Il canto si apre con le ultime ore dell’8 aprile 1300, venerdì santo.
I poeti si trovano nel cerchio II.
È più stretto del primo, e qui inizia l’Inferno vero e proprio.
Il luogo è tenebroso, d’ogni luce muto, battuto dai venti di un’incessante bufera.
Il Custode del cerchio è: Minosse.
I dannati puniti sono i lussuriosi, coloro che cercarono la soddisfazione dei sensi contro ogni regola e misura, tanto da sottomettere la ragione all’istinto.
La pena ed il contrappasso: sono tormentati da un vento furioso, da una tempesta incessante che li sospinge rovinosamente per tutto il girone.
Come in vita furono trascinati dal turbine della passione, ora li trascina la bufera eterna.
La loro ragione, quando peccarono, fu ottenebrata; cosi ora sono immersi nel buio infernale.
Le anime di Paolo Malatesta[1] e Francesca da Polenta[2] sono le protagoniste del canto: sono unite nella pena come lo furono nel peccato[3].
I personaggi principali del canto sono:
Minosse
Figlio di Zeus e di Europa, mitico re di Creta, celebre per avere dato ai Cretesi le prime costituzioni e per la severità con cui amministrava la giustizia.
Ci viene presentato già da Virgilio e da Omero come giudice dell’oltretomba, insieme al fratello Radamanto.
In Dante, è custode e giudice di tutto l’Inferno: le anime dei dannati si confessano dinanzi a lui, ed egli, valutatone il tipo di peccato, le destina al cerchio che compete loro, avvolgendo la coda intorno al suo corpo tante volte quanti sono i gradi che l’anima deve scendere. È il rappresentante della giustizia divina nell’Inferno.
Semiramide.
Leggendaria regina degli Assiri che Secondo la tradizione greca, riportata da Diodoro Siculo, nacque dalla dea Derceto (divinità siriaca) e, dopo varie vicende, sposò il mitico Nino, fondatore dell’impero assiro, alla morte del quale tenne il regno per quarantadue anni, ampliandone i territori e fondando la stessa Babilonia, che ornò degli splendidi giardini pensili.
I costumi di questa regina erano talmente dissoluti che si innamorò del figlio che poi la uccise.
Didone
Figlia di Belo, re di Sidone, e regina di Cartagine. Rimasta vedova di Sicheo, giurò di rimanere fedele alla memoria del marito, ma si innamorò di Enea e, quando questi la abbandonò, per la disperazione si uccise.
Cleopatra[4]
Figlia di Tolomeo Aulete e regina d’Egitto. Amante prima di Cesare, poi di Antonio, di cui causò la sconfitta nella battaglia di Azio (31 a.C.).
Si uccise per non cadere nelle mani di Ottaviano.
Elena
Moglie di Menelao, una delle principali eroine dell’Iliade e dei poemi ciclici.
Nata da un uovo deposto da Leda, che si era congiunta con Zeus, fu rapita da Teseo e da lui portata in Attica; fu liberata dai fratelli gemelli Castore e Polluce e ricondotta a Sparta, ove fu chiesta in sposa da tutti gli eroi della Grecia.
Tindaro (marito di Leda e padre di Castore e Clitennestra) fece giurare a questi ultimi che si sarebbero uniti contro chiunque avesse voluto contendere la donna allo sposo da lei prescelto.
Menelao fu l’eroe eletto come marito, ma mentre egli era lontano, Paride, figlio di Priamo, re di Troia, ospitato a Sparta, rapì Elena ed il tesoro reale.
Al suo ritorno Menelao ingiunse ai suoi antichi rivali di mantenere il loro giuramento: ebbe così inizio la guerra di Troia.
Elena rimase sempre per i Greci la personificazione della bellezza.
Achille
Leggendario eroe tessalico, re dei Mirmidoni, figlio di Teti e di Peleo.
Per renderlo invulnerabile la madre lo immerse fanciullo nello Stige tenendolo sospeso per un tallone che restò vulnerabile.
Fu allevato da ottimi maestri, Fenice e Chirone, che gli insegnarono a tirar d’arco, a curare le ferite, a combattere valorosamente. Dopo che Calcante ebbe predetto la sua morte sotto le mura di Troia, Teti lo nascose presso il re di Sciro; ma i Greci, consci del suo valore, lo fecero cercare da Ulisse e lo ritrovarono.
Achille non esitò ad abbandonare il suo rifugio, benché innamorato di Deidamia, figlia del suo ospite, e combatté con ardore fino a quando Agamennone non gli sottrasse senza ragione la diletta schiava Briseide: si ritirò allora nella sua tenda e lasciò che i Troiani riportassero numerose vittorie sui Greci.
Nel tentativo di arrestare l’offensiva troiana scese in campo l’amico prediletto di Achille, Patroclo, munito delle armi dell’eroe, ma fu ucciso da Ettore.
Per vendicare la sua morte, Achille riprese la lotta, rivestito dello scudo meraviglioso che Teti gli aveva fatto foggiare e decorare da Efesto, uccise Ettore in duello e ne trascinò il corpo sotto le mura di Troia, abbandonandosi in tal modo, nell’ebbrezza della vittoria, a un’empia ferocia che Apollo non gli perdonò.
Commosso dalle preghiere del vecchio Priamo, Achille rese poi il corpo di Ettore, ma cadde a sua volta, trafitto al tallone da una freccia scoccata da Paride e guidata da Apollo.
Paride
Eroe troiano figlio di Priamo e di Ecuba, famoso per la sua bellezza, detto anche Alessandro.
Poiché gli indovini avevano predetto che egli avrebbe causato la rovina di Troia, alla sua nascita fu esposto sull’Ida, dove fu allattato da un’orsa e infine raccolto da un pastore che lo allevò con i suoi figli.
Scelto da Zeus come giudice tra Era, Atena e Afrodite, che si disputavano la mela d’oro destinata da Eris[5] alla più bella, assegnò la vittoria ad Afrodite (che gli aveva promesso in cambio l’amore di Elena), attirandosi così l’odio implacabile di Era e di Atena.
In seguito ritornò a Troia, dove fu riconosciuto dai genitori e accolto con gioia.
Recatosi quindi a Sparta e ricevuto con grandi onori da Menelao, ne convinse, come detto più sopra, la moglie Elena a fuggire con lui, provocando così la guerra contro Troia. Durante l’assedio, con l’aiuto di Apollo uccise Achille. A sua volta ferito da Filottete, Paride morì sull’Ida.
Tristano
È un personaggio tratto da una leggenda medievale[6], forse di origine celtica, presente in numerose letterature occidentali. Tristano, nipote di re Marco di Cornovaglia, si innnamora di Isotta la Bionda, sorella di Moroldo d’Irlanda (ucciso da Tristano in un duello) e richiesta in sposa da re Marco.
ELEMENTI PRINCIPALI DEL CANTO
1) La figura di Francesca da Rimini.
L’incontro con Francesca, unita indissolubilmente a Paolo, è uno degli episodi centrali non solo del canto, ma dell’Inferno tutto.
Tra i due, Dante dà voce alla donna, e crea un personaggio ricco di dolorosi sentimenti.
Francesca non riferisce i particolari della sua triste vicenda, vi accenna solo per ricondurli alla dimensione di struggente dolore, senza rimedio, di cui è protagonista.
La sua delicatezza, i modi gentili, l’istinto che, insieme a Paolo, la spinge quasi con trepidante desiderio al colloquio con D., sono elementi che costituiscono necessariamente il personaggio, la sua <<umanità>>, non scevra da colpa, la <<cortesia>> che è propria degli innamorati, ma che non giustifica il loro peccato.
La figura di Francesca è da collegare con due altre figure femminili: Pia dei Tolomei (Pg. V)[7] e Piccarda Donati[8] (Pd. III) che D. pone in apertura delle due successive cantiche[9].
2) 22La pietà di Dante.
Al racconto di Francesca Dante, preso da forte commozione, cade a terra svenuto.
La pietà che lo investe è da un lato, emozione dell’uomo che partecipa della sventura e non regge alle lacrime dei due amanti, dall’altro, frutto della perplessità e della riflessione problematica dell’uomo di fede che non può perdonare la colpa di Paolo e Francesca, e tuttavia conosce bene i sentimenti di Amore e le debolezze che in nome dell’amore trascinano al peccato.
In sintesi: la pietà di Dante nasce dall’incontro tra un’anima vinta dal peccato e un’altra anima, la propria, che vuole vincere il peccato e le condizioni che lo determinano.
3) La forza di Amore e i dettami dello Stil Novo.
Tre volte Francesca nomina la parola amore, in inizio di tre terzine successive, in cui sintetizza la sua vicenda e qualifica in termini generali gli effetti di tale sentimento:
- Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende (amore che si accende subito in un cuore nobile), verso ispirato ad uno dei manifesto della poesia stilnovista – Al cor gentile rempaira sempre amore (al cuore nobile amore torna sempre come alla sua propria dimora[10]) – di Guido Guinizzelli (v. 100);
- Amor, ch’a nullo amato amar perdona (amore che non permette a nessuna persona amata di non riamare): altro concetto questo fondamentale per la poesia stilnovistica (v. 103);
- Amor condusse noi ad una morte (v. 106): non è solo la morte fisica ma anche la morte dell’anima e da qui nasce lo sgomento di Dante.
Così ella denuncia la forza del sentimento che trascina e non permette resistenza, e nello stesso tempo trasferisce su un piano generale la propria vicenda personale.
Questi versi sono giustamente famosi, anche perché, come detto, condensano i principi della dottrina d’amore esposta nei poeti dello Stil Novo.
4) L’occasione della dannazione di Paolo e Francesca.
La saldatura fra la vicenda drammatica dei due amanti e lo sfondo della cultura letteraria romanza si compie nei versi in cui Francesca espone la prima radice (Cfr. v. 124), l’occasione in cui si è manifestato l’amore che l’ha dannata, visto che Dante, sembra tanto desideroso di conoscerla (ma s’a conoscer la prima radice/del nostro amor tu hai cotanto affetto, vv. 124-125).
L’occasione è la lettura di un grande romanzo medievale in prosa francese, il Lancelot che si suole intitolare anche Lancelot propre, “Lancelot propriamente detto”, per distinguerlo entro una compilazione narrativa molto più vasta, detta Lancelot-Graal o anche Vulgata, al cui centro è la vicenda dell’amore di Lancillotto e Ginevra, la moglie di re Artù.
L’episodio che i due amanti stanno leggendo è quello del primo bacio.
Galeotto (Galehaut), potentissimo re delle Lontane Isole, ha mosso guerra a re Artù, ma vi pone fine perché affascinato dalle imprese di Lancillotto, cui si lega con un’amicizia intensa e velatamente morbosa che lo porterà alla morte.
Subito dopo la fine della guerra, egli procura all’amico l’incontro con la regina, nel quale Lancillotto giunge a rivelarle il suo amore, e la regina lo bacia.
Paolo e Francesca, narra quest’ultima, si sono identificati nella lettura (per più fiate li occhi ci sospinse/ quella lettura, e scolorocci il viso, vv 130-131), tanto che ora, raccontando, lei inverte le parti, come se fosse stato Lancillotto a baciare la regina: ma è stato Paolo a baciare lei tutto tremante, assumendo la parte di quell’amante esemplare che fa vibrare i cuori dei suoi lettori (cotanto amante, v. 134).
Perciò il libro, conclude Francesca, ha fatto per loro la parte che Galeotto ha fatto con Lancillotto e Ginevra, portandoli a manifestare l’amore reciproco e a baciarsi.
Già la seconda parte del Lancelot sviluppava la storia portando sempre più in primo piano il senso del peccato[11]: e la funzione assolta dal libro al posto di Galeotto con i due amanti è stata quella di portarli alla dannazione.
Così giudica Dante chiaramente, ma altrettanto chiaramente aderisce con la sua compassione (pietade, v 140) al loro dramma, espresso alla fine sinteticamente nel pianto che è la sola espressione di Paolo.
I due sentimenti si collocano su due piani diversi, senza che la compassione metta in dubbio il giudizio, ne il giudizio possa sminuire la compassione; ma Dante sceglie di esprimere il suo dramma, di persona che ha pur condiviso una concezione dell’amore che deve ora condannare, nel modo più semplice e al tempo drastico e poeticamente efficace, facendo sopraffare il suo personaggio dalla piena dei sentimenti fino allo svenimento (come corpo morto cade) con cui il canto si conclude.
5) La figura di Minosse. Minosse è la seconda figura, derivata dalla tradizione classica e trasformata in demone custode dell’intero regno infernale, che Dante ci rappresenta. a metà tra uomo e bestia, ringhioso con la coda che implacabile condanna.
Anche con lui Virgilio usa la formula che esprime la volontà divina per superarne l’ostacolo a proseguire:<<Non impedir lo suo fatal andare: vuolsi così colà dove si puote>>.
RIASSUNTO
Dante e Virgilio scendono nel secondo cerchio: alla sua guardia è posto Minosse, orribile e ringhiante, con il compito di stabilire il luogo della pena eterna destinato a ciascun dannato che al suo cospetto, confessa i propri peccati.
Il giudice infernale ammonisce Dante a non fidarsi dell’ampiezza della strada che si accinge a percorrere e neppure della guida di Virgilio, ma quest’ultimo lo zittisce con parole di sapore rituale che indicano come il viaggio di D. sia volontà di Dio (vv. 1-24).
Nel secondo cerchio, buio e mugghiante come il mare in tempesta, percorso da un vento assordante e violento, sono puniti i lussuriosi, che hanno sottomesso la ragione alle insane passioni d’amore; essi sono trascinati incessantemente dalla bufera infernale senza speranza di tregua.
Quando gli spiriti giungono di fronte alla “ruina”, cioè allo scoscendimento della roccia prodotto dal terremoto che seguì alla morte di Gesù Cristo[12], gridano, piangono, si lamentano e bestemmiano la virtù divina.
Dante capisce di trovarsi dinnanzi alle anime dei lussuriosi, peccatori carnali che sottomisero la ragione alle loro voglie: secondo la legge del contrappasso essi, senza alcuna speranza di sostare, sono trascinati di qua e di là dalla bufera, così come gli stornelli sono portati dalle ali nella fredda stagione invernale; e come le gru, volando in fila, vanno emettendo i loro versi lamentosi, così molte ombre, trascinate dal vento verso i due poeti, emettono i loro lamenti.
Virgilio, su richiesta di D., elenca alcuni di questi lussuriosi, protagonisti della storia e della letteratura, morti in modo violento: Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena, Achille[13], Paride[14], Tristano[15] e mille altre anime vittime della passione d’amore.
Dante udendo nominare tanti famosi cavalieri e donne antiche è preso da pietà e sta per svenire. (v. 25-72)
Dante scorge due anime che procedono unite e sembrano più leggere al movimento vorticoso della bufera: egli domanda al maestro di potersi intrattenere con loro, esprimendo poi direttamente tale desiderio ai due infelici amanti, che accorrono prontamente come colombe trascinate dall’istinto (v. 73-87).
È Francesca che parla al poeta, rammentando la sua città natale, Ravenna, ed accennando (con formule tratte dallo stilnovo) all’innamoramento per Paolo seguito dalla tragica morte per mano del marito Gianciotto, fratello di Paolo, che secondo Francesca è punito nella Caina, la zona dell’inferno destinata ai traditori dei parenti (vv. 88-107).
Dante, profondamente turbato, chiede alla donna di narrare in che modo nacque e si manifestò la passione d’amore tra i due peccatori; mentre Francesca ricorda la lettura della storia di Lancillotto che sospinse i due amanti l’uno tra le braccia dell’altra, Paolo piange disperato ed il poeta sovrastato da questa perdizione senza scampo, perde i sensi (108-142).
[1] Fu capitano del popolo a Firenze tra il 1282 ed il 1283.
[2] Figlia di Guido da Polenta il vecchio, signore di Ravenna, aveva sposato tra il 1275 e il 1282 il fratello di Paolo, Gian Ciotto Malatesta, signore di Rimini.
[3] Morirono uccisi insieme tra il 1283 ed il 1286.
[4] 69-30 a.C.
[5] Nella mitologia greca è la dea della discordia.
[6] La trama è in sostanza la seguente: il giovane principe di Leonois, Tristano, nipote di Marco re di Cornovaglia (che è deturpato nella sua figura umana da mostruose orecchie equine) abbatte il terribile Morholt d’Irlanda, un mostro che affligge l’Irlanda stessa, cui la Cornovaglia deve annualmente il tributo di giovani vite; ma nella terribile lotta resta ferito da una spada avvelenata: e la ferita è incurabile.
Tristano lascia allora la corte dello zio; e da una nave senza vela, senza remi, senza timone, è portato sulle coste d’Irlanda; ed è curato e guarito dalla sorella del vinto Moroldo, esperta di arti magiche e mediche. Torna presso lo zio, che lo incarica di andare a chiedere per lui in isposa la fanciulla cui appartiene il capello biondo che una rondinella ha lasciato cadere ai suoi piedi.
La fanciulla è la sorella di Moroldo, figlia del re d’Irlanda, colei che ha guarito Tristano, Isotta la bionda. Dopo varie vicende, Tristano ottiene di scortare sino in Cornovaglia la dolce fanciulla, e al momento dell’imbarco la regina gli confida un meraviglioso filtro, che Isotta dovrà bere col suo sposo re Marco, che assicurerà per l’eternità un amore intenso e profondo fra i due coniugi.
Ma per un errore dell’ancella Brengania, Isotta beve durante la navigazione il filtro con Tristano. e i due giovani ardono l’un per l’altro di una irresistibile passione.
Re Marco, nonostante le precauzioni dei due amanti, li sorprende un giorno e li scaccia; e i due si riducono a vivere solitari nella foresta di Morrois.
Vi capita un giorno il re, durante una caccia; e coglie i due amanti nel sonno, ma divisi da una spada, collocata fra loro. Commosso da questo che gli appare un segno di innocenza, Marco riconduce con se Isotta la bionda e bandisce dalla corte Tristano, che va nell’Armorica, dove sposa Isotta dalle bianche mani, figlia del duca; la quale, nei tratti e nel nome, gli richiama la dolce sua amica perduta.
Ma il ricordo dell’amica opprime, invincibile, l’eroe, che si sente sempre più distaccato e remoto dalla sposa. Resta un giorno gravemente ferito e nessuno sa curarlo.
Occorre l’intervento di Isotta la bionda, che sola conosce i segreti dell’arte medica.
Una nave è inviata a cercarla. Se Isotta vorrà venire al letto dell’amico infermo, la nave, al ritorno, alzerà la vela bianca; vela nera, invece, se Isotta si rifiuterà. Passano i giorni e Tristano languisce; e solo per la dolce speranza di un ritorno della sua donna trattiene la vita che gli sfugge.
Finalmente la nave è in vista e alza vela bianca. Ma Isotta dalle bianche mani, spinta dalla gelosia che la tormenta, annuncia che la vela è nera; Tristano, che ha ancora solo un soffio di vita, disperato lo lascia sfuggire e spira.
Così Isotta la bionda trova, allo sbarco, la città immersa nel lutto; e accorre al letto del morto amico e cade morta di dolore al suo fianco.
[7] Pia della famiglia dei Tolomei di Siena, sarebbe andata sposa a Nello dei Pannocchieschi, podestà di Volterra e di Lucca, e poi sarebbe stata uccisa in circostanze misteriose: forse dallo stesso marito che la punì per l’infedeltà o che voleva risposarsi con Margherita degli Aldobrandeschi, a suo tempo sposa del conte Umberto di Santa Fiora.
[8] Sorella di Forese Donati, amico di Dante (posto nel Purgatorio Canto XXIV), e di Corso Donati, il più irriducibile nemico dell’Alighieri. Entrata nel convento delle Clarisse ne era stata tratta fuori con la violenza dal fratello Corso che l’aveva costretta a sposare uno dei più facinorosi dei suoi compagni, Rossellino. Piccarda morì poco dopo il rapimento: secondo una leggenda ottenne da Dio il dono di mantenere comunque la verginità.
[9] La ritroviamo nel Canto V del Purgatorio.
[10] Foco d’amore in gentil cor s’apprende/come vertute in petra preziosa.
[11] Che nell’ultimo romanzo del ciclo, la Morte di Artù, è presentato come la causa della rovina del mondo arturiano.
[12] In Inf. XII, 37-45 (cerchio VII dei violenti) si spiega che si tratta di una frana dell’orlo dei vari cerchi il cui ricordo fa sentire alle anime dannate più esasperata la loro condanna.
[13] Fu ucciso dal fratello di Polissena.
[14] Fu ucciso da Filottete
[15] Morì, come già detto, con Isotta a causa del loro amore infelice.