Dante Alighieri – Divina Commedia – Purgatorio – Canto VI – Riassunto e commento

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Siamo nel secondo balzo dell’Antipurgatorio di cui il custode è Catone nel primo pomeriggio del 10 aprile 1300, domenica di Pasqua.

I personaggi descritti nel canto sono ancora i negligenti che morirono di morte violenta e si pentirono solo al momento di questo evento.

I poeti incontrano alcuni personaggi di minore importanza rispetto a quelli di cui si è discusso nel precedente canto: Benincasa da Laterina, Guccio dei Tarlati, Federigo Novello, Gano detto Farinata degli Scornigiani, Orso degli Alberti, Pier della Broccia, Sordello.

La pena è sempre quella di girare affannosamente intorno al monte cantando il Miserere.

Il tema principale: la condanna dell’anarchia politica e la riaffermazione della necessità dell’impero universale, ma anche la questione teologica, con il tema della preghiera. Il tema politico si estenderà anche al canto successi­vo[1].

I poeti incontrano diverse anime che si affollano intorno a D. per raccomandarsi a lui e alle sue preghiere; così come il vincitore di una partita a dadi (dado in ebraico si dice zarah e in arabo zahr)[2], mentre il perdente si esercita ancora, deve fare l’elemosina a quanti lo circondano per evitare che lo pressino, anche D. deve promettere preghiere per non farsi pressare dalla folla di anime negligenti che gliene richiedono[3] (vv. 1-12).

Qui D. incontra Benincasa da Laterina[4] che ricevette la morte dal feroce Ghino di Tacco[5], e Guccio dei Tarlati[6], un ghibel­li­no, che annegò nell’Arno inseguendo i Bostoli[7] di Arezzo (oppure morì inseguito nella battaglia di Campaldino o nello scontro di Bibbiena) (vv. 13-15).

In questo luogo pregava a mani tese Federigo Novello[8] e Gano (Farina­ta) degli Scornigiani a causa del quale divenne grande suo padre Marzucco (vv. 16-18)[9].

D. vede poi Orso degli Alberti[10] con l’anima divisa dal suo corpo per odio ed invidia e, come diceva lui, non per un suo tradimen­to e infine nota Pier della Broccia[11] per la cui anima procuri di pregare Maria di Brabante (la regina di Francia che lo accusò ingiustamente), al fine di evitare di essere lei posta nella schiera dei falsi accusatori ( nell’Inf. XXX, tra i falsari della parola) (vv. 19-24).

D. riesce a liberarsi dalle anime che pregavano soltanto perché altri pregassero per loro, in modo da affrettare la loro santifi­cazione[12] e si rivolge[13] a V. chiedendo perché in un passo del­l’E­nei­de (Aen, VI, 376) il Mantovano nega che la preghiera degli insepolti[14] possa avere effetto sugli dei[15], dal momento che le anime dei negligenti pregano solo perché i vivi possano mutare il giudizio divino abbreviando le loro pene; sarebbe vana la loro speranza o D. non ha inteso il testo virgiliano? (vv. 26-33).

V. replica che il suo passo non è difficile da interpretare e che la speranza delle anime negligenti non è vana; se si guarda con la mente libera da errori[16], si capirà che non viene sminuito il giudizio divino se la carità umana riesce a compiere in un istante ciò che a Dio è dovuto dalle anime espianti[17].

Nell’Eneide V. non poteva utilizzare una tale dottrina perché nel I secolo a.C. la preghiera era disgiunta da Dio (cioè non gradita a Lui), in quanto nasceva dal cuore dei pagani[18] (vv. 34-42).

Tuttavia D. non può cercare di risolvere un problema così alto con la sola ragione, se non lo aiuterà colei (che qui rappresenta la teologia) che sta tra l’intel­letto e la luce; cioè Beatrice che lo attende, ridente e felice, in alto nel Paradiso terrestre[19] (vv. 43-48).

D. sollecita V. a velocizzare il passo[20] perché non è più stanco come prima.

V. risponde, moderando la fretta di D., che prosegui­ranno finché farà giorno ma che il fatto è ben diverso da come lui lo immagina perché prima di arrivare in cima dovranno trascorrere due giorni, dovrà cioè rivedere quel sole che ora non illumina la zona dove stanno salendo, per cui D., restando all’om­bra, non interrompe i suoi raggi[21] (vv. 49-57).

I due poeti scorgono in disparte, in atteggiamento assorto e disdegnoso[22], un’anima italiana (lombarda) che senza alcun gesto o parola guarda verso di loro. Gli si avvicinano per conoscere un cammino più agevole, ma quello non risponde alla richiesta di V. e chiede loro chi siano.

Non appena V. inizia a presentarsi nominando Mantova come città di origine, l’ombra si lancia commossa verso di lui, dichiarandosi anch’ella mantovana e dicendo di essere Sordello da Goito[23] Le anime si abbracciano fraternamente (vv. 58-75).

D., vedendo tanto amore per la propria patria, prorompe in una amara e aspra apostrofe contro l’Italia, nave senza nocchiero, non signora delle genti ma luogo di corruzio­ne, lacerata da lotte intestine (vv. 76-78).

L’anima di Sordello fu così pronta a far festa ad un suo concittadino solo in virtù della concittadinanza ed invece in Italia oggi gli abitanti si fanno guerra e si dilaniano i viventi che appartengono alla stessa città. Non c’è un luogo dalla costa alle zone più interne che possa godere della pace (vv. 79-87).

Dante continua la sua appassionata polemica politica chiedendosi a che cosa siano servite le leggi di Giustiniano (che G. abbia messo a posto il freno) se manca qualcuno che le applichi (la sella è vuota), cioè un imperatore.

L’invettiva si rivolge poi alla Chiesa, che ostacola il potere temporale dell’imperatore per indebite brame di ricchezza[24].

L’apostrofe si fa quindi diretta contro l’imperatore Alberto d’Asburgo[25], la cui politica trascura completamente l’Italia, dove in ogni città c’è guerra (tra Montecchi[26]  e Cappelletti[27]) a tal punto che pare che Dio abbia distolto lo sguardo da lei: su di lui e sul padre Rodolfo D. richiama la giusta punizione di Dio (vv. 88-126).

L’invettiva si chiude con la sarcastica apostrofe a Firenze, dove per avido desiderio tutti i cittadini cercano di impadronirsi delle cariche pubbliche senza che ci sia il minimo senso della giustizia, cambiando continuamente le leggi, trasformando la città in un malato che si agita di continuo nel tentativo vano di alleviare il dolore (vv. 127-151).

[1] I canti sesti della Commedia sono tradizionalmente considerati come <<canti politici>>, in un disegno di analogie e riferimenti in cui oggetto della polemica dantesca è prima Firenze, con la figura di Ciacco nell’Inferno, l’Italia con Sordello, nel Purgatorio, e infine l’Impero e i destini del mondo, con Costantino nel Paradiso. Nel Purgatorio, prendendo spunto dalla nobile figura di Sordello elevato a simbolo dell’amor patrio, l’argomento è trattato nella forma dell’invettiva, con l’apostrofe (figura retorica che consiste nell’interrompere la forma espositiva di un discorso per rivolgere direttamente la parola, in modo vivace ed espressivo, a persona presente o lontana, viva o morta, anche a cosa inanimata) diretta alla serva Italia dilaniata ovunque da lotte interne; ma da qui prende lo spunto anche l’aspra polemica con Papato e Impero, i due massimi poteri universali, e l’amaro sarcasmo con cui si rivolge all’amata e odiata Firenze nella chiusa del canto.

[2] L’esordio del canto, con la descrizione realistica di un gioco da strada e del comportamento psicologico e fisico dei partecipanti, rievoca vivacemente il mondo cittadino medievale.

[3] D. non vede negativamente la richiesta di preci che del resto è disposto ad esaudire, ma l’insistenza nel chiedere di queste anime; aveva infatti appena finito di esaltare la discrezione di Pia e questa scena è collocata a ridosso dell’incontro con Sordello che, addirittura, lascia che i due pellegrini si allontanino senza parlare..

[4] Fu podestà di Bologna nel 1285 e noto giureconsulto che emise per dovere del suo ufficio di giudice diverse condanne a morte nei confronti dei famigliari del senese Ghino di Tacco.

[5]Nobile senese della famiglia della Fratta che cacciato da Siena divenne famoso ladro in Maremma; per vendicarsi di Benincasa, si presentò un giorno a Roma in un processo, in cui il suo avversario sedeva tra i giudici. Nel tribunale stesso lo uccise e lo decapitò, senza che nessuno dei presenti osasse intervenire. Ghino si riconciliò poi con Bonifacio VIII (a cui aveva sottratto il castello di Radicofani) che gli fece ottenere anche il perdono di Siena. Venne assassinato ad Asinalonga ed è un personaggio del Decamerone..

[6] Signore di Pietramala in territorio Aretino.

[7] Guelfi fuoriusciti da Arezzo.

[8] Figlio di Guido Novello, che per sette anni governò Firenze, come vicario di Manfredi. Ebbe per madre una figlia di federico II. Fu ucciso sembra o dai suoi stessi parenti nel Casentino nel 1289 o dai Bostoli nel 1291.

[9] Gano fu ucciso dal conte Ugolino nel 1287; suo padre uomo politico importante e poi francescano dal 1286 venne conosciuto da D. probabilmente in Santa Croce; è definito grande perché quando il figlio morì fece la predica ai suoi parenti affinché si riconciliassero con il nemico e addirittura volle baciare la mano di colui che uccise Gano.

[10] Figlio del conte Napoleone della famiglia degli Alberti di Mangona, vicino a Firenze, fu ucciso dal cugino Alberto nel 1286, in vendetta della morte del padre. Il padre Napoleone e lo zio Alessandro, sono posti da D. nella Caina, tra i traditori dei parenti..

[11] Pierre de la Brosse, di umile nascita, ebbe fama di chirurgo, e fu favorito sotto i re di Francia Luigi IX e Filippo III l’Ardito. Accusò giustamente la seconda moglie di Filippo, Maria di Brabante, di aver eliminato col veleno, il figliastro Luigi allo scopo di assicurare al proprio figlio Filippo il Bello la successione al trono. Fu impiccato per volere dello stesso Filippo III, per l’accusa (infondata) di tradimento mossagli dalla regina e dai cortigiani: gli si attribuì infatti un’intesa segreta ai danni della Francia, con Alfonso di Castiglia, durante la guerra scoppiata nel 1278 tra Filippo III e Alfonso X.

[12] Questa rassegna di persone uccise è presentata da D. per un duplice scopo: offrire una visione della tragica storia dei suoi tempi, con episodi tratti dalle vicende toscane e della casa di Francia; rafforzare l’idea religiosa di un legame, ancora possibile, con quelle anime – ingiustamente colpite nel loro umano destino – per mezzo della preghiera, quasi riparazione per il male che ricevettero in vita e argomento di carità, al di fuori della vendetta e della dimenticanza, affrettando ad esse la visione di Dio..

[13] Per il Momigliano sarebbe la prima digressione dottrinale del Purgatorio.

[14] Palinuro prega inutilmente la Sibilla cumana per essere traghettato al di là dell’Acheronte.

[15] È questo un tentativo di conciliare le teorie virgiliane con la Scrittura: preoccupazione di D. che considera Virgilio il savio dei savi.

[16] Nel Concilio II di Lione del 1274, fu definito come dogma di fede, il valore e l’efficacia dei suffragi, conforme agli argomenti biblici e alla tradizione dei Padri della Chiesa. Nel IV secolo era stata dichiarata eretica la teoria di Ario, sacerdo­te nativo del Ponto, che ne­gava l’effica­cia dei suffra­gi per i defun­ti. Per suffra­gi si intendono il sacrificio della Messa, le indulgenze, le orazioni, i digiuni, le elemosine, pre­sentate a Dio come domanda e supplica, in virtù della solidarietà soprannaturale, cioè del dogma della comunione dei santi. Nell’età di D. l’eresia di Ario era ripresa dai Catari; D. non poteva permettere che le opinioni di Virgilio assomigliassero a quelle di questa setta eretica. D. non li combatte mai direttamente (anche se nel Paradiso applaudirà San Domenico perché ha combattuto gli Albigesi, appunto una corrente catara) ma era troppo importante in Firenze l’influen­za del catarismo perché egli potesse disinteressarsi del problema.

[17] L’amore umano in definitiva può sostituirsi all’inesorabi­lità del fato pagano.

[18] Nel IV canto (v. 134) D. afferma infatti che le preci per essere efficaci devono <<surger su di cuor che in grazia viva>>; questo accenno ai pagani gli serve cioè per sottolineare che non serve comprare le indulgenze.

[19] Virgilio sa di aver dato una spiegazione incompleta (e lo sa anche D. che in seguito ritornerà sull’argomento) e rimette non alla pura ragione ma alla teologia, la spiegazione dogmatica. Tra l’intelletto e il vero occorre un lume, che dia allo stesso intelletto la forza di conoscere la verità divina, e Beatrice, scienza teologica, sarà questa forza rivelatrice del grande problema. D. ha chiamato Virgilio “luce mia” (v. 29) ma ora Virgilio lo ammonisce che la pienezza della luce è Beatrice.

[20] Il ricordo di Beatrice lo spinge infatti ad aver maggior fretta.

[21] Sono circa le tre del pomeriggio perché il sole sta tra il monte ed i poeti.

[22] E’ stata paragonata alla figura di Farinata; per certi versi se ne distacca perché Farinata è ammirato da D. quale inflessibile capoparte, mentre attraverso l’invettiva cui Sordello dà occasione, D. ci dà una condanna dei partiti politici. Ma le due figure si assomigliano perché hanno una immobilità statuaria, un atteggiamento non indifferente ma distaccato; ambedue vogliono collocare l’interlocutore nella loro sfera di interessi, sapere a che paese o città D. appartiene; ambedue hanno la loro città in cima ai loro pensieri.

[23]  Nato a Goito vicino a Mantova nei primi decenni del secolo XIII fu buon trovatore e raggiunse i suoi maggiori successi poetici intorno alla metà del secolo.

Visse presso numerose corti: a Ferrara presso Azzo d’Este, a Verona presso Riccardo di San Bonifacio; qui si invaghì della moglie di lui Cunizza, sorella di Ezzelino da Romano, con pericolose conse­guenze perché poi la rapì o ne agevolò la fuga.

Trovò cortese ospitalità presso la corte provenzale di Raimondo Berlinghieri IV, dove operò come poeta ma soprattutto come politico, dimostrando abilità ed energia.

Fu presso Carlo I d’Angiò, che accompagnò nella discesa in Italia, ottenendo alcuni castelli in Abruzzo.

Fu poi imprigionato dal re e liberato per la mediazione di Clemente VI. Morì nel 1269 o poco dopo. Nella sua permanenza in Provenza perfezionò la conoscenza della lirica, egli aderiva alla scuola tolesana per quanto riguarda la poesia d’amore, scuola che considerava la donna come una necessaria guida all’elevazione dell’uomo.

Non abbiamo documenti della sua poesia in volgare. D. fu forse attratto dalla sua poesia politica dove si evidenziano fierezza di sentimenti e indipendenza di pensiero, con le quali egli polemizza contro la corruzione e l’ignavia di tanti potenti del tempo. In particolare D. conobbe un poemetto didascalico “Ensegnamen d’onor” (un trattato di cortesia ed etica cavalleresca che contiene fiere invettive contro i potenti che hanno perso le vere doti del signore) e specialmente il “compianto in morte di Ser Blacas” in cui Sordello dà una rassegna politica dei signori d’Europa (Federico II, i re di Francia, di Navarra e di Spagna, i signori di Provenza) cui unisce sarcasmo per la loro codardia, invitandoli a cibarsi del cuore di Ser Blacas per acquistarne la virtù ed il coraggio. Non sappiamo perché D. lo ha inserito in questo canto, non è un pigro né un “morto per forza”; forse è semplicemente un tardi-pentito (solo nella maturità infatti abbandonerà la spregiudicatezza dell’avventuriero per dedicarsi all’austerità).

[24] D. probabilmente potrebbe far riferimento alternativamente a due brani delle scrittu­re: “date a Cesare quel che è di Cesare” (Matteo XII, 21; Luca XX, 25) ed “il mio regno non è di questo mondo” (Giovanni XVIII, 36), con diverse conseguenze nell’interpre­tazione; nel primo caso infatti D. si potrebbe riferire agli uomini “devoti” in generale, mentre nel secondo caso soltanto agli uomini di chiesa.

[25] Ucciso dal nipote Giovanni duca di Svevia fu imperatore dal 1298 al 1308, figlio a sua volta di Rodolfo, imperatore dal 1273 al 1791. Per D. l’impero è vacante dalla morte di Federico II (1250) all’incoronazione di Arrigo VII (1308), poiché Alberto d’Asburgo non era sceso in Italia ed aveva addirit­tura permesso a Bonifacio VIII di nominarsi suo vicario, con evidente confusione tra potere spirituale e potere temporale.

[26] Filoimperiali: ghibellini di Verona abbattuti dai San Bonifacio.

[27] Antiimperiali: guelfi di Cremona abbattuti dai Palavicino. Questa famiglia come quella dei Montecchi appartengono a fazioni che con la loro azione condussero alla rovina la Lombardia.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Purgatorio – Canto V – Riassunto e commento

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Siamo nel secondo balzo dell’Antipurgatorio di cui il custode è Catone.

Il personaggi descritti nel canto che è drammatico mentre il precedente era, come abbiamo visto,  elegiaco sono: Jacopo del Cassero, Bonconte da Montefeltro, Pia dei Tolomei; ciascuna di queste anime narra la sua tragica morte, dovuta alla ferocia umana e all’anar­chia politica.

I poeti incontrano una terza schiera di peccatori: essa è costitui­ta dagli spiriti negligenti, che appunto morirono di morte violenta e si pentirono solo al momento di questo evento.

La pena è quella di girare affannosamente intorno al monte del Purgatorio cantando il Miserere; essa non è tuttavia determinata nel tempo perché forse varia secondo la natura più o meno grave dei peccati o secondo la minore o maggiore profondità del pentimento.

Il tema principale: la vanità e l’assurdità dell’odio e della vendetta.

I due poeti si sono allontanati dalla schiera dei negligenti, quando uno di questi si accorge che forse D. ha un corpo umano, e allora lo indica e avverte ad alta voce i compagni che D. non risplende come le anime del P.[1] e fa ombra a sinistra (i poeti danno ora le spalle ad oriente ed il sole li colpisce dalla parte destra, facendo ombra a sinistra). D. si gira a guardare, le anime si meravigliano (forse per il ricordo e per la speranza di tornare un poco alla loro vita mortale) (vv. 1-9).

  1. rallenta quindi il cammino. e V., per paura che possa verifi­carsi di nuovo un episodio come quello di Casella, lo rimprove­ra un po’ aspramen­te[2]: la sua mente non deve distrarsi, non deve importar­gli ciò che nel P. si dice e deve lasciar dire, deve stare saldo come una torre che non muove la cima per il vento; non deve accadere che un pensiero si sovrapponga ad un altro e ne indeboli­sca la forza: diversamente D. rischia di rimandare ad altro tempo il perseguimento dei suoi impegni e delle sue responsabilità (vv. 9-18).
  2. risponde che si affretta e arrossisce di vergogna per il rimprovero, di quel rossore che talvolta fa l’uomo degno di perdono (D. è cioè sinceramente pentito) (vv. 19-21).

I due poeti vedono avanzare lungo la costa del monte, di traverso, una schiera di anime che cantano il salmo della penitenza Miserere (Signore, abbi pietà di me: ciò aiuta la purificazione) un verso dopo l’altro; le anime si accorgono che D. non fa passare i raggi del sole e sostituiscono il salmo con una esclamazione di meraviglia lunga e rauca[3] (vv. 22-27).

Due anime in funzione di messaggeri corrono incontro ai due poeti e domandano di renderli edotti circa la loro condizione (forse queste due anime sono curiose perché hanno lasciato la terra da poco tempo).

  1. dice alle anime che possono tornare indietro e riferire che effettiva­mente D. è di carne; esse devono essere contente di questo fatto perché il poeta, se sarà accolto con cortesia, renderà loro la desiderata carità della preghiera (vv. 33-36).
  2. afferma che la velocità con cui le due anime tornarono a riferire verso l’alto alle altre è superiore sia a quella delle stelle cadenti, sia a quella dei lampi che attraver­sano le nubi d’agosto al tramonto[4]; con la stessa velocità le anime ricongiunte corrono sfrenatamente[5] verso i due poeti (vv. 37-42).
  3. invita D. ad ascoltare le preghiere delle anime ma a non rallentare il cammino, per evitare di perdere troppo tempo (vv. 42-45).

Le anime in coro si rivolgono al poeta (conformemente alla legge spirituale che è propria del Purgatorio), riconoscono che egli, ancor vivo, sta facendo un cammino di purificazione e gli chiedono di rallentare affinché possa eventualmente riconoscere qualcuno tra loro, per riportare notizie ai cari in terra; comprendono con dispiacere il fatto che D. non si fermi[6] e gli fanno presente di essere stati uccisi tutti violentemente e di essere stati peccatori fino all’ultimo momento[7], aggiungono poi però, ed è questo il messaggio principale non solo del canto ma di tutta la cantica, che nel momento della conversione hanno anche perdonato i loro uccisori e si sono pacificati con Dio[8] (vv. 46-57).

  1. risponde alle anime con estrema gentilezza: egli non ne riconosce alcuna ma, in nome di quella pace che egli sta cercando (ossia la pacificazione con sé stesso, con gli altri e con Dio), si dispone ad esaudire le richieste che le anime desiderano muovere (vv. 57-63).

Una delle anime, che poi si rivelerà Jacopo del Cassero[9], afferma di non avere bisogno di giuramenti per rassicurarsi circa la volontà di D. di pregare per le anime, perché la sola impossibilità potrà troncare una tale volontà.

Aggiunge poi di essere la prima a parlare tra le anime e supplica D., se mai si dovesse recare nella Marca anconeta­na, di pregare per lei in Fano, così che le persone in grazia di Dio possano accomunarsi a tale preghiera e Jacopo riesca così a purgarsi i suoi gravi peccati (vv. 64-72).

Jacopo afferma di essere originario di Fano ma di essersi procurato altrove le sue profonde ferite da cui sgorgò il sangue ove l’anima sua ha sede[10]; precisamente nel grembo di Anteno­re[11], cioè nel padovano, là dove Jacopo si credeva al sicuro dalle vendette del marchese Azzo VIII (vv. 73-76); là questi lo fece uccidere perché lo aveva in odio più di quanto al Cassero interes­sasse perseguire la giustizia, cioè oltre il limite del giusto[12] (vv. 77-78).

Jacopo aggiunge che se fosse fuggito verso Mira[13], quando fu raggiunto dai sicari ad Oriago, forse sarebbe ancora vivo; ma al contrario decise di correre verso la palude dove si impigliò nelle canne e nel sangue e cadde; e lì si vide cadere in una pozza di sangue[14](vv. 79-84).

Subito un altro personaggio augura a D. di poter raggiungere la cima del Purgatorio ed in cambio chiede la sua preghiera, dal momento che sua moglie Giovanna ed i suoi cari[15] non pregano per lui, ed è per questo che triste cammina tra le anime a testa bassa (v. 85-90). Si tratta di Buonconte di Montefeltro[16] a cui D. chiede immedia­ta­mente notizie circa la sua fine e la sua sepoltura, dal momento che nessuno ne conosce il luogo[17] (vv. 85-93).

L’anima risponde che giunse a piedi[18] e macchiando di sangue la pianura a causa di un foro in gola là dove il fiume Archiano[19],  affluente di sinistra, si confonde con l’Arno[20]; qui perse la parola e la vista ma spirò con il nome di Maria sulle labbra ed in quel luogo rimasero soltanto le sue spoglie mortali, il peso inerte della carne (vv. 94-102).

Subito si accese una disputa tra il demonio e l’angelo di Dio che prese l’anima di Buonconte; il demonio non potendo utilizzare gli stessi argomenti che aveva utilizzato con Guido di Montefeltro[21], ricorre all’ironia (che è una forma di protesta) affermando che un’anima non può salvarsi per una lacrimetta[22]. Ma perduta l’anima al demonio non rimane che infierire sul corpo (vv. 103-108)[23].

Buonconte che si affida alla sapienza di Dante gli ricorda, sintetizzando la teoria aristotelica della pioggia, che nell’aria si condensa in nubi quel vapore acqueo che appena sale nell’atmo­sfe­ra ed incontra le correnti di aria fredda, diventa acqua.

Aggiunge che è potere e fu volere del demonio muovere appunto le nubi per scatenare una tempesta[24]: sopraggiunta la notte infatti Satana coprì di nebbia la valle del Pratomagno e rese l’aria così satura di umidità che si trasformò in tanta acqua che la terra non riuscì ad assorbire; e appena tale acqua confluì nei torrenti arrivò così velocemente in Arno che nulla poté trattenerla (vv. 109-123).

Così l’Archiano trovò il corpo gelato di Buonconte sulla foce e lo sospinse in Arno con una violenza che sciolse la croce che il montefeltrino aveva formato sul suo petto quando lo vinse il dolore dei propri peccati; il povero corpo fu voltato e rivoltato sulle rive e sul fondo del fiume e alla fine coperto di detriti[25] (vv. 124-129).

A questo punto della narrazione si fa sentire la voce di una terza anima che chiede a D. di ricordarsi di lei quando ritornerà nel mondo; dice di chiamarsi Pia[26], di essere nata a Siena e di essere morta in Maremma, come sa bene[27] colui che prima di sposarla l’aveva inanellata con una gemma (Pia si è cioè fidanzata e sposata nella stessa cerimonia) (vv. 130-136)[28].

[1] Ciò ci è già stato detto da D. con riferimento a V. ai vv. 29-30 del III canto (<<di retro a quel condotto/ che speranza mi dava e facea lume>>) nel momento in cui i due stanno risalendo la montagna del  Purgatorio con grande difficoltà.

 [2] Alcuni commentatori, ad esempio il Tommaseo, hanno ritenuto sproporzionata la reazione di V. per un piccolo rallentamento (ma forse proprio i piccoli rallentamenti sono i più pericolosi e comunque la vicinanza dei pigri richiedeva un intervento alto e vibrante). Forse D. si riferisce in particolare a coloro che criticavano il suo atteggiamento politico e morale che gli aveva precluso il suo ritorno in Firenze. Non c’è dubbio che V. esorta il discepolo non soltanto a non distrarsi dal suo dovere religioso (la conquista del libero arbitrio) ma anche da quello terreno, morale-poitico: una volta presa una decisione, bisogna agire, checché ne dica la gente.

[3] D. infatti può portare notizie nel mondo ed incitare i mortali a pregare per loro.

[4] La similitudine delle stelle cadenti e delle nuvole trapassate dai lampi – ripresa poiché la scienza medievale (v. Brunetto Latini, Tresor III)  riferiva i due fenomeni ad una stessa causa, all’accensione dei vapori – indica il grande entusiasmo delle due anime, nell’impeto di un promettente colloquio.

[5] Sussiste un forte contrasto, certamente voluto, tra il comportamento dei pigri e queste anime, desiderose di ottenere suffragi.

[6] Nelle anime c’è un’ansia e un accoramento rappresentato con energia; sentono di avere diritti da difendere sulla loro memoria, ma più di tutto chiedono di non essere abbandonati alla loro pena.

[7] E’ questo un anticipio sulla narrazione dei casi partico­lari che avverrà in seguito.

[8] Le anime sono pacificate con Dio, e quindi anche con gli uomini e con sé stesse. Il male che gli altri ci fanno potremo veramente perdonarlo solo quando saremo consapevoli del male e che ci viene perdonato.

[9] Nato nel 1260 fu valente uomo d’arme e saggio politico: occupò molte cariche. Fu podestà di Bologna nel 1296 e, per la sua fama, fu chiamato podestà a Milano negli ultimi anni del Duecento.

Durante il periodo bolognese si inimicò il marchese Azzo VIII d’Este (che D. pone nell’Inferno come parricida: If XII 110-112) che, con odio irriducibile, mentre il Cassero si stava recando a Milano, passando dal territorio di Padova, lo fece assassinare da alcuni sicari ad Oriago sulle rive del Brenta. La sua salma venne riportata a Fano e seppellita nella chiesa di San Domenico. La sua notorietà come uomo di governo discendeva anche da Martino, l’avo giurecon­sul­to autore di numerose pubblica­zioni di diritto, professore all’Univer­sità di Bologna, e poi domenicano. D. conobbe  Jacopo in Toscana, allorché questi fu messo a capo delle truppe fanesi, intervenute a favore di Firenze nella battaglia di Campaldino contro gli Aretini, e il canto infatti, nel proseguimento dell’epi­sodio di Buonconte, s’intrattiene sui particolari della stessa battaglia.

[10] Per i contemporanei di D. l’anima aveva sede nel sangue; e ciò in base ad un versetto del Levitico (VIII, 14): <<Anima omnis carnis in sanguine est>>.

[11] Dal momento che Antenore è considerato il prototipo dei traditori politici non si può escludere che D. pensasse ad una possibile connivenza tra Estensi e Padovani.

[12] L’uccisione di Jacopo del Cassero fu uno degli scandali del secolo; le offese recate ad Azzo VIII sono nella Cronica di fra Salimbene.

[13] Un borgo tra Oriago e Padova.

[14] Le due visioni che D. ci presenta raccontano di uno Jacopo che ha orrore del proprio sangue; stesso discorso D. propone nel canto XXXIII dell’Inferno con la figura del conte Ugolino. Ma mentre il conte è disperato per l’ingiustizia patita dai suoi figli, Jacopo ritiene che i suoi peccati fossero gravi, gravi le offese recate e che quindi l’ira del marchese fosse giustificata; come Manfredi Jacopo ammette i suoi peccati, anche se la vendetta era stata sproporzionata. Jacopo non è risentito contro i suoi uccisori, è stato odiato e D. si compiace di vederlo salvo, di farlo persuasore di mitezza; anche se un po’ lo “usa” per condanna­re gli Estensi, come fa in altri luoghi della Commedia ed anche in altre opere.

[15] La figlia Manetessa ed il fratello Federico, podestà di Arezzo.

[16] Il tema della guerra non è interrotto; Buonconte comandò l’esercito di Arezzo contro Firenze, e tra Poppi e Bibbiena, l’11 giugno el 1289, avvenne la battaglia di Campaldino. Per D., Buonconte è un avversario. Ha sofferto rievocando Jacopo, alleato di Firenze ed ora passa nel campo nemico. Vincitori e vinti, trascorsa la fatalità del momento, tutti chiedono, in ragione del Cristianesimo e dei diritti umani, la pietà. Buonconte, ghibellino, figlio di Guido (cfr. Inf. XXVII, 19-132) morì durante la battaglia di Campaldino, in cui gli Aretini ebbero 1700 morti e duemila prigionieri; c’è chi, tra i critici, sostiene addirittura che fu ucciso da Dante stesso ed è per questo che D. lo pone tra i salvi, per una sorta quasi di rimorso; in realtà D. vuole soltanto correggere gli errati giudizi umani sul conto delle vittime, colpite oltre nel corpo, nella memoria; D. assicura che la misericordia divina non abbandona l’uomo. Ed infatti mentre Guido da Montefeltro viene portato nel girone dei frodatori dal demonio e San Francesco non può far niente, qui, come vedremo, l’Angelo di Dio strappa l’anima di Buonconte al male.

[17] La difficoltà di ritrovare il corpo di Buonconte dipese dal fatto che non fu ferito a Campaldino.

[18] E fece più di cinque chilometri!

[19] Che nasce anche da un torrente che scorre sopra l’eremo di Camaldoli.

[20] A Bibbiena dopo aver attraversato la pianura casentinese.

 [21] Assolvere non si può chi non si pente, né ci si può pentire e volere il peccato insieme (Inf. XXVII 118-120).

 [22] Come nell’episodio di Manfredi D. vuol sottolineare che l’ultima parola spetta nel giudizio a Dio: gli uomini – anche il Papa – e lo stesso diavolo nulla possono contro la sua giustizia severa e misericordiosa.

[23] Ed è inutile l’odio infernale, proprio come è inutile l’odio umano quando non sia strumento della giustizia divina; e sarà inutile oltreché assurda se ricongiunta allo scopo, anche la furia degli elementi naturali, nel proseguio. Complesso e inutile l’odio, semplici e sicure la bontà e la pietà.

[24] D. ricorda che dopo la battaglia di Campaldino ci fu un temporale ma accetta il parere che fu anche di San Tommaso, che i diavoli hanno il potere di suscitare la tempesta.

[25] Buonconte aveva sin qui sempre parlato come anima, distinguendo da sé il corpo; improvvisamente però con esso si identifica nel momento in cui dice “voltommi” e “mi coperse e mi cinse”; l’accoramento di Buonconte per la cieca e spropositata crudeltà degli uomini è in queste parole decisamente più esplicito.

[26] Pia della famiglia dei Tolomei di Siena, sarebbe andata sposa a Nello dei Pannocchieschi, podestà di Volterra e di Lucca, e poi sarebbe satata uccisa in circostanze misteriose: forse dallo stesso marito che la punì per l’infedeltà o che voleva risposarsi con Margherita degli Aldobrandeschi, a suo tempo sposa del conte Umberto di Santa Fiora.

[27] Se Pia non fu colpevole di essere uccisa questi versi potrebbero essere intesi nel senso che neppure ella sa la ragione della sua morte: la conosce solo il marito che le aveva dato la fede, simbolo e pegno dell’altra fede, a cui ella non è mai venuta meno.

[28] Pia ha partecipato al suo tragico dramma ma in lei non c’è alcun dissidio da colmare; per questo al “disfecemi” non fa seguito la narrazione la cronaca della fine; tre versi sono dedicati allo sposalizio e tre versi alla preghiera. Pia non ha rancore né biasimo per colui che l’ha uccisa, sente solo la malinconia di ricordare che colui che ha posto fine alla sua vita era suo marito. Lo ama ancora e le dispiace che sia stato malvagio. Ma forse si può dire anche di più: c’è in Pia un affetto che manca sia a Jacopo che a Buonconte che pure si erano dimostrati cortesi con D. (il primo non chiedendo giuramenti ed il secondo con l’augurio della purificazione); c’è quella sollecitudine tutta femminile, materna, per le piccole cose della vita, per la quale gli uomini restano sempre e a qualunque età, dei bambini per le donne che li amano (Pia chiede di essere ricordato dopo che D. si sarà riposato: “e riposato de la lunga via”). E si noti anche la sua discrezione nel chiedere suffragi: Pia come Buonconte è una “dimenticata”, non ha che D. per sperare in qualche preghiera, ma così come non accusa nessuno di averla uccisa non accusa nessuno (come fa Buonconte) di averla dimenticata.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Purgatorio – Canto IV – Sintesi e commento

Belaqua

Affresco trecentesco che si trova nel Camposanto di Pisa

La scena si svolge nel primo balzo dell’Antipurgatorio di cui il custode è Catone.

Il personaggio descritto nel canto è Belacqua.

I peccatori sono gli spiriti negligenti, che hanno come pena quella di rimanere nell’Antipurgatorio il tempo che vissero.

Il tema principale è quello del contrasto tra l’ansia di purificazione di Dante e la neghittosità delle anime penitenti.

Sono trascorse più di tre ore (tre ore e venti minuti[1]) dall’alba eppure D. non se ne è accorto perché le sensazioni di dolore e di piacere che prova nel suo animo ad ascoltare Manfredi, hanno escluso[2] che egli si occupasse di altre facoltà (vv. 1-4).

 E questo contro la errata dottrina[3] che ritiene che in noi un’anima si sovrapponga ad un’altra (vv. 5-6); la potenza sensiti­va[4] nel momento in cui Manfredi parlava a D. ed il poeta veniva preso da grandi passioni (udendo e ammirando), ha impedito che in D. potesse dispiegar­si quella intelletti­va[5], la quale fa in modo che l’uomo si possa accorgere dello scorrere del tempo (vv. 7-12).

Dante stesso ci dice di aver fatto appunto esperienza di ciò non accorgendo­si che il sole è già alto più di 50 gradi (appunto tre ore)[6] quando le anime indicano ai due poeti la strada meno ripida per ascendere la montagna (vv. 13-18).

L’apertura ristretta di una siepe, che il contadino si affretta a chiudere con una piccola forca di pruni[7], nel tempo prossimo alla vendemmia, per difendere l’uva, è più stretta dell’angusto sentiero attraverso il quale salgono i poeti appena si dipartono le anime (vv. 19-24).

 Mentre sui luoghi inaccessibili della terra[8] per le alture scoscese e i precipizi, si può giungere a piedi, la roccia del P. è così erta e la via così pericolosa che non giova la prontezza fisica: guidato dalla retta ragione (Virgilio) D. ascende faticosa­mente il monte dell’espiazione, da principio impervio ed aspro, per cui ci vorrebbero le ali veloci ed una grande fiducia (vv. 25-30).

Le due sponde laterali della viuzza scavata nella roccia stringono i due poeti tanto che per giungere al primo balzo occorreva l’aiuto delle mani e dei piedi[9] (vv. 31-33).

I poeti giungono sopra alla parete della montagna che vertical­mente si innalza sul piano, qui vi è un orlo (la scoperta piaggia), una zona dove è possibile avanzare allo scoperto, fuori dalla strettoia della roccia; D. si rivolge a V. e chiede che via dovranno seguire[10]; Virgilio risponde di non perdere alcun passo[11] e di avanzare dietro di lui fino a che non appaia qualche guida che sappia indicare la strada[12] (vv. 34-39).

Dante non riesce a vedere la vetta del monte perché la salita è molto ripida ed è stanco; chiede a V. di aspettarlo ed il Mantovano gli chiede di raggiungerlo su un ripiano poco lontano; D. acconsen­te e, giunti entrambi sul primo balzo, D. e V. siedono con il capo rivolto alla strada già percorsa[13] (vv. 40-54).

Dante si meravi­glia del sole che procede da sinistra[14] e ascolta Virgilio che intuisce la meraviglia di D. e gli spiega perché il sole li ferisca da quella parte: se invece che in primavera (sotto la costellazione dell’Ariete: è infatti il 10 di aprile) si fosse in giugno (sotto la costellazione dei Gemelli: Castore e Polluce) il sole sarebbe ancor più a sinistra (cioè a nord: verso le costellazioni dell’Orsa) rispetto ad ora in cui il sole è vicino all’equatore, a meno che esso decida di non seguire l’eclittica[15] (vv. 55-66).

Tutto ciò D. lo può verificare – dice V. – se il poeta immagina Gerusalem­me e la Montagna del Purgatorio come degli antipodi, in modo di avere un orizzonte unico e diversi emisferi; in tal caso D. potrà vedere che il cammino del sole (quel cammino cui Fetonte non seppe attenersi) va da un lato del Purgatorio verso nord quando dall’al­tro lato di Gerusalemme va verso sud[16] (vv. 67-75).

Dante replica che non ha mai visto chiaro come in quel momento una questione che gli sembrava superiore al suo intelletto; che il cerchio intermedio del più alto dei cieli[17] (il cielo cristallino del primo mobile) che in astronomia è detto equatore e che rimane sempre tra il sole e l’inverno, è tanto lontano dal Purgatorio, quanto lo vedevano lontano, verso mezzogiorno, gli Ebrei che abitarono Gerusalemme (in altre parole Gerusalemme e il Purgatorio sono equidistanti rispetto all’equatore[18]) (vv. 76-84).

D. vuol saper quanto cammino c’è ancora da fare dal momento che non vede la cima della montagna.

Virgilio afferma che la salita sarà più agevole man mano che si ascen­de[19] e quando sembrerà a D. di andare come una nave che scende seguendo la corrente (o col vento in poppa) allora finirà il cammino e D. potrà riposarsi dalle fatiche dell’ascesa; V. non può dire altro perché conosce soltanto questa verità[20] (vv. 85-96).

V. e D. incontrano le anime dei negligenti (pigri), sedute in terra: tra loro c’è Belacqua, amico di D. (vv. 96-139): V. finisce, infatti, di parlare ed i poeti sentono una voce che dice a D. che forse dovrà fermarsi prima a riposare[21]; V. e D. si girano al suo suono e vedono a sinistra un grande pietrone che prima non avevano notato; dietro di esso e all’ombra stanno sedute alcune anime in atteggia­mento pigro (vv. 97-105).

Una di esse[22] che sembrava stanca, stava seduta abbracciandosi i ginocchi con lo sguardo rivolto verso il basso; D. si rivolge a V. dicendogli di guardare quell’anima che è più negligente di quello che sarebbe se la pigrizia fosse sua sorella (vv. 105-111).

L’anima a questo punto muove leggermente il viso lungo la coscia[23] e rivolge a D. queste parole: <<Ora sali tu, che ne sei capace>>[24].

Dante lo riconosce e nonostante l’affanno della salita riesce a raggiungerlo; Belacqua gli chiede brevemente se ha visto il sole che fa splendere i suoi raggi da sinistra[25] e la pigrizia dell’a­ni­ma muove il poeta quasi al riso (vv. 112-122); non è triste per la sorte di Belacqua perché egli è salvo ma gli chiede che cosa stia facendo seduto in quel luogo, se stia aspettando una guida o se per caso abbia ripreso gli atteggiamenti usuali del tempo (vv. 123-126).

Belacqua replica con tenerezza chiamando D. fratello, e gli comunica che sarebbe inutile per lui arrivare alla porta del purgatorio dal momento che l’Angelo non lo farebbe passare (vv. 127-129)[26].

Prima di poter entrare nel Purgatorio è infatti necessa­rio che il sole giri attorno a lui quanto ha girato in vita, poiché egli ha indugiato a pentirsi sino all’ultimo; a meno che un’anima in grazia di Dio lo aiuti con le sue preghiere dal momento che le preghiere dei mortali non sembrano avere molta efficacia, (oppure che in terra non ha più nessuno che possa pregare per lui)  (vv. 130-135).

Virgilio chiede a D. di proseguire dal momento che è mezzogiorno nel Purgatorio e nel Marocco (che è situato a 90 gradi rispetto al Purgatorio) la notte è già giunta[27].

[1] Sono le 9.20 della mattina di Pasqua del 1300.

[2] D. per bocca di Stazio (Napoli 45 circa – intorno al 96. Poeta epico e lirico latino. Delle sue opere sono giunte a noi un breve frammento del carme sulla campagna germanica di Domiziano, l’intero poema epico della Tebaide, il primo libro e l’inizio del secondo dell’incompiuta Achilleide e le Silvae, raccolta in cinque libri di trentadue componimenti lirici, vari di metro e di argomento: descrittivo, funebre, consolatorio, familiare, ecc.) nel XXVV v. 52-81) D. ci spiegherà la dottrina aristotelica-tomistica ripresa anche da S. Alberto Magno sulla natura dell’anima: l’anima è una sola anche se ha tre facoltà (vegetativa, sensitiva, intellettiva) con cui l’essere umano vive, sente, ragiona; quando per motivi di gioia o dolore, l’anima è tutta impegnata nell’atto di una sua facoltà (come il vedere, il sentire, il toccare che appartengono alla virtù sensitiva) le altre nostre facoltà non sono in grado di intervenire.

[3] I platonici ed i manichei (in particolare Averroè)  che ritenevano che l’uomo fosse dotato di più anime. Platone sosteneva che l’uomo avesse un’anima concupiscibile, un’anima irascibile ed un’anima razionale; Aristotele e Tommaso lo controbattono parlando di un’anima sola con tre facoltà.

[4] Che racchiude tutta l’anima ed è ad essa vincolata, come è vincolata all’oggetto cui si rivolge.

[5] Sciolta dall’anima: cioè che l’anima non impedisce in presenza di una passione non forte.

[6] Il sole ogni ora sale di 15 gradi. D. fa molti rifermenti temporali perché è importante “contare” il tempo dell’attesa, dell’espiazione.

[7] “La via dei pigri, quasi siepe di spini” dicono i Proverbi (XV, 19).

[8] D. fa riferimento al castello di S. Leo nel Ducato di Urbino, alla città di Noli in provincia di Savona, al monte Bismantova nell’Appennino emiliano presso Reggio Emilia, al monte Cacume laziale (o la vetta del monte Bismantova) tra i monti Lepini presso Frosinone.

[9] È da mettere in relazione con le parole di Matteo (VII, 14) “angusta porta et arcta via est, quae ducit ad vitam” (“stretta è la porta e angusta la via, che conduce alla vita”). Gli antichi commentatori davano un’interpretazione allegorica del passo: la penitenza è dura, ma la sua durezza si vince con la perseveranza; richiede una abituale disposizione d’animo all’amore, le opere e la grazia illuminante, che conduce alla perfezione ed è cooperante di Dio.

[10] E ciò perché il “canalone” costituiva una via certa, mentre d’ora in poi V. sa soltanto che si deve salire e non tornare mai indietro.

[11] Secondo altri di avanzare, di acquistare terreno oppure di non far cadere invano i piedi in un’altra direzione.

 [12] Anche qui V. si dimostra perplesso ed incerto.

 [13] Chi riguarda la via del male, dopo aver avanzato nella virtù e nel bene, ne ricava uno stimolo più forte a perseverare, considerando i rischi della vita peccaminosa e gli spirituali vantaggi della sua lenta e dura fatica, spesa nell’acquisto delle virtù morali. Questo il senso allegorico del passo. Per il resto possiamo dire D. è soddisfatto d’aver compiuto la difficile ascesa e perciò si sofferma volentieri a riguardare il percorso ed il pericolo superato.

[14] Nell’emisfero australe il sole quando si guarda a levante proviene da sinistra, cioè dalla parte tra l’osservatore e il tropico del Capricorno (nord); l’inverso accade nell’emisfero boreale (nel nostro emisfero) che è a nord del tropico del Cancro: guardando ad oriente il sole proviene da destra, cioè da sud (tra l’osservatore ed il tropico).

[15] Eclìttica: cerchio massimo della sfera celeste descritto dal Sole nel corso del suo movimento apparente e individuato dall’intersezione del piano dell’orbita terrestre con la sfera celeste.

[16] Il sole cioè va da destra a sinistra sulla terra mentre va da sinistra a destra nel Purgatorio. Il sole infatti secondo il sistema tolemaico descrive attorno alla terra una linea obliqua, e dall’obliquità di questo percorso hanno origine le stagioni (Par. X, 13-21).

[17] Il Primo mobile nello spazio di 24 ore gira e fa girare tutti gli altri cieli intorno alla terra, ferma al centro dell’universo, secondo il sistema tolemaico.

[18] L’equatore è tanto distante dal Purgatorio (circa 32° di latitudine sud del tropico di Capricorno) quanto Gerusalemme che è a 32° di latitudine nord del Tropico del Cancro.

 [19] Ciò significa allegoricamente che vincere all’inizio gli ostacoli materiali che si frappongono all’ascesa  spirituale, è più difficile che proseguire: le opposizioni e i contrasti decrescono alla morte dell’uomo vecchio e alla nascita dell’uomo nuovo.

 [20]  Di altre verità che il mantovano non conosce farà infatti Beatrice partecipe D. sulla vetta del Purgatorio. V. rappresenta la ragione e quindi solo Beatrice può rispondere, con argomenti di fede, ai problemi che superano la capacità della ragione.

[21] C’è fin da queste parole un tono bonario di canzonatura (e di contrasto con le precedenti parole di V.) nei confronti del poeta; l’atmosfera di qui in avanti sarà quella soave del ricordo che già abbiamo incontrato con Casella.

[22] Si tratta di Belacqua, il cui vero nome probabilmente fu Duccio di Bonavia, un fiorentino, abitante del quartiere di San Procolo, che forse morì nel 1302. Dagli antichi commenti apprendia­mo che fu un fabbricatore di liuti e di chitarre, anche se viste le sue caratteristiche svolse quasi esclusivamente la professione di testimonio. Un anonimo fiorentino che fu forse il suo servo annota che tutte le mattine Belacqua si recava alla sua bottega e si metteva a sedere e non si alzava più fino a quando non era ora di mangiare o dormire. Una volta l’anonimo lo riproverò per il suo atteggiam­ento negligente e Belacqua rispose con una frase di Aristotele, che sedendo e riposando l’anima diventa saggia; al che l’anonimo rispose che se ciò era vero non esisteva persona più saggia di Belacqua. D. conosceva Belacqua perché abitava vicino a casa sua.

[23] La cosa è estremamente faticosa per un uomo di tal fatta.

[24] Il pigro dubita infatti che si possa fare d’un fiato la salita: la sua è la voce del buon senso pratico che prevede le difficoltà materiali e le sopravvaluta perché non può tener conto delle energie spirituali, che non possiede e quindi ignora.

[25] La cultura è per i pigri e gli ignavi argomento di riso e trastullo perché richiede sacrificio.

[26] C’è una legge nel P. che viene osservata da tutte le anime, ed una disciplina che non è lasciata all’arbitrio di ciascuna. Il neghittoso ha un suo contrappasso; vuole, come nel caso di Belacqua, i mezzi del suo riscatto, ma sa che la sua aspirazione rimarrebbe vana perché l’angelo non lo lascerebbe andare a purificarsi, vuole la preghiera ma sa che essa non verrà fatta per lui, e perciò come ha indugiato i buoni sospiri alla fine, così l’indugio sarà la sua pena: di qui la malinconia e questa sfiducia nelle sue sole forze, di qui i se e i ma che accompagnano lo svolgimento dell’episodio.

[27] In Gerusalemme è a questo punto mezzanotte.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Purgatorio – Canto I – Sintesi e commento

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CANTO I

BREVE RIASSUNTO

L’azione si svolge sulla spiaggia dell’Antipurgatorio di cui è custode Catone che è anche il personaggio descritto nel canto.

Il tema principale del canto: l’ansia di D. della Libertà morale (Catone è il custode di detta libertà).

COMMENTO

Questo primo canto è volutamente contrapposto al primo canto dell’Inferno perché la bellezza del paesaggio che tempera il primo incontro di D. con la fiera, svanisce poi nel secondo incontro; qui invece la serenità del paesaggio si mantiene.

Il paesaggio non è poi come nell’Inferno solo un simbolo, è reale; il canto ha un tono religioso, si compone di riti, ma, attraverso il paesaggio, ci vuol dare anche uno spaccato della nuova condizione psicologica di D. che ha lasciato la tenebra dell’Inferno.

Ma ecco che D. incontra Catone (l’ispirazione è virgiliana, ciceroniana, ma soprattutto lucana), illuminato dalle quattro stelle (virtù cardinali).

Ha raggiunto cioè il massimo di perfe­zio­ne morale conseguibile antecedente­mente alla rivelazione, anche se si è suicidato (in taluni casi Dio ispira il suicidio per essere di esempio agli uomini, diranno Tommaso e Agostino) perché lo ha fatto non per motivi egoistici e personali, seguendo la morale stoica[1].

Catone è un austero sacerdote della liturgica iniziazione di Dante al nuovo clima morale, ministro del primo rito ascetico: un che di mezzo, di non perfettamente saldato tra l’eroe repubblicano e il custode d’un regno cristiano, investito di compiti appena d’un poco inferiori a quelli che saranno assunti, nel corso del vero e proprio Purgatorio, dagli angeli: spia, dunque, prova di quel tentato e non completo sincretismo tra mondo classico e Cristianesimo che fu dell’età di Dante, e del nostro poeta in particolare; esemplare storico di altezza morale, di spregio della vita, di fedeltà inconcussa alla libertà, ma con significazioni spirituali che il personaggio reale, lo stoico, non può tutti contenere o esprimere, e anche con aporie sul piano storico se il custode dell’Antipurgatorio era stato l’avversario di Cesare, cioè di colui che fu per Dante il fondatore dell’Impero, anzi il primo degli imperatori.

Si può dedurre che la funzione di Catone si svolga tutta su di un piano morale, non storico-politico, in quanto primo avvertitore dell’imminenza della Rivelazione: per essersi rifiutato d’interrogare l’oracolo pagano, giacché l’unica voce che va ascoltata è quella della coscienza morale, ove è presente e opera il vero Dio.

L’austerità della scelta di Catone lo pone al di sopra d’ogni condanna, ma anche al di qua d’una vera e propria salvezza (quale sarà quella di Stazio, di Traiano, di Rifeo): egli non può varcare la soglia del Purgatorio, e anzi non può nemmeno muoversi dalle propinquità della spiaggia della montagna: accoglie, non guida; inizia, non reca a soluzione il processo catartico; simboleggia la magnanimità dell’uomo libero, non l’opposizione al compito provvidenziale dell’Impero; precede storicamente la costituzione dell’Impero, e quindi non può essere considerato uno strumento che ne ritarda la nascita e gli effetti voluti da Dio, e all’intelletto dell’esule e libero cittadino fiorentino Dante Alighieri rappresenta il cittadino dell’antica Roma che resta fedele sino all’ultimo al sentimento di patria e non agisce per la divisione degli animi, ma contro le lotte fratricide della guerra civile.

In analogia a quanto trova scritto nella Pharsalia (“Victrix causa deis placuit, sed victa Catoni“), Dante reinterpreta, reinventa il personaggio storico in forza d’un altissimo principio morale, che lo pone, nel dialogo con Virgilio (Purg., I, 40-108), in uno stato superiore anche al grande poeta di Roma, il quale gli si rivolge con reverenza, con ammirazione, persino con accattivante umiltà: segno che, nonostante la funzione di Virgilio nel viaggio di Dante sia superiore a quella di Catone, la collocazione di questi è superiore a quella d’un malinconico abitante del Limbo, d’uno che è sospeso, mentre Catone guida i primi passi dell’anima cristiana, è ministro d’un culto sacramentale.

Tuttavia (e il dialogo con Virgilio lo comprova) Catone vive in stato di perpetua solitudine: ammonisce, rimbrotta anzi aspramente, inizia la liturgia, ma non gode dei doni che pur elargisce con la sua parola eloquente, con i suoi atti sacerdotali.

Resta un magnanimo senza un futuro, almeno presumibile, il magnanimo, ha scritto il Paratore, “fra tutti i magnanimi della Commedia in una rappresentazione più nuda e più severa di ogni altra sua”, un ideale morale assoluto per Dante, non condannato perché la sua altezza di concezioni è tale che, se tutti i cittadini romani fossero stati come lui, l’umanità avrebbe da sola conquistata quella pace, acquisito quel senso della giustizia, mancando il quale si rese necessaria da parte di Dio l’istituzione della potestà imperiale.

Secondo alcuno rassomiglia anche un po’ a Farinata per la gravezza e la statuarie­tà, imperturba­bi­le e magnanimo come tutti gli stoici ma nello stesso tempo umile; ed è  un po’ patriarca biblico (assomiglia al San Bernardo del Paradiso; nel Convivio lo aveva già avvicinato a San Paolo).

La sua dirittura morale, che non lascia spazio al compromesso, si vedrà anche nel secondo canto ove C. rimprovererà D. e V. di essersi abbandonati alle lusinghe della musica di Casella.

C. rappresenta l’uomo che è destinato al soprannaturale e all’eterno: senza la libertà morale ch’egli ha ricercato con amore (vv. Monarchia e Convivio), cioè senza il pieno dominio di sè, non c’è per l’uomo possibili­tà di vita e di salvezza.

C. sa di non essere nato per sé stesso ma per il mondo e partecipa ad una guerra civile (per cui ha già indossato il lutto) senza speranza, per difendere libertà e giustizia (l’osse­quio alle leggi che Cesare aveva calpestato è la più grande forma di libertà).

Proemio al Purgatorio

D. enuncia l’indicazione dell’argomento (vv. 1-6; proposizione) ed invoca le Muse e in particolare Calliope perché accompagnino il suo canto con quel suono con cui vinsero le figlie di Pierio[2] (vv. 7-12).

D. contempla l’alba e le quattro stelle del polo antartico, simbolo delle virtù cardinali (Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza): uscito dalle tenebre infernali, gode della purezza dell’aria serena e guarda con piacere la volta illuminata dalle stelle; dopo aver guardato Venere che copre col suo splen­dore la costellazione dei pesci (nel 1300 V. era vespertina e non mattutina come D. pretende) è colpito dallo splendore di quattro stelle, che non furon viste mai se non da Adamo ed Eva, e com­piange il nostro emisfero perché privo della loro bellezza (vv. 13-27).

Colloquio tra Catone e Virgilio (vv. 28-84)

Catone, esaltato già da D. nel Convivio e nella Monarchia come il più santo degli eroi (il più degno di significare Iddio), è il custode (vv. anche Seneca nel proemio delle Controversiae) della montagna[3].

D. allontanato lo sguardo dalle quattro stelle vede un vecchio dall’aspetto venerando su cui si riflette la luce degli astri.

È Catone che si rivolge a D. e V. con tono sdegnato, credendoli dannati fuggiti dall’Inferno. Virgilio, fatto inginoc­chiare D., spiega a C. le ragioni del viaggio[4] e gli chiede, anche a nome della sua Marzia, il permesso di visitare il regno a lui sottoposto.

Il rito della purificazione (vv. 85-136)

Catone rievoca il suo amore per Marzia, acconsen­te al passaggio e indica il rito della purifica­zione: ordina a Virgilio di lavare il viso di D. per detergerlo dalle tracce dell’Inferno e di cingere i suoi fianchi con uno dei giunchi (che si piegano assecondando la “purificazione”) che nascono verso la spiaggia (vv. 85-108).

Virgilio e Dante, che solo adesso si alza in piedi, eseguono il comando, simbolo di purifica­zio­ne ed umiltà, lungo la spiaggia del Purgatorio: V. bagna il volto di D. e cinge i suoi fianchi con un giunco che appena strappato rinasce (simbolo della rinascita spirituale di D.) (vv.109-136).


[1] L’etica stoica si fonda sul principio che l’uomo è partecipe della ragione universale e portatore di una scintilla del fuoco eterno. La virtù consiste nel vivere con «coerenza» (homologia), scegliendo sempre ciò che è «conveniente» alla propria natura di essere razionale. Nello stato di assenza delle passioni (apatia) quello che poteva apparire come male e dolore si palesa come un punto positivo e necessario del disegno della provvidenza universale.

[2] In questi versi si esprime l’opera nefanda delle religioni errate, che distorsero la “melodia” della Divina Verità, che le muse, ovvero “le Sante”, nella loro vita terrena, portarono al mondo. Ed ecco il canto gracchiante delle “piche” le gazze, il canto della negazione, che condusse gli uomini a rinnegare, lungo i sentieri errati, la vera melodia del Verbo Divino: il “Divin Suono”.
Non è da escludere che, nel concetto dantesco, possa intendersi come espiazione di tale peccato anche quello di rinascere in corpo di gazze.

[3] Marco Porcio Catone (95-46 a.C.) è il simbolo della fedeltà alla libertà morale, mantenuta a costo della vita (Soprannominato l’Uticense, uomo politico romano, pronipote di Catone il Vecchio. Sostenitore di Cicerone contro Catilina, fu il più autorevole rappresentante dell’opposizione del senato al primo triumvirato. Allo scoppiare della guerra civile, si schierò a fianco di Pompeo, seguendolo in Oriente. Dopo Farsalo continuò la guerra in Africa, ma, assediato in Utica, si  uccise per non sopravvivere alla caduta della repubbli­ca); perciò è posto qui dove le anime, attraverso l’espiazione materiale e spirituale, si vanno conquistando la libertà dello spirito.

[4]  È necessario perché D., così vicino alla morte spiritua­le, riacquisti il corretto esercizio del libero arbitrio.

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In questo nostro Paese c'è rimasta soltanto la Speranza; Quando anche quest'ultima labile fiammella cederà al soffio della rassegnazione, allora chi detiene il Potere avrà avuto tutto ciò che desiderava!

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