglio che  riveste l’anima di un anonimo suicida fiorentino (vv. 109-151).

*.*.*

Il tempo in cui si svolge l’azione è l’alba del 9 aprile 1300, sabato santo.

Il luogo è costituito dal cerchio VII, 2° girone: la selva dei suicidi.

È un bosco pauroso, fitto di alberi che non hanno fronde verdi, ma scure; tronchi e rami, di colore cupo, sono orribilmente contorti e irti di spine avvelenate. Il silenzio della selva è interrotto dai lamenti delle Arpie che fanno i loro nidi sugli alberi strani.

Le custodi del canto sono le Arpie.

I dannati puniti sono violenti contro se stessi: suicidi (nella persona) scialacquatori (nelle cose).

PENA E CONTRAPPASSO

I suicidi sono tramutati in piante secche, contorte e nodose.

Disprezzarono se stessi e il proprio corpo, straziandolo, ora sono relegati ad una forma di vita inferiore e sono straziati dalle Arpie.

Si perpetua in eterno la scissione avvenuta al momento del suicidio: l’ anima non potrà mai più riunirsi al corpo.

Gli scialacquatori sono inseguiti da cagne fameliche che azzannano e lacerano i loro corpi.

Come furono dilapidatori in vita, ora le loro membra vengono dilacerate e sparse dalle cagne; quindi si ricompongono per la ripresa eterna della caccia.

PERSONAGGI

Arpie. Figlie di Taumante e di Elettra, sono esseri mostruosi con volto di donna e corpo di uccello. Nell’Eneide (III, 209 sgg.) cacciarono i Troiani dalle Strofadi e predissero loro travagli e sventure.

Dante prende spunto da Virgilio, rappresentandole quali esseri lugubri, dalle ali larghe, il ventre ricoperto di piume, che si cibano delle piante selvatiche in cui sono trasformati i dannati, facendo così strazio di loro.

Pier della Vigna. Nato a Capua alla fine del XII secolo, da famiglia umile, fu giurista e letterato. Studiò non senza difficoltà a Bologna e entrato alla corte di Federico II di Svevia come notaio, si conquistò i favori dell’imperatore, fino a diventarne il più fido consigliere.

Sospettato di alto tradimento, ingiustamente secondo Dante, nel 1248 fu imprigionato e accecato.

Morì suicida nel 1249 a Pisa o forse nel castello di San Miniato.

Fu famoso anche per le sue epistole latine, considerate a lungo quale perfetto modello di arte rettorica; e per alcune canzoni e sonetti in volgare, secondo la maniera della scuola Siciliana (v. in letteratura italiana).

A Dante fu certamente simpatico per la lotta accanita che ebbe a combattere per il potere laico contro le pretese ecclesiastiche.

Lano da Siena. Forse Ercolano dei Maconi, fu grande scialacquatore e appartenne, secondo Boccaccio, alla brigata spendereccia di cui parla Dante nel XXIX dell’Inferno. Morì nella battaglia svoltasi tra Senesi e Aretini alla Pieve del Toppo nel 1287.

Giacomo da Sant’ Andrea, presso Padova. Figlio di Oderico da Monselice, fu al seguito di Federico II nel 1237.

Morì due anni dopo, ucciso forse da Ezzelino III. Aveva fama di grande scialacquatore.

Il suicida fiorentino. Non se ne conosce l’identità. Alcuni commentatori dicono che si tratti di Lotto degli Agli, altri lo identificano con Rocco dei Mozzi. Numerosi, comunque, secondo le cronache del tempo, furono i casi di suicidio in Firenze nella seconda metà del XIII secolo.

ELEMENTI PRINCIPALI

 

l ) La figura di Pier della Vigna. Protagonista del canto, Pier della Vigna è l’uomo di corte, ma anche il letterato e il poeta fedele al suo signore: Dante lo riabilita alla memoria dei contemporanei, cancellando in lui ogni sospetto di tradimento e presentandolo come personaggio con un alto senso della propria dignità e con una vigile coscienza della propria colpa.

Per quest’ultima caratteristica, per la coscienza di come il male può nascere e svilupparsi nell’anima fino a determinarne la dannazione, Piero può essere avvicinato a Francesca da Rimini (cfr. c. V).

2) Il mondo della corte. Traspare con viva evidenza dalle parole del ministro di Federico II quel mondo curiale che Dante aveva pure ammirato, per quei sentimenti di fedeltà, cortesia, dignità, che ispiravano l’uomo politico.

Ma qui Dante ne prende le distanze sottolineandone invece i confini mondani e i mali che lo caratterizzano: l’invidia, vizio della corte, gli inganni, le calunnie che distrussero Pier della Vigna e che lo portarono al peccato, accecandolo nell’eccessiva, limitata idolatria del proprio glorioso ufficio.

3) La selva dei suicidi. L’ambientazione suggestiva della selva con i suoi rami contorti e foschi – a rappresentare la contorta psicologia di quei dannati – e, di rimando, la sospensione e lo smarrimento che la stranezza del paesaggio provoca in Dante ben si accordano con la particolarità della condizione e del destino dei suicidi:

a) le loro anime sono imprigionate in una forma di vita inferiore: essi sono al contempo uomini e vegetali;

b) a differenza degli altri dannati dell’Inferno, dopo il giudizio universale non si riuniranno al corpo, che hanno disprezzato. Il corpo penzolerà dai rami; l’immagine è ancora più suggestiva, se si pensa che il suicida tipico è l’impiccato.

4) L’episodio degli scialacquatori. Le anime di Lano e di Giacomo braccate dalle cagne furiose irrompono all’improvviso in una scena statica: Dante sottolinea così la violenza della pena e della condanna che egli sancisce per gli scialacquatori.

Lo scempio che di loro si fa coinvolge anche gli altri dannati: è la prima volta che i peccatori si straziano così, fisicamente, tra di loro.

5) Il suicida fiorentino. L’anonimo suicida conterraneo di Dante rappresenta simbolicamente la città di Firenze, che perpetua il proprio suicidio nelle guerre civili di cui è teatro. È anche occasione per note di cronaca e per ricordare le leggendarie origini della città.

6) Il linguaggio del canto. Il linguaggio di tutto il canto è teso, stilisticamente ricercato, elaborato ad arte, prima per creare un clima di sospensione e inquietudine, poi per farsi linguaggio colto in un personaggio di corte, in un letterato, infine per esprimere la violenza di un’incursione.

Da notare, almeno:

a) la descrizione della selva che avviene tutta per antitesi [1](non fronda verde, ma di color fosco/, ecc.);

b) l’uso di vocaboli secchi, duri e aspri (tosco/fosco/bronchi/tronchi/schiante/scerpi, ecc.);

c) il v. 25: Cred’io ch’ei credette ch ‘io credessi, per cui si è parlato di barocco medievale, ma anche di una specie di <<correlativo oggettivo>> [2] della condizione di intricatezza e scissione dei suicidi nello stato d’animo di Dante personaggio, che, smarrito, non riesce più a comunicare direttamente col maestro Virgilio;

d) l’ esordio di Piero (vv. 55-57) in un linguaggio tutto erudito e retorico.

RIASSUNTO DEL TESTO

Il bosco dei suicidi. Le Arpie (vv. 1-21)

 

Il centauro Nesso non ha ancora attraversato il Flegetonte, che i due poeti si inoltrano in un bosco: le fronde degli alberi non sono verdi, ma di colore cupo, i rami non sono lisci e diritti, ma nodosi e contorti, non vi sono frutti, ma sterpi con spine velenose: le fiere selvagge, che evitano i luoghi coltivati tra Cecina e Corneto, nella Maremma toscana, non hanno come tane sterpaglie cosi folte e aspre.

In questo bosco infernale hanno i nidi le Arpie, che cacciarono i Troiani dalle isole Strofadi, profetizzando loro tristi sciagure.

Questi mostri hanno larghe ali, visi e colli umani, zampe con artigli, un gran ventre pennuto e dall’alto degli alberi emettono strani lamenti.

Virgilio spiega a Dante che si trovano nel secondo girone del VII cerchio e lo invita a guardarsi attorno attentamente: vedrà infatti cose incredibili a dirsi.

 

Il ramo spezzato (vv. 22-54)

 

Dante, sentendo levarsi da ogni parte tristi lamenti e non vedendo alcuna persona, si arresta smarrito.

Virgilio, pensando che egli creda che tali voci provengano da persone nascoste dietro gli alberi, lo invita a spezzare qualche ramo per rendersi conto di come stanno in realtà le cose.

Dante, allungando la mano, spezza un rametto da un grosso cespuglio spinoso, ma il tronco si macchia di sangue e, rimprovera il poeta di aver strappato, senza alcuna pietà, il ramo della pianta al cui interno è racchiusa l’anima di un dannato (“uomini fummo e ora siam fatti sterpi”).

Come un ramo verde quando viene bruciato da uno dei capi, lascia uscire gemendo gocce di umore e stride per l’aria che ne esce, cosi dal ramo spezzato, escono insieme gocce di sangue e parole, per cui Dante, spaventato, lo lascia cadere a terra.

Interviene a questo punto Virgilio in difesa del suo discepolo, dicendo all’anima che D. non avrebbe spezzato il ramo, se avesse saputo ciò che sarebbe successo e aggiunge di averlo spinto egli stesso a fare quel gesto, affinché potesse credere all’episodio di Polidoro.

Anzi, invita l’anima nascosta nel cespuglio a rivelarsi in modo che Dante, tornato nel mondo, possa far rivivere la sua memoria.

 

Pier della Vigna (vv. 55-78)

 

Il tronco, allettato da tale promessa, si rivela per colui che tenne le chiavi del cuore di Federico II: egli è infatti Pier della Vigna, segretario dell’imperatore.

Afferma, inoltre, di aver sempre tenuto fede al proprio incarico, fino a perdere per esso il sonno e la salute.

Ma l’invidia, rovina di tutti gli esseri umani, e in particolare delle corti, infiammò contro di lui gli animi di tutti i cortigiani che seppero mettergli contro l’imperatore Federico II.

In tal modo Pier della Vigna, sdegnato verso i calunniatori, credette col suicidio di sfuggire all’invidia e all’ira, compiendo un atto ingiusto verso sé stesso, innocente.

In nome delle radici del suo tronco, giura di non aver mai ingannato il suo signore, uomo degno di tanto amore e chiede a Dante, di riabilitare la sua memoria, quando tornerà nel mondo.

 

I suicidi: la loro pena e la loro sorte dopo il Giudizio Universale (vv. 79-108)

 

Virgilio invita Dante a porre qualche domanda a Pier della Vigna, ma il poeta è tanto commosso che non riesce a parlare e chiede al maestro di interrogarlo in sua vece.

Allora Virgilio domanda come facciano le anime dei suicidi a entrare nei rami nodosi e se mai alcuna ne sia uscita.

Pier della Vigna risponde in breve che, quando l’anima si stacca dal corpo, viene mandata da Minosse nel VII cerchio dove germoglia diventando prima un virgulto, poi una pianta silvestre, delle cui foglie si nutrono le Arpie, provocando ad essa grande sofferenza.

Il giorno del Giudizio Universale, come tutte le altre anime dei suicidi, esse andranno a riprendere il corpo, ma non potranno rivestirsene, poiché non è giusto riavere ciò che con violenza si è tolto a se stessi; i corpi saranno trascinati fino alla foresta e poi appesi all’albero in cui è racchiusa la loro anima.

 

Gli scialacquatori: Lano da Siena e Giacomo da S. Andrea (vv. 109-129)

 

I due poeti sono ancora rivolti al tronco, credendo che egli voglia ancora parlare, quando sono sorpresi da un rumore, simile a quello che si sente durante la caccia al cinghiale in un bosco.

Ecco che, dalla sinistra, giungono correndo due dannati nudi e graffiati, che nella fretta della fuga spezzano i grovigli dei rami.

Il primo dei due, Lano da Siena, invoca la morte di venirlo a salvare, mentre il secondo, Giacomo da S. Andrea, gli ricorda la battaglia della Pieve del Toppo, dove il primo morì, non essendo riuscito a correre così velocemente come ora, e si nasconde dietro un cespuglio.

Una moltitudine di nere cagne insegue i due fuggitivi, e si butta su quello che era nascosto e lo dilania, sbranandolo.

I1 suicida fiorentino (vv. 130-151)

Virgilio prende Dante per mano e lo porta vicino al cespuglio che piange a causa dei rami straziati per colpa di Giacomo da S. Andrea.

Il maestro gli domanda chi sia ed egli prega i due poeti di raccogliere ai piedi del tronco i rami spezzati e poi si palesa per un cittadino di Firenze, città che mutò il suo primo patrono Marte, con San Giovanni Battista, per cui Marte la perseguiterà sempre, e se non fosse che, sul ponte d’ Arno, rimane qualche segno di lui, i cittadini che ricostruirono la città dopo il passaggio di Attila[3], avrebbero fatto una fatica inutile.

Infine Lotto degli Agli (o forse Rocco dei Mozzi)[4] conferma ai due poeti di essersi impiccato in casa propria.

 


[1] Figura retorica che consiste nell’accostare parole o espressioni aventi significati contrari, perché dal loro contrasto risalti meglio ciò che si vuol dire.

[2] Fonemi correlativi sono quelli aventi in comune tutti i caratteri, tranne uno (p.e. la c dura e la g dura, che sono entrambe consonanti occlusive velari, ma l’una è sorda e l’altra è sonora). Per correlativo oggettivo si intende fenomeno correlativo che dà luogo a più proposizioni oggettive.

[3] Dante confonde Attila con il re longobardo Totila che durante la guerra greco-gotica (535-553) aveva assediato la città.

[4] Che si è impiccato perché come giudice aveva pronunciato una sentenza iniqua.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto IX – Sintesi

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ARGOMENTO IN BREVE

 Ancora nel 5° cerchio Dante è spaventato ma Virgilio lo rassicura (vv. 1-33) Sulla torre appaiono tre furie che chiedono a Medusa di impietrire Dante (vv. 34-63).

Uno spirito celeste interviene redarguendo i demoni ed apre con la verga la porta della città (vv. 64-105).

I due poeti entrano quindi nel 6° cerchio[1] ove sono puniti dentro sepolcri infuoca­ti gli eresiarchi (bestemmiato­ri, capi di una setta), gli ereti­ci, gli epicurei che non credettero nell’immor­talità dell’anima (vv. 106-133).

RIASSUNTO

1 – 33 PAURA DI DANTE  E CONFORTO DI VIRGILIO

Il pallore di D. spinge V. a nascondere maggiormente la sua preoccupazione per non accrescere nel discepolo i timori.

Si ferma un attimo porgendo l’orecchio per udire se si percepisce qualche rumore che preannunci l’aspettato aiuto, pronuncia tra sé e sé alcune parole reticenti, ma a Dante ne rivolge altre di conforto.

Questi impaurito chiede a Virgilio se alcuna mai delle anime del Limbo abbia percorso questa strada; V., che comprende il pensiero nascosto del discepolo, lo rassicura; conosce bene il cammino che già un’altra volta ha percorso per scendere, scongiurato da una maga, nel cerchio più basso, “per trarne un spirito”.

34 – 60 APPARIZIONE DELLE FURIE

Mentre ascolta le parole di conforto Dante è attratto improvvisamente dall’apparizione delle tre Furie sulla cima della torre arroventata: esse sono tinte di sangue ed hanno per capelli dei serpenti aggrovigliati.

Virgilio le indica a D.: Megera (che simboleggia la violenza del VII cerchio)  a sinistra, a destra Aletto (la frode di chi non si fida dell’VIII cerchio), nel centro Tesifone (la frode di chi si fida del IX cerchio).

Esse gridano e si graffiano il petto invocando la venuta di Medusa per impietrire l’ardito visitatore vivo.

Allora V. ordina a D. di chiudere gli occhi e di voltarsi avvertendolo che, se mai guardasse, vano sarebbe sperare nel ritorno: e non contento aggiunge ancora le sue mani per chiudere gli occhi al discepolo.

61 – 103 ARRIVO DEL MESSO CELESTE

Dante dopo essersi rivolto al lettore esortandolo ad aguzzar l’ingegno per cogliere il significato profondo del suo racconto, procede nella sua narrazione.

Un improvviso e spaventoso fracasso sulla palude annuncia l’avvento di qualcosa di straordinario.

Virgilio toglie le mani dagli occhi di D. e lo invita a guardare. Sta giungendo un messo celeste che passa lo Stige a piedi asciutti e dinnanzi al quale fuggono i dannati e i demoni: giunge alla porta e con una verga e  la spalanca.

Poi volgendosi ai demoni li rimprovera aspramente ricordando loro che non ci si può opporre al volere divino e infine, senza dire alcuna parola ai due poeti, se ne ritorna indietro.

104 – l33 DANTE E VIRGILIO ENTRANO NEL CERCHIO 6°

Allontanatosi il messo, D. e V. entrano nella città di Dite senza trovare resistenza.

I demoni, le Furie, tutto è sparito, non resta che la squallida solitudine del cerchio 6°’ che sembra un vasto e silenzioso cimitero.

Nell’aspra e nuda landa si aprono dei sepolcri arroventati: i coperchi sono alzati e si sentono i gemiti e i pianti dei dannati uscire dagli avelli. Chiestane spiegazione a V., D. viene a sapere che qui stanno gli eretici e prosegue il cammino tra le mura e le arche infuocate.


[1] I peccatori di questo cerchio si considerano a sé stanti in quanto non possono essere ricompresi nella tripartizione aristote­lica; difatti il peccato offende soltanto un dogma della religio­ne cattolica.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto VIII – Sintesi

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ARGOMENTO IN BREVE

Sempre nel quinto cerchio Flegias traghetta con la sua barca i poeti; Filippo Argenti in risposta alle sprezzanti parole di D. vorrebbe rovesciare la barca ma è respinto da Virgilio che si compiace per l’atteggiamento di Dante (vv. 1-63).

Flegias approda davanti alle mura di Dite ma i diavoli non vogliono farli entrare e li scherniscono (64-130).

*.*.*

L’azione si svolge dopo la mezzanotte dell’8 aprile 1300, nelle prime ore antelucane del 9 aprile, sabato santo.

Siamo nel cerchio V, costituito dalla palude Stigia.  Il Custode è Flegias.

Ma l’azione si svolge anche presso le mura della città di Dite che racchiudono la parte più bassa dell’Inferno, e si presentano come le tipiche fortificazioni medievali, con fossati difensivi e torri di guardia.

I dannati puniti in questo canto sono sempre gli iracondi e accidiosi (cfr. c. VII).

– Per la pena e contrappasso cfr. c. VII.

PERSONAGGI

Flegias. Personaggio mitologico figlio di Ares (Marte) e Crise (figlia di Almo, a sua volta figlio di Eolo), re della Tessaglia,  e padre di Issione e Coronide; aveva tentato di appiccare il fuoco al tempio di Apollo a Delfi per vendetta contro il dio che prima gli aveva sedotto la figlia Coronide (mamma di Asclepio, dio della medicina) nel momento in cui aveva seguito il padre in un viaggio nel Peloponneso, e poi aveva ucciso la stessa Coronide dopo che quest’ultima lo aveva tradito. Apollo aveva poi sprofondato Flegias nel Tartaro.

È trasformato da Dante in figura demoniaca e irosa, custode appunto degli iracondi, nocchiero della barca su cui carica i dannati per sprofondarli poi nella palude, e qui funge da traghettatore per Dante e Virgilio fino alla sponda opposta della palude Stigia.

Filippo Argenti. Figura oscura, forse si tratta di Filippo de’ Cavicciuli degli Adimari, fiorentino contemporaneo di Dante, politicamente a lui avverso essendo di parte nera.

Secondo alcuni commenti antichi, avrebbe in una qualche occasione schiaffeggiato pubblicamente Dante[1].

ELEMENTI PRINCIPALI

1) L’incontro con Filippo Argenti. A questo oscuro personaggio fiorentino è affidato il compito di rappresentare l’intera schiera degli iracondi, e dallo sdegnato comportamento dello stesso poeta nei suoi confronti possiamo intuire quanto Filippo Argenti fosse stato esemplare e vivace esempio di tale vizio.

La sua ira si manifesta in due immagini: l’istintivo gesto con cui cerca di rovesciare la barca su cui si trovano Dante e Virgilio, e il suo rabbioso sbranarsi tra le urla degli altri dannati che gli danno addosso.

Dante riconosce e maledice con violenza Filippo Argenti, per cui l’episodio acquista emotività nel richiamarsi ad un’esperienza autobiografica; ma lo stesso particolare e anche motivo di encomio da parte di Virgilio nei confronti di Dante, poiché questi ha così dato prova di saper da solo come comportarsi verso gli spiriti dannati.

2) La vivacità del canto. Si tratta di un canto particolarmente ricco di movimento e situazioni: prima l’apparizione da lontano delle mura della città di Dite, poi il sopraggiungere del demone Flegias e l’attraversamento dello Stige sulla sua barca, quindi l’incontro con Filippo Argenti, il giungere sotto le mura di Dite, la visione dei diavoli lì arroccati, il dialogo tra Virgilio e loro, la paura e l’esitazione di Dante per la difficoltà di procedere, e infine l’annuncio dell’imminente arrivo di qualcuno, un personaggio destinato a risolvere la situazione.

3) La Città di Dite. La città di Dite, cioè di Lucifero, oppone qui le sue mura al viaggio di Dante, ostacolo per ora insormontabile.

Finora i cerchi visitati ospitavano dannati che peccarono per incontinenza, la meno grave delle cattive inclinazioni; invece Dite ospita le colpe piu gravi e abbiette, quelle cui concorse anche la ragione.

Qui dunque si può quasi dire che cominci il vero Inferno, cioè il luogo che ospita i veri nemici di Dio, e per questo qui Dante incontra il più duro ostacolo a procedere.

Dite è rappresentata come una tipica citta-fortezza medievale, con le mura intercalate da torri di guardia, con segnali luminosi da una torre all’altra, con le difese e gli sbarramenti difensivi, con i soldati in armi sugli spalti, con la porta sbarrata.

4) I diavoli. Il primo diavolo che si incontra nel canto e Flegias, traghettatore dello Stige, che si ripropone con la funzione che era stata già di Caronte (cfr. c. III); la sua perfida impazienza è delusa e mortificata da Virgilio.

A lui seguono i diavoli di custodia sulle mura di Dite, che oppongono forte resistenza ai due pellegrini: prima questi demoni li minacciano, poi in tutta risposta alle parole di Virgilio, corrono a sbarrare la porta mentre prima avevano lasciato aperti tutti gli accessi.

Comincia così la «commedia» dei diavoli, cioè la partecipazione sempre più attiva e varia di questi personaggi all’azione dell’opera.

Non vi è dubbio che in questo caso rappresentano l’opposizione che le colpe più gravi muovono al peccatore sulla via della conversione, e che non la ragione umana (Virgilio) ma soltanto un aiuto del cielo può debellare

5) La fisicità di Dante. Da notare l’insistenza di Dante nell’osservare come la barca di Flegias senta il peso del suo corpo e affondi maggiormente nell’acqua: il suo peso, la sua consistenza fisica, e segno del suo essere vivo, della sua differenza dai dannati, e quindi dell’assoluta eccezionalità della sua condizione.

RIASSUNTO

1-30 Prima di raggiungere la torre e le mura della città di Dite[2], mentre ancora si trovano sulla riva opposta della palude Stigia, Dante e Virgilio vedono due fiammelle accese sulla cima della torre predetta e scorgono un terzo lume, piu lontano e fioco, rispondere a quel segnale.

Dante chiede che significa tutto ciò, e Virgilio gli consiglia di pazientare, che presto lo vedrà da solo, se le nebbie della palude non lo nasconderanno[3].

Veloce come una freccia, ecco apparire una barca guidata dal diavolo Flegias che, convinto di avere a che fare con un’anima dannata, urla con feroce soddisfazione; ma Virgilio lo ammonisce: non serve gridare questa volta, essi staranno con lui solo il tempo di attraversare la palude.

Flegias, deluso, reprime l’ira, mentre Virgilio sale sulla barca e vi fa entrare anche Dante: solo allora 1’imbarcazione si abbassa per il peso e taglia il pelo dell’acqua più a fondo di quanto è solita fare.

31-63 Mentre la barca è in mezzo alla palude, ecco pararsi all’improvviso un dannato, tutto imbrattato di fango, che apostrofa Dante.

Il poeta gli chiede di rimando chi egli sia, ed alla risposta evasiva di lui («Vedi che sono uno condannato al pianto») lo minaccia, smascherandolo.

Allora l’iroso si avventa sulla barca, ma Virgilio lo blocca e si complimenta con Dante per la sua prontezza di giudizio: quella fu un’anima arrogante che non ha lasciato traccia di bontà nel ricordo di sé, come molti che nel mondo ora si ritengono grandi personaggi, per quell’inutile orgoglio staranno qui come i porci nel fango.

– Dante vorrebbe vedere il castigo di quel dannato: presto sara soddisfatto, lo rassicura Virgilio.

E, infatti, ecco gli altri dannati avventarsi su Filippo Argenti, mentre il Fiorentino prende a mordersi con ira.

64-108 Lasciato Filippo Argenti, Dante e colpito da un suono lontano di gemiti.

Virgilio lo informa che si stanno avvicinando alla città di Dite e Dante ne vede già le torri rosse come ferro rovente per il fuoco eterno che brucia all’interno.

Giunti dentro il fossato che circonda la fortezza infernale, Dante nota che anche le mura sembrano di ferro; dopo un lungo giro attorno al fossato, Flegias fa scendere i due viaggiatori davanti all’ingresso di Dite.

Ed ecco una folla di diavoli mostrarsi sulle mura, chiedendo con stizza chi sia quel vivo che osa entrare nel regno dei morti.

Virgilio fa segno di voler parlare loro in disparte. I diavoli accettano, ma solo lui potrà passare, l’altro dovrà tornarsene indietro da solo.

A quelle parole Dante, preso da terrore, supplica Virgilio di non abbandonarlo e di tornare insieme indietro, dato che gli si proibisce il passo.

Ma Virgilio lo rassicura, nessuno può vietare ciò che è voluto da Dio, gli chiede di aspettare lì e di riprendere fiducia.

109-129 Virgilio si allontana, lasciando Dante pieno di dubbi e timori.

Dante non può sentire ciò che il maestro dice, ma vede che in breve i diavoli si ritirano dentro le mura e chiudono le porte di Dite.

Virgilio torna indietro a capo chino, triste e sgomento; ma rivolto a Dante, lo rassicura di nuovo: riusciranno ad aver1a vinta, la tracotanza di quei demoni non è nuova, già la usarono contro Cristo che forzò la porta esterna dell’Inferno, ora spalancata.

Da quella porta sta già scendendo un essere tale che riuscirà ad aprire loro la porta della città.


[1] Molti commentatori si sono domandati la ragione del violento sdegno dell’Alighieri, il quale, già tanto pietoso verso Paolo e Francesca e verso Ciacco, diventa, come vedremo, ad un tratto crudele e inesorabile con l’Argenti. Dino Compagni (Cron. III, 8) ci fa sapere che gli Adimari furono tra i piu accaniti Guelfi Neri, che, nei tumulti del 1304, dettero fuoco alla loggia di Or’ San Michele, onde «arsono tutte le case erano intorno a quel luogo, e i fondachi di Calimala e tutte le botteghe erano intorno a Mercato Vecchio fino in Mercato Nuovo, e le case de’ Cavalcanti… che si disse arsono più che millenovecento magioni». L’Anonimo fiorentino, nel suo Commento all’Inferno, ci fa a sua volta appunto sapere che Filippo Argenti diede una volta uno schiaffo a Dante; e Benvenuto da Imola che gli Adimari (e piu propriamente Boccaccio degli Adimari, forse fratello di Filippo Argenti) trassero profitto dall’esilio di Dante per vendicarsi di antiche offese, e non solo ottennero dal Comune di occupare i beni del Poeta, ma si opposero sempre al suo ritorno in patria. Dante infine ci lascia comprendere che la radice del suo sdegno contro l’Argenti sta nello smisurato orgoglio di lui, che gli rese impossibile di lasciare un buon ricordo di sé.

Anche nel Paradiso (XVI, 115 sgg.) egli fara pronunziare dal bisavolo Cacciaguida, a proposito di questa stessa famiglia, ferme parole di biasimo e di riprensione. Gli Adimari dovettero dunque essere nemici politici e forse personali di Dante, e la loro irosa superbia rendeva ancor più sdegnoso, e, per cosi dire, rabbioso, lo scherno del poeta.

[2] Divinità infera dei Latini  (Dis pater), equiparato, per derivazione etrusca dal mito greco, a Plutone. I Romani lo consideravano fglio di Saturno e di Opi e marito di Proserpina; il culto di Dite deve quindi considerarsi molto antico.

[3] Si tratta di segnali luminosi che ricordano i segnali che nel Medioevo si solevano fare di notte dai castelli  o dalle terre in cui avveniva qualche novità: le due piccole fiamme (perché due erano Dante e Virgilio) avvertono la città di Dite che i due poeti si avvicinano, e l’altra fiamma fa cenno che l’avviso è stato inteso.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto VII – Sintesi

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L’azione si svolge alla mezzanotte tra l’8 e il 9 aprile 1300, venerdì e sabato santo nel cerchio IV, affollato più che altrove di dannati.

Al bordo esterno sgorga la sorgente d’acqua che ribollendo si riversa nel cerchio successivo. Il Custode del cerchio è  Pluto.

Si passa poi al cerchio V nella palude stigia: è costituita da acqua putrida e scura, melmosa. Il Custode è Flegias.

I dannati  del cerchio IV sono gli avari e i prodighi: sono coloro che non seppero usare con misura ed equilibrio i beni materiali. Divisi in due schiere, sono soprattutto uomini di Chiesa.

I dannati  del cerchio V sono gli iracondi e accidiosi. Sono puniti insieme, poiché l’accidia[1] è considerata una forma, un livello particolarmente cupo e introverso dell’ira.

PENA E CONTRAPPASSO

Gli avari e i prodighi sono costretti a girare attorno in due schiere distinte e in direzioni opposte rotolando enormi macigni col petto; si scontrano eternamente in un punto scambiandosi aspri insulti e quindi tornando indietro.

La loro fatica è  vana come in vita avevano vanamente accumulato o sperperato ricchezze.

Gli iracondi sono immersi nella palude, e si sbranano a vicenda con rabbia. Essi in vita furono vinti dal fumo dell’ira, e percossero e dilaniarono gli altri; ora stanno nel fumoso fango dello Stige, e si percuotono e dilaniano tra di loro.

Gli accidiosi sono completamente sommersi sotto il fango e mormorano continuamente la loro colpa e la loro pena: sono così costretti ad ingoiare fango, di loro si vedono solo le bolle in superficie.

Essi non seppero usare il tempo della vita terrena, né seppero far uso della parola o di altre facoltà umane; ora sono immersi totalmente nel fango ed è loro proibita la visione dell’aria, per cui possono solo lamentarsi gorgogliando.

PERSONAGGI

Pluto. Dio della ricchezza, figlio di Giasone e di Demetra. Era nato a Creta. Figurava inizialmente nel seguito di Demetra e di Persefone, sotto le sembianze di un bel giovane oppure d’un fanciullo che porta un corno dell’abbondanza.

Più tardi, con lo sviluppo della ricchezza mobiliare, Pluto si distaccò dal gruppo di Demetra[2] e diventò la personificazione della ricchezza in genere.

A lui è consacrata la forma sotto la quale interviene nella commedia d’Aristofane. Pluto è rappresentato dai comici (e dalla saggezza popolare) come cieco, poiché fa visita indifferentemente ai buoni come ai cattivi.

Secondo Aristofane, Zeus stesso avrebbe accecato Pluto, per impedirgli di ricompensare le persone dabbene e costringerlo così a favorire i cattivi. Ma siamo più nel campo della simbologia che del mito (Es. Teog. 969 55.; Diod. Sic. 5,49; Inno om. a Dem. 486. Aristof. Plut. passim.,).

Dante né fa un demone, con la tecnica collaudata di insistere su particolari realistici o grotteschi, come la voce chioccia o le enfiate labbia.

ELEMENTI PRINCIPALI

1) I dannati del quarto cerchio. Tra i dannati di questo cerchio degli avari e prodighi, Dante non riconosce nessuno. Al di là della spiegazione dottrinaria di Virgilio (essi furono ciechi alla conoscenza, cosi ora sono irriconoscibili), l’autore non cita alcun personaggio perché la sua condanna coinvolge l’intero organismo ecclesiastico, reo di una delle colpe più gravi, a giudizio di Dante: l’avarizia.

La Chiesa, in questo canto e nell’opera tutta, si è quindi macchiata del peccato maggiore, proprio quello simboleggiato nel canto I dalla lupa, la fiera che più delle altre costringe Dante a retrocedere dalla strada della salvezza.

2) Il concetto di Fortuna. La colpa degli avari e dei prodighi, che non seppero avere un rapporto giusto con i beni naturali, è occasione per inserire la questione dottrinaria sul concetto di Fortuna, che è anche una pausa, un respiro più lungo nella narrazione.

Dante qui modifica la concezione diffusa nel Medioevo ed ereditata dal mondo classico, trasformando la dea capricciosa[3] in una intelligenza celeste, in uno strumento della Provvidenza divina.

Così la ruota della Fortuna che cambia le sorti degli uomini e dei popoli diventa una sfera, al pari delle sfere celesti, e la dea è una delle intelligenze motrici dell’universo, quella che presiede ai destini umani e il cui mutevole e rapido agire e voluto da Dio.

Gli uomini non la possono contrastare, perché sarebbe vano qualsiasi tentativo di opporsi al sommo Fattore.

Questo è il monito che Dante, attraverso le parole di Virgilio, lancia alla presunzione umana, e originale è la collocazione, filosofico-teologica, di un concetto cosi squisitamente terreno.

3) La struttura del canto. Si tratta del primo canto in cui la struttura letteraria non corrisponde a quella topografica e figurativa, per cui ogni canto e occupato da un solo cerchio infernale.

Il settimo canto accoglie infatti il quarto e il quinto cerchio, e nel passaggio dall’uno all’altro si inserisce una pausa, che diventerà tipica, di carattere dottrinario (appunto la disquisizione sulla Fortuna).

Da notare, inoltre, che nel medesimo cerchio sono punite due categorie di peccatori, unite dalla correlazione della colpa per contrasto (avari/prodighi – iracondi/accidiosi).

RIASSUNTO

I-I5 Alla vista dei due poeti, Pluto, il demone custode del cerchio quarto, grida parole blasfeme.

Subito Virgilio interviene e, rassicurato Dante, zittisce il feroce mostro: il viaggio di Dante e voluto da Dio, là dove l’arcangelo[4] Michele vendicò la superbia degli angeli ribelli[5].

Pluto si accoscia sconfitto, come fanno le vele quando si spezza l’albero della nave.

16-66 Dante e Virgilio scendono nel quarto cerchio: tanta è la folla delle anime che lì si assiepa, in una ridda di movimenti che fa pensare ai gorghi di Scilla e Cariddi.

Sono gli avari ed i prodighi: divisi in due schiere, fanno rotolare con il petto grossi

macigni, girando in senso opposto gli uni agli altri, cosi da scontrarsi in uno stesso punto; dove ciascuno, prima di allontanarsi, grida con rabbia all’altro: «Perché trattieni?» o «Perché getti via?». Poi riprendono l’eterno tragitto per scontrarsi nel punto opposto. Vedendo tra gli avari tante teste con la chierica, Dante vuole sapere se furono tutti uomini di Chiesa.

Virgilio risponde che tutti, dell’una e dell’altra schiera, furono spiritualmente ciechi, perché incapaci di tenere la giusta misura tra l’avarizia e la prodigalità; in particolare gli avari furono non solo chierici, ma anche papi e cardinali.

Dante non riesce a riconoscerne nessuno perché, così come in vita furono incapaci di discernere tra bene e male, ora sono impermeabili a ogni conoscenza.

Andranno perciò a cozzare perpetuamente gli uni contro gli altri: gli avari risorgeranno col pugno stretto, i prodighi col capo raso e in eterno sara loro precluso il Paradiso.

Virgilio conclude affermando quanto sia breve l’inganno dei beni affidati alla Fortuna, quelle ricchezze per cui gli uomini si affannano tanto, perché neppure tutto l’oro che si trova sotto il cielo della luna potrebbe ora appagare queste anime dannate.

67-96 Dante chiede allora a Virgilio di spiegargli che cosa sia quella Fortuna che dispone così delle ricchezze terrene.

Virgilio volentieri lo illumina[6]: Dio, che ha creato i cieli e le intelligenze che presiedono ai loro movimenti, ha ugualmente assegnato al mondo una dispensiera di beni, che di volta in volta distribuisce all’uno o all’altro popolo, al di là delle previsioni e delle difese dell’uomo, secondo il suo occulto giudizio.

Le intelligenze motrici (i nove cori angelici),  secondo il disegno divino, illuminano ugualmente  con la loro luce intellettuale (che riflette la luce di Dio) ogni cielo materiale (ogni sfera celeste), così la Fortuna persegue il suo compito[7] senza che gli uomini possano contrastarla: i suoi cambiamenti sono rapidissimi e seguono appunto il volere divino.

Gli uomini la maledicono ingiustamente[8], ma lei non se ne cura e continua, lieta, a girare la sua sfera.

97-129 I due poeti attraversano il luogo all’altezza di una fonte che ribolle, riversando le sue acque in un fossato.

Dante e Virgilio ne seguono le sponde fino alla palude che si forma nel quinto cerchio: è la palude Stigia[9], dalle acque limacciose e scure, dove Dante vede immersi gli iracondi che si picchiano e mordono a vicenda.

Virgilio glieli indica e dice pure a Dante che, sotto il fango, stanno le anime degli accidiosi che, sospirando, fanno gorgogliare la superficie.

Essi mormorano eternamente la loro colpa, ricordando il tempo beato della loro esistenza quando furono tristi, e ora si rattristano nella melma. I due poeti girano intorno alla palude Stigia, fino a raggiungere i piedi di una torre.


[1] Accidia (gr. akêdía, da a priv. e kêdos, cura). Difetto di operosità nel fare il bene; negligenza: L’a. è uno dei sette peccati capitali.  Nella morale cattolica è il fastidio o tedio del ben fare e la negligenza per ciò che riguarda le cose di Dio e dell’anima.

[2] Demetra – «Madre Terra» o «Madre dell’orzo e del grano»; nata da Crono e da Rea, fu una delle più antiche divinità del mondo greco, personificante la forza generatrice della Terra. D. fu nell’Attica una delle più grandi divinità dell’agricoltura e venerata in Eleusi dove si celebravano i misteri eleusini.

[3] Fortuna Nella mitologia romana, dea del caso e della buona sorte. Fin dai tempi più antichi, il suo culto era diffuso in tutto l’impero romano. Dapprima fu considerata una dea della fertilità o della prosperità, ma poi la si invocò soltanto per essere favoriti dalla sorte, consultandola spesso sul futuro mediante il suo oracolo nei templi di Anzio e Preneste (oggi Palestrina). Tema artistico molto trattato, è solitamente raffigurata con un timone in una mano, per indicare la sua funzione di guida dei destini del mondo, e una cornucopia, simbolo dell’abbondanza, nell’altra. Con il tempo venne identificata con la dea greca Tyche (metà Potenza e metà Provvidenza).

 [4] Arcàngelo (gr. archángelos, da árchein, essere a capo e ángelos, angelo). Angelo di un ordine superiore. Gli a. sono nominati nel Nuovo Testamento e nella letteratura apocalittica giudaica. La tradizione cristiana vi annovera Michele, Raffaele, Gabriele e talora anche Uriele.

[5] Michèle Arcangelo, santo. Nella Bibbia, nome di un principe degli angeli. Nel Nuovo Testamento è menzionato nell’Apocalisse, dove a capo dei suoi angeli conduce la lotta contro le potenze del male e le sconfigge. Una tarda leggenda vide san M. nell’angelo apparso a san Gregorio Magno durante la peste del 590. – Festa l’8 maggio e il 29 settembre.

[6] Questo tema sarà ripreso con grande ricchezza di particolari nel canto XVI del Paradiso.

[7] Da D. è quindi assimilata, in ossequio alla tradizione cristiana, al concetto di Provvidenza: egli sottrae il mondo e la storia al caso e li razionalizza nel momento in cui riconosce l’insufficienza della ragione umana a comprendere i disegni della Fortuna.

[8] La dovrebbero invece lodare perché sta facendo ciò per cui è stata creata: in questo passo Dante ha certamente tenuto presente gli insegnamenti del filosofo Severino Boezio.

[9] Stige, «Odioso». Torrente dell’Arcadia, che nasceva dalla pendice nordorientale del monte Aroánia (od. Chelmos), precipitando in un’oscura e selvaggia gola rocciosa profonda oltre 200 m, e confluendo poi attraverso questa nel Crati, presso Nonacri. Nella mitologia greca, fiume situato all’ingresso degli Inferi su cui l’anziano barcaiolo Caronte traghettava le anime dei morti. Il fiume era personificato da una figlia del titano Oceano, e Stige era garante dei sacri giuramenti che vincolavano gli dei. Gli antichi greci ritenevano che le sue acque fossero venefiche e associavano il fiume con il mondo sotterraneo dai tempi di Omero. Achille vi fu immerso dalla madre Teti che voleva renderlo invulnerabile. Nell’inferno dantesco lo S. è appunto la palude che circonda la città di Dite.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto IV – Sintesi

Dante  risvegliato da un tuono, si ritrova nel I cerchio[1] o Limbo[2] ove stan­no i bambini non battezzati e coloro che non peccarono ma che morirono senza la fede (lo stesso Virgilio).

In questo cerchio i dannati non soffrono tormenti mate­riali ma soltanto quelli spirituali.

Il regno della dannazione come Dante lo ha concepito, si stende verso il centro della terra, sotto Gerusalemme, in nove cerchi concentrici che vanno restringendosi dall’alto in basso, a forma di imbuto, e in essi i dannati sono distribuiti in modo che le pene, in relazione alle colpe, sono tanto più gravi tanto più si scende.

Questa progressione di gravità corrisponde alla teoria aristotelica – esposta da Virgilio nel canto XI dell’Inferno – sulla quale è basata la struttura morale dell’Inferno dantesco che consiste in una triplice ripartizione dei peccati, per incontinen­za, violenza o matta bestialità, malizia.

Il primo genere di peccati è meno grave perché la passione durante la loro commissione ha soverchiato la ragione; il secondo ed il terzo tipo di peccati sono più gravi perché c’è il concorso della volontà e della ragione.

I peccatori del primo tipo si ritrovano nel 2°,3°,4°,5°ce­rchio; al secondo tipo di peccato appartengono i dannati del 7° cerchio, mentre dei peccatori de 3° tipo si parlerà nell’8° e 9° cerchio.

A parte vanno considerati appunto i peccatori del 1° e del 6° cerchio.

I peccatori del 1° cerchio  hanno come pena il desiderio eternamente insoddisfatto di vedere Dio.

D. apprende come si salvarono i credenti nel Cristo venturo: i Patriarchi dell’Antico Testamento, furono trasportati in paradiso da Cristo, quando discese agli inferi dopo la Passione (vv. 1-66).

D. si trova poi di fronte un nobile castello al centro del cerchio (Elisio), dove vivono i grandi dell’antichità: il poeta  ha la possibilità di incontrare Omero, Orazio, Ovidio, Lucano, i grandi eroi di Troia e di Roma, i grandi filosofi e scienziati (Platone, Socrate, Averroe) che sono raccolti in un luogo luminoso. Attraversato il limbo, D. giunge in un luogo totalmente oscuro (vv. 67-151).

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto III – Sintesi

Sistina, Giudizio Universale di Michelangelo – Immagine dettaglio Caronte.

COMMENTO

Il canto si apre alla sera dell’8 aprile 1300, venerdì santo; i due poeti dopo aver attraversato la porta dell’Inferno giungono nell’Antinferno o vestibolo: uno spazio cupo, su cui incombe un’aria “senza stelle e senza tempo tinta”; tale spazio confina con le rive del fiume Acheronte dalle acque nere; il custode del luogo è Caronte; i dannati che i due poeti incontrano sono gli ignavi, cioè coloro che non fecero né scelsero mai, per viltà, né il bene né il male; essi corrono nudi dietro un’insegna e sono punti da vespe e mosconi. Il sangue che riga il loro volto, mischiato alle lacrime, viene raccolto a terra da vermi ripugnanti, cui fa cibo.

Il contrappasso consiste in questo: in vita queste anime non seppero sceglie­re, evitarono gli stimoli di ogni genere, furono avari di passione (sangue e lacrime); ora sono invece costretti ad inseguire un vessillo (a fare una scelta) e sono appunto pungolati da insetti fastidiosi.

I personaggi del canto sono:

1) Colui che fece il gran rifiuto. Probabilmente Pietro da Morrone, eremita; diventando papa con il nome di Celestino V[1] nel 1294, abdicò dopo pochi mesi, aprendo la strada al pontificato di Bonifacio VIII, principale responsabile, secondo Dante, della rovina di Firenze e sua personale. Secondo altri potrebbe trattarsi di Ponzio Pilato, o di Esaù[2], o di Giano della Bella[3], tutti personaggi che vennero meno a precise responsa­bilità pubbliche.

2) Caronte: personaggio mitologi­co[4], demonizzato da Dante: è il traghettatore infernale, colui che trasporta le anime dannate dalla riva del vestibolo all’Inferno vero e proprio attraverso l’Acheronte. La sua figura si ispira a quella virgiliana del IV canto dell’Eneide.

ELEMENTI PRINCIPALI DEL CANTO

1) Tema estetico-morale: la descrizione del luogo e della pena dei dannati – cupo, senza tempo e risonante di grida e lamenti l’uno, ripugnante e carica d’angoscia l’altra – si collega immediatamente al giudizio morale di Dante che Dante ha degli ignavi: disprezzati perché non si schierarono con nessuno, uomini vili agli occhi del poeta, confinati in quel luogo scuro ed opaco perché dimenticati sia da Dio, sia dai diavoli, non meritano nemmeno l’attenzione dei visitatori.

Dante non ne cita per nome nemmeno uno, e Virgilio conclude la sua spiegazione con uno sdegnoso “non ragioniam di loro, ma guarda e passa“.

2) Caronte. la figura di Caronte è da Dante ricalcata sulle orme di quella virgiliana; il nocchiero infernale è un vecchio canuto, bianco per antico pelo, con gli occhi di fuoco, che avanza sulle acque dell’Acheronte minacciando le anime che viene a raccogliere.

Caronte è la prima delle figure mitologiche <<reinventate>> da Dante quali demoni e custodi dei luoghi infernali, con una tecnica che, partendo dagli esempi classici, le trasfigura con particolari esteriori e con caratteristiche morali del tutto originali.

Nel disegno generale dell’opera Caronte corrisponde a Catone, custode del Purgatorio, e a S. Bernardo, intermediario nell’Empire­o, tra D. e Dio (cfr. Pd. XXXI e ss.), sia nella rappresentazione simbolica sia in quella fisica.

3) Tema figurativo-teologico. La Porta dell’Inferno reca un’iscri­zione terribile nella sua inesorabile condanna: <<Attraverso di me si entra nel dolore della città infernale tra le anime perdute per sempre alla Grazia. La Giustizia  divina mi ha creato, quel Dio uno che crea per l’eternità, e io duro in eterno. Lasciate perciò ogni speranza di salvezza, voi che entrate>>. Sono parole oscure, perché scritte in caratteri neri e perché cariche di minacce tremende che incutono paura e sgomento.

Poste ex abrupto all’inizio del canto, creano uno stacco con l’atmosfera lirica del precedente passo, e la ripresa di una forte suggestione drammatica.

4) la formula virgiliana. A Caronte, restio a trasportare i due visitatori, Virgilio risponde con una formula che ripeterà di fronte a Minosse e a Pluto: “Vuolsi così colà dove si puote/ ciò che si vuole”.

Il viaggio di Dante è voluto da Dio e verrà portato a termine, qualunque siano gli ostacoli ed il volere altrui.

Alla volontà divina si uniforma così la volontà dei dannati e di qualunque altro personaggio infernale, come evidenzia anche il comportamento di coloro che, giunti sulle rive dell’Acheronte, corrono incontro alla loro dannazione.

La formula virgiliana sintetizza così, perentoriamente, il dominio della legge divina, e mette a tacere qualunque opposizione.

5) Le similitudini.

I) vv. 28-30: Il rumore di mani battute, mescolato alle alte grida e ai suoni disumani dei dannati, provoca un tumulto simile a quello della sabbia sollevata a mulinello dalla furia del turbine.

II) vv. 112-116. Le anime radunate sulla riva dell’Acheronte rispondono alla fretta di Caronte gettandosi una dietro l’altra sulla barca, come fanno le foglie[5] cadendo d’autunno fino a che i rami sono completamente spogli.

6) La profezia di Caronte. Nelle parole che Caronte rivolge a D. si legge il primo accenno profetico al destino del poeta. Egli infatti seguirà la via delle anime destinate alla salvezza, quelle che si raccolgono alla foce del Tevere per essere trasportate dal vasello snelletto e leggero (cfr. Pg. II, 41), la lieve imbarcazione guidata dall’angelo nocchiero fino all’isola del Purgatorio.

RIASSUNTO

I poeti sono davanti alle porte dell’Inferno su cui sono scritte le parole di eterna condanna. D. è preso da sgomento nel leggerle; Virgilio lo esorta ad abbandonare qualsiasi esitazione e ad armarsi di coraggio. Quindi, presolo per mano, lo introduce in quel regno sconosciuto ai vivi (vv. 1-21).

Un gran tumulto di grida, pianti e lamenti disumani, imprecazioni e gesti di disperazione colpisce subito Dante, muovendolo alle lacrime (vv. 22-24).

Preso dall’orrore, egli chiede  al suo maestro chi è quella gente che par nel suo duol sì vinta: si tratta degli ignavi, coloro che vissero senza infamia e senza lode (vv. 25-36).

Insieme agli angeli rimasti neutrali nello scontro tra Dio e Lucifero, sono cacciati sia dal Paradiso, sia dall’Inferno, relegati nell’Antinferno, in una condizione così spregevole, da invidiare ogni altra sorte, persino quella dei dannati (vv. 37-48).

Il mondo non vuole ricordarli, i cieli li ignorano: quindi Virgilio stesso invita Dante a non prenderli in considerazione (vv. 49-51).

Dante li vede correre in gran moltitudine dietro un’insegna, nudi e punti da vespe e mosconi; il loro sangue mescolato alle lacrime, viene raccolto a terra da vermi schifosi. Dante ne riconosce uno tra tutti: colui che fece il gran rifiuto (vv. 52-69).

Guardando più avanti, D. scorge altri dannati sulla riva di un fiume e chiede a Virgilio chi siano quelle anime, che sembrano così pronte a essere traghettate (vv. 70-75).

Ma il maestro gli consiglia di attendere: quando saranno sulla riva dell’Acheronte, vedrà da sé (vv. 76-81).

Raggiunto il fiume, ecco venire, remando sulle acque un vecchio minaccioso: è Caronte, che urla in direzione delle anime l’immedia­ta partenza per il regno delle tenebre (vv. 82-87).

Alla vista di D. ancora in vita, gli grida di allontanarsi di lì, perché altri lo traghetterà; Virgilio lo acqueta, dicendogli che quel viaggio è voluto da Dio (vv. 88-96).

Alle crude minacce di Caronte, le anime dei dannati si lasciano andare alla paura e alla disperazione; bestemmiando si radunano tutte alla riva, e ad una ad una si gettano nella barca, spronate dal remo del nocchiero infernale (vv. 97-111).

Quindi vengono trasportate sull’altra sponda, mentre nuovi dannati si ammassano su questa riva. Virgilio rincuora D.: quelle anime morte nel peccato, convergono sull’Acheronte da ogni luogo, sospinte dalla giustizia divina che le rende timorose e al tempo stesso desiderose della condanna; se dunque Caronte non l’ha voluto nella sua barca, le sue parole sono una involontaria profezia di salvezza (vv. 112-129).

A questo punto un terremoto accompagnato da un fulmine accecante, fa tremare la terra così violentemente che D. ne è terrorizzato e, persi i sensi, cade a terra, come l’uomo quando è vinto dal sonno; è il momento di varcare il fiume infernale (vv. 130-136).


[1] Divenne monaco benedettino all’età di 17 anni. Preferendo la vita solitaria, si ritirò sulle montagne abruzzesi, dove attirò parecchi fedeli che formarono il primo nucleo del suo ordine eremitico, poi soprannominato dei celestini, un ramo dei benedettini che in Francia venne abolito per ordine di papa Pio VI, ma in Italia sopravvisse fino all’inizio del XIX secolo. Celestino viveva come un eremita quando fu eletto papa il 5 luglio 1294, favorito dalla sua fama di santità; fu una scelta di compromesso dopo due anni di inutili votazioni per i cardinali che dovevano scegliere il successore di Niccolò IV. Ingenuo e inesperto dell’amministrazione, Celestino permise a Carlo II di Napoli di manovrare la politica della Chiesa, e, consapevole della propria inadeguatezza a governare, si dimise volontariamente dall’incarico il 13 dicembre dello stesso anno. Per evitare lo scisma di quanti erano favorevoli a Celestino, Bonifacio VIII, suo successore, lo imprigionò nel castello di Fumone fino alla morte. Venne canonizzato nel 1313.

[2] Esaù (In ebraico, “peloso”), nel libro della Genesi dell’Antico Testamento, figlio di Isacco e Rebecca e fratello maggiore di Giacobbe. In quanto figlio maggiore, Esaù aveva diritto di primogenitura su Giacobbe, ma la vendette al fratello per un piatto di minestra di lenticchie o di stufato (Genesi 25:21-34). Nonostante ciò, tentò di ottenere la benedizione patriarcale dell’ormai morente Isacco, ma Giacobbe lo ingannò ed Esaù ottenne solo una benedizione secondaria; quindi, furioso, decise di uccidere il fratello, che fuggì. Al suo ritorno, i due fratelli si riconciliarono. La figura di Esaù in questo episodio rappresenta il simbolo della nazione di Edom, come indicato in Genesi 36:8.

[3] Giano della Bella (Seconda metà del secolo XIII), politico fiorentino di famiglia aristocratica. Nella lotta politica all’interno del Comune di Firenze, si schierò con la fazione popolare. Ottenuta la carica pubblica di “priore” fu, secondo le cronache del tempo, tra gli estensori della riforma istituzionale detta Ordinamenti di giustizia (1293), che escluse i magnati dalle cariche governative. Poco più tardi, però, la classe dei magnati strinse un’alleanza con il cosiddetto “popolo grasso” e Giano, trovatosi privo di sostegno, fu costretto a lasciare la città; nel 1295 si ritirò in esilio in Francia, dove morì.

[4] Nella mitologia greca, Caronte era figlio della Notte e di Erebo, quest’ultimo personificazione delle tenebre sotterranee attraversate dalle anime dei defunti per raggiungere la dimora di Ade, dio dell’oltretomba. Caronte era il vecchio barcaiolo che trasportava le anime dei morti sullo Stige fino ai cancelli degli Inferi (anche presso gli Etruschi). Accettava sulla sua barca soltanto le anime di coloro che avevano ricevuto la sepoltura e che gli pagavano un obolo consistente in una moneta che veniva posta sotto la lingua del cadavere al momento del rito funebre. Gli altri erano condannati ad attendere un secolo al di là dello Stige.

[5] La foglia nella antichità poteva indicare una cosa di nessun valore (ad es. in Apuleio, Metamorfosi, 1,8; 2,23), o una situazione di grande precarietà (come in Palladio, Historia Lausiaca, 27,2, dove coloro che sono senza governo cadono come le foglie). Non si può a questo proposito trascurare l’ampio e famoso topos per cui l’uomo è come la foglia: se infatti la sua prima attestazione (Omero, Iliade, 6,145 ss.) confronta semplicemente il cadere delle foglie con l’avvicendarsi delle generazioni e se la maggior parte delle riprese successive (tra cui Virgilio, Eneide, 6,309) accostano due moltitudini, in altri passi l’uomo è paragonato alle foglie per la sua natura caduca ed effimera (in particolare in Mimnermo, fr. 2 G.-P., in un carme elegiaco attribuito a Simonide [85 Bergk4], in una parodia aristofanea [Uccelli, 685 ss.] e nella citazione omerica di Marco Aurelio, Pensieri, 10,34 [cf. G. Cortassa, Il filosofo, i libri, la memoria, Torino 1989, 10-14]).

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto II – Sintesi

Gustave Doré's illustration to Dante's Inferno...
Gustave Doré’s illustration to Dante’s Inferno. Plate VII: Canto II: “Beatrice am I, who do bid thee go” (Longfellow’s translation) (Photo credit: Wikipedia)

Dopo il proemio generale all’opera, costituito dal primo canto, con l’annuncio e l’impostazione narrativa del viaggio, questo canto costituisce una sorta di secondo proemio, riservato a spiegare il significato particolare e personale del viaggio di Dante.

Si tratta di un’esperienza eccezionale, che preannuncia pertanto un epilogo altrettanto eccezionale: egli sarà il terzo uomo a penetrare i misteri dell’oltretomba, dopo personalità tanto alte quali Enea e S. Paolo; a determinare infatti il suo cammino di salvezza si è mossa la volontà divina, attraverso l’intercessione della Vergine e l’intervento diretto di Santa Lucia[1] e Beatrice, anime somme tra i beati.

In questo canto prevalgono ancora la filosofia e la teologia ma alcuni spunti come ad es. l’apparire di Beatrice ci rivelano che D. ha già compiuto un gran passo verso la chiara espressione della propria umanità.

Il canto è strutturato sostanzialmente e schematicamente su quattro momenti:

1) Invocazione alle muse: anche se limitata ad un’unica terzina (vv. 7-9), è da rilevare che D. segue i canoni del tradizionale poema epico; sarà da tener presente in parallelo al proemio delle altre due cantiche, la progressione di impegno che D. profonde a seconda dell’elevazione della materia[2].

2) Esitazione e timore di D. ad intraprendere il viaggio nell’ol­tretomba.

3) Virgilio rivela la volontà divina che ispira il viaggio.

4) I due poeti intraprendono il cammino nella selva oscura.

Il canto si apre al tramonto[3] del l’8 aprile 1300, venerdì santo, al limitare della selva oscura, in cui D. e V. si inoltrano alla fine del canto.

Il personaggio di questo canto è certamente Beatrice, giovane donna fiorentina (1266-1290), figlia di Folco Portinari[4], moglie di Simone de Bardi.

È la donna amata da D. che a lei dedicò le rime della Vita Nuova[5]; è un personaggio storico che assunse per il poeta il sommo valore della Grazia e della Teologia.

Scende la sera[6] quindi e Dante si prepara ad affrontare, solo tra i viventi, come una guerra[7] il faticoso[8] viaggio nel regno degli Inferi (vv. 1-6); per sostenersi nell’alta impresa di poeta e di pellegrino, egli invoca le Muse e fa appello al proprio ingegno alla propria memoria (vv. 7-9) [9].

Quindi D. espone a Virgilio i dubbi ed i timori che lo assalgono e in particolare gli chiede di considerare il suo valore di uomo prima di avviarlo all’alto compito (v. 9-12): prima di lui, si recò in quei luoghi soltanto Enea[10] – come afferma V. – vivo e materialmente[11], per una volontà divina che è agevole comprendere se si pensa che fu il futuro padre di Roma, destinata ad essere la sede dell’Impe­ro e della Chiesa: egli doveva scendere agli inferi per vincere poi nel Lazio e porre le basi per Roma e per la dignità pontificia (vv. 13-24); in seguito andò nel regno immortale[12] S. Paolo[13] che salì al terzo cielo per trarne conforto nel suo apostola­to[14] (vv. 25-30).

Ben più degni personaggi, dunque – e giustificati da fini religiosi e politici altissimi – di quanto non sia D. stesso; perciò egli si sgomenta di non avere meriti e forze suffi­cienti per affrontare l’arduo viaggio, pensa di essere un folle[15] se ad esso si abbandona, ed è tentato di rinunciarvi così come colui che non vuole più ciò che prima voleva per il sopraggiungere di nuove considerazioni (vv. 31-42).

Virgilio allora riscuote D., facendogli notare e nello stesso tempo rimprove­randolo con dolcezza ma anche severità per il fatto che il suo animo è indeboli­to dalla poca coscienza delle proprie forze e dalla viltà; ciò impedisce spesso l’uomo nell’operare il bene così come una bestia si spaventa ed indietreggia per un ombra (vv. 43-48).

Per rincuorar­lo e per sciogliere ogni dubbio V. gli dirà la ragione della sua venuta e gli racconterà ciò che avvenne la prima volta che egli provò dolore per Dante (vv. 49-51).

 Mentre era nel Limbo, tra quelli che stanno sospesi, si presentò a Virgilio e lo chiamò una donna <<beata e bella>> tanto che V. non poté fare a meno di chiederle di comandare quel che desiderava (vv. 52-54).

I suoi occhi lucevano più delle stelle[16] ed ella cominciò dolcemen­te e chiaramente (<<soave e piana[17]>>) e con voce angelica a lodarlo affermando che la fama della sua anima cortese dura e durerà nei secoli, per poi aggiungere che colui che l’amò di un amore disinteressato[18] era smarrito nella selva deserta e così impedito nel passo da volgersi indietro, tanto che ella temeva che lo smarrimento fosse arrivato a tal punto da vanificare ogni intervento (vv. 55-66).

Ella prega dunque V. di aiutare D., con la saggezza e l’arte per cui andava famoso, rivelando di essere Beatrice, scesa dall’Empireo in virtù di Amore (o della carità) che la fa parlare (vv. 67-72); quando tornerà in Cielo dal creatore Beatrice promette di lodare Virgilio[19] ed infine tace (vv. 73-75).

Pronto ad obbedirle e felice per essere stato scelto quale strumento del volere divino, Virgilio dopo averla lodata come l’unica che permette agli uomini di superare le cose della terra[20], si dimostra disponibilissimo ad esaudirla in fretta, anche se le chiede come mai non abbia temuto di scendere dall’Empi­reo, dove desidera ardentemente ritornare, nell’In­ferno (vv. 76-84).

Dal momento che V. vuol conoscere più a fondo la verità Beatrice gli spiega brevemente come solo le cose che possono fare male devono essere temute, e come, essendo lei beata (<<fatta da Dio>>), non avrebbe potuto essere toccata né dalle fiamme, né dalla miseria dei dannati (vv. 85-93).

Inoltre, una “Donna gentil”[21] che si doleva così tanto della situazione di D. decise di spezzare il giudizio di Dio, affidò la salvezza di D. a Santa Lucia[22], e questa, nemica di ogni crudeltà, si mosse per chiedere a Beatrice, vera lode di Dio (che si trovava accanto a Rachele[23]), di soccorre­re il suo amico poeta, che tanto l’aveva amata e che per lei si era elevato dalla mediocrità spirituale ed artistica, perché il male lo stava travolgendo in quel punto del fiume che è superato dalla potenza superiore del mare. (vv. 94-114).

Beatrice aggiunge che le parole di Santa Lucia l’hanno resa il più sollecita possibile ed è per esse che ella ha lasciato il Paradiso per recarsi da Virgilio; e successivamente si commuove volgendo altrove i suoi occhi pieni di lacrime, cosa che rende a sua volta, Virgilio ancora più sollecito (vv. 115-117).

Terminato il racconto intorno all’incontro con Beatrice, Virgilio sprona D.[24] ad abbandonare ogni titubanza ed ogni viltà, dal momento che, a prova che il suo viaggio è voluto da Dio, tre donne sante (Vergine, Beatrice, S. Lucia) lo proteggono su nei cieli e le stesse parole del poeta mantovano sono così incoraggianti (vv. 118-126).

Come i fiori chiusi dal gelo si drizzano e si riaprono ai primi raggi del sole[25], così D. si rianima (dalla <<stanca virtude>>), prende coraggio e, benedicen­do Beatrice (come <<pietosa>>) e Virgilio (come <<cortese>>), si conferma nella decisione di intraprende­re il cammino; quindi Dante moralmen­te confortato, riprende il suo cammino insieme a V.[26] ed i due poeti, legati da <<un sol volere>> si addentra­no nella selva, per una via ardua e selvaggia, che conduce alla porta dell’Inferno (vv. 127-142).


[1] Martire siracusana (Siracusa 283 ca. – 303 ca.). Secondo notizie incerte – dato il carattere leggendario dei testi che narrano la sua vita – si tratterebbe di una giovane di Siracusa martirizzata il 13 dicembre, data fissata per la sua memoria, di un anno imprecisato, comunque durante il mandato di Diocleziano. Il suo culto e le relative espressioni folcloriche hanno conosciuto una straordinaria diffusione (soprattutto nei paesi dell’Europa settentrionale) probabilmente a motivo dell’interpretazione etimologica del nome di Lucia. Ella sarebbe cioè la “santa della luce”, che, accecatasi per sfuggire a un suo pretendente, diffonderebbe dal giorno della sua festa – secondo il calendario giuliano il giorno più corto dell’anno – lo splendore dei suoi occhi sulle notti del lungo inverno. Perciò Lucia viene invocata come protettrice della vista.

[2] Nel Purgatorio D. enuncia l’indicazione dell’argomen­to (vv. 1-6; proposi­zione) ed invoca le Muse e in particolare a Calliope (<<dalla bella voce>> in quanto D. deve descrivere un regno di  mitezze serene e di dolci speranze) perché accompagnino il suo canto con quel suono con cui vinsero le figlie di Pierio (le Pieridi, nove giovani che rivaleggiarono con le muse e nel canto e furono da esse sconfitte e tramutate in gazze) (vv. 7-12). Nel Paradiso (1-36), dichiarato l’argomento del suo canto, D. invoca Apollo: se il dio della poesia lo aiuterà nel suo compito, egli potrà sperare nella corona d’alloro, il cui solo desiderio sarà al nume tanto più gradito quanto più raro è sulla terra, per colpa e vergogna dei desideri umani.

[3] Col morire del giorno D. si avvia verso l’Inferno, dove l’anima è morta; col sorgere del giorno invece inizia il suo viaggio nel Purgatorio, il luogo della speranza dove l’anima risorge a Grazia; nel Paradiso, dove l’anima è pienamente beata, salirà quando il sole sfolgora in tutto il suo fulgore.

[4] Secondo quanto ci riferisce il figlio di Dante Pietro nel suo commento ed il Boccaccio nella Vita di Dante.

[5] Si tratta della prima opera importante di Dante, fu scritta poco dopo la morte di Beatrice ed è composta di canzoni e sonetti legati da commenti in prosa entro un esile intreccio narrativo: la storia dell’amore di Dante per Beatrice, la premonizione della sua morte avuta in un sogno, la morte di Beatrice e la risoluzione finale del poeta a scrivere un’opera che dicesse di lei “quello che mai non fue detto d’alcuna“. La Vita nuova mostra la chiara influenza della poesia d’amore dei trovatori provenzali e rappresenta probabilmente l’opera più importante del dolce stil novo fiorentino, che superò la tradizione provenzale sublimando l’amore del poeta non solo in termini di elevato idealismo, ma anche in senso mistico-religioso.

[6] Nei primi sei versi (protasi del proemio) del canto D. ci propone l’immagine lirica del mondo pacificamente addormentato nella notte, su cui risalta la sua veglia, essendo egli in procinto di affrontare i grandi pericoli del viaggio tra le anime infernali. Si tratta di un topos letterario, ereditato direttamente da Virgilio (Aen. IV, 522-532: il poeta mantovano contrappone la tranquillità della notte alla inquietudine della regina Didone) e che dopo D. (che mette in rilievo la sua solitudine ma anche la lotta tra corpo ed anima: v. 4-6) ritornerà in tanti altri autori.

[7] Per liberarsi dalle passioni.

[8] Per la durezza del cammino e per la pietà, cioè per la vista del male morale che potrebbe distogliere D. dal giudizio morale e quindi trasformarsi in un’indulgenza che potrebbe rivelarsi una pericolosa nemica.

[9] È forse l’unico caso in tutta la letteratura quello di un poeta che invoca il suo ingegno e memoria, ma non è questa presunzione, piuttosto consapevolezza dell’eccezionalità del viaggio, del fatto che esso è voluto da Dio.

[10] D. non ricorda gli altri viaggi pagani come quello di Ercole e di Teseo oppure quelli Cristiani di S. Patrizio, S. Brandano, Tungdalo, perché solo il viaggio di Enea ha importanza dal punto di vista politico, così come ha importanza quello di S. Paolo dal punto di vista religioso.

[11] Il parente di Silvio, il figlio che Enea ebbe da Lavinia.

[12] Non nell’Inferno ma nel Paradiso.

[13] Il vaso di elezione, ricettacolo privilegiato della grazia:  Atti degli Ap. IX, 15.

[14] Fu rapito come egli stesso ci attesta (nella Seconda Lettera ai Corinzi, XII, 2-4) con il corpo o senza (egli non lo sa con precisione) per essere trasportato in Paradiso, per trovare incitamento e conforto al fine di rafferma­re i cristiani in quella fede fuori dalla quale è impossi­bile la salvazione dell’ani­ma.

[15] Qui si introduce uno dei temi fondamentali dell’opera: l’uomo per essere veramente tale deve elevarsi moralmente ed intellettualmente, ma deve essere consapevole del fatto che può avanzare solo fino al punto che Dio permette, se non vuol cadere nel peccato dei peccati, quello di Lucifero e di Adamo. Il tema troverà poi la sua maggiore esposizione nell’episodio di Ulisse: bisogna elevarsi ma bisogna allo stesso tempo essere umili se non si vuole perire; S. Bernardo (Pd. XXXII) dirà alla fine del poema che per potere penetrare Dio occorre la grazia: chi pensasse di poterlo fare, muovendosi con le sue sole forze, arretrerebbe credendo di avanzare.

[16] Immagine questa cara agli stilnovisti: a Cavalcanti, al Guinizelli e allo stesso D. delle Rime.

[17] Termine usato in un sonetto di D. ed in un altro del Cavalcanti.

[18] È questo l’amore stilnovistico: un amore che tende a “spogliarsi” della passione e a divenire puro slancio dell’anima verso il bene, cioè amore-virtù. Beatrice nel poema impersona sì la Teologia, ma è anche e sempre questo Amore, che spinge a conquista­re la propria superiore umanità.

[19] Questa promessa secondo i critici contiene un’arcana promessa.

 [20] Beatrice, piena di virtù, rappresenta la sublimazione della natura umana, cosicché soltanto per essa gli uomini vincono d’eccellenza le creature contenute nel cielo della luna (secondo il sistema tolemaico, seguito da D., la terra è al centro dell’univer­so, e, intorno ad essa, si aggirano i nove cieli, fra i quali il primo e più vicino alla terra è quello della Luna), ovvero – secondo altri – soltanto per essa gli uomini si elevano al di sopra delle cose terrene.

[21] La Vergine Maria che simboleggia la grazia preveniente (cioè la Grazia che previene il desiderio) o la misericordia o la carità e che per una questione di riverenza non viene mai nominata nell’Inferno.

[22] Secondo alcuni è simbolo della grazia illuminante o della speranza o ancora della giustizia perché nel Purgatorio Lucia è messa in relazione con l’aquila che trasporta D. dall’Anti­purgato­rio al Purgatorio vero e proprio; e poiché l’aquila, come appren­diamo dal canto XVIII del Paradiso è messa a sua volta in relazione con la giustizia (Spiriti giudicanti), ne consegue che Lucia può significare questa virtù.

[23] Figlia di Labano e moglie di Giacobbe e simbolo della vita contemplativa, mentre Lia, sua sorella, simboleggia la vita attiva.

[24] Forse non comprendendo che il poeta è soltanto, a sua volta, commosso e stupito per il racconto.

[25] È questa forse una delle immagini più delicate e soavi di tutto il poema.

[26] Che viene definito <<duca>> rispetto al cammino, <<segno­re>> rispetto al comando, <<maestro>> rispetto alla scienza.

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