Pacificatori nella Roma antica

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Tante erano le premure per mantenere la pace che a Roma si dedicò addirittura un tempio alla dea Concordia[1].

Molto venerato era il dio Mercurio, considerato il mediatore tra gli dei e gli uomini, equilibratore e controllore del rapporto tra il bene ed il male. La mitologia racconta che Apollo gli donò il caduceo appunto per pacificare e conciliare.

La conciliazione tra privati fu a Roma assai praticata a giudizio instaurato o prima del giudizio.

I Romani andavano frequentemente ad accordarsi sotto ad una colonna, nel Foro di Cesare[2] e ciò avveniva previo giuramento solenne nel nome del padre della patria[3].

Nei migliori tempi di Roma peraltro si conducevano i coniugi sdegnati, non al foro davanti al pretore, ma al tempio di Giunone conciliatrice per farli desistere dal triste disegno di separarsi[4].

Questo stato di cose resse sino a Caligola che impose una pesantissima tassa sulle liti per rimpinguare le casse dello Stato e quindi considerò la conciliazione come una frode all’erario.

Svetonio ci racconta che l’imperatore pretendeva il 40% della somma controversa[5] e che Caligola condannava tutti coloro che venivano accusati di essersi accordati o di aver composto la lite[6].

Tuttavia i termini che noi usiamo comunemente (conciliazione, mediazione, negoziazione ec…) a Roma significati abbastanza lontani da quelli odierni.

 Il termine conciliatio ha in tarda epoca repubblicana (dal 116 al 27 a. C.) un diverso etimo rispetto a quello che diamo noi oggi alla conciliazione ove il conciliatore svolge un ruolo attivo che può anche incentrarsi su una proposta.

Ed è ben lontano anche da quello di “mediazione” ossia della facilitazione della comunicazione tra le parti e del soddisfacimento degli interessi.

Secondo VARRONE[7]  l’operazione di conciliare era quella che svolgevano i lavandai, e che consisteva nel sottomettere, spremere, costringere i panni (cilia) [8].

Da ciò in seguito “si disse in traslato conciliare l’adoperarsi per rendere taluno benevolo a sé o agli altri. In senso ancora più figurato si disse conciliare il far da mezzano, a qualunque scopo, onesto o disonesto: così i Romani davano il nome di conciliatrices a certe donne che si assumevano di riunire gli sposi divisi[9].

Abbiamo un riferimento delle ISTITUZIONI giustinianee alla reconciliatio nel rapporto tra i pupilli e gli adulti, nell’ambito dell’istituto della tutela[10], ma ciò non ha nulla a che fare col significato odierno di conciliazione.

 Nel CODEX il concetto di conciliatio riguarda per lo più la religione cristiana. Vi è però nel Libro V una citazione importante ai nostri fini che si riferisce al matrimonio e vieta che la riconciliazione si possa imporre[11].

Sempre alla riconciliazione nel matrimonio per lo più si riferisce il DIGESTO[12].

I Romani utilizzavano anche la parola negoziazione ed essa riguardava un settore di attività particolare, quello del commercio.

Il termine negotiatio aveva, infatti, il significato di commercio all’ingrosso, traffico, attività affaristica[13]; il negotiator era il commerciante, il banchiere, il finanziere[14].

Nel senso indicato le ISTITUZIONI richiamano la negoziazione quando vogliono definire la società[15]che appunto raggruppa dei negoziatori di olio, vino e frumento.

Quanto al CODEX l’Imperatore Valentiniano invita i negotiatores alla moderazione perché i cristiani hanno come compito quello di aiutare i poveri[16];  decisamente critico si mostra  Anastasio[17] e Giustiniano proibisce addirittura ai negotiatores la milizia[18].

Anche il DIGESTO dedica ai negotiatiores diverse commenti[19] che hanno sempre a che fare con il commercio.

Lo stesso vocabolo mediator aveva presso i Romani a che fare con il commercio.

Essi intendevano colui che indagando la volontà e la convenienza dei negozianti,  si intrometteva tra di loro per trattare e concludere tra di essi un’operazione lecita ed onesta[20].

Riguardo a tale funzione Giustiniano nel capitolo VIII[21] di una Novella[22] precisa che “Avendo noi fatto una legge che, trattandosi di cause pecuniarie, i mediatori non si possono costringere a fare testimonianza, alcuni abusano di questa disposizione e non vogliono fare testimonianza. Prescriviamo quindi che se ambedue le parti litiganti acconsentono che il mediatore faccia testimonianza, debba egli prestarla, suo malgrado; poiché in tal caso il consenso delle parti toglierà la proibizione da noi fatta che si possa costringere a fare testimonianza[23].

Per indicare i mediatori Ulpiano[24] utilizzò anche il vocabolo pararii[25] e pure il vocabolo[26]proxeneta[27] di derivazione greca, seppure quest’ultimo non fosse, perlomeno nell’epoca giustinianea, legato soltanto al commercio[28].

Ai fini dell’individuazione di un concetto simile alla mediazione civile e commerciale odierna può essere utile approfondire invece l’opera di Iacopo Cuiacio, un giurista francese del XVI secolo[29], famoso per i suoi commenti al diritto giustinianeo. I giuristi di Francia e Olanda lo hanno considerato per secoli una autorità indiscussa in materia.

C’è in particolare un passo del 1584 delle sue recitationes solemnes[30] al Libro XIII del commento di Paolo all’Editto Pretorio[31] che, a parere dello scrivente, merita l’attenzione anche di coloro che si occupano di storia dei sistemi di composizione dei conflitti.

Lege etiam Julia judiciaria (ut ait d. l. 9. §. pen. et simul de alio capite l. Juliae in l. cum lege, hoc tit. fit mentio) hac, inquam, lege prohibetur judex ea de re cujus est judex in se compromitti jubere:  quia in ejus potestate non est, ut munus sibi injunctum defugiat, vel deponat. Potest quidem si spes aut facultas videatur esse componendi negotii, officio judicis paulisper dilato, communis amici, et quasi pacificatoris partes suscipere, aut suadere litigatoribus, ut inter se de negotio omni transigant, quae tamen suasio judicis judicati auctoritatem non habet, ut eleganter ait l. T. C. de sent. et interlocutor. quia non ut judex, vel arbiter compromissarius id suadet, sed ut communis amicus, ut interpres, et sequester pacis, ut arbiter honorarius“. (“Anche secondo la legge giudiziaria Julia…, dico, che questa legge proibisce al giudice della causa per legge, di offrirsi come arbitro, affinché eviti il compito a lui assegnato, o lo abbandoni. Tuttavia può se la speranza o il diritto fanno scorgere una composizione del negozio, differire per un po’ il ruolo di giudice, prendere il ruolo di comune amico e di pacificatore, o convincere i litiganti, a transigere tra loro il negozio, che però la persuasione del giudice non ha autorità di giudicato… perché non come arbitro o come giudice egli giudica, ma come comune amico, interprete della volontà delle parti, sequestratario di pace, o arbitro non investito dal giudice (scelto dalle parti”).

In primo luogo Cuiacio ci informa che presso i Romani il giudice per legge (diremo noi il giudice naturale) non poteva essere arbitro: forse in omaggio a tale principio ancora nell’Ottocento il conciliatore arbitrava a seguito di fallita conciliazione, ma non faceva sentenza; redigeva soltanto il verbale.

Da questo splendido passo scopriamo poi che anche i Romani differenziavano la conciliazione dalla transazione. Così si evince che alla transazione si veniva condotti dalle parole persuasive del giudice, mentre ciò non accadeva nella conciliazione (così come d’altronde si verifica attualmente in mediazione che noi definiamo facilitativa).

La conciliazione poteva inoltre fondarsi sulla speranza del giudice di poter ottenere un componimento oppure sulle indicazioni fornite dal diritto (facultas).

Il prodotto della conciliazione non aveva autorità di cosa giudicata come la sentenza del giudice.

Ma il passo ci fornisce altre precise indicazioni; in particolare ci regala due dei nomi con cui veniva appellato il mediatore romano antico: interpres e sequester pacis.

Livio definisce Interpres il mediatore di pace[32]; secondo Cicerone[33] questa figura faceva pagare i suoi servizi: e per questo non era ben vista dai Romani.

Sequester pacis per Silio Italico[34] significa parimenti mediatore di pace, e così per Seneca, Gellio, Plauto, Servio, Lucano, Stazio, Ovidio e Virgilio[35].

Cicerone al pari di interpres utilizza anche il vocabolo sequester per indicare il corruttore di giudici.

È probabile che ai tempi i termini interpres e sequester pacis fossero appellativi intercambiabili.

Sequester pacis era anche colui a cui si affidavano i beni contesi dai litiganti[36].

Seneca ci avverte peraltro che a Roma agiva anche il publicae gratiae sequester che era colui che mediava in una riconciliazione ufficiale. In particolare il grande filosofo attribuisce questa qualità a Menenio Agrippa che aveva provveduto a riconciliare pubblicamente i patrizi con i plebei[37]. Una funzione simile viene riconosciuta da Appiano a Caio Sempronio Gracco (123 a.C.) che “Ha lavorato per riconciliare la classe dei Cavalieri” [38].

Il termine conciliazione ufficiale peraltro arriva, come vedremo, sino ai primi del XX secolo e nell’Ottocento stava ad indicare la conciliazione del giudice conciliatore, del presidente del tribunale nel diritto di famiglia, dell’autorità di pubblica sicurezza nei conflitti.

Dall’avvocato BARINETTI[39], accademico dell’Ottocento, apprendiamo poi che gli arbitri romani ricevevano dal praetor alcune controversie “per le molte differenze ed i rapporti assai intralciati” nelle quali assumevano funzione di mediatori e di pacificatori[40].

Gli arbitri che svolgevano questo ruolo di mediatori e pacificatori erano detti appunto sequestri.

In tal caso il Digesto ci dice che non si provvedeva a redigere il compromesso[41].

Questa delegazione di poteri conciliativi all’arbitro caratterizza ancora la legislazione dell’Ottocento e trova conferma nel codice di rito nostro nella disciplina dell’esame contabile (art. 198-200 C.p.c.).

Potremmo dire anche che è un’ava della nostra mediazione delegata.

La figura invece del depositario dei beni contesi (sequestratario) già nel XIX secolo non aveva più a che fare con i poteri conciliativi.

Quanto alla conciliazione preventiva condotta da amichevoli compositori interessa infine qui discorrere dei disceptatores domestici[42].

Cicerone ce ne regala una bellissima definizione: “disceptator id est rei sententiaeque moderator” (“il mediatore è un moderatore del fatto e della decisione”)[43].

Presso i Greci peraltro troviamo riferimento a questa figura in Platone laddove il grande filosofo deferisce la risoluzione delle controversie in primo luogo ai vicini[44] e che in greco antico venivano chiamati per la loro funzione διαλλακτήρoι (diallactèroi)[45].

disceptatores domestici nacquero a Roma dalla difficoltà della citazione per atto privato (vocatio in ius) che indusse i Romani a tentare la conciliazione appunto in casa propria, o di un congiunto, o di un giureconsulto[46].

Anch’essi potevano essere arbitri, ma in tal caso non erano nominati dal praetor, ma scelti dalle parti.

Quando erano giuristi dovevano conciliare dall’alba al tramonto senza pretendere alcun pagamento: il loro ruolo tuttavia non era perpetuo, ma costituiva solo una tappa del cursus honorum.

Spesso i giuristi discettatori partecipavano alle riunioni di conciliazione in piedi su uno scranno che si teneva all’entrata della domus ed erano presenti come ai tempi attuali anche alcuni tirocinanti.

Ritengo sia importante ancora segnalare che Giustiniano era favorevole alla conciliazione ed in geere al regolamento privato che menziona in diverso modo nel CODEX come amicali compositione[47],amicalem conventionem[48] amicalis forma amicalis pacto[49], amicalem transactionem[50]in sostanza si può dire che il giudizio e la conciliazione stavano per lui sullo stesso piano. Per quanto  all’epoca il conciliatore, come abbiamo rilevato, potesse frequentemente essere un arbitro.


[1] Fu eretto per voto da Furio Camillo nel 387 e poi rifatto da Costantino perché era stato dato alle fiamme sotto Massenzio. A dire il vero a Roma ce ne erano due, uno della Concordia Prenestina che è quello a cui facciamo riferimento e l’altro che fu ribattezzato della Concordia Augusta. R. V. CORTONESE, Accurata e succinta descrizione topografica delle antichitá di Roma, Volume 1, P. Piale e M. de Romanis, Roma, 1824, pp. 85 e ss.

[2] Così ci racconta SVETONIO: “Postea Plebs solida columnam propte viginti pedum lapidis numidici in foro stauit, scrpsitque: PARENTI PATRIAE: apud eam longo tempore sacrificare, vota suspicere, controversias quasdam, interposto per Caesarem jurejurando, distrahere perseveraverit” (“Dopo pose in piazza una colonna di porfido, tutta di un pezzo, alta circa venti piedi, e ci scrisse dentro: AL PADRE DELLA PATRIA. E perseverò lungo tempo nel sacrificare presso di essa, e qui si votava, e giurando ancora sotto il nome di Cesare, si terminarono alcune liti e controversie”). C. SVETONIO TRANQUILLO, XII Caesares – C. Iulius Caesar  85, in  OPERA, Vol I, Lipsia, 1816, p. 176.

[3] Sin dalle origini dunque a titolo esecutivo si preferiva il vincolo morale per suggellare un accordo.

[4] L. SCAMUZZI, Manuale teorico-pratico dei Giudici Conciliatori e dei loro Cancellieri ed Usceri, III ed., E. Rechiedei & C., 1893, p. 170.

[5] L’imperatore voleva anche l’ottava parte del guadagno che facevano i facchini giorno per giorno: e dalle meretrici quanto ciascuna guadagnava in una volta.

E fece fare una aggiunta al capitolo della detta legge che conteneva  questi precetti, che s’intendessero obbligate a pagare non solamente quelle che erano meretrici, ma quelle ancora che fossero state o meretrici o ruffiane (che erano anche dette a Roma anche conciliatrices): e cosi le gentildonne furono obbligate alla medesima pena se fossero state trovate in adulterio.

Avendo fatto per bando pubblicare la predetta legge e non avendola fatta intagliare nel rame e, porre in pubblico, ne seguiva che gli uomini per dimenticanza, non potendo ricorrere alla scrittura, commettevano molti errori; finalmente domandandola il popolo con grande istanza, la fece intagliare in lettere minutissime e porre in luogo molto stretto in modo che nessuno la potesse copiare. G. SVETONIO TRANQUILLO, Le vite dei dodici Cesari, trad. Fra Paolo Del Rosso, Cugini Pombe Comp. Editori, Milano, 1853, p. 214-215.

Peraltro gli agenti del fisco nel Regno d’Italia a seguito dell’istituzione del conciliatore nel 1865 non si comportarono molto diversamente considerando nulli tutti i verbali di conciliazione.

[6] Lib. IV, 40 De Vita Caesarum, C. Caesar Caligula (“Pro litibus atque judiciis ubicumque conceptis, quadragesima summae, de qua litigaretur: nec fine poena, si quis composuisse vel donasse negotium convinceretur”) (“Voleva che tutti quelli che litigavano gli pagassero la quarantesima parte della somma in litigio; e quelli che erano accusati d’essersi accordati, e di aver composto la lite, erano da lui condannati”).

[7] Cfr. De lingua latina, libro V:”A cogitatione concilium, inde consilium; quod ut vestimentum apud fullonem cum cogitur, conciliari dictum.”.

[8] Sulla scorta dell’insegnamento varroniano sono le opere: V. E. H. BARKER, Classical recreations, J. A. Walpy, Londra, 1812, p. 379-380;  T.LUCRETII CARI, De Rerum natura libri six, a cura di  G. WAKEFIELD, J.A. Walpy, Londra, 1823, p. 922; G. MANNO, Della fortuna delle parole, vol. 2, L. Nervetti, Milano, 1832, p. 26-27.

[9] V. amplius L. SCAMUZZI, voce Conciliatore e conciliazione giudiziaria, op. cit., pag. 37.

[10] Inimicitiae, quas quis cum patre pupillorum vel adultorum exercuit, si capitales fuerunt nec reconciliatio intervenit, a tutela solent excusare. (LIB. I, TIT. XXV. DE EXCUSATIONIBUS TUTORUM VEL CURATORUM).

[11] CJ.5.4.14: Imperatores Diocletianus, Maximianus

Neque ab initio matrimonium contrahere neque dissociatum reconciliare quisquam cogi potest. unde intellegis liberam facultatem contrahendi atque distrahendi matrimonii transferri ad necessitatem non oportere. * diocl. et maxim. aa. et cc. titio. * <>

[12] Cfr. i Commenti a Dig. 23.4.29.1, Dig. 24.1.3pr., Dig. 24.1.32.11.

[13] Ma si trattava anche di impresa collettiva (negotiatio plurimum cum e sine societate) e di impresa individuale (negotiatio unius). V. amplius P. CERAMI.- A. DI PORTO – A. PETRUCCI,Diritto commerciale romano: profilo storico, C. Giappichelli, 2004, p. 61.

[14] San Tommaso, qualche secolo dopo, distinguerà tra le forme di negotiatio ossia di mercatura, affermando come lecito solo lo scambio di beni che attraverso il lavoro hanno avuto una trasformazione migliorativa che li ha resi più idonei a soddisfare i bisogni umani. In questo senso non sarebbe dunque lecito lo scambio di denaro con denaro. Cfr. Summa Theologiae, II-II, q. 77,  a. 4.

[15]Societatem coire solemus aut totorum bonorum, quam Graeci specialiter  appellant, aut unius alicuius negotiationis, veluti mancipiorum emendorum vendendorumque, aut olei, vini, frumenti emendi vendendique.

[16] Negotiatores, si qui ad domum nostram pertinent, ne commodum mercandi videantur excedere, christianos, quibus verus cultus est, adiuvare pauperes et positos in necessitate provideant. * valentin. et valens aa. ad iulianum com. orientis. * <a 364 d. xv k. mai. constantinopoli divo ioviano et varroniano conss.>

[17] CJ.3.13.7pr.: Imperator Anastasius

Periniquum et temerarium esse perspicimus eos, qui professiones aliquas seu negotiationes exercere noscuntur, iudicum, ad quos earundem professionum seu negotiationum cura pertinet, iurisdictionem et praeceptiones declinare conari. * anastas. a. constantino pp. * <a 502 d. xv k. mart. constantinopoli probo et avieno conss.>

[18] CJ.12.34.0. Negotiatores ne militent.

CJ.12.34.1.2: Imperator Justinianus

Si qui vero negotiatores, quos omni militia prohibuimus, iam militarunt, licentiam eis damus negotiationem quidem relinquere, militiam vero retinere, scientibus quod, si postea negotiantes appareant, militia privabuntur. <a 528-529>

[19] Cfr. ad esempio i commenti a Dig. 23.4.29.1, Dig. 23.2.33, Dig. 24.1.3pr.,  Dig. 24.1.32.11, Dig. 32.65pr., Dig. 38.1.45, Dig. 50.5.9.1, Dig. 50.6.6.3, Dig. 50.11.2.

[20] C. PARODI, Lezioni di diritto commerciale, Rosa Lavagnino Parodi, Genova, 1854, p. 70. Quindi facevano riferimento a quella figura individuata dagli art. 29 e ss. del Codice di Commercio e per noi dall’art. 1754 C.c.

[21] Ut mediatores non nisi de partium consensu testimonium ferant, et de testimonio proxenetarum. I mediatori non prestano testimonianza se non con il consenso delle parti. Testimonianza dei mediatori.

[22] “Quoniam vero legem proposuimus in pecuniariis causis nolentes testificari, illos non compellendos testimonium dare, qui ante mediatores facti sunt ipsis, et quidam abutuntur hoc, et testimonio nolunt uti: sancimus, si utraque pars consentiat, quod et mediator eorum fiat testificator (componantur enim ea, quae ab eo dicuntur) compellere eum etiam nolentem testimonium perhibere: prohibitione, propter quam eum nolentem testificare penitus  nostra voluit lex, propter consensm utriusque partis sublata”.

[23] F. FORAMITI, Corpo del diritto civile, vol. IV, Tipografia di G. Antonelli, Venezia, 1844, col. 696-698. Anche per noi – seppure la figura non abbia molti punti di contatto con quella romanistica – “Il mediatore non può essere tenuto a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite nel procedimento di mediazione, né’ davanti all’autorità giudiziaria né davanti ad altra autorità”(art. 10 c. 2 decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28). Dunque la riservatezza di determinate funzioni era fondamentale anche nei tempi antichi.

[24] Unitamente a Giustiniano nella novella appena vista e nelle Pandette, Libro cinquantesimo, Titolo XIV, De Proxenetics.

ig. 50.14.0. De proxeneticis.

Dig. 50.14.1

Ulpianus 42 ad sab.

Proxenetica iure licito petuntur.

Dig. 50.14.2

Ulpianus 31 ad ed.

Si proxeneta intervenerit faciendi nominis, ut multi solent, videamus an possit quasi mandator teneri. et non puto teneri, quia hic monstrat magis nomen quam mandat, tametsi laudet nomen. idem dico, et si aliquid philanthropi nomine acceperit: nec ex locato conducto erit actio. plane si dolo et calliditate creditorum circumvenerit, de dolo actione tenebitur.

Dig. 50.14.3

Ulpianus 8 de omn. trib.

De proxenetico, quod et sordidum, solent praesides cognoscere: sic tamen, ut et in his modus esse debeat et quantitatis et negotii, in quo operula ista defuncti sunt et ministerium qualequale accommodaverunt. facilius quod graeci hermyneutikon appellant, peti apud eos poterit, si quis forte condicionis vel amicitiae vel adsessurae vel cuius alterius huiuscemodi proxeneta fuit: sunt enim huiusmodi hominum ( ut in tam magna civitate) officinae. est enim proxenetarum modus, qui emptionibus venditionibus, commerciis, contractibus licitis utiles non adeo improbabili more se exhibent.

[25] CELSO utilizza il termine adnumeratores ed altri li designano interventores ministri. Nella pratica del commercio sono anche detti sensali. C. PARODI, Lezioni di diritto commerciale, op. cit., p. 69.

[26] Est enim proxenetarum modus, qui emptionibus-venditionibus, commerciis, contractibus licitis, uliles non adeo improbabili more se exhibent. (Z. 3. Ulp. Lib. 8. De Omn. Tribun.)

[27] I compensi di questi soggetti erano detti proxenetae merces (G. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro ai giorni nostri, Tipografica Emiliana, Venezia1857, p. 159) e dipendevano nell’ammontare dal prudente apprezzamento del giudice. C. PARODI, Lezioni di diritto commerciale, op. cit., p. 83.

[28] “…his personis quarum interventu nuptiae, amicitiae, nomina, aut quaevis negotiationes inter duos plures-ve contrahuntur”.

CJ.5.1.6:

Constitutio nuptiarum proxenetam potissimum nihil accipere vult.  quod si omnino accipere audeat, si quidem nihil ea de re convenerit, nihil omnino eum accipere:  si vero convenerit, non supra vicesimam partem dotis vel ante nuptias donationis exigere, quando dos ducentas auri libras non excedit:  minus autem si vult et accipere permittit.

CJ.5.1.6.1:

Cuiuscumque autem quantitatis dos sit, supra decem auri libras proxenetae accipere non permittit, etiamsi certa dos vel ante nuptias donatio sit.

[29] Visse tra il 1522 ed il 1590.

[30] Cfr. J. CUJACII, Opera in Tomos XIII distributa, Tomus V, In librum primum Pauli ad edictum commentarii seu recitationes solemnes, Editore Prati, 1838, Tolosa, col. 283 e ss.

[31] Ad Lib. 13, L. XII. De constituta Pecunia (Dig. 13.5.13) Paulus 13 ad ed. (Sed et si decem debeantur et decem et stichum constituat, potest dici decem tantummodo nomine teneri) Et Lib. 4, L. IV. De receptis: qui arbitrium receperint ut sententiam dicant. (Dig. 4.8.4) Paulus 13 ad ed. (Nam magistratus superiore aut pari imperio nullo modo possunt cogi: nec interest ante an in ipso magistratu arbitrium susceperint. inferiores possunt cogi).

[32] Così in Livio.

[33] Orazione in favore di Aulo Cluenzio Avito, XXXVI. Cicerone ci racconta anche un episodio  in cui un l’interpres aveva corrotto un giudice (Verr., I, 36).

[34] Punica, 6,347.

[35] Cfr. P. OVIDII NASONIS Opera omnia, Volume 7, A. J. Valpy, 1821, Londra,  p. 3744.

[36] Lib. 16, Dig. Tit. 3, fr. 6, 17

Si velit sequester officium deponere, quid ei faciendum sit? et ait pomponius adire eum praetorem oportere et ex eius auctoritate denuntiatione facta his qui eum elegerant, ei rem restituendam qui praesens fuerit. sed hoc non semper verum puto: nam plerumque non est permittendum officium, quod semel suscepit, contra legem depositionis deponere, nisi iustissima causa interveniente: et cum permittitur, raro ei res restituenda est qui venit, sed oportet eam arbitratu iudicis apud aedem aliquam deponi.

Così anche in moltri altri passi del Corpus Iuris Civilis. Troviamo una definizione in particolare nel Digesto. Dig. 50.16.110

Modestinus 6 pand.

“sequester” dicitur, apud quem plures eandem rem, de qua controversia est, deposuerunt: dictus ab eo, quod occurrenti aut quasi sequenti eos qui contendunt committitur.

[37] Dial. De Consolatione ad Helviam  12,12, 5. E morì così povero, aggiunge Seneca, che per il suo funerale fu necessaria una colletta. Speriamo che questa non sia la fine anche per i mediatori civili e commerciali attuali.

[38] Ὁ μὲν δὴ Γάιος Γράκχος οὕτως ἐδημάρχει τὸ δεύτερον· οἷα δ’ ἔχων τὸν δῆμον ἔμμισθον, ὑπήγετο καὶ τοὺς καλουμένους ἱππέας, οἳ τὴν ἀξίωσίν εἰσι τῆς βουλῆς καὶ τῶν δημοτῶν ἐν μέσῳ, δι’ ἑτέρου τοιοῦδε πολιτεύματος. Appiano, Bell. Civ. , I, 22 (Combes Dounous, Parigi, 1808).

[39] Professore ordinario di diritto somano all’Università di Pavia nel 1864.

[40] P. BARINETTI,Diritto romano, Parte generale, Vallardi, Milano, 1864 p. 190-191.

[41] Lib. 4, tit. 8, Dig. Fr. 11 § 2;

Arbitrum autem cogendum non esse sententiam dicere, nisi compromissum intervenerit.

[42] Gli amichevoli compositori furono detti disceptatores domestici a partire da Cicerone  (P. Quintio c. 5 e ss. e c. 11; Pro Caecina, 2;  Pro Caecina, 8).

Pro Caecina, 2: “quorum alterum levius est, propterea quod et minus laedit, et persaepe disceptatore domestico dijudicatur; alterum est vehementissimum, quod et ad graviores res pertinet, et non honorariam operam amici, sed severitatem judicis ac vim requirit”. Cfr. G. L. J. CARRÉ – A. CHAUVEAU, Leggi della procedura civile di C.J.L. Carré, Terza edizione, Volume 1, Rondinella, Napoli, 1853, p. 72; J. G. HEINECCII, Antiquitatum romanarum jurisprudentiam illustrantium syntagma secundum ordinem Institutionum Justiniani digestum, Henrici Luodovici Broenneri, Francoforte sul Meno,1841, p. 648.

<<Se un cittadino aveva delle differenze civili, doveva egli sulle prime cercare di terminarle all’amichevole, per disceptatores domesticos. Se non vi poteva riuscire citava l’avversario incontrandolo a comparire innanzi al Pretore con una di queste formole “in jus eamus; in jus ambula;”..>> N. DEL BUONO, Lezioni sulle antichità romane, Da’ Torchi della Società Filomatica, Napoli, 1856, p. 22.

[43] ”Marco Tullio Cicerone, Partiones oratoriae, 10.

[44] V. Leggi, 915d e 920d.

[45] “These were persons to whom a dispute was referred by agreement of the parties. Their power depended on the terms of the reference. It was usual, before commencing an action, to try what could be done by the mediation of friends. They would endeavour, by advice and persuasion, to reconcile the parties, or at least to bring them to some amicable arrangement. Such persons were called διαλλακτι . They were like the disceptatores domestici of Cicero; (Pro Caecina, 8)” C. R. KENNEDY, The Orations of Demosthenes, Henry G. Bohn, London, 1856, p. 411.

[46] “E ivi esponendo le proprie ragioni finivano per lo più di intendersi e conciliare con equità”. V. L. SCAMUZZI, voce Conciliatore e conciliazione giudiziaria, in Digesto Italiano, vol VIII p. I, Unione Tipografico-Editrice, Torino, 1896, p. 40. “E più tardi prima di disaminare la causa avanti al pretore, si tentava sempre un amichevole accordo tra le parti”(Duae experiundi viae, una summi iuris, altera intra parietes). Coloro che usavano del primo mezzo, dice il Noodt, usavano del rigore del diritto, e gli altri si mostravano più dolci ed umani: ita potuit actor dare. Humanitati, nec minus licuit ei aliter agere summo iure (G. NOODT, Ad edictum praetoris de pactis et transactionibus, Liber singularis, caput I, in G. NOODT, OPERA OMNIA, Johannes Van den Linden, Leida, 1724, pag. 484). P. S. MANCINI, G. PISANELLI, A SCIALOJA, Commentario del Codice di Procedura civile per gli Stati sardi, volume I parte II, Presso l’Amministrazione della Società Editrice, Torino, 1857, p. 109.

[47] CJ.1.2.22.1: Imperator Justinianus

Quae oportet non solum in casibus, quos futurum tempus creaverit, sed etiam in adhuc pendentibus et iudiciali termino vel amicali compositione necdum sopitis obtinere. <a 529 recitata septimo miliario huius inclitae civitatis in novo consistorio palatii iustiniani.>

[48] CJ.1.3.50.1: Imperator Justinianus

Quam generalem legem in omnibus casibus obtinere sancimus, qui necdum per iudicialem sententiam vel amicalem conventionem sopiti sunt. <a 531 d. k. sept. constantinopoli post cons. lampadii et orestae vv. cc

[49] CJ.1.17.2.23: Imperator Justinianus

Leges autem nostras, quae in his codicibus, id est institutionum seu elementorum et digestorum vel pandectarum posuimus, suum obtinere robur ex tertio nostro felicissimo sancimus consulatu, praesentis duodecimae indictionis tertio kalendas ianuarias, in omne aevum valituras et una cum nostris constitutionibus pollentes et suum vigorem in iudiciis ostendentes in omnibus causis, sive quae postea emerserint sive in iudiciis adhuc pendent nec eas iudicialis vel amicalis forma compescuit. quae enim iam vel iudiciali sententia finita sunt vel amicali pacto sopita, haec reuscitari nullo volumus modo. bene autem properavimus in tertium nostrum consulatum et has leges edere, quia maximi dei et domini nostri ihesu christi auxilium felicissimum eum nostrae rei publicae donavit, cum in hunc et b ella parthica abolita sunt et quieti perpetuae tradita, et tertia pars mundi nobis adcrevit ( post europam enim et asiam et tota libya nostro imperio adiuncta est) et tanto operi legum caput impositum est, omnia caelestia dona nostro tertio consulatui indulta. <a 533 data septimo decimo kalendas ianuarius constantinopoli dn. iustiniano pp. a. iii consule >

[50] CJ.6.58.15.5: Imperator Justinianus

Si qui autem casus iam evenerunt et per iudicialem sententiam vel amicalem transactionem sopiti sunt, nullam sentiant ex hac lege retractationem. <a 534 D. id. Oct. Constantinopoli dn. Iustiniano A. pp. iiii et Paulino vc. conss.>

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (ventunesima parte)

Il Capo II è intitolato “Che non poffano gli Ebrei fabbricare nuove Sinagoghe, né alzare la voce nelle loro Uffiziature.”

Ancora nel 1848 si riteneva che il mosaismo fosse un culto tollerato.

Si considerava tollerato un culto di cui non era lecito l’esercizio in pubblico, ma che si permetteva perché ciò consentiva di evitare maggiori danni.

Così dove non c’erano sinagoghe si permetteva che gli Ebrei potessero raccogliersi in case private[1]: ciò corrispondeva del resto ad un uso antico, visto che sino al III secolo e.V. non esistevano le sinagoghe in quanto edifici.

Ma questo permesso era concesso a patto che non partecipassero alle cerimonie Cristiani o Cristiane.

L’interdetto relativo ai Cristiani affonda le sue ragioni nel Concilio di Antiochia convocato da Costantino nel 341 e.V.

Nacque dall’intento di impedire che la comunità giudaica di Antiochia che era una delle tre comunità ebraiche maggiori del mondo antico, potesse continuare ad attrarre i Cristiani.

All’epoca questi ultimi si rivolgevano al tribunale della sinagoga perché ritenuto più giusto; pronunciavano giuramenti nella sinagoga perché li ritenevano maggiormente vincolanti.

Gli Ebrei erano ritenuti abili medici ed esorcisti. Le cerimonie ebraiche erano accompagnate dalla musica, incenso e cerimonie di grande effetto che avevano presa sui Cristiani i quali sostanzialmente si recavano nella sinagoga come se andassero a teatro.

I Cristiani partecipavano anche ai digiuni ebraici e mangiavano il pane azzimo[2].

Sia il concilio di Antiochia, sia quello di Laodicea impongono la scomunica per chi partecipa a pratiche giudaiche o alle feste degli Ebrei[3].

Siccome poi gli Ebrei dovevano rispettare il sabato, accadeva spesso che i Cristiani accendessero i lumi in questo giorno nella sinagoga o nelle case ebraiche, cosa che la Chiesa non poteva tollerare tanto che li considerò gesti di superstizione[4] che comportavano l’allontanamento dalla Comunione.

Già nel Concilio di Nicea del 325 si era peraltro stabilito il divieto di celebrare la Pasqua con gli Ebrei[5].

In virtù di queste tradizioni e precetti il paragrafo 3 del CAPO II dispone: “Gli Ebrei, che abiteranno in quelle Città, nelle quali non abbiano Sinagoga, potranno recitare nel modo di fopra[6] i loro Uffizi nelle Cafe da effi abitate, ma non avranno libertà di introdurre, sì nelle Sinagoghe, che nelle dette Cafe verun Criftiano, o Criftiana per il tempo, che tali efercizi dureranno, fotto pena di Scudi dieci d’oro”.

Chi però turbasse e impedisse l’esercizio del rito in Piemonte poteva però essere  multato o nei casi più gravi incarcerato (art. 169 Codice penale sardo).

Nemmeno la forza pubblica poteva arrestare gli Ebrei durante il culto o comunque in sinagoga (così stabiliva lo Statuto ligure).

Ma il furto nelle Sinagoghe non poteva godere dell’aggravante per ragione del luogo[7]: questa regola avrebbe fatto storcere il naso ai Romani che consideravano le sinagoghe loca religiosa e dunqueil furtodi oggetti sacriera considerato sacrilego sin dal tempo di Cesare e di Augusto; alcune sinagoghe sino a che non venne riconosciuto alle Chiese dagli imperatori cristiani, mantennero anche il diritto di asilo.

Nel diritto romano giustinianeo invece le Sinagoghe non erano considerate cose sacre, sante o religiose: vigeva il solo divieto di bruciarle e ai soldati di acquartierarsi in esse[8]: la mentalità sabauda era  avvicinabile alla giustinianea perché la religione di stato era quella cattolica; del resto ed in prospettiva storica quelli sulle sinagoghe sono stati insieme agli interventi sulle dignità e sul divieto della leva militare, i primi provvedimenti con cui la dottrina cristiana entra nel diritto romano.

C’è da aggiungere però che i governi in generale quando le casse erano vuote, specie dopo la Rivoluzione francese, non si facevano soverchio scrupolo a requisire sia gli argenti e gli ori non destinati al culto della Chiesa, sia gli argenti presenti nelle Sinagoghe: né è un solare esempio quanto accadde nella Repubblica  Ligure nel 1798[9].

Aggiungiamo qui ancora qualcosa sugli ufficiali del culto per quanto le norme delle Costituzioni non se ne occupino.

I rabbini erano gli ufficiali del culto: quelli delle università maggiori avevano un potere gerarchico sui rabbini delle università minori comprese nel circolo delle maggiori.

Il titolo di rabbino si conferiva da un collegio di professori di teologia rabbinica, dopo opportuna frequentazione universitaria, anche se il rabbino doveva essere nominato ed approvato dal Regio Governo ed essere suddito, salvo eccezioni approvate, di Sua Maestà.

Mentre in Francia, almeno dal 1831, potranno godere anche di pubblica pensione e il pubblico tesoro si farà carico anche delle spese per la scuola rabbinica, non così avveniva in Piemonte che stipendiava solo i ministri dei culti protestanti e quindi le spese del culto venivano sopportate dalla Corporazione israelitica.

Il rabbino era inoltre rimuovibile per giusta causa dall’università israelitica. Nel 1837 diventerà anche ufficiale dello Stato civile. Poteva infliggere la scomunica e ciò, abbiamo detto, si verificava di sicuro se non veniva pagata l’imposta sul reddito presunto.

(Continua)


[1] Il paragrafo 3 riprende analoga norma emanata da Carlo Emanuele I il 15 dicembre del 1603:”Gli Ebrei, che abiteranno in quelle Città, nelle quali non abbiano Sinagoga, potranno recitare nel modo di sopra i loro Uffizi nelle Case da essi abitate, ma non avranno libertà di introdurre, sì nelle Sinagoghe, che nelle dette Case verun Cristiano, o Cristiana per il tempo, che tali esercizi dureranno, sotto pena di Scudi dieci d’oro”.

[2] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 520 e 534.

[3] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 550.

[4] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 535.

[5] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 529.

[6] Ossia senza alzare la voce e recitando in tono modesto e sommesso (v. par. secondo)

[7] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 56-57.

[8] Codex. L. 9. 1.9.4. Imperatori Valentiniano e Valente a Remigio, Maestro di cerimonie.

Devi comandare che chi entra in una Sinagoga ebraica come se si sistemasse per acquartierarsi, si abitui per questa ragione ad entrare in case private, e non in luoghi di culto”.

Data a Trieste il 6 maggio del 365 o 370 o 373. La disposizione è stata ripresa anche nel Codex Theodosianus (7.8.2).

[9] Cfr. A. RONCO, Storia della Repubblica Ligure 1797-1799, Fratelli Frilli editori, 2005, p. 264.

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (quindicesima parte)

L’opinione circa la necessaria improduttività del denaro cominciò a mutare a livello teorico tuttavia soltanto nel XIII secolo nelle Università francesi ove si rispolverano le nozioni romanistiche e si parlò dapprima di usura compensatoria ed usura lucratoria[1] e poi di danno emergente e di lucro cessante[2].

Si consideri che la credenza della improduttività del denaro era diffusa presso altri popoli del mondo: nel IV secolo gli stessi Islamici stimavano usura anche la vendita dell’oro e dell’argento da parte dell’orefice, perché veniva corrisposto un prezzo superiore al loro intrinseco[3].

Per essere legittimo il prestito di denaro doveva, in altre parole, essere gratuito.

Ciò comportava inevitabilmente che chi avesse un patrimonio in denaro non ne prestasse[4] e che chi ne avesse bisogno non potesse che ricorrere agli usurai[5] i quali dovendo correre un gran rischio nel prestare denaro, innalzavano sempre più i tassi d’interesse.

L’interesse modico, anche quello legale o disposto con sentenza dal giudice, fu addirittura paragonato alla guerra e all’omicidio; nell’867 Basilio il Macedone dichiarò l’interesse anche minimo “contrario al diritto umano e divino[6].

Con il commercio ed il prestito gli Ebrei accumularono sì ingenti fortune[7], ma non potendo investirle in beni stabili,  si trovarono costretti ad inventarsi sempre nuovi modi d’impiego che si rivelassero lucrosi.

In particolare ricordiamo che sostennero con le loro sostanze anche l’Impero di Carlo Magno: per venire incontro alle richieste del sovrano gli Israeliti si dedicarono sino all’828, con il consenso imperiale e della Chiesa, al traffico di schiavi che erano più che altro bambini di povera estrazione e che venivano venduti agli islamici spagnoli, ma svolsero anche il ruolo di mediatori tra Cristiani ed Islamici, e coltivarono  la via del commercio, al pari dei Veneti, con l’Oriente[8].

Nel 1009 la violazione del Santo sepolcro da parte islamica venne attribuita indistintamente agli infedeli e ciò comportò una strage di Israeliti che si ridussero, secondo uno scrittore del tempo, ad un piccolissimo numero[9].

Fatte le debite proporzioni solo con riferimento alla consistenza della popolazione ebrea del tempo, si può affermare che in quell’età buia i Cristiani si abbandonarono a stragi di portata analoga a quelle naziste dello scorso secolo[10].

Gli studiosi[11] ritengono che Hitler abbia fatto uccidere circa sei milioni di Ebrei. Per comprendere sino in fondo le proporzioni e la portata di questo ultimo olocausto si può qui aggiungere che un secolo prima gli Ebrei venivano stimati tra i due ed i sette milioni in tutto il mondo.

Con la morte dei capitalisti – così gli Ebrei erano chiamati – mancarono però le risorse economiche per condurre al compimento qualsiasi attività e gli uomini per sopravvivere dovettero ricorrere anche all’antropofagia.

Del resto gli Ebrei rimasti non erano di sicuro incentivati ad aiutare i poveri ed i loro debitori visto che un po’ tutte le legislazioni vietavano e vieteranno ai poveri stessi di mostrare all’ebreo benefattore segni di rispetto[12].

Praticamente ad ogni bando di crociata[13] chi non poteva raggiungere i luoghi sacri si sfogava, in mancanza di meglio, uccidendo Ebrei[14], tanto che lo stesso S. Bernardo[15] inorridito scrisse un’epistola[16] in cui esortò le moltitudini ad astenersi dagli omicidi, dai furti e dalle rapine e di accontentarsi di cancellare i debiti usurari contratti dai Crociati che si recavano in Terrasanta; ma quando si recò in Francia ad illustrare di persona questo scritto rischiò addirittura la sua incolumità[17].

Al pari dei servi nei tempi medi gli Ebrei furono inoltre considerati oggetto di regalia specie in Germania, e dunque di proprietà dei feudatari, dell’Imperatore o addirittura della Chiesa[18].

Gli Ebrei, in quanto erranti, non potevano legarsi per definizione alla terra come i servi della gleba, non si poteva ammettere che appartenessero semplicemente a se stessi.

E così si pensò che appartenessero agli uomini in qualità di cose mobili.

In Germania per questa condizione venivano definiti leibeigenen[19] e anche se questa parola oggi viene tradotta con la locuzione “servi della gleba”, significava cosa in parte diversa, significava che solo l’Imperatore poteva farne quel che voleva, anche spogliarli ed ucciderli[20] oppure semplicemente cancellare i debiti che con loro avessero contratto i Cristiani.

Il guaio però era che i signorotti del tempo si curavano poco degli editti dell’Imperatore e si arrogavano dunque le facoltà imperiali[21].

Così fece ad esempio attorno al 1344 il duca Luigi di Baviera: egli impose agli Ebrei di restituire le obbligazioni a favore dei figli del Conte di Wuttenberg; questi aveva contratto con gli Ebrei un debito altissimo e aveva ipotecato i diritti derivanti dalle ducali regalie. Gli Israeliti non restituirono le obbligazioni, ma scoppiata la peste nera, furono uccisi dalla popolazione e quindi non riuscirono ad esigere il credito[22].

Nel 1348 Carlo IV regalò alcuni leibeigenen alla città di Worms. E ogni anno al martedì grasso gli Ebrei, sia i poveri sia i ricchi leibeigenen,  sostituivano per tre giorni i cavalli per far girare le mole delle macine mentre un aguzzino li frustava. Solo nel 1697 essi riuscirono a riscattarsi con denaro da questo “impegno”.

In Francia la condizione degli Ebrei non fu migliore.

A partire da Luigi IX che rimise ai Cristiani un terzo dei debiti che avevano contratto coi Giudei i suoi successori non brillarono per grande considerazione della questione ebraica.  Filippo Augusto s’impossessò di tutte le cose di pregio che i Giudei possedessero e dei loro crediti, confiscò nel 1180 i feudi che essi avevano ricevuto in pegno dai Baroni per le somme ricevute per il viaggio in Terra Santa e li bandì per ben due volte dal  suo regno.

Nel 1253 gli Ebrei rientrarono in Francia e furono nuovamente vittime di questa politica: nel 1295 furono nuovamente espulsi dalla Francia e ripararono in Inghilterra.

Filippo il Bello con un editto del 1306 dichiarò delitto d’usura ogni minimo interesse e con un altro legittimò l’interesse per gli Ebrei al 21 per cento. Ospitò gli Ebrei che fuggivano dall’Inghilterra ed in una notte li spogliò di tutto e li cacciò nel 1311 dalla Francia.

Il suo successore Luigi X richiamò gli Ebrei in Francia e a loro permise di citare gli antichi debitori a condizione di cedere a lui due terzi degli incassi ed una percentuale sulle future usure.

Sotto Filippo il Lungo contadini e pastori fanatici compirono molte stragi di Giudei col pretesto di recuperare la Terra Santa e alla fine il re espulse gli Ebrei rimasti: prima però li accusò di aver congiurato con i lebbrosi per avvelenare le acque e compì a sua volta dei massacri.

Anche Carlo VI nel 1395 confiscò tutti i loro beni e li cacciò.

Napoleone mantenne una politica molto severa contro gli Ebrei: stabilì che le cambiali ad essi rilasciate non fossero esigibili se non veniva dimostrato che avessero fornito realmente e senza frode la valuta; li sottopose alla necessità di patenti annuali per esercitare mestieri e traffici; proibì a coloro che non avessero domicilio nei dipartimenti dell’Alto e del Basso Reno di prendervelo e stabilì che per fissare il domicilio negli altri dipartimenti fosse necessario abbandonare l’usura e diventare possidenti[23].

Vorrei concludere questa breve e per niente esaustiva disamina con un breve stralcio di un’opera[24] del cattolico D’AZEGLIO che così si esprime nel 1848 sull’arte feneratizia ebraica.

“…ammetto che l’usura, la frode nel traffico sia la maggior pecca degli Israeliti. Ma viva Dio, essi non possono possedere, né farsi agricoltori; non possono studiare, esser avvocati, notai, medici, chirurghi; non possono occupare impieghi pubblici; respinti dalla Società, non ne ottengono amministrazioni private, non possono esercitare arti o mestieri se non pochissimi, ed incontrano anche in questi ogni difficoltà per farvisi esperti: tutte le vie sono chiuse per loro, tutti modi negati onde campare onestamente la vita; ed a queste legali esclusive s’è aggiunta sin qui, l’altra più tremenda, dell’anatema e del disprezzo, più o meno aperto o esplicito, de’ loro concittadini; contro il quale non è natura d’uomo o di popolo tanto ferrea, tanto intera ed ardita, che non ne fosse fiaccata, resa inerte, incapace d’ogni qual cosa richieda virtù, prontezza ed energia. E dopo che, per colpa nostra, sono gl’Israeliti ridotti a queste tristi ed abbiette condizioni; dopo che per non morire letteralmente di fame, una sola via vien loro lasciata, quella del commercio e del giro del denaro; ci vorremmo stupire che non fossero intemerati e scrupolosi fautori della più rigida onestà, che non avessero gelosa cura di non ledere i nostri interessi ne’ contratti stretti coi loro persecutori? Ma la verità del fatto che nelle contrattazioni sieno più sleali gli Israeliti dei Cristiani, è perlomeno molto dubbio ”.


[1] Nel Settecento si riteneva tuttavia  che l’usura lucratoria fosse proibita dalle leggi umane e divine, ma che la consuetudine e l’alto dominio del Principe la potessero rendere lecita. V. D. CONCINA,  Esposizione del dogma che la chiesa romana propone a credersi intorno l’usura colla confutazione del libro intitolato Dell’ impiego del danaro, Palumbo, 1746, 168 e ss.

[2] C. CATTANEO, Ricerche economiche sulle interdizioni della legge civile agli Israeliti, op. cit., p. 34.

[3] Leone Africano p. III. Nella collezione di Ramusio. Lo stesso Corano esprime sull’usura un giudizio netto. Cfr. la Sura II, 275:”Coloro che invece si nutrono di usura resusciteranno come chi sia stato toccato da Satana. E questo è perché dicono:<<Il commercio è come la usura!>>. Ma Allah ha permesso il commercio e proibito l’usura. Chi desiste dopo che gli è giunto il monito del suo Signore, tenga per sé quello che ha ed il suo caso dipende da Allah. Quanto a chi persiste ecco i compagni del fuoco. Vi rimarranno in perpetuo”. Il Corano, versione Newton classici a traduzione di Hamza Roberto Piccardo, 2006, p. 63.

[4] Questo fu forse anche l’obbiettivo di tale impostazione. Sin dall’antichità si volle, infatti, inculcare nei popoli l’idea che il denaro andava conservato perché avrebbe potuto sempre far comodo.

[5] Detti capitalisti.

[6] Nel secolo X venne considerato usurario l’interesse del 4 per cento (“il terzo della centesima”). Novelle Leone, 83.

[7] Ancora nella metà dell’Ottocento si stimava che gli Ebrei avessero in mano un ottavo del numerario dell’Europa e dell’America, pur costituendo un centesimo della popolazione europea ed un millesimo di quella americana.

[8] C. CATTANEO, Ricerche economiche sulle interdizioni della legge civile agli Israeliti, op. cit., p. 21 e ss.

[9] Rodulfo Glabro, Appo Sism. Tomo IV.

[10] Cfr. C. CATTANEO, Ricerche economiche sulle interdizioni della legge civile agli Israeliti, op. cit. p. 105.

[11] BENZ, GILBERT, MARTIN, DAWIDOWICZ, LUCY.

[12] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 50.

[13] Ad ogni partenza di crociati si faceva una strage di Ebrei. M. D’AZEGLIO, Dell’emancipazione civile degli Israeliti, op. cit. p. 14.

[14] Non vi era, infatti, la capacità di distinguere tra infedele ed infedele.

[15] 1090-1153.

[16] Epistula 363.

[17] C. CATTANEO, Ricerche economiche sulle interdizioni della legge civile agli Israeliti, p. 30 e 31. Innocenzo III in seguito minaccerà di scomunica i Cristiani che avessero fatto commercio con gli Ebrei e il Concilio Laterano I (1215) proibisce  ai Giudei le sole usure che fossero troppo esagerate. L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 79.

[18] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 47.

[19] O Servi Camerae specialis.

[20] Forse perché, specie al tempo del Barbarossa, i giuristi ritenevano l’Imperatore come Dio in terra.

[21] Cfr. G. LEVI, op. cit., p. 225-226.

[22] G. LEVI, Op. cit., p. 291-292.

[23] Cfr. G. LEVI, Op. cit., p. 246.

[24] M. D’AZEGLIO, Dell’emancipazione civile degli Israeliti, op. cit. p. 37-38.

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (quattordicesima parte)

1c) L’arte feneratizia e la caccia all’usuraio

Leone l’Iconoclasta costrinse infine gli Ebrei al battesimo e interdisse le eredità ai non ortodossi.

Quest’ultima interdizione fu cruciale ed indusse gli Ebrei a dedicarsi all’arte del prestito. Ma in quei tempi colui che gestiva il denaro e ne ricavava anche un lecito interesse era considerato reo di usura; sulla scorta della dottrina aristotelica si pensava, infatti, che la moneta dovesse mantenersi improduttiva e che solo la terra potesse fornire un reddito[1].

Si tenga conto che a livello pratico questa opinione sulla improduttività della moneta  si scontrava contro una lunga ed antica prassi contraria: l’interesse mercantile fu stabilito sul tempo del trasporto e quindi non dell’anno, proprio dai Greci nel 20-30 per cento per i viaggi di andata e ritorno (peraltro in Grecia  l’obbligo di pagare interessi al mutuante era considerato anche nel mutuo civile un elemento naturale del prestito in denaro).

Sin dalla Roma arcaica si distingueva tra usura lucratoria, punitoria e compensatoria.

La prima era assolutamente vietata e veniva definita come la volontà di ricevere oltre il capitale qualche guadagno temporale per causa di mutuo o prestito.

La punitoria, che consisteva nella pena per il ritardato pagamento,  era quella pattuita nel contratto e l’interesse stava in luogo della pena; era considerata illecita se avesse avuto come funzione non quella di recuperare presto la sorte, ma di lucrare.

La compensatoria consisteva invece nel lucro perduto e nel danno sofferto ovvero nell’interesse che si esigeva per il pericolo di una determinata operazione ed era considerata lecita.

Vi era poi da considerare l’anatocismo che era illecito e che consisteva nella capitalizzazione della usura a fine anno in modo che si potesse produrre altra usura[2]. Si trattava dell’operazione più significativa che serviva  appunto per violare il limite legale delle usure.

In particolare si distingueva il caso in cui gli interessi scaduti, se non pagati, producessero a loro volta interessi (anatocismo separatus) dalla capitalizzazione che si verificava quando gli interessi già maturati venissero integrati nel capitale da restituire e sul coacervo si facessero decorrere gli interessi (anatocismo coniunctus) [3].

Secondo Tacito il divieto di anatocismo in Roma risale circa al IV secolo a.C.

Le XII tavole già fissavano un tetto massimo per le usure (tasso unciarum)[4].

Nel 342 a. C. con il plebiscito Genucio si sarebbe proibito il prestito ad interesse.

Nel 72-70 a. C. viene varato dal Licino Luculio per la provincia d’Asia il divieto di anatocismo e di richiedere come interesse il doppio del capitale. Il proconsole fissa il tasso massimo di interessi nella misura della centesima (1% al mese, 12% all’anno) e stabilisce che i creditori possono appropriarsi al massimo di un quarto del patrimonio del debitore. Chi avesse posto in essere un anatocismo coniunctus poteva essere sanzionato con la perdita del credito.

Il divieto di anatocismo viene esteso poi a Roma forse con Cesare[5].

Nel 51 a. C. Cicerone, nella qualità di proconsole della Cilicia, vieta la contrazione di un prestito per onorarne uno precedente e stabilisce il tasso legale nella misura della centesima.

Tale intervento non ha grande fortuna pratica perché la classe senatoriale aveva timore che il proconsole volesse aprire la strada alla remissione dei debiti.

Per superare il problema comunque i Romani utilizzavano, tra gli altri strumenti, la stipulatio ossia una promessa astratta con cui ci si obbligava a pagare una certa somma, ma non si distingueva quanto fosse dovuto per capitale ed interessi[6].

Sotto l’Imperatore Severo si stabilisce che l’interesse non possa superare il capitale originariamente prestato e che fossero vietati gli interessi su interessi nei limiti appunto del doppio del capitale. Si vieta inoltre la stipulatio e si dispone la restituzione dell’interesse[7].

Diocleziano nel 260 commina la sanzione dell’infamia[8] per coloro che facessero prestiti ad interesse applicando tassi oltre il limite consentito e coloro che ricorrevano illecitamente all’anatocismo[9]; nel 294[10] lo stesso imperatore dispone che il secondo creditore di un debitore non può esigere l’anatocismo separatus.

Nel 313 si stabilisce che gli interessi superiori alla centesima vengano ridotti ope legis entro i predetti limiti.

Nel 529[11] Giustiniano vieta l’anatocismo sotto qualsiasi forma e quindi pone fuori legge le cosiddette usurae usurarum ossia gli interessi su interessi. Per i prestiti di frutti ed altre cose fungibili si considerava addirittura lecito l’interesse del 50 per cento[12].

(Continua)


[1] Nel I libro della Politica Aristotele specifica che la destinazione naturale di un bene è il suo uso e non il suo scambio. A. BISCARDI, Diritto greco antico, op. cit., p. 190.

[2] P. VERMIGLIOLI, Elementi ossiano Istituzioni civili di Giustiniano imperatore illustrate e commentate, volume secondo, edizione seconda, Tipografia di Francesco Baduel, 1830, p. 16.

[3] F. FASOLINO, Studi sulle usurae, Bruno Libri, 2006, p. 14.

[4] F. FASOLINO, Studi sulle usurae, op. cit. p. 25.

[5] Sedcondo Mommsen.

[6] F. FASOLINO, Studi sulle usurae, op. cit. p. 19.

[7] F. FASOLINO, Studi sulle usurae, op. cit. p. 43-45.

[8] Ciò comportava l’esclusione dalle cariche pubbliche, la perdita della facoltà di essere rappresentati o di rappresentare in giudizio; talvolta l’incapacità di prestare testimonianza

[9] F. FASOLINO, Studi sulle usurae, op. cit. p. 61.

[10] C. 1.8. 13. 22.

[11] C. 1. 4. 32. 28.

[12] C. CATTANEO, Ricerche economiche sulle interdizioni della legge civile agli Israeliti, op. cit., p. 45; v. A. BISCARDI, Diritto greco antico, op. cit.,  p. 155-156.

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (tredicesima parte)

Dal 527 al 533 Giustiniano dedico agli Ebrei ben 11 Costituzioni oltre a quelle che riguardavano i samaritani. A ciò seguirono ben 5 Novelle per gli Ebrei ed una per i Samaritani: a Giustiniano dunque la questione israelitica stava molto a cuore[1].

Giustiniano proibì dunque la milizia (tale divieto si resse in Francia sino al 17 marzo 1808) [2] e vietò il professorato[3].

Dichiarò i Giudei inabili a fare testimoni contro un ortodosso[4]  e se erano samaritani ad essere testimoni in assoluto[5].

In sostanza la testimonianza dell’Ebreo non era ammessa tra due cristiani (perché avrebbe danneggiato uno dei due) o contro il Cristiano in un processo misto.

Venne invece ammessa quando le parti non fossero cristiane ortodosse o nei processi misti quando fosse a favore di un Cristiano. Libera era invece la testimonianza extragiudiziale (per i Samaritani era invece esclusa anche la extragiudiziale)[6].

Si consideri che ancora nel 1717 autorevole dottrina[7] pensava qualcosa di analogo con riferimento al giuramento: si diceva che l’Ebreo non poteva giurare se non nella causa intervenuta tra Ebreo ed Ebreo, a meno che nel caso di causa mista militasse a favore del Giudeo una prova “piucché semipiena[8], anche se nella pratica forense il giuramento veniva spesso deferito.

Sulla testimonianza invece si mantenevano dei dubbi ancora nell’Ottocento per gli atti pubblici perché gli ebrei sino a che non divennero sudditi venivano in Piemonte considerati stranieri. Si riteneva nulla anche a Genova poi la testimonianza dell’Ebreo contro l’Ebreo quando il primo si fosse convertito al Cristianesimo[9].

 Giustiniano ordinò la demolizione delle sinagoghe samaritane e la confisca dei beni di coloro che non fossero battezzati, nonché la punizione e l’esilio[10].

Ribadì il trasferimento[11] al fisco di quelle contribuzioni (aurum coronarium) che venivano pagate da tutto l’Impero ai Patriarchi[12].

Negò agli Ebrei che commettessero un reato o che fossero debitori insolventi di poter trovare diritto di asilo in una Chiesa cristiana[13], e ciò anche nell’ipotesi in cui avessero deciso sinceramente di convertirsi[14].

Giustiniano si intromise anche nelle questioni religiose più intime disponendo con la Novella 146 il divieto della lettura della Mishnà e l’imposizione lettura della Torà nella traduzione dei Settanta o in lingua latina. Impedì anche ai capi comunità di scomunicare coloro che non si fossero comportati secondo i dettami[15].

Stabilì invece in favore dei Giudei di poter osservare il sabato e le feste ebraiche, senza dover essere costretti ad apparire in tribunale o a pagare le tasse[16].

Questa norma rimarrà pacifica sino all’Ottocento anche se un editto del 1763 in Austria provò ad invertire il principio nel senso che se una cambiale scadeva di sabato poteva protestarsi il giorno innanzi alla scadenza, ma la dottrina ottocentesca ritenne che secondo la norma giustinianea la scadenza dovesse posticiparsi al lunedì[17].

Un’altra costituzione fu tesa a salvaguardare l’incolumità fisica degli Ebrei – quando essi fossero innocenti – e ad evitare offese alla loro dignità; si voleva evitare che fossero bruciate le loro sinagoghe e le loro dimore private. Gli Ebrei a loro volte non debbono offendere i Cristiani. Nel caso di controversia tra un Giudeo ed un cristiano sia un giudice statale a decidere e non la vendetta privata[18]: è questa dunque una disposizione che tende a salvaguardare l’ordine pubblico.

Altra disposizione nello stesso senso prevede che “Ai Cristiani che lo sono veramente, o che si dicono di esserli, diamo ordine speciale, che non ardiscono, abusando dell’autorità della religione, porre mano su Giudei e pagani, che stanno quieti, né tentano turbolenza veruna…[19]. Gli atti di violenza personale o contro la proprietà oppure di connivenza con i violenti sono puniti con l’obbligo del risarcimento del danno più una multa del doppio[20].

(Continua)


[1] Cfr. A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 703.

[2] C. CATTANEO, Ricerche economiche sulle interdizioni della legge civile agli Israeliti, op. cit., p. 10.

[3] Cod. L. 12.

[4] Prima di lui già i Tribunali ecclesiastici non ammettevano gli Ebrei alla testimonianza di accusa. Cfr. A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 539.

[5] Cod. L. 21.

[6] V. A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, Giuffré, Milano, 1988, p. 728.

[7] SESSA.

[8] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 158.

[9] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 159.

[10] Cod. L. 10.

[11] Già avvenuto nel 429 (C. Th. 16.8.29).

[12] C. 1. 9. 17

[13] C. 1. 12. 1.

[14] V. A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, Giuffré, Milano, 1988, p. 793.

[15] Cfr. A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 814 e ss.

[16] C. 1. 9. 13.

[17] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 160.

[18] C. I, 9. 14.

[19] C. 1. 11. 6.

[20] Con teodosiano la multa era del triplo o del quadruplo. V. A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, Giuffré, Milano, 1988, p. 789.

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (dodicesima parte)

Si inibì inoltre ai Cristiani la partecipazione a feste religiose ebree[1]; e almeno all’origine furono integralmente proibiti i rapporti di lavoro o di servizio (famulato).

Con il Codice Theodosiano viene stabilita la liberazione di uno schiavo pagano o cristiano[2], la perdita dello schiavo e la punizione del padrone che lo avesse fatto ebreo[3], ed in seguito con le Novelle la pena di morte e la confisca dei beni per il padrone ebreo che avesse indotto alla conversione lo schiavo o con la persuasione o con la forza[4].

Già nel 335 Costantino stabilì in primo luogo che se un Ebreo avesse acquistato e circonciso uno schiavo cristiano, o di altra setta, il padrone avrebbe perso il diritto di proprietà sullo schiavo e questi avrebbe ottenuto la libertà.

Con il figlio Costanzo si stabilì la confisca dello schiavo comprato dall’Ebreo e la pena di morte per la circoncisione; se poi lo schiavo acquistato fosse stato cristiano l’Ebreo poteva perdere il possesso di tutti i suoi schiavi.

Con Teodosio I si facilità il riscatto dello schiavo cristiano, e con Teodosio II e Onorio si permise in un primo momento di mantenere la proprietà e patto che lo schiavo potesse mantenere la fede cristiana.

Ma nel 417 gli stessi imperatori ritornarono sul tema prevedendo appunto la pena di morte per chi avesse convertito lo schiavo unitamente alla confisca dei beni.

Il primo concilio di Macon nel 581 renderà poi obbligatoria l’accettazione del riscatto da parte dell’Ebreo per 12 solidi.

Gregorio Magno negherà in assoluto il diritto degli Ebrei di possedere schiavi cristiani e di ottenere indennizzo per il riscatto, a meno che la fede dello schiavo non sia messa in pericolo.

Con il IV Concilio di Orleans nel 538 si stabilì che lo schiavo cristiano poteva essere riscattato al giusto prezzo per il solo fatto di non voler servire un Ebreo e all’uopo i fedeli dovevano fare una colletta.

Lo schiavo poteva comunque chiedere il diritto d’asilo nelle Chiese ed il padrone non poteva punirlo per essersi ivi rifugiato.

Con Giustiniano si stabilì che il servo dell’Ebreo[5] che fosse divenuto cristiano avrebbe acquistato ipso facto la libertà, senza che ci fosse il bisogno di pagare un riscatto[6].

L’imperatore fissa inoltre il principio per cui “I Giudei saranno condannati alla confisca dei beni e con esilio perpetuo se sarà constato di aver circonciso un uomo della nostra fede, o dato mandato onde essere circonciso[7].

In pratica con Giustiniano nessun padrone (ebreo, eretico o pagano) può essere proprietario o possedere o circoncidere schiavi cristiani. L’Ebreo poteva dunque acquistare solo schiavi ebrei o pagani[8].

Tale divieto ha avuto un influsso dirompente sulla vita dell’Ebreo nel senso che gli ha fatto abbandonare completamente il lavoro della terra: all’epoca nessuna azienda, che non fosse di proporzioni modestissime, poteva mantenersi senza usufruire dell’ausilio di manodopera servile[9].

Nel 426 Teodosiano II e Valentiniano stabilirono che fosse proibito a genitori o avi ebrei o samaritani diseredare e lasciare fuori dal testamento figli o nipoti che avessero abbracciato il Cristianesimo; se ciò fosse avvenuto il testamento sarebbe stato invalidato e l’erede cristiano avrebbe ricevuto la sua porzione ab intestato[10].

La legittima spettava al figlio e al nipote anche se si fossero macchiati di gravi crimini e fossero stati dunque punibili[11].

Anche in tema di educazione l’intervento imperale fu pregnante perché si stabilì che “Essendovi genitori di diversa fede e religione, la sentenza di colui prevalga, che avrà prescelto di condurli alla fede ortodossa: benché sia anche il padre che si oppone: affinché da ciò, non prendendo occasione di adirarsi, li privi degli alimenti necessari o di qualunque altra spesa necessaria[12].

Si giunse inoltre ad interdire l’edificazione di nuove sinagoghe (438 d. C.)[13], la distruzione delle sinagoghe samaritane[14] e ad imporre agli avvocati ebrei che volessero esercitare il giuramento di fede cattolica (468 d. C.)[15].

Lo scopo dichiarato era che nessun Ebreo dovesse esercitare influenza, autorità o potere su Cristiani, e specialmente sui vescovi, per timore che se ne servissero per nuocere loro o per insultare la fede cristiana[16].

(Continua)


[1] Tuttavia il loro culto fu ammesso anche se veniva definito superstitio e gli Ebrei venivano considerati una secta. B. BIONDI, Il diritto romano cristiano, Giuffré, Milano, 1952, p. 337.

[2] C. Th. XVI, 9.1.

[3] C. Th. III. 1. 5.

[4] Nov. Th. III, 4.

[5] Per l’Ebreo può esserci anche la sentenza capitale (C. 1. 10. 1)

[6] C. 1. 10. 1. 2. Cfr. A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 578 e ss. e p. 714; cfr. anche sul punto V. A. DE GIORGI, Elementi di diritto romano considerati nello storico svolgimento, G. Franz, Monaco, 1854, p. 334.

[7] C. 1. 9. 16.

[8] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 788.

[9] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 785.

[10] Ossia la quarta parte del patrimonio.

[11] C. Th. XVI, 8. 28. Il principio venne ripreso anche nel Codex (C. 1. 5. 13). E ciò probabilmente contribuì ad alimentare la rivolta degli Ebrei contro l’Imperatore.

[12] C. 1. 5. 12.

[13] Era permesso solo di restaurare le sinagoghe pericolanti.

[14]Le sinagoghe dei samaritani son distrutte: e se tentano di farne altre, son puniti”. (C. 1. 5. 17). Non si sa se questa norma venne composta prima o dopo la rivolta dei Samaritani.

[15] Le leggi razziali del 1938-39 che richiesero ai Consigli dell’Ordine degli Avvocati di cancellare i legali ebrei dall’albo professionale ebbero dunque un ben triste ed antico precedente.

[16] CJ I, 5. 12 del 527; CJ I, 9. 18 (19). Cfr. A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 697.

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