LEON BATTISTA ALBERTI

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Re- L. Simoni. L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001
Luperini-P. Cataldi-L. Marchiani-F. Marchese. La scrittura e l’interpretazione. Dalle origini al manierismo. Volume primo. Palumbo editore. Firenze. 2000.
VV., La letteratura italiana in Cd-Rom, G. D’Anna editore- La repubblica Edizioni. Milano. 1999.
Guglielmino-H. Grosser. Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994
Gioanola, Storia della Letteratura italiana. Dalle origini ai giorni nostri. Librex editore, Milano, 1992
Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento, Giuseppe Principato editore. Messina-Milano, 1937.

Con l’Alberti si attua la saldatura tra cultura umanistica e lingua volgare, per l’esigenza che egli sentì molto viva di divulgare i nuovi valori (in particolar modo la virtù[1]) fuori dalla stretta cerchia dei dotti e per la parallela convinzione della perfetta adeguatezza di questo mezzo, debitamente perfezionato, all’impegnativo compito.

Leon Battista Alberti, della nobile famiglia degli Alberti, nacque a Genova nel 1404, essendo il padre esule in quella repubblica: alla precoce morte di lui, l’Alberti si trovò in gravi ristrettezze economiche e tutta la sua giovinezza fu segnata da tale bisogno, che gli rese arduo il conseguimento della laurea in diritto canonico all’università di Bologna, dopo la quale, resosi chierico entrò nella curia romana.

Per periodi non brevi fu a Firenze, soprattutto in occasione del Concilio che stabilì l’unione tra cattolici e ortodossi e qui strinse amicizia feconda con il Brunelleschi, che lo sollecitò ad approfondire gli studi di architettura, nei quali emerse sia come teorico che come progettista (si ricordi almeno il classico Tempio malatestiano di Rimini).

Le opere principali nel campo dell’arte sono Della pittura e De re aedificatoria, destinata la prima alla teorizzazione della nuova prospettiva pittorica, con l’invito allo studio della natura e al rispetto delle sue leggi, la seconda intesa a fornire i criteri per la nuova architettura di tipo classicheggiante e a proporre l’immagine dell’architetto ideale, che doveva  essere un uomo probo e possessore di una cultura enciclopedica, nel sogno di una città ideale, costruita secondo le leggi dell’armonia e affidata platonicamente al potere dei dotti (per parte sua Pio II tentò di realizzarlo con l’edificazione della città di Pienza).

Nella sua apertura a tutti i campi del sapere l’Alberti si occupò anche di letteratura sia teoricamente, nel De litterarum commodis atque incommodis, sia nella pratica concreta dei dialo­ghi lucianei delle Intercoenales (12 libri di dialoghi), dove vengono discussi i temi principali della cultura umanistica, e del romanzo storico Momus.

Ma l’opera principale di quest’uomo che non ebbe una famiglia propria fu il trattato Della famiglia, nato da intenti pedagogici e dedicato a questa istitu­zio­ne che la civiltà borghese aveva fortemente valorizzato e che la cultura umanistica proponeva come centro ideale della forma­zione dell’uomo nell’espansione della sua vita sentimentale, nel conforto dell’abitazione e degli arredi, nella costituzione e nella cura del patrimonio, nella cura dei figli.

La trama concerne l’incontro di alcuni parenti presso il capezzale del padre morente dell’Alberti:  essi dialogano sul matrimonio, sull’educazione dei figli, sul modo di accrescere  e far prosperare la casa ed il podere ed infine l’amicizia.

Il terzo dei quattro libri che compongono quest’opera, Oeconomicus è forse il capolavoro dell’Alberti, per la commossa adesione ai temi del­la at­tività umana nella mercatura e nell’agricoltura, nell’esalta­zione del lavoro umano come modificatore della realtà e strumento validissimo contro l’abbandono alla fatalità.

Nell’opera “Della tranquillità dell’animo” l’Alberti introduce l’elogio dell’uomo nella figura del dotto, che le occupazioni congeniali elevano al disopra dei turbamenti e delle sventure, con la figura finale di Archimede che affronta serenamente la morte avendo fino all’ultimo atteso ai suoi studi prediletti.

I tre libri del De iciarchia (<<Il governo della casa>>) chiudono nel 1470, a due anni dalla morte, l’attività dello scrittore, che ancora una volta torna sul tema del “governo della casa” a conferma della sua predilezione per quel luogo autentico dell’uomo che è la fami­glia (superiore anche allo Stato per l’autore), dentro quell’e­terno ideale di “grazia e gravità”, insomma di armonia, che domina tutta la sua opera.

Dell’Alberti ricordo infine una raccolta di apologhi (Apologhi centum), spesso di oscuro significato, scritti a Bologna nel dicembre del 1437 e considerati dall’autore come un momento di pausa, di evasione dalla trattazione di opere più impegnative.

Gli apologhi sono in generale raccontini da cui si ricava un insegnamento morale: Esopo ne è stato il migliore creatore; essi avevano per protagonisti per lo più animali (forniti però di virtù, vizi e sentimenti umani) e talora dei, uomini e piante, e di cui si chiariva il significato, allegorico e moraleggiante, in una breve spiegazione finale (epimitio).

Nell’Alberti l’epimitio viene soppresso come del resto accadeva nei modelli greci pre-esopici: ciò serve ad evitare la divisione tra narrazione e riflessione e a dare così al lettore un po’ di responsabilità nel ricavare l’insegnamento.

Il tessuto narrativo si contrae poi fino a divenire sentenza o motto di spirito.

Vizi e virtù vengono rappresentati attraverso categorie essenzialmente laiche ed i valori non sono determinati in base a finalità metafisiche; animali e piante non hanno strabilianti qualità come nei bestiari od erbari medioevali, ma attitudini squisitamente umane.

Il verdetto del moralista valuta l’uso dei beni ed il tempo di tale uso lo scandisce impietosamente; spesso il riso è visto come castigo sociale o come mezzo per smascherare le apparenze, per ridere su chi vive solo attraverso le apparenze (ad es. il fungo, il roseto ecc. ).

[1]Le giuste leggi, e’ virtuosi principi, e’ prudenti consigli, e’ forti e constanti fatti, l’amore verso la patria, la fede, la diligenza, le gastigatissime e lodatissime osservanze de’ cittadini sempre poterono o senza fortuna guadagnare e apprendere fama, o colla fortuna molto estendersi e propagarsi a gloria, a se stessi molto commendarsi alla posterità e alla immortalità”. I libri della famiglia, p. 5.

Dante Alighieri – Questio florulenta ac perutilis de duobus elementis aquae et terrae ed Epistole

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Forse  Dante si recò a Mantova[1] nel 1319 e qui nacque, come ci racconta il poeta stesso[2], una grossa disputa, la quale egli volle poi tratta­re e definire in una conferenza nella chiesa di S. Elena a Verona il 20/01/1320[3].

Tale questione concerneva il fatto se l’acqua in qualche punto fosse più alta della terra, visto che per i dotti l’elemento più nobile deve stare sempre in alto (fuoco su aria, aria su acqua, acqua su terra)[4].

Dante affronta l’argomento anche per rispondere alle critiche ricevute per la sua cosmografia dell’Inferno[5] ed è per la negativa: la terra è in ogni punto più alta dell’acqua, che pure è elemento più nobile, per l’attrazione esercitata dalle stelle; porta a soste­gno delle sue considerazioni Aristotele, Tolomeo e Alfergano[6] oltreché ad esperienze di carattere fisico che hanno per il poeta la maggior importanza.

La scienza di Dante tuttavia non supera quella del suo tempo nonostante porti qualche buona ragione (ad es. l’illusione dei naviganti in alto mare di vedere la terra più bassa): l’opera tuttavia ha un valore storico perché fa il punto sullo stato delle conoscenze del secolo.

Interessa anche la dichiarazione del poeta di essere vissuto fin dalla puerizia nell’amore della verità e la condanna delle indagini volte a cose che trascendono il nostro intelletto.

Il valore letterario è invece discutibile:  il latino utilizzato è piano e dimesso, seppure l’architettura del trattato sia armonica[7].

 L’attribuzione a Dante è per alcuno[8] incerta perché la concezione dell’Inferno è contrastante ed inoltre i commentatori antichi hanno ignorato quest’opera che è stata ritrovata solo nel XVI secolo.

Però c’è anche da rilevare che D. parlò della questione al clero di Verona (ne è testimone il figlio Pietro) e che l’Inferno e la Questio divergerebbero solo perché il primo è frutto di invenzione fantastica.

 Dell’Alighieri si sono conservate poche epistole ma quelle di cui disponiamo sono di grande importanza: dirette ad uomini pubblici importanti, dibattono temi politici e sociali di grande attualità e ci consegnano degli spaccati assai preziosi del secolo XIV.

 Nel marzo del 1304 D. scrive una lettera al Cardinale Niccolò di Prato a nome dei Bianchi fuoriusciti, perché il vescovo di Ostia e legato pontificio, riporti la pace in Firenze.

 In altra epistola si conduole con Guido e con Oberto da Romena della morte del loro zio Alessandro (estate del 1304); è dubbio che appartenga a Dante perché questo Alessandro troverà posto nell’In­ferno.

 Un’epistola anteriore al 1306 è diretta a Cino da Pistoia e ha ad oggetto la risposta ad una questione – posta da Cino con un sonetto – se l’anima possa passare dall’amore per una persona all’amore per un’altra con la stessa facoltà.

D. risponde affermativamente con il sonetto “Io sono stato con amore insieme” e spiega meglio nella lettera che la potenza dell’anima non si esaurisce in un atto e quando questo è compiuto essa passa ad un altro.

 Altre tre epistole, dallo stile polemico e personale (contra­ria­mente a quanto richiesto dall’epistolografia latina) sono scritte in occasione della discesa di Arrigo VII: una ai Principi di Italia: ai re d’Italia, ai signori dei feudi, ai senatori romani, perché accolgano l’Imperatore voluto da Dio (1310), un’altra <<agli scelleratissimi fiorentini di dentro>> perché non resistano alla calata di Arrigo VII (1311); la terza all’Impera­tore stesso, in uno stile solenne tanto quanto il destinatario cui tale epistola è rivolta (1311).

 Ancora nel 1311 Dante indirizza un’epistola al marchese Moroello Malaspina di Giovagallo: in essa confida all’amico che appena allontanato dalla Curia (quella del Marchese o di Arrigo VII) giunse sulle acque dell’Arno dove vide una donna che lo infiammò di una passione terribile (anche in questo caso forse si tratta di un’allegoria).

 Della primavera del 1311 sono anche tre biglietti di ringrazia­mento scritti da Dante in nome della contessa Gherardesca di Battifolle (figlia del conte Ugolino) e destinati all’imperatri­ce Margherita (moglie di Arrigo VII).

 Altra epistola è diretta ai cardinali convenuti in conclave dopo la morte di Clemente V nel 1314, perché si accordino ad eleggere un papa più degno (Clemente V aveva ingannato Arrigo VII) e soprattut­to eleggano un pontefice italiano in modo che la sede di Pietro sia riportata a Roma.

 Del 1315 è invece un’epistola destinata ad un amico fiorentino (di valore inferiore rispetto a quelle scritte in occasione della calata di Arrigo VII) che il poeta non vuole nominare: D. scrive in occa­sione dell’amnistia concessa da Firenze, affermando di non volerne fruire poiché egli è sempre stato innocente e quindi non ha intenzione di piegarsi ad inutili umiliazioni, ma preferisce seguire la ragione che appunto gli impedisce il ritorno.

 L’ultima epistola è diretta al signore di Verona Cangrande della Scala (Par., XVII, 76 e ss.) ma sull’autenticità i dantisti sono quanto mai discordi; per contraccambiare i favori ricevuti l’autore di questa lettera offre a Cangrande il Paradiso, con parole che fanno presumere che fosse già ultimato.

 D. ci spiega che un’opera dottrinale (così definisce la sua) va indagata su sei punti: soggetto, autore, forma, fine, titolo del libro, il genere di filosofia; che la sua opera ha due sensi quello letterale e quello allegorico (il morale l’anagogico sono qui da ricomprendere nell’allegorico); c’è quindi un chiaro riferimento al Convivio.

 Il poeta  passa poi a spiegare i sei punti: il soggetto di tutta l’opera nel senso letterale è <<lo stato delle anime dopo la morte, semplicemente preso; nell’allegorico, l’uomo che meritando o demeritando per la libertà dell’arbitrio, sia soggetto alla giustizia del premio o della pena>>.

 Il fine dell’opera per il poeta è quello di rimuovere i viventi in questa vita presente dallo stato di miseria e condurli allo stato di felici­tà.

 Il genere di filosofia è quello morale, perché l’opera è composta non con un intento speculativo ma pratico e se vi si trattano questioni speculative ciò è sempre in vista dell’opera­re.

 Il titolo di Commedia è giustificato in quanto l’opera ha principio aspro e fine felice ed è scritta in stile dimesso ed in lingua volgare <<nella quale anche le donnicciole conversano>>, all’opposto della tragedia che ha principio mirabile e quieto e fine orribile e stile sublime.

 Ma, indipendentemente dal fatto che non è sicuro che il titolo di Commedia sia stato dato da Dante al suo poema, quel che è certo è che lo stile illustre e difficile del Paradiso mal si conciliano con la definizione sovraesposta.

 Premesse queste cose l’autore passa all’esposizione letterale della cantica, cominciando dal prologo, cioè dai primi 36 versi del canto I. Parla diffusamente dei primi 12 versi. Poi opera un’af­frettata divisione dell’invocazione e d’improvviso si interrompe protestando che  la povertà lo incalza così da costringerlo ad abbandonare queste ed altre cose utili allo stato.

In un rapido ultimo paragrafo poi traccia le linee generali della cantica fino alla visione di Dio.


[1] Purtroppo però della disputa mantovana o della conferenza veronese non abbiamo notizia sicura in nessun documento storico e in nessun commentatore e biografo di Dante, ad eccezione di un cenno nel commento di Pietro Alighieri alla Commedia. Sfortunatamente non possediamo neppure un codice manoscritto della Quaestio, che però conosciamo perché nel secolo XVI Benedetto Moncetti, Priore degli Agostiniani di Padova, scoprì l’autografo e la pubblicò a Venezia nel 1508 in 14 facciate di testo. Tuttavia tale autografo andò perduto ed abbiamo notizia soltanto una successiva ristampa del 1576.

[2] L’accenno al fatto di Verona è contenuto nella seconda egloga di Dante a Giovanni del Virgilio, scritta dopo il 20 gennaio 1320.

[3] Mantova e Verona erano città culturalmente vivaci per la presenza di dotti ingegni e scuole di scienze fisiche.

[4] Il problema dei reciproci rapporti tra l’acqua e la terra abitata si era imposto alla attenzione della cultura medioevale quando questa si accolse l’aristotelismo e la visione cosmologica che poneva la terra al centro dell’universo e postulava la concentricità delle quattro sfere (terra, acqua, aria, fuoco) ove, nell’ordine, la sfera precedente è tutta circondata dalla seguente, e quindi la terra doveva risultare conglobata e sommersa dall’acqua, il che appariva in contrasto, oltre che con l’esperienza, anche con la separazione delle acque affermata dal Genesi.

[5] La narrazione dell’emersione della terra nell’emisfero boreale causato dalla caduta di Lucifero [Inf., XXXIV) aveva attirato gravi critiche, per cui Dante vuol dimostrare qui che è anche  in grado di darne spiegazione razionale e scientifica. Mentre la visione teologica spiega l’emersione in termini di repulsione,  quella scientifica la precisa in termini di attrazione.

[6] Al Farghani (nato a Baghdad, visse IX sec. e morì nell’861 in Egitto), astrofisico e astronomo revisore del sistema tolemaico, fu al servizio del califfo di Baghdad tra l’813 e l’833. I suoi studi sulla cosmologia tolemaica sono esposti nell’opera nota come “Compendio sulla scienza degli astri” e tradotta in latino con il titolo di “Rudimenta astronomica” da Gherardo da Cremona. Essa contiene considerazioni interpretative sulle eclissi di Sole e di Luna, che nel sistema geocentrico richiedevano spiegazioni meccaniche diverse da quelle attuali (la previsione delle eclissi forniva quindi un ulteriore meccanismo di verifica della validità della cosmologia di Tolomeo).

Inoltre Alfergano (latinizzazione del nome Al Farghani) fissa le dimensioni degli astri e le loro distanze fornendo una descrizione quantitativa dell’universo che lo stesso Dante Alighieri accetterà come modello dell’universo, come si evince inoltre dalle citazioni presenti nel “Convivio” e dai riferimenti astronomici nella Divina Commedia.

[7] E si dipani secondo l’ordine tipico delle Summae scolastiche: alla tesi avversarie Dante oppone la solutio auctoris, per ribattere poi uno ad uno gli argomenti contrari; all’interno delle varie sezioni, l’argomentazione segue i princìpi ed i moduli scolastici e gli abituali  schemi sillogistici.

[8] I primi dubbi li avanzò Giuseppe Pelli nel 1758, seguito dal Tiraboschi, dal Foscolo ed altri. Si giunse perfino ad attribuirla bizzarramente a un Dante III, umanista veronese del 1500. Il primo che fondò l’opinione negativa su argomenti seri fu il Bartoli, seguito da Lodrini, Passerini, Ricci, Scartazzini e Luzio—Renier. La tesi dell’autenticità fu validamente sostenuta da Angelitti, Moore, Russo, Toynbee, Biagi e più recentemente da Mazzoni, mentre la tesi negativa trovava ancora agguerriti sostenitori in Boffito e in Nardi (v. Pio Gaja, Introduzione QUESTIO DE AQUA ET TERRA DE FORMA ET SITU DUORUM ELEMENTORUM AQUE VIDELICET ET TERRE di Dante Alighieri, su http://www.classicitaliani.it).

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