Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto XIV e XV– Sintesi

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Canto XIV

Sempre nel 7° cerchio. Nel 3°girone[1] incontrano i violenti contro Dio, natura ed arte (bestemmiatori, sodomiti, usurai), puniti in una landa arenosa su cui piovono dilatate falde di fuoco[2]; essi inutilmente si affannano ad allontanare le fiamme (vv. 1-42).

Tra i bestem­miatori (che si trovano distesi) incontrano Capaneo, uno dei sette re che assediarono Tebe, che continua anche dopo morto ad imprecare contro Giove (a cui non basterebbero tutti i fulmini di Vulcano e dei Ciclopi per procurarsi una sufficiente vendetta[3]) ostentando una rabbia orgogliosa; V. lo rimprovera aspramente e considera adeguata la sua pena (vv. 43-75).

Mentre Dante e Virgilio attraversano la landa incontrano un fiumicello dove si spengono le fiamme e V. spiega l’origine dei fiumi infernali, che si formano dalle lacrime della statua del Veglio di Creta, simbolo dell’umanità  e della sua corruzione (vv. 76-142).

Nella sua ideazione, Dante si ispira al passo biblico di Daniele (11, 31-48) dove si narra di una statua apparsa in sogno a Nabucodonosor, di cui Daniele spiega il significato. L’allegoria del Veglio è stata variamente interpretata; tra le principali versioni, la prima che riportiamo è la più completa e suffragata:

a) storia dell’umanità, durante le varie età dell’oro, dell’argento, del rame, del ferro. Le ferite sono i dolori e le colpe degli uomini che, incanalandosi nelle lacrime, tornano all’Inferno, regno di tutti i mali. Dalla testa, in oro, non sgorgano lacrime perché l’umanità dell’età dell’oro era esente da vizi e da colpe. I due piedi rappresentano i due tipi di potere: il piede in terracotta simboleggia il potere spirituale corrotto, quello in ferro, il potere temporale diminuito di prestigio. La statua è posta al centro del mondo allora conosciuto: volge le spalle all’Egitto, perché l’umanità proviene da Oriente e guarda verso Roma, sede del papato e dell’Impero.

b) natura umana, corrotta dal peccato originale. I metalli di cui è composta simboleggiano le diverse facoltà dell’uomo: il libero arbitrio (oro), la ragione (argento), la volontà (rame), l’ira e la cupidigia (ferro).

c) monarchia imperiale: le diverse parti della statua rappresentano le diverse forme di governo, dall’oro della monarchia universale alla terracotta della democrazia.

XV Canto

IN BREVE

Sempre nel 7° cerchio. Tra i sodomiti Dante ricono­sce Brunetto Latini; Dante esprime la sua riconoscenza per i savi consigli e si duole di vederlo tra i dannati.

Brunetto esorta Dante a tenersi lontano dai corrotti costumi dei Fiorentini e gli predice l’onore di essere odiato tanto dai Guelfi Neri che dai Bianchi (cosa che accade nel 1304) (vv. 1-99).

Dante risponde che la sua coscienza è così pura che può sopportare le avversità della sorte; chiede poi a Brunetto se vi sono altri compagni nelle sue stesse condizioni; Brunetto ne nomina alcuni e poi fugge dopo aver raccomandato a Dante il suo Tesoro (vv. 100-124).

*.*.*.*

Il canto XV ed i due canti seguenti, in cui Firenze e i Fiorentini, occupano tutta la scena, corrispondono armonicamente ai canti XV, XVI e XVII del Paradiso, in cui Firenze ed i Fiorentini sono presenti nella figura e nei discorsi dell’avo Cacciaguida, in modo che Firenze viene a formare come il nucleo centrale della prima e della terza cantica.

È l’alba del 9 aprile del 1300, sabato santo, nel cerchio VII, 3° girone. Si tratta, come già sappiamo, di una landa di sabbia rovente, su cui cade, incessante e lenta, una pioggia di larghe falde di fuoco.

I dannati puniti in questo girone sono i violenti contro Dio nella natura ed in particolare i sodomiti.

La pena e il contrappasso sono i seguenti: i dannati sono costretti a girare incessantemente sulla sabbia infuocata sotto una pioggia di fuoco. Possono ripararsi con le mani dalle falde infuocate, ma chi si ferma è costretto ad esporsi alla pioggia per cent’anni senza riparo.

Agitati in vita da passioni contro natura, non possono stare fermi e sono distrutti dal fuoco.

PERSONAGGl

Brunetto Latini (1220-1294). Notaio, guelfo, esule dopo Montaperti, fece ritorno a Firenze dopo la sconfitta di Manfredi e del partito ghibellino a Benevento.

Occupò cariche politiche, e fu uno dei priori della città. Autore di note opere come il Tesoro, trattato di didattica, e il Tesoretto, riduzione in volgare e in poesia del primo.

Considerato maestro di Dante, più come consigliere e guida che nel senso stretto del termine.

Prisciano da Cesarea. Grammatico latino, vissuto nella prima metà del VI secolo, autore di primaria importanza nella cultura medievale.

Francesco d’Accorso (1225-1294). Insegnò nella scuola giuridica di Bologna, quindi ad Oxford su esplicita richiesta del re d’Inghilterra Edoardo I.

Andrea de’ Mozzi. Vescovo di Firenze fino al 1295, quando in conseguenze dello scandalo per il suo comportamento fu trasferito a Vicenza, dove morì nel 1296. Non è citato esplicitamente da Dante, ma lo si è potuto identificare quasi con certezza dai commenti antichi.

ELEMENTI PRINCIPALI

 1) La figura di Brunetto Latini. Dante tace della sua colpa, è stupito di vederlo lì, ha molta reverenza e umana comprensione per lui. Virgilio sparisce dalla scena del canto, quasi a voler lasciare soli i due Fiorentini. Letterato l’uno, letterato l’altro in un rapporto di maestro-allievo determinato dall’età e basato sulla reciproca stima; anche Dante sarà maestro per altri.

Nel dialogo fra Dante e Brunetto, sono da rilevare:

a) la profezia sul destino di Dante, che segue quelle di altri importanti personaggi, quali Ciacco e Farinata;

b) insistenza sul tema della fortuna, già ampiamente e direttamente trattato, come abbiamo visto,  nel canto VII;

c) centralità di Firenze: Dante mette in bocca a Brunetto un nuovo giudizio sulla sua amata e odiata città;

d) tema della memoria, tanto nella rievocazione di affetti e luoghi comuni, quanto nell’affermazione del ricordo eterno che si lascia nelle proprie opere.

2) La costruzione del canto. Da notare la scansione ritmica del canto, rigorosamente costruita sulla alternanza del dialogo.

3) Tema estetico-retorico. L’esordio del canto, con l’accurata descrizione fisico-psicologica dell’incontro e del riconoscimento fra Dante e Brunetto, è caratterizzato da due similitudini molto vivide ed efficaci:

a) lo sguardo come di chi guarda sotto nuova luna;

b) l’aguzzare delle ciglia come fa il sarto che infila la cruna dell’ago.

RIASSUNTO E PARAFRASI

(V. 1-21) I sodomiti.

Si trovano ora su un argine del Flegetonte, dal quale esce un fumo così denso da proteggere l’acqua e gli stessi argini dalla pioggia di fuoco.

Gli argini del fiume sono simili a quelli che i Fiamminghi hanno costruito tra Wissant e Bruges per frenare le acque del mare, o quelli che i Padovani hanno edificato lungo il Brenta a difesa delle loro ville e dei loro castelli.

Camminando, i due poeti si sono tanto allontanati dalla foresta, da non riuscire più a scorgerla, quand’ecco incontrano una schiera di anime che avanza lungo l’argine e osserva i due viandanti come si fa la sera al chiaro della luna nuova, aguzzando le ciglia come fa il vecchio sarto per infilare la cruna dell’ago.

Brunetto Latini. Predizione sul futuro di Dante (vv. 22- 99)

 Dante è riconosciuto da una delle anime che lo afferra per un lembo della veste e pronuncia parole di meraviglia.

A sua volta, il poeta, fissando gli occhi nel volto arso dal fuoco di lui, riconosce Brunetto Latini, che lo prega di trattenersi un poco, mentre i suoi compagni proseguono il cammino.

Dante acconsente e anzi si dice disposto a fermarsi, Virgilio è d’accordo; ma il dannato gli spiega che, se uno di loro si soffermasse anche un solo momento,  per cent’anni dovrebbe rimanere in balia delle fiamme senza potersi difendere: egli lo seguirà e più tardi raggiungerà la schiera dei dannati.

Dante procede accanto a lui, tenendo il capo chino in segno di rispetto, ma senza scendere dall’argine, per timore delle fiamme.

Brunetto per prima cosa, desidera sapere come mai si trovi all’Inferno anzitempo e chi sia la persona che lo accompagna

Il Poeta risponde raccontando del suo smarrimento in una valle, dove incontrò Virgilio che si offrì di accompagnarlo nel viaggio, permettendogli di ritornare sulla retta via e Brunetto gli dice che, se seguirà la sua stella, senz’altro giungerà a “glorioso porto” ed egli stesso gli avrebbe dato conforto in tale impresa se non fosse morto tanto presto.

Inoltre Brunetto predice che “l’ingrato popolo maligno” di Firenze gli diverrà nemico a causa del suo retto agire e questo è giusto, perché non conviene che il dolce fico fruttifichi proprio dove dà i suoi frutti l’aspro sorbo: da tempo i Fiorentini sono considerati una razza cieca, avara, invidiosa e superba[4]; è bene che Dante si tenga lontano dai loro costumi. Sia i Bianchi che i Neri desidereranno sfogare su di lui la loro sete di odio, ma invano, poiché l’erba sarà lontana dal caprone che vorrebbe mangiarla.

Si sfoghino dunque tra di loro e non tocchino i discendenti della santa stirpe[5] romana, che rimase accanto ai Fiesolani al momento della fondazione di Firenze.

Dante, con commozione e affètto, dice che mai potrà dimenticare la cara e buona immagine paterna di Brunetto che gli insegnò come l’uomo possa acquistare fama eterna e aggiunge che se potesse vedere esaudito il suo desiderio, il caro maestro vivrebbe ancora.

Inoltre si rammenta della profezia che ha appena udito e chiederà chiarimenti, in merito ad essa e alle precedenti profezie di Farinata e di Ciacco, a Beatrice: si dichiara pronto ad affrontare qualsiasi avversità, purché la coscienza non debba rimproverargli nulla; la Fortuna potrà girare la sua ruota come il contadino gira la sua zappa.

A questo punto Virgilio si volta indietro a guardare Dante dicendo che, chi rammenta bene le parole udite, ascolta con profitto.

Altri sodomiti: Prisciano, Francesco d’ Accorso, Andrea dei Mozzi (vv. 100-124)

Proseguendo il cammino con Brunetto, Dante domanda chi siano i suoi compagni più famosi ed egli risponde che ne nominerà solo alcuni, poiché occorrerebbe troppo tempo per parlare di tutti: tutti comunque furono uomini letterati e di chiesa, colpevoli del medesimo peccato.

Tra di essi vi sono il grammatico Prisciano e Francesco d’Accorso, famoso giurista bolognese, e Andrea dei Mozzi, vescovo fiorentino trasferito da Papa Bonifacio VIII da Firenze a Vicenza, dove mori.

Brunetto vorrebbe parlare ancora, ma vede avvicinarsi un gruppo di dannati del quale egli non può far parte, perciò si congeda da Dante, raccomandandogli la sua opera il ” Tesoro”, grazie al quale il suo nome è ancora vivo.

Poi si volta e si allontana per raggiungere il proprio gruppo, correndo come il vincitore del drago verde durante la corsa del Palio di Verona[6].


[1]Il terzo girone rappresenta la società medievale, teocratica e feudale: per questo i bestemmiatori sono in minor numero, rispetto agli usurai, rappresentati soprattutto dalle grande famiglie gentilizie, ed ai sodomiti, uomini di lettere e giuristi.

[2] Nel medioevo i bestemmiatori e gli usurai venivano puniti col rogo, mentre Sodoma fu distrutta dal fuoco.

[3] Secondo il mito, salito sulle mura della città, sfidò Giove a difenderle, e questi, infuriatosi, lo fulminò. Simbolo della superbia umana che si oppone al divino, è punito più dalla sua stessa rabbia, furiosa, senza rimedio, che dalla pena fisica cui  soggiace.

[4]Si tratta di un popolo cieco, secondo una tradizione che si riferiva ad un inganno di Totila, il quale, per prendere Firenze, fece credere ai fiorentini di voler essere loro amico, per poter entrare nella città e distruggerla (G. Villani, Cron., 11, 1); o secondo una tradizione che si riferiva ad un altro inganno dei pisani, i quali donarono ai fiorentini, come premio per aver custodito la loro città durante la spedizione delle Baleari, due colonne di porfido guaste dal fuoco, e perciò coperte con un panno scarlatto (G. Villani, Cron., 1V 31).E si tratta inoltre di popolo avaro, invidioso e superbo, secondo un giudizio già manifestato da Ciacco (Inf. VI, 74).

[5] Dante si vantava di essere discendente degli antichi romani, rimasti con i fiesolani al momento della fondazione della città.

[6] Dante si riferisce alla corsa del Palio di Verona, che si teneva nella prima domenica di Quaresima.

La letteratura in prosa: trattatistica, cronaca storica e di viaggio, novella. (Prima parte)

S. Re- L. Simoni. L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001
R. Luperini-P. Cataldi-L. Marchiani-F. Marchese. La scrittura e l’interpretazione. Dalle origini al manierismo. Volume primo. Palumbo editore. Firenze. 2000.
AA. VV., La letteratura italiana in Cd-Rom, G. D’Anna editore- La repubblica Edizioni.  Milano. 1999.
S. Guglielmino-H. Grosser. Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994
E. Gioanola, Storia della Letteratura italiana. Dalle origini ai giorni nostri. Librex editore, Milano, 1992.
A. Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento, Giuseppe Principato editore. Messina-Milano, 1937.
C.A.Calcagno, La scuola dei poeti toscani, in I grandi classici della poesia italiana, Duecento, p. 90 e ss., Bottega d’arte di Penna d’Autore, Torino, 2006

    In tutte le letterature la prosa nasce dopo la poesia, poiché per la prima è necessario che si siano consolidate le strutture morfologi­che[1] e sintattiche[2].

    A tenere a battesimo la prosa volgare è il latino che presta ad essa il lessico e la dignità costruttiva[3]; il Duecento è un secolo di traduzioni ed è proprio Cicerone[4] il centro di riferimento per chi intende misurarsi con lo stile prosastico.

    La prosa volgare nasce quindi in massima parte colta e ligia alle regole della retorica classica[5].

    Inizialmente infatti essa era riservata ad un livello di comunica­zione spesso privato o di carattere ufficiale.

    Con l’affermarsi però delle nuove istituzioni comunali, che sentivano la necessità di coinvolgere nella gestione pubblica uno strato più ampio di cittadini, con le esigenze della classe borghese mercanti­le in forte espansione che necessitava di strumenti di comunicazio­ne più agili e comprensibili e infine con il sorgere di scuole legate al Comune e non ai centri ecclesiastici, si fa strada  l’esigenza di una lingua scritta più vicina al parlato e fruibile da un pubblico sempre più ampio e soprattutto digiuno di latino.

     I primi esemplari di prosa letteraria volgare si trovano, in qualità di inserti, nel trattato in lingua latina Gemma purpurea (1243) di Guido Faba, che è una raccolta di lettere scritte come modello per servire ai dotti, secondo i precetti della retorica ciceroniana.

     Guido Faba, notaio bolognese e collega[6] nell’Università di Bologna del celebre maestro di retorica Buoncompagno da Signa, adotta ed adatta per la prosa volgare i precetti retorici che quello nel Boncompagnus e nella Rhetorica novissima aveva dato per la prosa latina.

    In Parlamenta et epistole Guido Faba, accomunando ancora latino e volgare sotto la medesima regia dell’ars dictandi (l’arte del comporre lettere in bello stile) e del cursus (la cadenza ritmi­ca)[7], si presenta nettamente come il primo scrittore italiano in prosa volgare[8].

    Non è casuale che Faba fosse notaio, come non lo è che fosse notaio Brunetto Latini: si trattava di una professione che metteva in contatto volgarizzandola la cultura medievale formale, concisa ed astratta con il mondo borghese in dinamica espansione, desidero­so di acculturarsi ma anche legata ai processi concreti del nuovo sviluppo socio-economico[9].

   Al di fuori di Bologna ove abbiamo, come detto, esempi della prosa d’arte in campo giuridico ed epistolare, un altro esempio di volgarizzazione è in Toscana il primo trattato scientifico della letteratura volgare, la Composizione del mondo (1280) – in dialetto aretino – del frate astronomo Restoro D’Arezzo, enciclope­dia in cui si parla delle stelle, dei pianeti e della terra e delle reciproche influenze, oltre che dei regni minerale, vegetale e animale.

– A leggere nel proemio che <<l’omo è creato per conosciare e per sapere e per entèndare e per audire e per vedere le mirabili operazioni di questo mondo>> sembra di trovarsi di fronte all’Ulis­se dantesco o al primo umanista.

– Invece ci troviamo di fronte ad un autore del Duecento che mette a disposizione nel volgare della sua città il suo sapere, ossia il sapere dell’antichità e del Medioevo più remoto, dai tempi di Aristotele, Plinio il Vecchio e Tolomeo a quello di Isidoro di Siviglia[10] e degli scienziati di Bagdad e del Cairo, miscela di cose fantastiche e di raffinatissime nozioni scientifi­che, frutto di fantasie fertili e di pazienti osservazioni celesti, di supersti­zione e di matematica.

    Restoro ci appare intricato, ingenuo e a tratti buffo ovviamente agli occhi del Duemila nella sua ossessione di spiegare tutto: perché il giorno ha ventiquattrore, perché i giorni della settimana sono sette, perché le dimensioni delle cose sono quelle che sono, perché la destra è la destra, la sinistra la sinistra e non viceversa, perché il movimento delle costellazioni è da oriente ad occidente e non viceversa (perché altrimenti i corpi celesti mostrerebbero sul davanti “le nateche”, parte ignobile, e sul dietro la fronte, parte nobile).

    L’unica cosa nell’universo che non agisce secondo ragione è per Restoro, l’amore, ma a lui va bene così (<<eo lo lodo>>).

     Traduttore di Cicerone fu anche Brunetto Latini, il maggiore dei trattatisti del Duecento, amato e ammirato da Dante (che “lo incontra” nel canto XV dell’Inferno) per i suoi meriti culturali di autentico maestro della nuova cultura laico-borghese.

    Brunetto nacque a Firenze verso il 1220, figlio di un notaio e notaio egli stesso, e partecipò fin da giovane alla vivacissima lotta politica della città schierandosi dalla parte guelfa: fu mandato nel 1260 presso il re di Castiglia Alfonso X il Saggio (che era stato designato “re dei romani”)[11], per ottenere aiuto contro i Ghibellini.

      Fu una missione inutile perché non evitò la battaglia di Montaperti[12] e comportò per Brunetto l’esilio (in un primo tempo a Montpellier)[13] per la sconfitta della sua parte.

      Fermatosi in Francia, esercitò la sua professione a Parigi, dove scrisse la sua opera maggiore, Li livres dou tresor, in lingua d’oil (francese) non tanto per il soggiorno in quella nazione ma perché era la lingua più diffusa, largamente conosciuta anche in Italia.

     Tornato a Firenze dopo la battaglia di Benevento[14], nel 1266,  fu insegnante e partecipò alla vita pubblica: fu  priore nel 1277 e nel 1284 divenne membro del Consiglio del podestà, assieme a Guido Cavalcanti e a Dino Compagni..

      Nel frattempo la sua fama si era estesa ovunque, anche fuori d’Italia, come attestano le traduzioni del Tesoro in catalano e castigliano (oltreché in volgare toscano, in bergamasco e in latino): morì nella sua città nel 1294.

      Il Tesoro è una tipica enciclopedia medievale, in tre libri, il primo dedicato soprattutto alla cosmogonia con incursioni nel territorio della geografia, della zoologia, della botanica, dell’anatomia e della storia; il secondo alla filosofia morale, con la solita elencazione dei vizi e delle virtù; il terzo è dedicato alla retorica e alla politica, con diretti agganci alla situazione contemporanea e con intenti di formazione dell’uomo politico attraverso l’oratoria; in quest’ulti­mo libro si vede come l’arte della retorica è strettamente correlata al buon governo del Comune di Firenze, le cui istituzioni sono contrapposte, in quanto ritenute migliori, a quelle della contemporanea monarchia francese.

     L’opera con la quale Brunetto Latinimanifesta maggiormente l’intenzione di coniugare il pratico esercizio della politica con l’arte del dire e dello scrivere è la Rettorica[15]; chi intende governare deve sapersi esprimere degnamente, non per imporre con l’astuzia i propri convincimenti, bensì essendo l’arte retorica strettamente legata all’etica[16], per il bene della propria città e in nome del buon governo.

      Ricordiamo ancora un’opera di Brunetto: il Tesoretto, poemetto didattico incompiuto dove tratta soprattutto di teologia, filosofia naturale ed etica, ma anche dell’astronomia e della geografia. Il suo insegnamento offre un eccellente studio sulla visione medievale del mondo: Dante sarà fortemente ispirato da quest’opera[17] .

       Offriamo qui in lettura un bel passo di quest’ultima opera. Brunetto descrive il Mediterraneo.

Di questo mar ch’i’ dico 

vidi per uso antico 

nella perfonda Spagna 

partire una rigagna 

di questo nostro mare, 

che cerehia, ciò mi pare, 

quasi lo mondo tutto, 

sì che per suo condotto 

ben pò chi sa dell’arte 

navicar tutte parte, 

e gire in quella guisa 

di Spagna infin a Pisa 

e ‘n Grecia ed in Toscana 

e ‘n terra ciciliana 

e nel Levante dritto 

e in terra d’Igitto. 

Ver’ è che ‘n orïente 

lo mar volta presente 

ver’ lo settantrïone 

per una regïone 

dove lo mar non piglia 

terra che sette miglia; 

poi torna in ampiezza, 

e poi in tale stremezza 

ch’io non credo che passi 

che cinquecento passi.  

Da questo mar si parte 

lo mar che non comparte, 

là ‘v’e la regïone 

di Vinegia e d’Ancone: 

così ogn’altro mare 

che per la terra pare 

di traverso e d’intorno, 

si move e fa ritorno 

in questo mar pisano 

ov’è ‘l mare Occïano.


[1]  La morfologia è lo studio della formazione delle parole e delle loro variazioni grammaticali.

[2]  La sintassi è quella parte della grammatica che studia le relazioni che le parole hanno fra di loro all’interno della frase e stabilisce le norme che regolano tali relazioni.

[3] Per costruzione si intende la disposizione delle parole nella proposizione, e delle proposizioni nel periodo, che ubbidisce al senso, allo stile o agli usi propri di ciascuna lingua.

[4] L’opera di Cicerone comprende 58 orazioni (altre 48 sono andate perdute), che riguardano la sua attività di magistrato e di uomo politico, caratterizzate da una prosa ricca e fluida che unisce chiarezza ed eloquenza. Le più note sono In Catilinam (I-IV) e le Philippicae (I-XIV) contro Antonio. Nelle opere di retorica, quali il De oratore, il Brutus, l’Orator, Cicerone passò in rassegna i diversi stili, il grandioso, il semplice e l’intermedio. Importantissime, perché informano sulla vita privata e pubblica di Cicerone e al tempo stesso forniscono uno spaccato della vita del tempo, sono le oltre 900 Epistole indirizzate agli amici, ai familiari, ai politici e agli intellettuali suoi contemporanei. Con la sua prosa duttile, che sa essere magniloquente senza riuscire oscura, ed è in grado di trattare temi assai diversi – dalle minuzie quotidiane alle questioni etiche, dalle argomentazioni filosofiche alle sottigliezze giuridiche e all’invettiva politica – Cicerone stabilì i canoni della lingua colta ed ebbe appunto un’immensa influenza sugli scrittori dei secoli successivi, fino a Petrarca e alla letteratura del Rinascimento.

[5] I trattatisti latini (Cicerone e Quintiliano) distinsero cinque fasi dell’elaborazione del discorso: inventio (ricerca degli argomenti); dispositio (disposizione degli argomenti), a sua volta suddivisa in exordium (inizio), captatio benevolentiae (finalizzata ad accattivarsi i favori del pubblico o dell’interlocutore), narratio (esposizione degli argomenti), confirmatio (spiegazione dei fatti), peroratio (epilogo); elocutio (elaborazione stilistico-formale); memoria (apprendimento mnemonico del discorso) e actio (cura dell’intonazione e della gestualità). Queste ultime due fasi erano ovviamente riservate ai discorsi da tenere in pubblico.

[6] In quanto professore di retorica ed ars dictandi.

[7] Ossia delle regole proprie della prosa latina.

[8] A un discorso volgare (parlamentum) corrispondono tre esempi di lettere in latino (epistole): una ampia e nel contenuto e ornata nello stile (major), una più sintetica e meno elaborata (minor) e una terza ancor più minima e concisa (minima). Si passa da esempi di lettere ufficiali e pubbliche rivolte principalmente alle istituzioni cittadini o alle autorità ecclesiastiche, a lettere di contenuto più leggero e privato. Più che al contenuto, l’attenzione è rivolta alla forma, che deve non solo abbellire il dettato, ma anche dar forza agli argomenti.

[9] Al proposito gli Statuti di Bologna del 1246 stabilivano che i notai dovessero saper leggere e scrivere sia in latino sia in volgare.

[10] Isidoro di Siviglia (Siviglia 560 ca.-636 ca.), santo, teologo, arcivescovo ed enciclopedista spagnolo, studiò in monastero sotto la vigilanza del fratello, san Leandro, a cui successe come arcivescovo di Siviglia. Con tale carica, Isidoro contribuì a unificare la Chiesa spagnola convertendo i Visigoti, che avevano completato la conquista della Spagna nel V secolo, dall’arianesimo, eresia tra le più controverse nella storia della Chiesa, all’ortodossia cristiana. Presiedette anche numerosi concili importanti, tra cui il quarto concilio nazionale di Toledo (633), che decretò l’unione di Chiesa e Stato, l’istituzione di scuole vescovili in ogni diocesi e l’unificazione della pratica liturgica. La sua opera più importante sono le Etymologiae, nella quale cercò di compendiare tutto il sapere, laico e religioso: composta di venti sezioni, divenne il testo di riferimento adottato dagli studenti nel corso di tutto il Medioevo e per molti secoli successivi. Tra le altre opere di Isidoro si annoverano trattati di teologia, linguistica, scienza, storia e commenti sulle Scritture. Il suo Sententiarum Libri Tres fu il primo manuale di dottrina e pratica cristiana della Chiesa latina.

 

[11] Alfonso X (Toledo 1221 – Siviglia 1284), re di Castiglia e di León (1252-1282), figlio e successore di Ferdinando III. Il suo regno fu segnato da continui scontri con i mori, da numerose guerre civili e da ripetuti e infruttuosi tentativi di ottenere la corona del Sacro romano impero. Venne deposto nel 1282, a seguito di un’insurrezione guidata dal figlio Sancho IV, contrario alla ripartizione del regno fatta dal padre, in favore dei figli del primogenito, Fernando, morto nel 1257. Alfonso morì due anni più tardi in totale abbandono. Poeta e autore di numerose opere storiche (Primera crónica general de España) e di trattati scientifici (Lapidario e Libros del saber de astronomía), stimolò la vita culturale spagnola del XIII secolo; sotto la sua direzione fu avviata la traduzione dell’Antico Testamento in lingua castigliana e, nel 1252, furono realizzate da astronomi arabi una serie di tavole astronomiche tuttora famose con il nome di Tavole Alfonsine. Il sovrano promulgò un codice di leggi intitolato Las siete partidas (Le sette parti), redatto sulla base dell’antico diritto romano.

[12] In cui i guelfi fiorentini erano stati sconfitti dai ghibellini fuoriusciti e dai senesi alleati con i tedeschi di Manfredi, figlio naturale di Federico II.

[13] Insieme al nonno di Dante, Bellincione.

[14] Tale battaglia sancisce la sconfitta di Manfredi ed il definitivo predominio nella città di Firenze dei Guelfi anche se non porta la pace in quanto poi questi si divideranno nella fazione dei Bianchi e dei Neri.

[15] Volgarizzazione del trattato ciceroniano De inventione.

[16] Etica (Greco, ethiká, da ethos, “carattere”, “costume”), insieme di principi o norme che regolano la condotta umana, e per estensione lo studio di tali principi, denominato filosofia morale (dal latino mores, “costumi”). L’etica cerca di rispondere a domande come: “Quando un’azione è giusta?”, “Quando un’azione è sbagliata?” e “Qual è la natura o la norma che decide del bene e del male?”.

[17] E’ utile ai medievalisti avere a disposizione un testo leggibile del Tesoretto. Il poema è breve, tuttavia riassume ammirevolmente molti dei topoi medievali, l’insegnamento per mezzo di personificazioni allegoriche, che trasmettono al poeta discepolo – sostituto del lettore – le idee per quanto concerne  il mondo, i quattro elementi, i quattro umori, le quattro virtù, i sette peccati capitali, la caduta, l’incarnazione, e così via; fonde elementi cristiani e pagani, sacri e profani, soprattutto nel modo giocoso in cui è percepito Amore (Tillyard, pp. 98-102; Lewis, pp. 23-75). La struttura del Tesoretto di Latino, come l’ovidiano De arte honeste amandi di Andrea Cappellano, presentando l’arte e il rimedio d’amore, è quella di una palinodia. E’ stato difficile per i lettori moderni comprendere come leggere tali testi medievali ironici, e il Tesoretto di Latino può essere d’aiuto per decodificare tale genere. Può anche essere utile per decodificare la Vita Nuova e la Commedia di Dante, la House of Fame (La casa della fama) e i Canterbury Tales (I racconti di Canterbury) di Chaucer. Se Eliot e Joyce hanno potuto includere Brunetto Latino nel loro canone, allora certamente i medievalisti e i dantisti avrebbero potuto fare lo stesso, vedendo in Brunetto Latino il maestro di Dante, da lui venerato e diffamato, il cui Tesoretto fu ripetutamente citato e riecheggiato da Dante nella sua Commedia (v. per un approfondimento  “Il tesoretto”, a cura di Julia Bolton Holloway in http://www.florin.ms/Tesorettintroital.html).

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In dreams, there is truth.

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In questo nostro Paese c'è rimasta soltanto la Speranza; Quando anche quest'ultima labile fiammella cederà al soffio della rassegnazione, allora chi detiene il Potere avrà avuto tutto ciò che desiderava!

Aoife o Doherty

"Fashions fade style is eternal"

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romanzo a puntate di Ben Apfel

La Via della Mediazione

Perché niente è più costante del cambiamento

Psicologia per Famiglia

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Cento pensieri che provano a prendere forma attraverso una scrittura giovane e ignorante, affamata solo di sfogo.

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Parole a passo d'uomo

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