
Dopo il proemio generale all’opera, costituito dal primo canto, con l’annuncio e l’impostazione narrativa del viaggio, questo canto costituisce una sorta di secondo proemio, riservato a spiegare il significato particolare e personale del viaggio di Dante.
Si tratta di un’esperienza eccezionale, che preannuncia pertanto un epilogo altrettanto eccezionale: egli sarà il terzo uomo a penetrare i misteri dell’oltretomba, dopo personalità tanto alte quali Enea e S. Paolo; a determinare infatti il suo cammino di salvezza si è mossa la volontà divina, attraverso l’intercessione della Vergine e l’intervento diretto di Santa Lucia[1] e Beatrice, anime somme tra i beati.
In questo canto prevalgono ancora la filosofia e la teologia ma alcuni spunti come ad es. l’apparire di Beatrice ci rivelano che D. ha già compiuto un gran passo verso la chiara espressione della propria umanità.
Il canto è strutturato sostanzialmente e schematicamente su quattro momenti:
1) Invocazione alle muse: anche se limitata ad un’unica terzina (vv. 7-9), è da rilevare che D. segue i canoni del tradizionale poema epico; sarà da tener presente in parallelo al proemio delle altre due cantiche, la progressione di impegno che D. profonde a seconda dell’elevazione della materia[2].
2) Esitazione e timore di D. ad intraprendere il viaggio nell’oltretomba.
3) Virgilio rivela la volontà divina che ispira il viaggio.
4) I due poeti intraprendono il cammino nella selva oscura.
Il canto si apre al tramonto[3] del l’8 aprile 1300, venerdì santo, al limitare della selva oscura, in cui D. e V. si inoltrano alla fine del canto.
Il personaggio di questo canto è certamente Beatrice, giovane donna fiorentina (1266-1290), figlia di Folco Portinari[4], moglie di Simone de Bardi.
È la donna amata da D. che a lei dedicò le rime della Vita Nuova[5]; è un personaggio storico che assunse per il poeta il sommo valore della Grazia e della Teologia.
Scende la sera[6] quindi e Dante si prepara ad affrontare, solo tra i viventi, come una guerra[7] il faticoso[8] viaggio nel regno degli Inferi (vv. 1-6); per sostenersi nell’alta impresa di poeta e di pellegrino, egli invoca le Muse e fa appello al proprio ingegno alla propria memoria (vv. 7-9) [9].
Quindi D. espone a Virgilio i dubbi ed i timori che lo assalgono e in particolare gli chiede di considerare il suo valore di uomo prima di avviarlo all’alto compito (v. 9-12): prima di lui, si recò in quei luoghi soltanto Enea[10] – come afferma V. – vivo e materialmente[11], per una volontà divina che è agevole comprendere se si pensa che fu il futuro padre di Roma, destinata ad essere la sede dell’Impero e della Chiesa: egli doveva scendere agli inferi per vincere poi nel Lazio e porre le basi per Roma e per la dignità pontificia (vv. 13-24); in seguito andò nel regno immortale[12] S. Paolo[13] che salì al terzo cielo per trarne conforto nel suo apostolato[14] (vv. 25-30).
Ben più degni personaggi, dunque – e giustificati da fini religiosi e politici altissimi – di quanto non sia D. stesso; perciò egli si sgomenta di non avere meriti e forze sufficienti per affrontare l’arduo viaggio, pensa di essere un folle[15] se ad esso si abbandona, ed è tentato di rinunciarvi così come colui che non vuole più ciò che prima voleva per il sopraggiungere di nuove considerazioni (vv. 31-42).
Virgilio allora riscuote D., facendogli notare e nello stesso tempo rimproverandolo con dolcezza ma anche severità per il fatto che il suo animo è indebolito dalla poca coscienza delle proprie forze e dalla viltà; ciò impedisce spesso l’uomo nell’operare il bene così come una bestia si spaventa ed indietreggia per un ombra (vv. 43-48).
Per rincuorarlo e per sciogliere ogni dubbio V. gli dirà la ragione della sua venuta e gli racconterà ciò che avvenne la prima volta che egli provò dolore per Dante (vv. 49-51).
Mentre era nel Limbo, tra quelli che stanno sospesi, si presentò a Virgilio e lo chiamò una donna <<beata e bella>> tanto che V. non poté fare a meno di chiederle di comandare quel che desiderava (vv. 52-54).
I suoi occhi lucevano più delle stelle[16] ed ella cominciò dolcemente e chiaramente (<<soave e piana[17]>>) e con voce angelica a lodarlo affermando che la fama della sua anima cortese dura e durerà nei secoli, per poi aggiungere che colui che l’amò di un amore disinteressato[18] era smarrito nella selva deserta e così impedito nel passo da volgersi indietro, tanto che ella temeva che lo smarrimento fosse arrivato a tal punto da vanificare ogni intervento (vv. 55-66).
Ella prega dunque V. di aiutare D., con la saggezza e l’arte per cui andava famoso, rivelando di essere Beatrice, scesa dall’Empireo in virtù di Amore (o della carità) che la fa parlare (vv. 67-72); quando tornerà in Cielo dal creatore Beatrice promette di lodare Virgilio[19] ed infine tace (vv. 73-75).
Pronto ad obbedirle e felice per essere stato scelto quale strumento del volere divino, Virgilio dopo averla lodata come l’unica che permette agli uomini di superare le cose della terra[20], si dimostra disponibilissimo ad esaudirla in fretta, anche se le chiede come mai non abbia temuto di scendere dall’Empireo, dove desidera ardentemente ritornare, nell’Inferno (vv. 76-84).
Dal momento che V. vuol conoscere più a fondo la verità Beatrice gli spiega brevemente come solo le cose che possono fare male devono essere temute, e come, essendo lei beata (<<fatta da Dio>>), non avrebbe potuto essere toccata né dalle fiamme, né dalla miseria dei dannati (vv. 85-93).
Inoltre, una “Donna gentil”[21] che si doleva così tanto della situazione di D. decise di spezzare il giudizio di Dio, affidò la salvezza di D. a Santa Lucia[22], e questa, nemica di ogni crudeltà, si mosse per chiedere a Beatrice, vera lode di Dio (che si trovava accanto a Rachele[23]), di soccorrere il suo amico poeta, che tanto l’aveva amata e che per lei si era elevato dalla mediocrità spirituale ed artistica, perché il male lo stava travolgendo in quel punto del fiume che è superato dalla potenza superiore del mare. (vv. 94-114).
Beatrice aggiunge che le parole di Santa Lucia l’hanno resa il più sollecita possibile ed è per esse che ella ha lasciato il Paradiso per recarsi da Virgilio; e successivamente si commuove volgendo altrove i suoi occhi pieni di lacrime, cosa che rende a sua volta, Virgilio ancora più sollecito (vv. 115-117).
Terminato il racconto intorno all’incontro con Beatrice, Virgilio sprona D.[24] ad abbandonare ogni titubanza ed ogni viltà, dal momento che, a prova che il suo viaggio è voluto da Dio, tre donne sante (Vergine, Beatrice, S. Lucia) lo proteggono su nei cieli e le stesse parole del poeta mantovano sono così incoraggianti (vv. 118-126).
Come i fiori chiusi dal gelo si drizzano e si riaprono ai primi raggi del sole[25], così D. si rianima (dalla <<stanca virtude>>), prende coraggio e, benedicendo Beatrice (come <<pietosa>>) e Virgilio (come <<cortese>>), si conferma nella decisione di intraprendere il cammino; quindi Dante moralmente confortato, riprende il suo cammino insieme a V.[26] ed i due poeti, legati da <<un sol volere>> si addentrano nella selva, per una via ardua e selvaggia, che conduce alla porta dell’Inferno (vv. 127-142).
[1] Martire siracusana (Siracusa 283 ca. – 303 ca.). Secondo notizie incerte – dato il carattere leggendario dei testi che narrano la sua vita – si tratterebbe di una giovane di Siracusa martirizzata il 13 dicembre, data fissata per la sua memoria, di un anno imprecisato, comunque durante il mandato di Diocleziano. Il suo culto e le relative espressioni folcloriche hanno conosciuto una straordinaria diffusione (soprattutto nei paesi dell’Europa settentrionale) probabilmente a motivo dell’interpretazione etimologica del nome di Lucia. Ella sarebbe cioè la “santa della luce”, che, accecatasi per sfuggire a un suo pretendente, diffonderebbe dal giorno della sua festa – secondo il calendario giuliano il giorno più corto dell’anno – lo splendore dei suoi occhi sulle notti del lungo inverno. Perciò Lucia viene invocata come protettrice della vista.
[2] Nel Purgatorio D. enuncia l’indicazione dell’argomento (vv. 1-6; proposizione) ed invoca le Muse e in particolare a Calliope (<<dalla bella voce>> in quanto D. deve descrivere un regno di mitezze serene e di dolci speranze) perché accompagnino il suo canto con quel suono con cui vinsero le figlie di Pierio (le Pieridi, nove giovani che rivaleggiarono con le muse e nel canto e furono da esse sconfitte e tramutate in gazze) (vv. 7-12). Nel Paradiso (1-36), dichiarato l’argomento del suo canto, D. invoca Apollo: se il dio della poesia lo aiuterà nel suo compito, egli potrà sperare nella corona d’alloro, il cui solo desiderio sarà al nume tanto più gradito quanto più raro è sulla terra, per colpa e vergogna dei desideri umani.
[3] Col morire del giorno D. si avvia verso l’Inferno, dove l’anima è morta; col sorgere del giorno invece inizia il suo viaggio nel Purgatorio, il luogo della speranza dove l’anima risorge a Grazia; nel Paradiso, dove l’anima è pienamente beata, salirà quando il sole sfolgora in tutto il suo fulgore.
[4] Secondo quanto ci riferisce il figlio di Dante Pietro nel suo commento ed il Boccaccio nella Vita di Dante.
[5] Si tratta della prima opera importante di Dante, fu scritta poco dopo la morte di Beatrice ed è composta di canzoni e sonetti legati da commenti in prosa entro un esile intreccio narrativo: la storia dell’amore di Dante per Beatrice, la premonizione della sua morte avuta in un sogno, la morte di Beatrice e la risoluzione finale del poeta a scrivere un’opera che dicesse di lei “quello che mai non fue detto d’alcuna“. La Vita nuova mostra la chiara influenza della poesia d’amore dei trovatori provenzali e rappresenta probabilmente l’opera più importante del dolce stil novo fiorentino, che superò la tradizione provenzale sublimando l’amore del poeta non solo in termini di elevato idealismo, ma anche in senso mistico-religioso.
[6] Nei primi sei versi (protasi del proemio) del canto D. ci propone l’immagine lirica del mondo pacificamente addormentato nella notte, su cui risalta la sua veglia, essendo egli in procinto di affrontare i grandi pericoli del viaggio tra le anime infernali. Si tratta di un topos letterario, ereditato direttamente da Virgilio (Aen. IV, 522-532: il poeta mantovano contrappone la tranquillità della notte alla inquietudine della regina Didone) e che dopo D. (che mette in rilievo la sua solitudine ma anche la lotta tra corpo ed anima: v. 4-6) ritornerà in tanti altri autori.
[7] Per liberarsi dalle passioni.
[8] Per la durezza del cammino e per la pietà, cioè per la vista del male morale che potrebbe distogliere D. dal giudizio morale e quindi trasformarsi in un’indulgenza che potrebbe rivelarsi una pericolosa nemica.
[9] È forse l’unico caso in tutta la letteratura quello di un poeta che invoca il suo ingegno e memoria, ma non è questa presunzione, piuttosto consapevolezza dell’eccezionalità del viaggio, del fatto che esso è voluto da Dio.
[10] D. non ricorda gli altri viaggi pagani come quello di Ercole e di Teseo oppure quelli Cristiani di S. Patrizio, S. Brandano, Tungdalo, perché solo il viaggio di Enea ha importanza dal punto di vista politico, così come ha importanza quello di S. Paolo dal punto di vista religioso.
[11] Il parente di Silvio, il figlio che Enea ebbe da Lavinia.
[12] Non nell’Inferno ma nel Paradiso.
[13] Il vaso di elezione, ricettacolo privilegiato della grazia: Atti degli Ap. IX, 15.
[14] Fu rapito come egli stesso ci attesta (nella Seconda Lettera ai Corinzi, XII, 2-4) con il corpo o senza (egli non lo sa con precisione) per essere trasportato in Paradiso, per trovare incitamento e conforto al fine di raffermare i cristiani in quella fede fuori dalla quale è impossibile la salvazione dell’anima.
[15] Qui si introduce uno dei temi fondamentali dell’opera: l’uomo per essere veramente tale deve elevarsi moralmente ed intellettualmente, ma deve essere consapevole del fatto che può avanzare solo fino al punto che Dio permette, se non vuol cadere nel peccato dei peccati, quello di Lucifero e di Adamo. Il tema troverà poi la sua maggiore esposizione nell’episodio di Ulisse: bisogna elevarsi ma bisogna allo stesso tempo essere umili se non si vuole perire; S. Bernardo (Pd. XXXII) dirà alla fine del poema che per potere penetrare Dio occorre la grazia: chi pensasse di poterlo fare, muovendosi con le sue sole forze, arretrerebbe credendo di avanzare.
[16] Immagine questa cara agli stilnovisti: a Cavalcanti, al Guinizelli e allo stesso D. delle Rime.
[17] Termine usato in un sonetto di D. ed in un altro del Cavalcanti.
[18] È questo l’amore stilnovistico: un amore che tende a “spogliarsi” della passione e a divenire puro slancio dell’anima verso il bene, cioè amore-virtù. Beatrice nel poema impersona sì la Teologia, ma è anche e sempre questo Amore, che spinge a conquistare la propria superiore umanità.
[19] Questa promessa secondo i critici contiene un’arcana promessa.
[20] Beatrice, piena di virtù, rappresenta la sublimazione della natura umana, cosicché soltanto per essa gli uomini vincono d’eccellenza le creature contenute nel cielo della luna (secondo il sistema tolemaico, seguito da D., la terra è al centro dell’universo, e, intorno ad essa, si aggirano i nove cieli, fra i quali il primo e più vicino alla terra è quello della Luna), ovvero – secondo altri – soltanto per essa gli uomini si elevano al di sopra delle cose terrene.
[21] La Vergine Maria che simboleggia la grazia preveniente (cioè la Grazia che previene il desiderio) o la misericordia o la carità e che per una questione di riverenza non viene mai nominata nell’Inferno.
[22] Secondo alcuni è simbolo della grazia illuminante o della speranza o ancora della giustizia perché nel Purgatorio Lucia è messa in relazione con l’aquila che trasporta D. dall’Antipurgatorio al Purgatorio vero e proprio; e poiché l’aquila, come apprendiamo dal canto XVIII del Paradiso è messa a sua volta in relazione con la giustizia (Spiriti giudicanti), ne consegue che Lucia può significare questa virtù.
[23] Figlia di Labano e moglie di Giacobbe e simbolo della vita contemplativa, mentre Lia, sua sorella, simboleggia la vita attiva.
[24] Forse non comprendendo che il poeta è soltanto, a sua volta, commosso e stupito per il racconto.
[25] È questa forse una delle immagini più delicate e soavi di tutto il poema.
[26] Che viene definito <<duca>> rispetto al cammino, <<segnore>> rispetto al comando, <<maestro>> rispetto alla scienza.