Matteo Maria Boiardo

orlando

Re- L. Simoni. L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001
Luperini-P. Cataldi-L. Marchiani-F. Marchese. La scrittura e l’interpretazione. Dalle origini al manierismo. Volume primo. Palumbo editore. Firenze. 2000.
VV., La letteratura italiana in Cd-Rom, G. D’Anna editore- La repubblica Edizioni. Milano. 1999.
Guglielmino-H. Grosser. Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994
Gioanola, Storia della Letteratura italiana. Dalle origini ai giorni nostri. Librex editore, Milano, 1992
Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento, Giuseppe Principato editore. Messina-Milano, 1937.

Non vi paia, Signor maraviglioso

Sentir contar d’Orlando Innamorato,

Ch’amor per sua natura è generoso,

E contro a’ suoi ribelli è più ostinato:

Né forte braccio, né core animoso,

Maglia, elmo, o scudo incantato, e fatato,

Né forza alcuna al fin può far difesa,

Che battuta non sia d’amore, e presa.

Il conte Boiardo rappresenta la figura di maggior rilievo dell’umanesimo “estense”, anche se la sua poesia rimane del tutto autonoma, nei temi e nello stile, rispetto alle determinazioni della cultura umanistica, in virtù della predilezione per l’epica cavalleresca e del gusto per la narrativa[1].

Nasce a Reggio nel 1441, nella tenuta di Scandiano del padre conte Giovanni, feudatario del luogo e da Lucia Strozzi; riceve un’educazione umanistica.

Morto il padre nel 1451,  studia sotto la guida del nonno paterno, Feltrino, che insieme allo zio, il poeta Tito Vespasiano Strozzi, lo avvia verso una cultura umanistica, basata sullo studio di scrittori latini e volgari. Alla morte del nonno, è costretto, ancora giovanissimo, ad occuparsi del feudo, ma nel frattempo frequenta le corti di Ferrara, Modena e Reggio, rivelando un carattere estroso, originale, in perfetta sintonia con l’ambiente raffinato e mondano della corte di Lionello d’Este.

Compone versi encomiasti­ci in latino per gli Estensi perché ambisce a diventare poeta di Corte; poco dopo i vent’anni scrive i Carmina de laudibus Estensium e i Pastora­lia, dieci egloghe di tipo virgilia­no, intese a celebrare la virtù del duca Borso[2] e del suo fratello Ercole[3], sotto i quali era possibile pensare alla realizzazione di un’Arcadia padana.

Per Ercole d’Este che si dilettava di letture storiografiche, il giovane Boiardo tradusse le Vite dello storico Cornelio Nepote[4] e, da versioni latine, la Ciropedia di Senofonte[5] e le Storie di Erodo­to, sulle quali imparò a farsi la mano di narratore ampio e avventuroso.

Per Antonia Caprara, la donna di cui si era vanamente innamora­to alla corte reggiana di Sigismondo d’Este, compose intanto la lirica in volgare raccolta negli Amorum libri tres (1469-1471)[6], il maggiore canzo­nie­re del secolo, petrarchesco nelle intenzioni ma molto originale per la tendenza a descrivere vivacemente gli effetti del sentimento amoroso e i suoni e colori della natura.

Nel 1471 seguì a Roma Borso per l’investitura ducale e due anni dopo fu a Napoli come accompagnatore di Eleonora d’Aragona che veniva a Ferrara sposa di Ercole I, al cui servizio il Boiardo si pose.

Per Ercole e per la corte estense mise mano attorno al 1476 (anno in cui entrò a corte come familiare del duca) alla composizione dell’Orlando innamorato, attendendovi anche quando fu nominato capitano a Modena nel 1480.

Tra il 1483 ed il 1487 pubblicò a Reggio Emilia le prime due parti del poema, di ventinove (1483) e trentuno (1487) canti ciascuna, mentre la composizione della terza parte continuò molto a rilento per gli impegni pubblici e per le cattive condizioni di salute, interrompendosi definitiva­mente al nono canto[7] in coincidenza con l’arrivo in Italia delle truppe francesi di Carlo VIII[8], contro i cui sopru­si egli tentò di opporsi in qualità di capitano di Reggio in quel 1494 che doveva essere l’ultimo della sua vita.

Boiardo riprende la poesia dei cantari per nobilitarla affinan­dola al clima colto di corte: la sua non è soltanto una scommessa letteraria, ama davvero la materia e soprattutto quel mondo di lealtà cortesia e valore a cui poteva aspirare la nuova nobiltà.

Il racconto si svolge in tre filoni: quello avventuroso dei viaggi, duelli, battaglie e magie (tipico del ciclo bretone), quello encomiastico, attorno all’amore di Ruggero e Bradamante, mitici[9] capostipiti della famiglia estense, e quello amoroso[10], di gran lunga il più svi­lup­pa­to, tanto da costituire l’epicentro affettivo e strutturale di tutto il poema (e lo stesso titolo è molto eloquente in questo senso[11]).

Il movimento del romanzo infatti è determinato, nel quadro della guerra tra Cristiani e Saraceni, dalle imprese che i paladini compiono per conquistare la bella Angelica, l’irresisti­bile figlia del re del Catai, e le cose sono avventurosamente complicate dalla funzione delle due fontane dell’odio e dell’amo­re, per cui quando la donna è innamorata di una paladino questi la rifugge, e vicever­sa, con un movimento che nella sua apparente meccanicità, riflette bene una condizione reale degli affetti umani, e di quelli dell’autore in particolare.

Riassumere la trama del poema è pressoché impossibile[12], in sintesi si può dire che Angelica arriva a Parigi col fratello Argalia e due giganti suoi servitori, mentre si sta svolgendo un grande torneo a cui partecipa­no più di ventimila cavalieri cristiani e saraceni e a nome del fratello propone una sfida a tutti i cavalieri convenuti: chiun­que lo abbatterà avrà lei stessa in premio, mentre i cavalieri sconfitti diverran­no suoi prigionieri.

Argalia, fidando nella bellezza di Angelica ed in una lancia fatata, medita, per volere del padre, di togliere di mezzo tutti i più validi cavalieri cristiani e saraceni, favorendo così l’inva­sione dell’Occidente da parte dello stesso Galafrone, re del Catai.

Ma il piano non riesce: Argalia viene ucciso da Ferraguto (Ferraù nell’Orlando Furioso) che, per quanto vinto, non accetta di darsi prigioniero, e riesce a sorprendere l’avver­sario mentre questi non è in possesso della lancia fatata; Angeli­ca fugge dal campo cristiano.

Svariati cavalieri cristiani, affascinati dalla sua bellezza, partono al suo inseguimento lasciando sguarnito il campo (per questo Orlando conserverà un “senso di colpa”) mentre l’emiro di Sericana, Gradasso, lo minaccia con centocinquantamila uomini, perché vuol conquistare il cavallo di Rainaldo, Baiardo, e la famosa spada di Orlando, la Durlindana; in questi frangenti arriva a far prigioniero il re cri­stiano, mentre Rainaldo viene rapito dal mago Malagigi.

Astolfo però, grazie alla lancia fatata di Argalia, sbaraglia Gradasso.

Con la fuga di Angelica inizia una serie di avventure in Occidente ed in Oriente, presso Albracca, patria di costei; avven­ture che vedono per la maggiorparte (ma non solo) protagoni­sti Orlando, Rainaldo ed Angelica.

Rainaldo, partito per amore all’inseguimento di Angelica, giunto nella selva Ardenna beve ad una fonte, che per un incan­ta­mento di Merlino, ha il potere di disamorare chi vi si abbevera, come puntualmente accade a Rainaldo, mentre Angelica beve ad una fonte che produce l’effet­to inverso e si innamora di colui che più non l’ama; sarà lei ora ad inseguirlo.

Questi – dopo aver convinto il mago Malagigi a trasportare Rainaldo su un’isola incantata – ed altri personaggi si ritrovano dopo svariate avventure presso Albracca, dove è in corso una guerra tra Sacripante ed Agricane, re di Tartaria, per il possesso di Angelica.

Le loro contese si mescolano a quelle dei cavalieri cristiani: il circasso Sacripante ed Orlando difendono Angelica dagli assalti di Agrica­ne che cinge d’assedio la città di Albracca e che infine verrà ucciso in duello da Orlan­do.

I duelli si moltiplicano, così come le avventure ed i perso­naggi secondari. Abbondano anche lotte con personaggi fantastici come draghi, grifoni, centauri, tori, sirene ecc. e si incontrano palazzi e giardini incantati, maghi e fate.

Rainaldo si sottrae all’incantesimo di Malagigi e va in cerca di Orlando per riportarlo in Francia, ma tra i due scoppia un furibondo litigio.

Frattanto Agramante, re pagano, progetta di invadere la Fran­cia per vendicare la morte del padre, Troiano.

Con lui è Rodamonte, re di Sarza, ma un indovino sostiene che, per sconfiggere i cristiani, è necessaria la presenza di Rugiero, che però è tenuto nascosto dal mago Atlante.

Rodamonte decide ugualmente di salpare da solo per la Francia, mentre si iniziano le ricerche di Rugiero.

Rodamonte, sbarcato in Francia, mette a dura prova gli eserciti cristiani. Più tardi anche Agramante sbarca in Francia con gli eserciti precedentemente radunati e con Rugiero, ritrovato e liberato dalla tutela del mago Atlante, grazie ad un anello fatato che il ladro Brunello riesce a sottrarre ad Angelica e che ha il potere di vanificare gli incantesimi.

Là Agramante, Rodamonte, Mandricardo (figlio di Agramante) e Marsilio, re di Spagna, ingaggiano una guerra contro Carlo Magno, che però è soccorso da Rainaldo, Orlando ed altri paladini, che con Angelica avevano fatto ritorno in Occidente.

Il rapporto tra questi personaggi è però mutato nuovamente, perché Rainaldo, bevendo alla fonte dell’amore, ha ripreso ad amare Angelica, che peraltro si è disamorata di lui (ed anzi lo odia) avendo bevuto a quella opposta.

 Proprio per questo amore vengono ferocemente a duello Rainaldo ed Orlando; Carlo Magno che tiene Angelica prigioniera li separa e promette in sposa Angelica a chi si distinguerà nella guerra contro Angricane (nel frattempo affida Angelica a Namo, duca di Baviera).

 Tutte queste circostanze sono a sfavore dei Cristiani; il poema si interrompe nel momento in cui i saraceni hanno posto l’assedio a Parigi, dove Carlo Magno si è arroccato.

Nel corso di queste ed altre vicende nella parte terminale dell’opera si accenna anche al nascente amore tra Rugiero e Bradamante, destinati a divenire, come già accennato, mitici capostipiti della dinastia estense.

L’originalità del Boiardo sta nella funzione ideale attribuita agli eroi e alle loro avventure, che si fanno portatori di valori umanistici quali la corte, la nobiltà del sentire, l’amore cortese, la grandezza d’animo, che rivalutano la cavalleria scaduta a mero divertimento con il Pulci.

I personaggi derivano come si è visto per la maggior parte dal ciclo carolingio, ma il Boiardo apporta, in altre parole,  varianti notevoli alla loro immagine e psicologia tradizionali.

L’idea, in sé, non è del tutto nuova: già i canterini tendevano a adattare i caratteri degli eroi dei romanzi cavallereschi al gusto dei loro ascoltatori, accentuando gli elementi che potevano colpirne la fantasia.

L’Orlando innamorato comprende una miriade di episodi e una folla di personaggi maschili e femminili.

Un rilievo comune della critica è che il Boiardo non si curi troppo di definire la psicologia dei suoi eroi, preso com’è dal gusto di raccontare le strabilianti e infinite avventure. È un’osservazione solo in parte corretta, che vale soprattutto per la folta schiera dei personaggi minori: ma va detto che neanche questi sono mai ridotti dall’autore a figurine del tutto prive di spessore umano.

I ritratti meglio delineati sono, naturalmente, quelli dei protagonisti: il prode Orlando, che l’amore rende più delicato e gentile, vive quasi in uno stato di stordimento e prova un senso di colpa, perché si lascia distrarre dai suoi doveri di paladino; l’impetuoso Rainaldo è sempre impegnato nelle mille faticose vicende legate alla fuga e all’inseguimento di Angelica.

Gli eroi ideali degli antichi poemi epico-cavallereschi vengono travolti, nell’Orlando innamorato, dal comune destino di innamorarsi tutti, indistintamente, della bella Angelica, e di ingelosirsi l’uno dell’altro.

Diventano quindi uomini come gli altri, soggetti a passioni, a debolezze, a turbamenti.

Resta però la pluralità dei caratteri: alcuni sono guerrieri forti e coraggiosi, come il brutale Agricane, altri sono fanfaroni, come Astolfo, o Gradasso, “cor di drago e membra di gigante”.

C’è chi è falso fino allo spergiuro, come Truffaldino, o decisamente comico, come il furbo nano Brunello, ladro abilissimo, vero campione del furto.

Anche l’indole delle donne è varia. Bradamante (sorella di Rainaldo e promessa sposa di Rugero) è bella, sensibile e modesta ma anche un’indomita guerriera e la pagana Marfisa (sorella di Rugero) è tanto coraggiosa e forzuta da osar prendere un guerriero per l’elmo e gettarlo a terra “come fosse una palla di cotone”; Fiordelisa è una fidanzata fedele (di Brandimarte), Leodilla scalpita per essere stata sposata ad un vecchio.

Su tutte, com’è ovvio, emerge Angelica. Fredda e scaltra, calcolatrice e infida, pronta a valersi della seduzione o delle arti magiche con eguale indifferenza, è anche lei però vinta dalla forza dell’amore, e diventa tenera e sensuale, capricciosa e provocante, decisa a soddisfare in ogni modo la propria passione.

Un fattore costante nel poema è la magia: l’Orlando innamorato è popolato di mostri e di maghi, alcuni dei quali, come Merlino e Morgana, sono tratti dalla tradizione bretone.

Gli incantesimi e le stregonerie si susseguono in modo tale che tutti i personaggi maggiori hanno a che fare, prima o poi, con un evento di magia, e sovente un duello si combatte a colpi di incantesimi.

È un aspetto che induce a riflettere. Non solo gli infedeli lottano con le armi del sovrannaturale, ma anche i paladini, tra i quali lo stesso Orlando: combattere contro un drago, per esempio, anche se non è un evento comune, rientra nell’ordine delle possibilità.

Ne deriva una “normalizzazione” della magia: nell’universo del Boiardo la magia convive con il quotidiano, diventa quasi qualche cosa di “naturale”.

Ma il mondo del Boiardo è anche laico e, di conseguenza, l’uso della magia non è sintomo né di virtù né di perfidia: essa non è strumento del male (come sarà, invece, nella Gerusalemme liberata del Tasso).

Inoltre, la magia assolve a un duplice scopo: è un ingrediente per avvincere il pubblico, per destare la sua curiosità o meraviglia, per divertirlo; ma consente anche all’autore di districare i suoi personaggi da situazioni particolarmente ingarbugliate o paradossali: infatti, proprio perché sovrannaturale, il magico non ha bisogno di giustificazioni plausibili.

Il Boiardo si distacca dai modelli precedenti, e lo fa in modo del tutto consapevole.

I paladini del ciclo carolingio erano consacrati solo alla difesa del re e della fede; i cavalieri della Tavola Rotonda erano mossi dal desiderio d’avventura e si lasciavano coinvolgere in ardenti e a volte fatali passioni amorose.

Anche nei cantari, i paladini erano forti, coraggiosi e leali, e già propensi all’amore; ma restavano rudi, privi della eleganza e nobiltà di comportamento proprie dei cavalieri di Artú.

La prima novità introdotta dal Boiardo è l’unione tra i due motivi della prodezza e della cortesia, ottenuta organizzando la trama intorno agli innamoramenti di Orlando e di tutti i paladini. L’originalità dell’Orlando innamorato non si limita ad un rinnovamento di temi, ma è il frutto di motivazioni ideologiche, che è essenziale ricostruire, per comprendere appieno la novità del poema: il Boiardo interpreta e traduce in forma letteraria un’esigenza propria dell’ambiente in cui vive.

Qui i valori e gli ideali cavallereschi sono non soltanto ancora fortemente radicati nella cultura collettiva, per le condizioni storiche e politiche, ma anche coltivati nella corte, grazie alla presenza, nella biblioteca estense, di un settore romanzesco particolarmente ricco di materiali bretoni e carolingi.

L’ininterrotto prestigio goduto dalla civiltà cavalleresca si incontra ora con le più moderne suggestioni umanistiche, dalle quali prende forma un nuovo modello di individuo virtuoso, che poggia la sua esistenza sull’agire attivo, ma la cui personalità si integra e si completa con le doti dell’educazione e della cultura.

Lo spirito umanista del Boiardo non vede più le differenze pur profonde che distinguevano i due cicli da cui prende ispirazione: ne trae, invece, l’ideale di una civiltà che sa conciliare lo spirito d’avventura con la raffinatezza della vita di corte, il coraggio in guerra con la devozione per la patria, la difesa dell’onore personale con il rispetto della fede. Egli ricompone questi princípi in una visione unitaria, nella quale non si deve ricercare una vana e astratta nostalgia per un passato ormai sepolto.

[1] I grandi cicli epico-cavallereschi del Medioevo francese, sia quello carolingio che quello bretone, avevano incontrato anche in Italia vasta popolarità e larga diffusione, ispirando un numero ragguardevole di scrittori e creando un pubblico che per l’epoca si poteva ben definire “di massa”: libri come il Guerrin meschino o I reali di Francia di Andrea da Barberino, per esempio, erano ormai entrati a far parte della cultura popolare, e insieme ai numerosissimi cantari – in gran parte anonimi -, che si diffondono in Italia soprattutto durante il XIV secolo, offrono i punti di riferimento essenziali per l’elaborazione di un immaginario collettivo destinato a pesare a lungo non solo sulla storia letteraria ma anche su quella della mentalità e del costume. Tuttavia, nella nostra tradizione erano mancati il protagonista e il libro di eccezione, una personalità e un’opera paragonabili, per intenderci, a ciò che in Francia avevano rappresentato Chrétien de Troyes e la Chanson de Roland. I grandi talenti della letteratura italiana avevano preferito dedicarsi ad altri generi, dal poema allegorico alle cronache, dalla lirica amorosa alla novellistica, e anche se tutti avevano attinto a piene mani alla tradizione cavalleresca (basti pensare a tanti episodi della Commedia o, più ancora, al Decameron), nessuno si era dedicato a questo genere in modo univoco e specifico. I motivi stanno probabilmente nella natura aristocratica e selettiva della cultura italiana che, chiusa nel suo recinto classicheggiante, sdegnava le forme più vicine alle tradizioni popolari romanze come era appunto la poesia cavalleresca, considerata una forma d’arte minore. Quando però anche le raffinate corti italiane cominciarono ad appassionarsi alle avventure di cavalieri e paladini, questo genere letterario non poteva non esprimere pure in Italia i suoi interpreti di alto livello. Che ciò sia avvenuto nel corso del XV secolo e segnatamente tra Ferrara e Mantova non è certamente un caso: è questo il periodo in cui la borghesia mercantile, dopo aver prevalso nella dura lotta di potere contro le aristocrazie feudali, cerca una legittimazione e una consacrazione appropriandosi di quella cultura cavalleresca che era stata fino a quel momento espressione del vecchio gruppo dirigente e assumendone in proprio, attraverso la rievocazione letteraria, i valori oramai spenti nella prassi della storia. Per quanto riguarda invece la localizzazione geografica, dobbiamo osservare che il sud-est della Padania era la zona dove meglio che altrove l’eredità della letteratura epico-cavalleresca francese si era potuta incontrare con un volgare italiano ben strutturato e sottoposto a una secolare influenza del modello toscano (non dimentichiamo che uno dei maestri del “dolce stil novo” fu Guido Guinizelli, che era bolognese). L’apertura alle influenze della tradizione francese, la disponibilità di un efficace strumento linguistico e la presenza di un pubblico qualificato sono dunque all’origine della delimitazione territoriale relativamente ristretta assunta in Italia dalla produzione epico-cavalleresca di carattere colto, che trovò appunto la sua prima grande espressione alla corte di Ferrara con Matteo Maria Boiardo.

[2] Signore del ducato di Modena e Reggio dal 1452 e poi  di quello di Ferrara dal 1471.

[3] Governatore di Modena: assai importante anche per la pianificazione urbanistica di ispirazione greco-romana che prende campo nel Rinascimento.

[4] Si tratta della raccolta De viris illustribus (I personaggi celebri) in sedici libri.

[5] Storico e poligrafo ateniese (430 circa – 354 a.C.). Verso il 404 entrò nel numero dei discepoli di Socrate. Ma lo spiccato interesse per le attività pratiche e l’arte militare e l’insofferenza per l’affermarsi della democrazia l’indussero nel 401, a seguire, in qualità di osservatore, i mercenari greci assoldati da Ciro il Giovane in lotta con il fratello Artaserse II. Dopo la cattura per tradimento di cinque dei dieci strateghi greci, egli fu eletto fra i nuovi strateghi. Negli anni seguenti la simpatia per Sparta gli procurò, in data imprecisata, la condanna all’esilio e la confisca dei beni. Le numerose opere pervenute si possono dividere in opere storiche o a sfondo storico, opere filosofiche rievocanti la personalità e l’insegnamento di Socrate (Apologia di Socrate, I Memorabili di Socrate, in cui Socrate è presentato come uomo pio e soprattutto sollecito del bene della patria); e in opere tecniche.

[6] Il titolo è di ascendenza ovidiana ed il libro viene pubblicato postumo nel 1499; il poeta si ispira a Virgilio, ai provenzali e agli stilnovisti pre-Danteschi, Dante, Cavalcanti e soprattutto Petrarca; gli Amorum libri tres sono l’unico canzo­niere petrarchi­sti­co del Quattrocento (180 rime, 60 per ogni libro di cui cinquanta sonetti per libro), sia per la scelta metrica (madrigale, sonetto, canzone, ballata) sia per quella del tema amoroso. Nell’opera il Boiardo coglie e rappresenta con moto spontaneo e schietta sensibilità il fascino paesistico, i ritmi, i colori, i suoni della natura e il senso della vita che in essa si svolge o si proietta e in parti­co­lare l’amore per i sentimenti elementari – nostalgia, dolore, senso del trascorrere del tempo ecc.- che ad esso si riconnetto­no. A differenza del Petrarca in Boiardo, come in Poliziano del resto, è presente la sensualità (luci, colori e suoni); non c’è invece la profondità del Petrarca, né nello stile, né nel conte­nuto; il linguaggio non è infatti sobrio e severo, ma è espansivo e caldo, vivace e colorito, appassionato e descrittivo; nel contenuto si nota un’intima disposizione verso il vitalismo, l’ottimismo e la letizia, che coinvolgono non solo la natura ma anche la donna e l’amore per lei.

L’itinerario descrittivo scelto è petrarchesco: nel I libro si narra della gioia di un amore nascente e ricambiato, nel II la gelosia dell’innamorato che vive la delusione del tradimento, nel III un’incertezza di stato che oscilla tra rinnovate speranze, nostalgici ricordi e un conclusiva meditazione morale (che ha il suo apice nel riconoscimento di un insanabile errore e del conseguente pentimento religioso).

[7] Venne poi pubblicata postumo nel 1495 a Venezia e a Reggio (insieme alle altre due parti). La versione originale, però, scompare dopo la composizione dell’Orlando furioso, e ne rimane solo il rifacimento di Francesco Berni. La riscoperta del testo del Boiardo è merito di Antonio Panizzi, che nel 1830 ne  cura un’edizione uscita a Londra.

[8] E con una celebre ottava in cui si lamenta la situazione dell’Italia messa a ferro e fuoco dalla calata di Carlo VIII.  Questi  (Amboise 1470-1498), re di Francia (1483-1498), figlio di Luigi XI, regnò sotto la tutela della sorella Anna di Beaujeu dal 1483 al 1491. Nel 1491 sposò Anna di Bretagna annettendo alla Francia la provincia della moglie. Nel 1494, dopo essersi assicurato con dispendiosi trattati la neutralità dell’Inghilterra, dell’Aragona e del Sacro romano impero, intraprese appunto una spedizione in Italia, con l’intenzione di conquistare il Regno di Napoli. Nel 1495 entrò vittorioso a Napoli, ma presto gli stati italiani si coalizzarono in una lega antifrancese e lo obbligarono alla ritirata. Carlo VIII morì mentre preparava una nuova campagna militare.

[9] Il capostipite reale della dinastia fu Alberto Azzo II (996 ca. – 1097), che ottenne dall’imperatore il titolo di marchese della città di Este, nei pressi di Padova. Dai figli di Alberto Azzo ebbero origine i due rami della famiglia, quello bavarese e quello italiano.

[10] Di cui l’incarnazione è Angelica, personaggio che è cosa nuova nella tradizione epico-cavalleresca europea.

[11] Esso richiama anche le fonti di ispirazione del Boiardo: il ciclo carolingio e quello bretone.

[12] perché gli episodi si intersecano con estrema frequenza, interrompendosi all’improvviso e ripren­dendosi a distanza, secondo una tecnica narrativa a puntate (c.d. entrelacement) che l’Ariosto perfezione­rà fino al virtuosi­smo.

Angelo Poliziano

poliziano
Re- L. Simoni. L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001
Luperini-P. Cataldi-L. Marchiani-F. Marchese. La scrittura e l’interpretazione. Dalle origini al manierismo. Volume primo. Palumbo editore. Firenze. 2000.
VV., La letteratura italiana in Cd-Rom, G. D’Anna editore- La repubblica Edizioni. Milano. 1999.
Guglielmino-H. Grosser. Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994
Gioanola, Storia della Letteratura italiana. Dalle origini ai giorni nostri. Librex editore, Milano, 1992
Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento, Giuseppe Principato editore. Messina-Milano, 1937.

Come il Petrarca anche Poliziano, che pure ripropone con le Stanze e l’Orfeo le possibilità poetiche del volgare inaugurando la ripresa della poesia italiana dopo un secolo di relativa povertà, affida la sua rinomanza più alle composizioni in latino e agli studi filologici che all’opera in volgare, destinata invece, a dargli un nome di prestigio nella storia letteraria.

Col Poliziano il volgare, debitamente modellato sui modelli classici, ridiventa stabilmente la lingua della poesia, mentre Petrarca viene individuato come punto di riferimento per ogni operazione lirica.

Figlio del grande Umanesimo fiorentino, Poliziano realizza in poesia, ciò che gli altri ingegni artistici del suo tempo realiz­za­rono in altri campi, Botticelli e Michelangelo nella pittura, Donatello nella scultura, Alberti nell’architettura.

Angelo Ambrogini nacque il 14 luglio del 1454 a Montepulciano e dal nome del paese d’origine, debitamente latinizzato, si fece chiamare Poliziano.

Era figlio di un notaio filomediceo e all’età di dieci anni perse il padre, assassinato per motivi politici; ma, dotato di ingegno vivacissimo, P. volle in ogni caso compiere studi adegua­ti alla sua intelligenza e alle sue inclinazioni, trasferendosi a Firenze appena quindicenne.

Qui cominciò a frequentare il celebre Studio e l’Accademia platonica, avendo come maestri Giovanni Argiropulo, Marsilio Ficino, Cristoforo Landino, dai quali apprese le lingue classiche la filosofia platonica.

Nel 1470, a soli sedici anni, cominciò a tradurre in versi latini l’Iliade (libro II e IV[1]), con la speranza di ottenere la protezione di Lorenzo de’ Medici (cui dedica il II e III libro), che infatti non gli fece mancare qualche sovvenzione e nel 1473 lo accolse presso di sé nel palazzo di Via Larga, mentre la traduzio­ne del libro omerico non andava oltre il quinto libro.

Quando Angelo ebbe vent’anni Lorenzo gli affidò l’incarico di “cancelliere” e l’educazione del figlio Piero[2] e da quale momento il poeta iniziò propriamente a far parte della famiglia del suo protet­tore ed amico. Compose in questo periodo la Sylva in Scabiem[3].

Quando il 29 gennaio del 1475 Giuliano, fratello di Lorenzo, vinse un torneo cavalleresco[4], Poliziano iniziò la composizione del poemetto in ottave Stanze per la giostra che rimarrà interrotto al secondo libro[5], per la morte del dedicatario non ancora ventiduenne nella congiura dei Pazzi[6] del 26 aprile 1478 di cui il  poeta è testimone.

Tra il 1473 e il 1478 si colloca la composizione di un primo gruppo di epigrammi, odi ed elegie, il tutto raccolto dopo la morte dell’autore sotto il titolo Liber epigrammaton (Libro degli epigrammi).

Ne emergono doti straordinarie di erudizione e virtuosismo linguistico, alle quali l’autore aggiunge la capacità di assimilare la tradizione lirica classica, e di rielaborarla in forma elegante e chiara, attraverso un’attenta e raffinata opera di selezione del lessico. I temi tradizionali dell’elegia latina e greca si arricchiscono però anche di richiami alla lirica volgare, di echi stilnovistici e petrarcheschi.

Nel 1477 P. stende per il Magnifico l’Epistola proemiale alla Raccolta aragonese[7] ed ottiene il priorato di San Paolo.

Nell’Epistola proemiale alla Raccolta Aragonese, il Poliziano, per bocca di Lorenzo il Magnifico, difende con serrate argomentazioni il volgare illustre, e in particolare il toscano.

Le tesi sono analoghe a quelle che poi sosterrà per il latino: ogni testo va prima considerato nell’ambito storico in cui è stato prodotto, poi messo in relazione con altri testi, in modo da raggiungere sia la conoscenza approfondita di ogni singolo autore sia una visione complessiva della produzione letteraria nelle varie epoche.

Il Poliziano assegna una posizione di netta superiorità ai due “soli”, Dante e il Petrarca, dei quali “meglio essere giudico tacere che poco dirne”, ma cita altri “infiniti e chiarissimi esempli” di poesia in volgare e formula acuti giudizi su molti scrittori, non solo toscani, ma provenzali e siciliani.

Un contrasto con donna Clarice, moglie di Lorenzo, e poi con lo stesso protettore indusse il P. nel 1479 a lasciare Firenze.

Si reca così a Padova, Verona e Venezia e successivamente accoglie l’invito dei Gonzaga di Mantova: presso Federigo Gonzaga compone, in soli due giorni,  forse nel 1480, per una festa di corte (probabilmente un duplice matrimo­nio), la favola pastorale Orfeo, capostipite di un genere desti­nato a prosperi sviluppi fino al Settecento.

Ma il poeta non sa vivere fuori da Firenze e quindi scrive a Lorenzo per essere richiamato in patria e questi gli concesse volentieri il permesso di rientrare.

Anteriormente al 1480 si situa la composizione delle Rime in volgare[8].

Esse comprendono una trentina di canzoni a ballo, nove rispetti[9] continuati e circa un centinaio di rispetti spicciolati, oltre ad alcune canzoni e sonetti.

Nelle Canzoni a ballo il Poliziano riprende, in parte, argomenti propri del gusto contemporaneo, che si ritrovano anche nella poesia del Magnifico.

Vi predomina un’esaltazione vitalistica della bellezza e dell’amore, cui s’accompagna l’invito a godere i piaceri della giovinezza, che ben presto sfiorisce.

Il tema della precarietà dell’esistenza si sviluppa attraverso un lessico e una sintassi semplici, in toni delicati e leggeri, che ricordano, appunto, i facili ritmi di certa poesia popolare.

Ma l’autore si avvale di tutta la sua cultura classica: dotti sono, ad esempio, gli echi di quella lunga tradizione che fin dalla più remota antichità si è fermata a riflettere sull’inesorabile scorrere del tempo, sulla caducità della vita, sul rapido declino della gioventù e sulla fragilità delle gioie riservate all’uomo.

Anche nello stile, il Poliziano spazia entro una vasta gamma di registri, frutto della sua raffinata cultura.

La descrizione nitida e vivamente coloristica della natura si sviluppa con armonia ed equilibrio; il ritmo è musicale, le molte figure retoriche, tra le quali la similitudine e la metafora, sono usate con misura e proprietà.

Le reminiscenze colte, di poeti come il latino Orazio, ma anche dei lirici italiani del Duecento e del Trecento, si traducono così in immagini fresche e spontanee, scorrevoli, di rara eleganza e raffinatezza.

Nei Rispetti, il Poliziano si ispira a vicende mitologiche celebri, tratte da autori greci e latini.

Anche qui, come nelle ballate, i riferimenti cólti vengono rielaborati con grande abilità e forza stilistica, e le citazioni erudite si liberano da ogni freddezza e vibrano di una fresca vivacità, che coinvolge il lettore.

Tra le altre opere in volgare, si trovano i Detti piacevoli, facezie e detti brevi, che appartengono, come sappiamo, a un genere assai praticato in questo periodo.

Tuttavia, anche in questo caso i contenuti e certe particolarità di stile si discostano dalla regola del genere. Un costante atteggiamento riflessivo mitiga il tono divertente e trasforma episodi apparentemente marginali in lezioni di moralità di valore universale.

Spesso, poi, i motti sono affidati a personaggi storici e questo aggiunge loro un tocco di verità. Lo stile si distingue per la stringatezza dei periodi, mentre il linguaggio fiorentino, con venature dialettali, si presta, grazie alla particolare espressività, a rendere i concetti in modo sintetico ed efficace.

Nei suoi ultimi anni, il Poliziano compone anche tre Sermoni per una confraternita di religiosi fiorentini e una Lauda a Maria Vergine.

Sempre nel 1480 il poeta, che tre anni prima si era fatto chierico ed aveva ottenuto un beneficio ecclesiastico, ebbe un posto di docente allo Studio fiorentino: il suo insegnamento di lettere latine e greche ottenne grande successo e la sua fama uscì addirittura dai confini italiani (lo stesso Michelangelo fu tra i suoi allievi).

Dopo questa data Angelo scrisse esclusivamente in latino, o addi­rit­tura in greco, come negli Epigrammi, componendo le Sylvae, che sono introduzioni poetiche ai suoi corsi universitari: bisogna ricordare Manto (Mantova) che ha per tema la poesia di Virgilio; il Rusticus (il contadino) per gli efficaci toni agresti e naturali­stici; Ambra (Ambra, dal nome di una villa medicea) tratta della poesia di Omero e Nutricia (il baliatico), dove compie l’elogio della poesia.

In tutte le Sylvae è ravvisabile uno degli elementi essenziali della poetica del Poliziano, e cioè la sua ferma convinzione che la poesia svolga un compito insostituibile, poiché sviluppa nell’umanità il gusto del bello e quindi favorisce il passaggio dalla barbarie alla civiltà.

Inoltre, la poesia è eterna, poiché vince la distruzione del tempo e conserva inalterata la memoria delle più nobili gesta dell’uomo.

Anche le prolusioni in prosa (Praelectiones) hanno un notevole interesse. In esse, e soprattutto nella prima dedicata a Stazio e Quintiliano, lo scrittore espone le sue teorie letterarie: sottolinea l’indiscutibile valore dell’uso del latino, ma accetta, insieme agli esemplari “aurei” come Cicerone, modelli di altri periodi ingiustamente trascurati, quali quelli offerti da Quintiliano e Stazio.

Infine ribadisce, come altri umanisti, la profonda convinzione che lo studio dei classici abbia un preciso valore civile e morale, poiché esalta la virtù e offre esempi di nobili azioni e sentimenti.

In latino P. compose pure alcune Elegiae, mentre affida ai Miscellanea la sua ricerca erudita allargata ai temi della filosofia, della medici­na, delle scienze naturali. In tal’ultima opera include una serie di osservazioni critiche sugli autori antichi, che influenzarono profondamente gli studiosi successivi.

Il Poliziano vi sostiene, prima di tutto, la necessità che l’imitazione sia creativa, ovvero che non si limiti a copiare passivamente gli esempi antichi.

La produzione umanistica definisce tale posizione docta varietas, intendendo con questa espressione la capacità di rendere più vivace l’erudizione e più originale l’uso delle fonti.

In seguito il Poliziano enuncia il suo punto di vista sull’uso dei modelli linguistici: ogni scrittore deve scegliere quello da imitare in base ai propri gusti e interessi.

Egli rifiuta perciò la teoria dell’ottimo modello, propugnata tra l’altro dall’amico Paolo Cortese, e si mostra favorevole ad adottare tutte quelle soluzioni di lingua, di sintassi e di stile che meglio corrispondono alla sua inclinazione letteraria.

I Miscellanea rivelano inoltre il fine intuito filologico del Poliziano, che, lavorando sui documenti con una conoscenza davvero non comune del mondo antico, scava nella parola, la analizza e la inquadra nell’epoca e nel contesto in cui è stata usata.

La polemica con il Cortese si ritrova anche in una delle Epistole, raccolte in dodici volumi proprio nell’anno della morte.

Ancora in latino è il breve Pactianae coniurationis commentarium sulla congiura dei Pazzi, poi volgarizzato da un anonimo del Cinquecento: un’operetta in cui il rigore storico cede alle forzature di un dichiarato sostegno ai Medici.

L’autore si ispira, per concezione e stile, al racconto della congiura di Catilina di Sallustio, e ne riprende i toni cupi e il gusto per la descrizione di figure animate da una torva grandezza.

Sono da ricordare infine anche alcune traduzioni:  dal greco al latino traduce il Manuale di Epitteto (che in italiano poi tradurrà Leopardi); il Carmide di Platone, la Storia dell’impero dopo Marc’Aurelio di Erodiano.

Nel 1484 P. si reca a Roma, con un’ambasceria fiorentina, presso il neoeletto pontefice Innocenzo VIII.

Nel 1491 P. viaggia in Emilia e nel Veneto per ricercare ed acquistare codici per la biblioteca medicea della quale è divenu­to procuratore dei libri e curatore.

Nel 1492 muore Lorenzo de’ Medici. Il P. cerca di conseguenza di trovare una sistemazione a Roma, dapprima come bibliotecario.

Vanamente Angelo sperò dal papa Alessandro IV la nomina a cardina­le, per la raccomandazione del suo allievo Piero de’ Medici e la morte lo colse appena quarantenne nel 1494.

Ne Le Stanze per la giostra Angelo P. eleva idealisticamente l’evento “sportivo” ed il tema dell’amore di Giuliano per Simonetta Cattaneo, nell’atmosfera fuori del tempo del mito classico, in cui il giovane fratello di Lorenzo diventa Iulio, la cerva (Simonetta) che sfugge alla sua caccia si trasforma in bellissima fanciulla, l’amore nasce per intervento di Cupido inviato dalla madre Venere, a riscaldare il cuore del giovane troppo devoto alla casta Diana .

Nella vicenda di Iulio è adombrato un itinerario di ascesi dall’amore sensuale rappresentato dall’inseguimento della cerva, simbolo della bellezza corporea, all’amore spirituale (quello per Simonetta, immagine della bellezza divina).

Le Stanze mostrano perciò di ispirarsi alla dottrina neoplatonica dell’amore, secondo la quale l’amore è la forza che attrae l’uomo verso Dio, con un percorso che, dalla brama sensuale, si eleva al desiderio spirituale, fino al più alto grado di intellezione di Dio.

Descrivendo allegoricamente il processo di maturazione che grazie a Simonetta si compie in Iulio, Poliziano ne sancisce l’ingresso nell’età adulta. È un processo nel quale il poeta prefigura anche la destinazione di Giuliano alla vita politica: Iulio – suo alter ego dalla contemplazione del Bello e del Bene divini esce fortificato, determinato a praticare nella vita terrena le virtù civili ossia le quattro virtù cardinali, (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza) su cui si fonda l’attività politica.

L’ambientazione classica-mitologica è poi quella che permette la realizzazione del sogno umanistico di un mondo perfetto, armonizzato, privo di drammatiche lacerazioni, sottratto alle vicende reali e temporali.

Nei pulitissimi versi della Giostra, insomma, si realizza perfettamente quel mito dell’Eden che è fondamentale della cultura umanistica, nella descrizione di un mondo perennemente primaverile, non toccato dalle intemperie, lontano dalle incom¬benze del lavoro e perciò aperto all’accoglienza dei sentimenti sublimi della gioia e dell’amore.

Per questo il P. rievoca quella versione pagana dell’Eden che è l”età dell’oro”, quando non c’era ancora l’avidità delle ricchezze e, soprattutto l’impero della lussuria (“quel furore/che la meschina gente chiama amore”): infatti, è l’eros e la possibilità della sua sublimazione il motore del mito edenico, nell’illusione di un’innocenza che si costituisce non per ascetica rinuncia ma per spontanea ignoranza del peccato.

Nel Le Stanze, Poliziano dà prova del suo profondo legame con gli autori greci e latini (Omero, di cui aveva tradotto in latino, come abbiamo già detto più sopra parte dell’lliade, gli elegiaci, i bucolici ed i tragici greci , Virgilio, Ovidio, Stazio e Claudiano), ma anche con Dante, Petrarca, Boccaccio e gli stilnovisti accolti nella Raccolta aragonese dal Magnifico (non ricusa nemmeno i temi, i modi e la varietà del lessico propri della tradizione popolare).

Egli compie quella che, in linguaggio tecnico, si definisce “contaminazione”, ossia la fusione tra vari generi letterari all’interno di un’unica opera.

In altre parole il ricorso alle fonti è sistematico e si può anche affermare che il testo polizianeo è il risultato di un fine lavoro di intarsio di imitazioni e di topoi; la maestria di Poliziano consiste nel saper rivitalizzare le forme antiche anche cambiandone i significati originari, secondo un principio di imitazione che alcuni anni più tardi, come già detto, difenderà in polemica con la teoria dell’Ottimo modello dell’umanista Paolo Cortese: «imitazione» deve essere una reinterpretazione personale, mai pedissequa, di più modelli, scelti liberamente e liberamente assimilati (si parla come già accennato di doctas gravitas).

Già i personaggi rivelano la commistione. Gli antenati di Julio, ad esempio, sono i tanti personaggi insensibili all’amore dei quali è ricca la tragedia greca, ma sono anche gli eroi del Boccaccio, come Troilo; Simonetta potrebbe essere una dea o una ninfa della mitologia classica, ma a comporre la sua immagine concorrono anche elementi stilnovistici e petrarcheschi, come rivelano numerose “spie” stilistiche e lessicali. Anche la trovata della cerva risale ai tempi lontani: già in epoca omerica, Ifigenia, figlia di Agamennone, viene trasformata in cerva dalla dea Artemide, e l’artificio è più volte adoperato nei romanzi del ciclo bretone.

Così, nella descrizione del giardino di Venere confluiscono il ricordo biblico dell’Eden, il mito classico dell’età dell’oro, e quello del “giardino delle delizie”, come sono il Paradiso terrestre in Dante e il giardino d’Amore descritto nei Trionfi del Petrarca.

Anche l’impianto complessivo dell’opera è frutto di una contaminazione. Da un lato esso riporta al cosiddetto encomio, ovvero al poemetto celebrativo che ebbe la più larga diffusione nella tarda latinità; dall’altro, riflette il gusto tipicamente volgare per i racconti di tornei e feste, dei quali è ricca la letteratura popolare.

Nel suo lavoro poetico, Poliziano si concentra soprattutto sulle singole immagini, di cui ricerca l’eleganza e la nitidezza, qualità, queste, consonanti con la pittura di Botticelli, che mira a esaltare la Bellezza ideale e che accoglie, per la Primavera e la Nascita di Venere, le visualizzazioni polizianee .

Apparentemente lontana da questa condizione edenica sembra la Favola di Orfeo , per il tema tragico (ripreso da Ovidio e dal IV libro delle Georgiche ) del protagonista che muore non essendo riuscito a liberare dall’Ade l’amata Euridice, ma il P. fa prevalere largamente sulla drammaticità della favola i toni idillici, ambientando la situazione entro un mondo pastorale allietato dalla dolcezza di un tempo sempre primaverile e dalla melodia dei canti, così che l’eden si riproduce anche in questo che è il primo dramma profano della nostra letteratura.

Fino a quel tempo infatti il teatro conosceva soltanto le sacre rappresentazioni, di carattere religioso .

Di esse il Poliziano riprende struttura scenica e movenze, cioè la frammentarietà e semplicità, teatralmente ingenua, di costru¬zio¬ne, l’uso della ottava (mescolata però ad altri metri come la terzina dantesca, la canzone a ballo o ballata, la canzone e persino ad un carme in latino, cantato da Orfeo in lode dei Gonzaga), e certo andamento popolaresco nel linguaggio.

Tale andamento nasce da una consapevole e raffinata scelta stilistica, in quanto P. intende riprendere i modi dell’elegia bucolica e pastorale (di cui sono rappresentanti Catullo, Ovidio, Properzio e Tibullo) , un genere letterario che dalla antichità era stato scritto in stile umile, perché concepito come canto di semplici e rozzi pastori; tuttavia accanto al realismo vi sono passi di elegante letteratura e l’idealizzazione della figura di Euridice, rappresentata con toni tenui, dolci e sfumati.

L’opera è suddivisa in due parti, e la struttura metrica, come già accennato, è varia: prevale l’ottava, ma ad essa si alternano la terza rima e la ballata, oltre ad una serie di versi latini in strofa saffica, che Orfeo canta al suo ingresso in scena.

Il mito di Orfeo, uno dei più noti dell’antichità, è liberamente rielaborato dal Poliziano attraverso le versioni, come già detto, che ne offrono Virgilio nel IV libro delle Georgiche e Ovidio nelle Metamorfosi.

La prima parte si svolge in Tracia e ci presenta il pastore Aristeo che confida ad un altro pastore,  Mopso, il suo amore per  Euridice, moglie del poeta Orfeo: mentre questa fugge inseguita da Aristeo, viene morsa da un serpente e muore.

Nella seconda parte, Orfeo, l’eccelso cantore, capace di affascinare con le sue melodie persino le pietre, scende nel regno dei morti per tentare di farsi restituire la moglie, e con la dolcezza del suo canto riesce a commuovere il dio degli Inferi, Plutone.

Ottiene così che Euridice gli venga resa, a patto che egli, durante il cammino di ritorno, non si volti mai a guardarla.

Ma nel viaggio, temendo che Euridice non lo segua, Orfeo guarda dietro di sé, così la donna amata gli viene strappata di nuovo, e stavolta per sempre.

Orfeo, disperato e inconsolabile, vaga per terre lontane rifiutando ogni nuovo amore, finché le Baccanti, sacerdotesse di Dioniso, infuriate per il suo spregio delle donne, lo uccidono e ne lacerano il corpo.

Anche nella Fabula di Orfeo, il Poliziano conferma l’ispirazione prevalentemente classica della sua poesia e il virtuosismo tecnico del letterato che impugna con ferma sicurezza gli strumenti espressivi.

Come ne Le Stanze per la giostra, egli ricorre alla contaminazione tra generi diversi, pur assegnando una funzione centrale al modello del dramma pastorale.

Anche nell’uso dello stile, sono rispettati con piena coerenza i principi dell’Umanesimo erudito, e i modelli latini vi hanno un peso ancor più forte.

Le frequenti citazioni rimandano soprattutto a Virgilio e a Ovidio; il lessico è prezioso, variegato, ricco di sfumature.

L’autore prosegue nella sua consapevole opera di congiunzione tra classicismo e modernità, e riproduce in forme nuove l’antico, pur restando fedele all’essenza.

Rispetto alla produzione precedente, tuttavia, la Fabula di Orfeo appare più movimentata: talora il ritmo è incalzante e compaiono sorprendenti motivi di modernità, come l’irrompere di un lessico popolare ai limiti del dialetto nell’impressionante coro finale delle Baccanti che inneggiano al loro dio, dopo aver lacerato il corpo di Orfeo.

La scelta del mito di Orfeo, d’altra parte, riporta alla visione del mondo già espressa, o almeno sottintesa, nelle Stanze per la giostra.

Orfeo, in tutti i tempi, è l’emblema della poesia, la cui potenza vince tutte le esperienze umane, e supera persino la morte.

Canta Orfeo, sceso agli Inferi: “Posa Cerbero, posa il tuo furore; / ché, quando intenderai tutti e mie’ mali, / non solamente tu piangerai meco / ma qualunque è qua giù nel mondo ceco” (vv. 218-221).

È un inno all’amore, che lo ha condotto nel buio regno dei morti, ma soprattutto alla poesia, cui egli affida il compito di piegare l’inflessibile durezza degli abitatori infernali.

Tuttavia, il Poliziano finisce con l’ammettere che anche la poesia è destinata a soccombere: le leggi che regolano la vita degli uomini e li destinano alla morte sono più forti dei sentimenti e della poesia stessa, perché se l’amore e il canto rendono Euridice a Orfeo, non possono impedire che, volgendosi indietro, egli la perda definitivamente.

 Il Poliziano è, per più motivi, una delle personalità di maggior rilievo nell’ambito dell’Umanesimo letterario. La sua attività filologica e critica, come si è detto, è condotta scrupolosamente attraverso l’analisi e il confronto tra i testi, e si accompagna alla consapevolezza che ogni problema linguistico deve essere collocato nella giusta prospettiva storica: ciò ne fa il caposcuola della ricerca filologica moderna. La sua teoria dell’imitazione è uno dei cardini sui quali si impernia un dibattito che coinvolgerà molti studiosi e scrittori del secolo successivo. La Fabula di Orfeo, inoltre, apre la strada al recupero completo del teatro, che si avrà nel Cinquecento con l’apporto fondamentale dell’Ariosto e del Machiavelli

[1] Poliziano prosegue l’opera che Carlo Marsuppini aveva cominciato nel 1454 fermandosi però dopo il primo libro.

[2] Piero de’ Medici (Firenze 1472 – Garigliano 1503), signore di Firenze dal 1492 al 1494; si attirò l’opposizione dell’aristocrazia fiorentina che lo accusò di volere instaurare un dominio personale. Al momento della discesa in Italia del re francese Carlo VIII, nel 1494, fu cacciato dalla città con l’accusa di essersi piegato ai francesi; a Firenze venne instaurata la repubblica sotto la pressione di un movimento popolare guidato da Girolamo Savonarola. Piero si ritirò a Roma, senza più riuscire a tornare a Firenze. Morì in battaglia, combattendo per il re di Francia Luigi XII.

[3] Poemetto composto nel 1475, è un testo tutto particolare: l’autore vi descrive minuziosamente la malattia della scabbia, il suo decorso e i possibili rimedi, con un gusto che sfiora talvolta il raccapricciante: è un vero e proprio esercizio letterario, in stile comico-grottesco, che conferma il consapevole e a volte compiaciuto virtuosismo del Poliziano.

[4] Organizzato per celebrare pubblicamente la stipulazione dell’alleanza tra Milano, Venezia e Firenze.

[5] Alla qurantaseiesima stanza, mentre il primo libro ne ha  centoventicinque.

[6] Complotto messo in atto il 26 aprile 1478 dalla famiglia fiorentina dei Pazzi contro quella dei Medici, allo scopo di ottenere la supremazia politica nella città. La congiura, che ebbe l’appoggio del papa Sisto IV, costò appunto la vita a Giuliano de’ Medici, ma non ebbe successo perché scatenò una reazione popolare conclusa con atti di giustizia sommaria. L’episodio finì anzi per consolidare la signoria medicea.

[7] Una ricca silloge di 449 componimenti in volgare  dal Duecento al Quattrocento (dove prevalenti sono i testi dello stilnovo e di Dante) offerta dal Magnifico a Federigo D’aragona. L’importanza della Raccolta Aragonese coincide con la fortuna quattrocentesca dello Stilnovo, dal quale i due compilatori d’eccezione, Lorenzo il Magnifico e Angelo Poliziano, muovevano per tornare alle origini dei poeti siciliani e siculo-toscani. Il complesso lavoro di scelta, selezione e collazione dei testi che precedette la realizzazione di questa straordinaria antologia testimonia il ricco retroterra filologico della Firenze laurenziana, la grande disponibilità di raccolte di rime, di codici antichi o trascritti in tempi più recenti. La raccolta si apriva con appunto una Epistola di M. Angelo Politiano al sig. Federico insieme col raccolto volgare mandatogli dal Magnifico Lorenzo; quindi seguivano la Vita di Dante del Boccaccio, preferita a quella di Leonardo Bruni, e la Vita nuova. L’ordinamento della silloge corrispondeva di fatto ad una sistemazione storico-letteraria assolutamente gerarchica e qualitativa: dopo le rime di Dante si collocavano quelle di Guinizzelli, di Guittone, di Cavalcanti e di Cino, per giungere a ritroso sui poeti della corte federiciana e sui toscani minori, chiudendosi definitivamente, secondo un’ideale percorso, proprio sulla produzione di Lorenzo il Magnifico.

[8] Anche se la critica più recente ritiene che almeno una parte sia stata composta in seguito.

[9] Componimento poetico di origine popolare confuso molto spesso con lo strambotto. (Il suo schema strofico constava di una quartina di endecasillabi a rima alternata [ABAB], seguita da uno o due distici di endecasillabi a rima baciata o da un ottava con metro: ABABABCC).

Guido Cavalcanti  

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S. Re- L. Simoni. L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001
R. Luperini-P. Cataldi-L. Marchiani-F. Marchese. La scrittura e l’interpretazione. Dalle origini al manierismo. Volume primo. Palumbo editore. Firenze. 2000.
AA. VV., La letteratura italiana in Cd-Rom, G. D’Anna editore- La repubblica Edizioni. Milano. 1999.
S. Guglielmino-H. Grosser. Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994
E. Gioanola, Storia della Letteratura italiana. Dalle origini ai giorni nostri. Librex editore, Milano, 1992.
A. Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento, Giuseppe Principato editore. Messina-Milano, 1937.

Nacque, tra il 1255 e il 1259, a Firenze, da famiglia di antica tradizione aristocratica che l’ambizione di primeggiare aveva spinto all’attività mercantile.

Il padre era quel Cavalcante che partecipò alla battaglia di Montaperti, l’“epicureo” che Dante incontra nel cerchio degli eretici insieme al capo ghibellino Farinata degli Uberti (Inferno, X). E la figlia di Farinata, Bice, dovette sposare più tardi il Cavalcanti, se il suo nome figurava accanto alla promessa sposa già dal 1267, in occasione di un riavvicinamento tra le due fazioni politiche.

 Guelfo di parte bianca, fu, nel 1280, fra i garanti della pace[1] del cardinale Latino, e quattro anni dopo venne eletto al Consiglio Generale del Comune, dove ebbe come colleghi Brunetto Latini e  Dino Compagni.

È nell’ambito di questa partecipazione che si colloca l’inizio della ostilità di Corso Donati verso il Cavalcanti, più volte sottolineata dal Compagni nella Cronica.

Ma è con gli Ordinamenti di giustizia di Giano della Bella (1293) che Cavalcanti, insieme a molti altri esponenti delle famiglie magnatizie, viene escluso dalle cariche pubbliche.

Dopo il 1295, sdegnandosi di iscriversi ad una delle Arti[2], si precluse ogni attività amministrativa, ma continuò a svolgere un ruolo primario nei contrasti politici di Firenze, avversando la fazione dei Neri e, con particolare tenacia appunto Corso Donati, che ne  era il capo.

Sui trentacinque anni, con decisione davvero sorprendente in un uomo come lui che attratto dalla filosofia averroistica, inclinava allo scetticismo in fatto religione, ed aveva anche irriso con alcuni versi la fede dei semplici, intraprese un pellegrinaggio a S. Jacopo di Compostella, in Galizia.

Non giunse al santuario, allora meta dei cavalieri penitenti, perché un improvviso malanno occorsogli a Nimes e il rancore per Corso Donati, che durante il viaggio aveva tentato di farlo assassinare, lo indussero a tornare a Firenze.

Qui, nel 1297, imbattutosi nel suo nemico che cavalcava con  alcuni seguaci, Guido, desideroso di vendicarsi <<lancio il dardo, il quale andò in vano» (D. Compagni).

Tre anni dopo, fu tra i protagonisti più attivi del tumulto cruento che, durante la festa di San Giovanni, scoppiò a Firenze, tra i Bianchi ed i Neri.

Per motivi di pubblica sicurezza, i Priori, fra i quali era anche Dante, inflissero  il bando dalla città ai più turbolenti capi delle due parti in lotta; e a Guido tocco il confino a Sarzana, una contrada della Lunigiana, allora infestata dalla malaria.

A distanza di un mese, revocato dalla nuova Signoria il bando ai Bianchi fuorusciti, poté tornare a Firenze. Consunto dalle febbri malariche, vi mori subito dopo, nell’agosto del 1300.

La personalità di Guido, almeno nei tratti della fierezza e della passionalità, si avverte già in questi dati della sua biografia; ma si precisa in più netto rilievo attraverso le testimonianze dei suoi contemporanei, numerose e tutte concordi nel riconoscerla singolare.

Da un poeta minore dello Stilnovismo, Guido Orlandi, il Cavalcanti ebbe versi di lode, nei quali si riflette 1’ammirazione che lo circondava, come uomo di armi e di lettere, nella società fiorentina del tempo[3].

«Cortese e ardito» lo definì Dino Compagni; e aggiunse che era «sdegnoso, solitario e intento allo studio».

Questo scrisse nella Cronica; ma più fervidamente lo aveva lodato in un sonetto,

come saggio, coltissimo e bene esperto «di varco e di schermaglia>>.

Benvenuto da Imola lo definì «uno degli occhi di Firenze», anticipando I’ apprezzamento del novelliere Franco Sacchetti, per il quale Guido «in Firenze forse suo pari non avea».

Filippo Villani vide nel nostro poeta un «uomo vertudioso in più cose, se non che era troppo altero e stizzoso».

Più tardi, il Boccaccio, che lo assunse a protagonista di una celebre novella del Decamerone, lo qualifico come «uno dei migliori loici [esperti di logica] che avesse il mondo, ed ottimo filosofo naturale… leggiadrissimo e costumato e parlante [eloquente] cavaliere molto».

A queste testimonianze si aggiunge, più d’ogni altra autorevole e significativa, quella di Dante, che negli anni giovanili dovette guardare a Guido come a maestro d’arte e di vita, se a lui dedico il libretto della Vita Nuova; e anche negli anni maturi lo citò con lode affettuosa, attribuendogli il primato della lingua, tolto «all’altro Guido».

Personaggio «di prima grandezza» fu dunque per i suoi contemporanei il Cavalcanti. E tale appare a noi, anche a spogliarlo di quegli aloni romantici che i biografi hanno via via diffuso sulla sua personalità.

Sotto il suo orgoglio solitario di pensatore laico[4] c’è chi avverte una moderna inquietudine conoscitiva; nella sua partecipazione tumultuosa alla vita politica si può cogliere una grande coerenza e nella varietà tonale della sua poesia si può trovare una certa complessità psicologica.

Complessa come la sua personalità e la poesia di Guido, tutta raccolta in un Canzoniere di una cinquantina di componimenti, fra canzoni, sonetti e ballate.

È poesia stilnovistica per alcuni motivi di origine guinizzelliana: l’amore come tensione suprema dell’anima gentile, 1’apparizione della donna in un’atmosfera di vibrante luminosità, il saluto di lei e gli effetti di gioia o d’angoscia che ne derivano all’uomo); e stilnovistica è pure per il rilievo che vi assume l‘indagine del poeta sul suo mondo interiore.

Ma nella maggiore e miglior parte del canzoniere di Guido quei temi son rivissuti nell’interno, reinventati da una sensibilità turbata e commossa, e quell’indagine introspettiva e drammatico impatto con una realtà oscura e dolente.

Non che manchino nel Canzoniere cavalcantiano i componimenti informati a franca spensieratezza nella figurazione della donna[5], ma più frequenti, e più ricche di interesse per noi, son le liriche che dicono il tremore dell’anima smarrita nella stretta della solitudine o sotto 1’incubo della morte.

Il poeta insiste nell’uso di parole come pianto, dolore, morte, paura, sbigottito, trema, ecc.; ma questo «lessico dell’angoscia» non e, come e parso a taluno, una scelta retorica finalizzata alla trattazione stilizzata (come per i poeti Siciliani) di un tema assunto con letterario distacco, bensì il naturale strumento espressivo di una profonda verità psicologica; e non ne coglie l’interiore vibrazione soltanto chi non ha orecchio alla voce della poesia.

Muovendo dalla propria esperienza esistenziale, oltre che dalla dottrina averroistica, Guido identifica 1’amore con una passione cieca e veemente che, avendo sede nell’anima sensitiva, non assurge alla sfera dell’intelletto e dunque non è, come ritenevano Guinizzelli e Dante, sollecitazione alla vita morale e iniziazione al Divino, ma tumulto che prostra ed angoscia nel presagio della morte.

Questa concezione, espressa con arduo, e non sempre limpido, procedimento filosofico e scientifico nella canzone-manifesto <<Donna mi prega>> è alla base di molte liriche del Cavalcanti, dove la donna non è angelo beatifico, ma terrena creatura dal cui fascino misterioso 1’uomo ricava fugaci attimi di gioia e lungo tormento.

E cosi Guido è il primo poeta della nostra letteratura che accosti all’amore la morte in un connubio che affascinerà la fantasia dei poeti del Romanticismo; la sua è un’anima passionale che però non si effonde con scompostezza ma si dispiega in forme stilistiche e ritmiche molto lavorate: il ritmo è musicale e le immagini sono lievi.

[1] Che doveva ricomporre i rapporti tra guelfi e ghibellini.

[2] L’iscrizione, che i1 «magnate» Guido considerava umiliante, era imposta dai nuovi Ordinamenti di Giustizia, di ispirazione democratica, come condizione all’accesso ai pubblici uffici.

[3] «Amico, saccio ben che sai limare / con punta lata maglia di coretto, / di palo in frasca come uccel volare, / con grande ingegno gir per loco stretto…».

[4] I contemporanei scambiarono per empietà epicurea codesta laicità.

[5] Sia essa Giovanna (Vanna), bella come la primavera e in se recante «li fiori e la verdura», o la gentile Mandetta, la tolosana, che Guido incontro durante il suo pellegrinaggio a S.  Jacopo, entrando «quietamente alla Dorada>>, o la bionda e rugiadosa pastorella vagheggiata e goduta su un luminoso sfondo boschivo.

Sugli scaffali della mia libreria

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Ci sono molte pietre preziose. La polvere non deve prevalere nemmeno per un secondo e dunque ho deciso di sfogliarli insieme a voi…

Di labile materia fui costruito, di misterioso tempo.
E’ in me forse la fonte.
Forse dalla mia ombra
nascono i giorni, fatali ed illusori

J. L. BORGES, Elogio dell’ombra

Dunque il poeta scrive, popola la sua fantasia, arreda di parole le stanze vuote della sua attesa. Lei è assente, e non potrebbe essere in altra maniera. Oltretutto se lei fosse vicina il poeta non scriverebbe – per cui in un certo senso lei deve essere lontana. La letteratura, ovverosia la vocazione all’amore letterario, lo esige.

M. BETTINI, Il ritratto dell’amante, Einaudi, 1992 p. 8

Amore, amore, assai lungi volasti
Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno,
Anzi rovente.

G. LEOPARDI

Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira,
che fa tremare di chiaritate l’are
e mena seco Amor, sì che parlare
null’omo pote, ma ciascun sospira?

G. GUINIZZELLI

Ma quale non fu la mia sorpresa quando, sul finir del giorno, vuotai per terra la mia bisaccia e trovai nello scarso mucchietto un granellino d’oro! Piansi amaramente di non aver avuto cuore di darti tutto quello che possedevo.

TAGORE

Il tempo, si sa, è irreversibile. Eppure, come la fatale discesa dei fiumi consente qua e là dei rigurgiti, dei gorghi, delle controonde che potrebbero quasi far supporre eccezioni alla legge di gravità, così, nella smisurata trama del tempo, di quando in quando si determinano piccole crepe, intoppi, smagliature, che per brevi istanti ci lasciano sospesi in una dimensione arcana, agli estremi confini dell’esistenza.

D. BUZZATI

L’uomo superiore non premia in base alle parole, ma non respinge un argomento a causa di chi lo sostiene.
CONFUCIO

Sembra che la sensibilità si comporti come un fluido la cui quantità complessiva risulta prestabilita e che, ogni qualvolta si riversa in maggior abbondanza in uno dei suoi canali, diminuisce proporzionalmente negli altri.

STENDHAL, Via di Mozart

Infatti, un uomo posseduto dall’Amore non ha affatto bisogno di Ares per combattere i nemici, ma avendo con lui il suo dio è pronto a superare il fuoco, il mare e i soffi del vento in difesa dell’amato, là dove lui lo chiami.

PLUTARCO

Scusate. E’ una valigia pesante
anche se non contiene gran che:
tanto ch’io mi domando perché
l’ho recata, e quale
aiuto mi potrà dare
poi, quando l’avrò con me.
Ma pur la debbo portare,
non fosse che per seguire l’uso.

G. CAPRONI

Mi piaci. Penso che leggendo questi
miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
ed a me piace chi non mi comprende.

G. GOZZANO

Che cosa comunico, se non comunico più,
se, tutto sommato non ho mai comunicato
altro che il piacere di essere ciò che sono?

P. PASOLINI

La morte non è
nel non poter comunicare
ma nel non poter più essere compresi

P. PASOLINI

Dichiarazione d’amore

Mai sono stato così folle da far impazzire la
mia penna… sarà merito delle tue labbra e
dei tuoi denti taglienti… oppure di quegli
occhi e di quello sguardo infuocato.
No la verità è un’altra: perché ti amo.
Non te lo dico.
Lo vuoi sapere? Scoprilo da te.

UNIONE PAZZI ITALIANI, Mermaid editore, p. 43

Valgo poco se mi valuto, molto se mi confronto.

UNIONE PAZZI ITALIANI, Mermaid editore, p. 4

La nostra pazzia è intesa come graduale processo di purificazione dai pregiudizi, dagli egoismi, dai pettegolezzi, dalle gelosie meschine, dalle invidie; è intesa come liberazione dai complessi psichici che appesantiscono la nostra mente; è intesa come alambicco che distilla i nostri pensieri e le nostre passioni permettendoci di arrivare alla verità di tutte le cose, all’ultima ratio della nostra esistenza. La Pazzia è una meta da raggiungere, è l’elevazione dello spirito verso una verità superiore.

UNIONE PAZZI ITALIANI, Mermaid editore, p. 27

I tuoi occhi, che nulla rivelano di dolce o d’amaro, sono due gioielli in cui l’oro si unisce al ferro.

BAUDELAIRE

Ciò che non si sa, bell’amico caro, lo può imparare colui che vuole sforzarsi. Ogni mestiere richiede sforzo, coraggio, perseveranza. Quando queste virtù sono riunite non c’è più nulla di cui non si possa diventare maestri.

CHRETIEN DE TROYES (1160-1190 d.C.)

La morte non è male: perché libera l’uomo da tutti i mali, e insieme coi beni gli toglie i desiderii. La vecchiezza è male sommo: perché priva l’uomo di tutti i piaceri, lasciandogliene gli appetiti; e porta seco tutti i dolori. Nondimeno gli uomini temono la morte, e desiderano la vecchiezza.

LEOPARDI, Pensieri, IV

Voi avete, quanto alla conscienzia, a pigliare questa generalità, che dove è un bene certo ed un male incerto, non si debbe mai lasciare quel bene per paura di quel male.

MACHIAVELLI, Mandragola

E’ mia salda convinzione che nessun uomo perda la sua libertà se non attraverso al sua stessa debolezza.

GANDHI

Napoli, Palermo, Sicilia, Siracusa.
Nuovi tiranni, folgori fuoco celeste:
forza di Londra, Gand, Bruxelles e Susa
grande sterminio, trionfo, far feste.

NOSTRADAMUS, 16a quartina

Non vedo altro che favoritismi.

E. BIAGI, La Stampa 5 giugno 1998

Non c’è dunque nulla di peggio che seguire, come fanno le pecore, il gregge di coloro che ci precedono, perché esse ci portano non dove dobbiamo arrivare, ma dove vanno tutti. Questa è la prima cosa da evitare.

SENECA

La vittoria alimenta inimicizia, perché chi è vinto giace dolente. Chi ha abbandonato vittoria e sconfitta, costui ristà tranquillo e felice.

BUDDHA

Gli elementi della realtà hanno la mente come principio, hanno la mente come elemento essenziale e sono costituiti di mente. Chi parli o comunque operi con mente serena, lui segue la felicità come l’ombra che non si diparte.

BUDDHA

Quelli che abitualmente finiamo per considerare amici e amicizie in effetti sono soltanto conoscenze e buoni rapporti annodati da qualche circostanza e beneficio: sono questi che hanno collegato anime diverse. Nella vera amicizia, quella che intendo io, le anime si mescolano, si intrecciano, si confondono l’una con l’altra in un legame così stretto da annullare e far dimenticare la connessione che le ha unite. Se qualcuno volesse farmi dire perché volevo bene ad un amico sento che potrei rispondere:”Perché era lui, perché ero io”.

MONTAIGNE

Nessuno sta male per molto tempo se non per colpa sua.

MONTAIGNE

Il canto del mare termina sulla riva o nei cuori di chi lo ascolta?

K. GIBRAN

Ascolta la donna quando ti guarda, non quando ti parla.

K. GIBRAN

Quando ho piantato il mio dolore nel campo della pazienza, esso mi ha dato il frutto della felicità.

K. GIBRAN

I sudditi sono quelli che più bramano avere informazioni sui re.

K. GIBRAN

Per capire il cuore e la mente di una persona non guardare ciò che ha raggiunto, ma ciò a cui aspira.

K. GIBRAN

Amleto
Io sono pazzo solo a nord-nord-ovest. Quando il vento spira da sud, so distinguere un airone da un falco.

W. SHAKESPEARE

Nasciamo una sola volta, due non è concesso; tu, che non sei padrone del tuo domani, rinvii l’occasione di oggi; così la vita se ne va nell’attesa, e ciascuno di noi giunge alla morte senza pace.

EPICURO

Messo di fronte alla necessità della vita, il saggio sa dare piuttosto che ricevere; bastare a se stesso è il suo tesoro.

EPICURO

Che tipo di ragazza desidero per me, mi domandate?
Ma io
l’ho già come la desidero, cioè, mi pare, con poco ho molto.
Andavo in riva al mare, a caccia di conchiglie, e in una trovai
una piccola perla: da allora è custodita qui, sul mio cuore.

J. W. GOETHE

Delli asini
Le molte fatiche saran remunerate di fame, di sete, di disagio e di mazzate e di punture.

L. DA VINCI

Vi è una differenza tra erotica spirituale e terrestre. Finora ho cercato di sviluppare in Cordelia la spirituale. Ma a cominciare da adesso i miei rapporti con Cordelia dovranno mutarsi: la mia presenza non dovrà più servirle da accompagnamento, ma indurla in tentazione.

S. KIERKEGAARD

Accontentarsi degli uomini, tener aperta la casa del proprio cuore è liberale, ma è soltanto liberale. I cuori capaci di una nobile ospitalità li si riconosce dalle molte finestre con le tende abbassate e le imposte chiuse: essi tengono vuote le loro stanze migliori. Perché? – Perché aspettano ospiti dei quali non ci si “accontenti”…

F. W. NIETZSCHE

Se nella gerarchia delle menzogne la vita occupa il primo posto, subito dopo viene l’amore, menzogna nella menzogna. Espressione della nostra posizione ibrida, l’amore ci circonda di un apparato di beatitudini e di tormenti grazie ai quali troviamo un altro sostituto di noi stessi. In virtù di quale frode due occhi riescono a distrarci dalla nostra solitudine? C’è fallimento più umiliante per lo spirito? L’amore assopisce la conoscenza; la conoscenza ridestata uccide l’amore. L’irrealtà non può trionfare indefinitamente, nemmeno sotto le spoglie della più esaltante menzogna. E chi, del resto, potrebbe avere un’illusione così salda da trovare nell’altro ciò che inutilmente ha cercato in sé? Un calore dei visceri ci offrirebbe dunque ciò che l’intero universo non ha saputo offrirci? Eppure è proprio questo il fondamento dell’anomalia corrente, e soprannaturale dell’amore: risolvere in due – o piuttosto sospendere – tutti gli enigmi; grazie ad un’impostura, dimenticare la finzione in cui è calata la vita; colmare, tubando insieme, la vacuità generale; e infine – parodia dell’estasi – annegare nel sudore di una complice qualsiasi.

E.M. CIORAN, 1949

Ho abbandonato il mondo ed ho cercato la solitudine perché mi sono stancato di rendere omaggio alle moltitudini che credono che l’umiltà sia una sorta di debolezza, e la compassione una specie di viltà, e lo snobismo una specie di forza.

K. GIBRAN

Oh, mia anima senza compagnia,
nella tua fame tu divori te stessa,
e con le tue proprie lacrime vorresti placare la tua sete

K. GIBRAN

Siamo veramente lontani, vale a dire che è lei è molto più avanti di me. Lei già comincia a costruire, mentre io sto ancora demolendo e creando dello spazio. Sinora non ho imparato se non a diffidare e ad analizzare, e ancora non so se potrò fare altro.

H. HESSE

Non sono niente
Non sarò mai niente
Non posso volere d’essere niente
A parte questo, ho in me tutti i sogni del mondo.

F. PESSOA

Non sono nulla, non posso nulla, non perseguo nulla.
Illuso, porto il mio essere con me.
Non so di comprendere, né so
se devo essere, niente essendo, ciò che sarò.
A parte ciò, che è niente, un vacuo vento
del sud, sotto il vasto e azzurro cielo
mi desta, rabbrividendo nel verde.
Aver ragione, vincere, possedere l’amore
marcisce sul morto tronco dell’illusione.
Sognare è niente e non sapere è vano.
Dormi nell’ombra, incerto cuore.

F. PESSOA

Se scalare le altezze del monte Everest, sacrificando per raggiungerle vite preziose in cambio di qualche esile osservazione, è stata una cosa buona, se è stata una gloria immolare tante vite per piantare una bandiera nei più remoti angoli della terra, quanto più glorioso non sarà dedicare non una sola vita, non un milione di vite, ma un miliardo di vite alla ricerca della possente ed imperitura verità? Non lasciatevi smuovere, dunque, non lasciatevi trascinare lontano dalla semplicità dei vostri antenati. Verrà un tempo in cui quelli che si sono gettati nella folle corsa odierna alla moltiplicazione dei bisogni, vanamente convinti, in tal modo, di accrescere la ricchezza e la conoscenza reale del mondo, ritorneranno sui propri passi e diranno:”Che abbiamo fatto?”.

GANDHI

Commisuratamente allo svolgersi della borghesia, ossia del capitale, di pari passo si svolge il proletariato, ossia la classe degli operai moderni, i quali intanto vivono in quanto trovan lavoro, e intanto trovan lavoro in quanto il lavoro loro accresce il capitale

MARX-ENGELS, Manifesto del partito comunista.

Mediatori

Sorgeranno negli Stati,
riferiranno su Natura, leggi, fisiologia, felicità,
illustreranno la Democrazia e il cosmo,
saranno nutritivi, amatori e ricettivi,
saranno donne e uomini completi, agili e muscolosi nelle
pose loro, la lor bevanda acqua, il loro sangue limpido e mondo,
si alleneranno per uscire in pubblico, per diventare oratori, oratrici,
lingue robusti e dolci, poemi e materiali di poemi verrà
derivato dalle lor vite, saranno creatori ed inventori

W. WHITMAN (1819-1892)

Io nulla so, non so se Chi mi ha creato
M’ha fatto per il Cielo o mi ha destinato all’Inferno.
Ma una coppa e una bella fanciulla e un liuto sul lembo del prato
Per me son monete sonanti: a te la Cambiale del Cielo!

O. KHAYYAM (V secolo d. C.)

Grazie alle donne
belle e infedeli
per tutto ciò che è durato un istante,
per quell’addio!
che non è un arrivederci!
perché, fiere come regine nella loro menzogna,
ci regalano delle dolci sofferenze
e i magnifici frutti della solitudine.

E. A. EVTUSENKO, 1959

Volevi l’amore:
quello vero,
non falso,
e, anche se ora
vuoi mentire nell’anima tua,
lo volevi felice
ma se questo fosse troppo complicato,
venisse pure un amore infelice,
ma che fosse
amore…

E. A. EVTUSENKO

I muri

Senza riguardo senza pietà senza pudore
mi drizzarono contro grossi muri.

Adesso sono qua che mi dispero
Non penso ad altro: una sorte tormentosa;

con tante cose da sbrigare fuori!
Mi alzavano muri, e non vi feci caso.

Mai un rumore una voce, però, di muratori
Murato fuori del mondo e non vi feci caso

C. KAVAFIS, 1963

Niente ci informa meglio su noi stessi che vedere di nuovo davanti a noi cose uscite da noi anni prima, per cui abbiamo la possibilità di osservarci come si osserva un oggetto.

W. GOETHE

La chiarezza richiede conoscenza, la conoscenza aumenta la tolleranza, la tolleranza è l’unica mediatrice di una pace per tutte le forze e in tutte le situazioni

W. GOETHE

Un fatto della nostra vita ha valore non perché è vero, ma perché ha significato qualcosa.

W. GOETHE

E così noi, che siam di voi più sagge,
per non contendere vi portamo in spalla,
com’anco chi ha buon piè porta chi cagge.

VERONICA FRANCO (1546-1591)

Se io discuto con te e tu hai la meglio su di me invece che io su di te, hai forse necessariamente ragione e io necessariamente torto? E se io ho la meglio su di te, ho io necessariamente ragione e tu necessariamente torto? Ha uno ragione e l’altro torto, oppure abbiamo ragione entrami o entrambi torto? Né io né te possiamo saperlo, e un terzo sarebbe nella stessa oscurità. Chi può decidere senza errore? Se interroghiamo qualcuno che che è del tuo parere, come potrà decidere, se è del tuo parere? Se è d’accordo con me, come potrà decidere, se è d’accordo con me? Lo stesso accadrà se si tratta di qualcuno che è insieme d’accordo con me e con te, o se è di un parere differente da entrambi. Allora né io, né te, né un terzo possiamo decidere. Dovremmo attendere un quarto?

ZHUANG-ZI, IV secolo a.C.

Un compagno del brigante Zhi chiese a quest’ultimo: “Anche il brigante ha la sua via?”.
“La via non esiste forse dovunque?” rispose il brigante Zhi. “Indovinare il luogo ove si trova un grosso bottino, ecco la santità; giungervi per primo, ecco il coraggio; ritirarsi per ultimo, ecco la giustizia; giudicare se il tentativo è possibile o no, ecco la prudenza; dividere il bottino in modo equo, ecco la bontà. Sono degni di essere briganti solo coloro che posseggono le cinque qualità”.

ZHUANG-ZI

Chi dunque escogitò il tormento? Amore.
Amore è il Nome non familiare
Di Chi con le sue mani tessé
L’intollerabile camicia di fuoco
Che forza umana non può levare.
E noi viviamo, noi respiriamo
Soltanto se bruciamo e bruciamo.

T. S. ELIOT

Non ti dirò mai, amor mio,
perché il fiume scorre lento.
Ma porrò sulla mia voce fioca
il cielo grigio del tuo sguardo.

F. G. LORCA

È incredibile ch’io ti cerchi in questo
o in altro luogo della terra dove
è molto se possiamo riconoscerci.
Ma è ancora un’età, la mia,
che s’aspetta dagli altri
quello che è in noi oppure non esiste.

M. LUZI, 1952

Stai in linea. Stai al passo. La gente
ha paura di quelli che non stanno
al passo con loro. Li fa
sembrare sciocchi a se stessi per il fatto
che loro stanno al passo. Potrebbe persino
balenargli l’idea che sono loro
a sbagliare il passo. Non correre
e non varcare i confini fissati. Se vai
troppo in là in qualsiasi direzione, ti
perderanno di vista, si sentiranno minacciati.

BOB DYLAN (1964)

Ho proprio creduto di prendere tutta la tua bellezza e non ho
avuto che il il tuo corpo
Il corpo ahimè non ha l’eternità
il corpo ha la funzione di godere ma non ha l’amore
E invano adesso tento di stringere il tuo spirito
Fugge mi sfugge da tutte le parti come un groviglio di serpi che
si liberi
E le tue belle braccia sull’orizzonte lontano sono serpenti
color dell’aurora che si avviluppano in segno d’addio

APOLLINAIRE

Menippo
…Dimmi dunque in nome degli dei, quale delle due vite hai trovato di maggior piacere nella tua esperienza, quando sei stato uomo? O era meglio la vita da donna?

Tiresia
Molto meglio quella da donna. Menippo, meno rogne. Le donne comandano gli uomini e non sono costrette a combattere, a stare sugli spalti, a litigare in assemblea, a fare i giudici nei tribunali.

LUCIANO DI SAMOSATA, Dialoghi, 160 d.C.

Benché solo pochi siano in grado di dar vita ad una politica, siamo però tutti capaci di giudicarla.

PERICLE (secondo Tucidide)

La parola democrazia che significa governo del popolo è purtroppo un pericolo. Ogni membro del popolo sa di non comandare e avverte perciò che la democrazia è un inganno. Qui sta il pericolo.

K. POPPER, 1994

Non so con quali armi si combatterà la terza guerra mondiale, ma la quarta sì: con bastoni e pietre.

ALBERT EINSTEIN

Da ragazzo ho scoperto che l’alluce finisce sempre per fare un buco nei calzini. Quindi ho smesso di mettere i calzini.

ALBERT EINSTEIN

La saggezza non è un prodotto dell’istruzione ma del tentativo di acquisirla che dura tutta la vita.

ALBERT EINSTEIN, 22 marzo 1954

Sono anche convinto che si tragga la gioia più pura dalle cose spirituali soltanto quando non hanno a che fare col doversi guadagnare da vivere.

ALBERT EINSTEIN, 19 marzo 1954

Se vuoi una vita felice, devi dedicarla ad un obiettivo, non a delle persone o a delle cose.

ALBERT EINSTEIN

È singolare la situazione sulla terra. Ognuno di noi è qui per una breve visita: non sa il perché, ma a volte gli sembra di scorgere uno scopo.

ALBERT EINSTEIN, 1932

Il miglioramento delle condizioni in tutto il mondo non dipende in maniera essenziale dalla ricerca scientifica ma dalla realizzazione delle tradizioni e degli ideali umani.

ALBERT EINSTEIN, 1952

Agire intelligentemente nei rapporti umani è possibile soltanto se si tenta di comprendere i pensieri, i motivi e i timori dell’avversario fino al punto di riuscire a vedere il mondo attraverso i suoi occhi.

ALBERT EINSTEIN, 7 ottobre 1948

Se Dio ha creato il mondo, non possiamo dire che si sia preoccupato molto di facilitarne la comprensione.

ALBERT EINSTEIN, 10 febbraio 1954

La scuola deve formare delle persone capaci di agire e di pensare autonomamente e, insieme, di vedere nel servizio alla comunità il massimo obiettivo della propria vita.
La scuola deve far sì che un giovane ne esca con una personalità armoniosa e non ridotto a uno specialista.
Altrimenti il giovane – con quella sua specializzazione – somiglierà più che altro ad un cane ben ammaestrato.

ALBERT EINSTEIN, 5 ottobre 1952

All’epoca di Platone, e anche più tardi, ai tempi di Jefferson, era ancora possibile conciliare la democrazia con un’aristocrazia intellettuale e morale, mentre oggi la democrazia si basa su un principio diverso, e cioè che l’altro non è migliore di me… Un atteggiamento che non incoraggia affatto l’imitazione.

ALBERT EINSTEIN, 22 novembre 1954

Ogni donna esclude per natura l’altra donna; giacché a ognuna di loro si richiede tutto quello che compete all’intero sesso femminile. Non accade così con gli uomini. L’uomo cerca l’altro uomo: se non ci fosse lo creerebbe, una donna potrebbe vivere in eterno senza pensare di trovarsi delle sue simili.

W. GOETHE, Le affinità elettive, 1808

La verità è che non ho mai ingannato nessuno. A volte ho lasciato che gli uomini si ingannassero da sé. A volte non si preoccupavano di capire chi e come fossi. Invece, si creavano un’immagine. Non mi prendevo la pena di discutere con loro. Era ovvio che volevano qualcuna che non ero io, e quando se ne accorgevano mi accusavano di averli delusi e ingannati.

MARILYN MONROE
Ho spesso pensato che se non si ha niente da amare, odiare qualcosa è un buon sostituto.

BERTHA PAPPENHEIM (l’Anna O di Freud), lettera 1912
Nella natura tutto è varietà, tutto è spontaneità, e la grande bellezza risulta da accordi impercettibili i quali si fanno sentire piuttosto che vedere.

M.A. IULIENN, 1824
V’amo pazzamente, non importa che voi non m’amiate: sia pure, basta che diventiate mio marito, Non temete, non vi sarò di alcun peso, sarò un vostro mobile, sarò quel tappeto su cui voi volete mettere i piedi… Voglio amarvi in eterno, voglio salvarvi da voi stesso.

F. DOSTOEVSKIJ
Se un messaggio viene compreso, se arriva veramente a destinazione, cambia la distribuzione dell’energia nel ricevente.

E. BERNE
“…gli esseri umani non possono disperdersi isolandosi all’infinito, ma devono da ultimo rassegnarsi a incontrarsi e coesistere”

IMMANUEL KANT
Quello che mi tratta con dolcezza è mio padrone; quello che mi opprime è mio nemico.

OU – OUANG, primo imperatore cinese della terza dinastia. 1122 A.C.
Allorché si pubblicano le leggi e si prescrivono gli ordini è necessario che gli uni e gli altri siano conformi alla ragione; altrimenti oltre al pericolo di disgustare gli spiriti, si corre anche quello di dovere arrossire.

FOU-YEU contadino cinese che divenne primo ministro perché era apparso in sogno all’imperatore CAO-TSONG. 1321 A.C.
Ricordati di rinnovare te stesso ogni giorno e più volte al giorno.

CHING TANG, primo imperatore della seconda dinastia (CHANG). 1760 a. C.

Non sono io padrone assoluto? Vi sarebbe chi osasse ribellarsi! Nulla temo e sono sicuro che sarò padrone sino a che il sole continuerà ad illuminare l’universo… Io sono così fermo sul mio trono come il Sole lo è nel Cielo; quando lo vedremo precipitare, confesso, che allora avrò qualche motivo di temere.

LI-KOUÉ, ultimo imperatore della prima dinastia, così disse e comandò ancora per dieci anni e poi morì. 1766 A. C.
La sola virtù può muovere il Cielo; non vi è luogo così lontano ove essa non giunga a penetrare. L’orgoglio fa che essa soffra, ma l’umiltà la fa prosperare.

PE-Y, 2223 a. C.

La felicità e le disgrazie dell’uomo dipendono sempre dalla virtù e dal vizio come appunto l’ombra dipende dal corpo e l’eco dalla voce.

Imperatore CHUN, 2253 a. C.
Sappiate che è cosa più pericolosa chiudere la bocca al popolo che arrestare le acque di un torrente; arrestarle è un obbligarle a spandersi ed a cagionare danni maggiori di quello che avrebbero fatto se si fossero lasciate scorrere naturalmente.
Allorché si voglia impedire che un torrente faccia danno conviene scavargli un gran letto capace di contenere le acque; nella stessa maniera quelli che hanno il carico della condotta del popolo devono lasciargli la libertà di parlare. Si può dire che un Imperatore sa governare allorché egli lascia ai poeti la libertà di far versi, alla plebe quella di rappresentare commedie, agli storici quella di dire la verità, ai Ministri quella di dare consigli, ai poveri di mormorare nel pagare i tributi, agli studenti di recitare ad alta voce le loro lezioni, agli artigiani di lodare le loro manifatture, e di impegnare la gente a tenergli occupati, al popolo di parlare di ciò che ode dire, ed ai vecchi la libertà di criticare tutto. Allora gli affari camminano sul loro piede senza alcun inconveniente. La lingua del del popolo è come le montagne e i fiumi da cui escono le ricchezze e le cose necessarie alla vita.

LI-OUANG, Imperatore della Cina, 860 a. C.
Un principe che voglia ben adempiere le obbligazioni del suo stato deve avere una estrema premura che il denaro circoli tra le mani dei suoi popoli; e continuamente temere che questi cadano nella miseria perché nella medesima non precipiti lui stesso come nell’ultima delle disgrazie.

LI-OUANG, Imperatore della Cina, 860 a. C.
I prìncipi e i grandi non sono collocati nei loro posti luminosi per godere d’una fortuna che fosse gravosa al popolo; non è ad essi permesso di goderne se non quando i loro popolo è contento.

Principe imperiale KANG-OUANG, 1053 a.C.

I falsi giudizi dipendono ordinariamente da cinque sorgenti le quali impediscono che si scopra la verità. La prima è la eccessiva autorità di quelli che occupano gli impieghi; questa autorità riempie di timore gli accusati che non osano disputare contro i loro giudici. La seconda che gli stessi accusati temono di dire la verità per paura di tirarsi addosso qualche vendetta anche peggiore del male presente. La terza che si presta troppo facilmente orecchio alle donne e si ascoltano più che la ragione e la stessa giustizia. La quarta è che ci si lascia corrompere dal denaro. La quinta è finale è che mancano i lumi per distinguere il vero dal falso e non lo si vuole confessare.

MOU-OUANG , imperatore della Cina, 952 a.C.
Era Fenea di parere che si dovesse valersi di Antioco piuttosto come conciliatore di pace, come mediatore nelle cose controverse coi Romani, che come condottiero di guerra. La di lui venuta e maestà avrebbero avuto maggiore forza che le sue armi, a generare nei Romani un non so quale rispetto. Gli uomini, piuttosto che guerreggiare, cedono volentieri tante cose, che non potrebbero indursi a cedere con la forza e con le armi.

TITO LIVIO, Capito XLV della Storia Romana.
Dalle tavole dei Pontefici risulta che Tarquinio regnò trent’anni e che il suo regno finì con un assassinio. All’epoca i re erano anche giudici e soprattutto conciliatori verso chiunque si fosse rivolto alla loro autorità. Così i suoi assassini finsero di voler fare una conciliazione e lo ferirono a morte.

Storia romana di M. B. G. NIEBUHR, Volume 2, Tipografia Tizzoni, 1833, p. 48.
“agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche al tempo stesso come scopo, e mai come semplice mezzo”.

IMMANUEL KANT, Fondazione metafisica dei costumi
Ora io dico: l’uomo, e ogni essere razionale in genere, “esiste” come scopo in se stesso, e “non solo come mezzo” perché sia usato da questa o quella volontà; in tutte le sue azioni, dirette, sia verso se stesso, sia verso altri esseri razionali, esso dev’essere sempre considerato, “al tempo stesso, anche come un fine”

IMMANUEL KANT, Fondazione metafisica dei costumi

Ancora: un quarto, a cui le cose vanno bene, ma che vede altri intorno a lui lottare contro grandi difficoltà (ed egli potrebbe facilmente aiutarli) pensa: che cosa me ne importa? Sia ognuno felice tanto quanto il cielo gli concede, o quanto riesce a rendersi tale da sé: io non gli porterò via nulla e non lo invidierò; ma non ho nessuna voglia di contribuire al suo benessere o ad assisterlo nelle sue necessità. Ora, senza dubbio, se questo modo di pensare divenisse una legge universale di natura, il genere umano potrebbe benissimo sussistere; e, senza dubbio, meglio che quando ciascuno chiacchiera di partecipazione e di benevolenza, e anche mostra zelo quando se ne presenta l’occasione, ma, per contro, non appena può, mente, si lascia corrompere o infrange in ogni modo i diritti altrui. Ma, sebbene sia possibile che sussista una legge universale di natura ispirata a quella massima, è tuttavia impossibile volere che un tal principio viga in ogni caso, come legge di natura. Infatti, una volontà che volesse questo contraddirebbe se stessa, potendosi ben presentare casi in cui essa ha bisogno dell’amore e della partecipazione altrui, e in cui una legge siffatta, uscita dalla sua stessa volontà, impedirebbe a lei stessa di sperare nell’aiuto desiderato.

IMMANUEL KANT, Fondazione metafisica dei costumi
Sfortunatamente, il concetto della felicità è un concetto così indeterminato che, sebbene ogni uomo desideri giungere a essa, nessuno tuttavia è in grado di dire determinatamente e coerentemente che cosa, in verità, desideri e voglia.

IMMANUEL KANT, Fondazione metafisica dei costumi

 

 

L’HAIKU: poesia in poche parole

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“La nostra poesia è un albero millenario. I nostri canti sono una casa da tè giapponese: quattro stuoie e mezzo in tutto – dove noi bruciamo l’incenso più raro che sale al cielo .”

Yone Noguchi

 

L’HAIKU: poesia in poche parole

 

La poesia giapponese, fin dalle sue più antiche origini, è caratterizzata da brevità di schema metrico e da profonda raffinatezza stilistica, qualità esaltate con straordinaria evidenza nello haiku, che si diffonde dal sedicesimo secolo in poi e rende ancora più essenziale la forma poetica tradizionale. La lingua giapponese permette estrema concisione lirica, perché consente di tradurre le complesse immagini mentali di un ideogramma in un’unica sillaba.

In questa forma poetica si riflettono l’amore della cultura nipponica per il minimalismo e per le cose asciutte e compatte (scrive, infatti, Sei Shonagon: “in verità, tutte le cose piccole sono belle”). Negli haikai il poeta diviene solo uno strumento e l’oggetto che anima il componimento diviene soggetto.

L’haiku ha uno schema metrico semplice: tre versi, il primo di 5, il secondo di 7, il terzo di 3 sillabe. Nei versi non esiste la rima, le sillabe hanno identico valore ritmico e quindi vengono solo contate. All’interno di ciascun haiku vi è il kigo, cioè il riferimento ad una delle quattro stagioni, evocata dalla presenza di un fiore, di un animale, di una festa, di un particolare paesaggio, una parola che per metonimia indica la stagione a cui si riferisce la poesia e che ci fa immergere, almeno in parte, nell’atmosfera descritta nei versi.

Tra il secondo e il terzo verso c’è un salto verso l’alto, un balzo metaforico, in cui si liberano simboli e si racconta di un’emozione profonda, spesso legata allo spirito zen. Per dirla con il semiologo Roland Barthes, l’haiku non è un pensiero ridotto in forma breve, ma “un evento breve che tutt’a un tratto trova una forma esatta”, un maximum di energia in un minimum di segni. L’haiku non descrive, ma si limita ad immortalare un’apparizione, a fotografare un attimo ed è per questo che tra le sue peculiari caratteristiche troviamo la brevità, la leggerezza e l’apparente assenza di emozioni secondo i canoni del buddhismo zen.

Come l’alternarsi delle stagioni, anche queste brevi poesie annoverano temi contrastanti fra loro come il mistero (yugen), la povertà (wabi), l’instabilità (aware) e l’isolamento (sabi).

Il primo grandissimo poeta haijin fu Matsuo Bashō, (1644-1694), che viaggiò a lungo in Giappone e ci lasciò un diario in forma di haiku. Altri sommi autori furono Yosa Buson (sec. XVIII), Kobayashi Issa (1763-1827), Sengai (1750-18379)…

Tra gli occidentali: Jack Kerouac, Ghiorgos Seferis, gli italiani Andrea Zanzotto, Edoardo Sanguineti

Tracce ed echi dello haiku, più o meno ammesse, si trovano nella poesia contemporanea (Ungaretti non ha mai voluto rivelare quale ruolo abbia avuto per lui la lettura degli haiku pubblicati nella rivista alla quale collaborava, mentre Ezra Pound ne dichiarò apertamente l’influenza).

Imitare in tutto e per tutto il modello giapponese non è possibile, perché non si possono riprodurre certi valori semantici o visivi, come la bellezza della calligrafia, in cui si mescolano ideogrammi cinesi ad alfabeti fonetici giapponesi, come l’hiragana ed il katagana, e forse non avrebbe neanche un reale significato, mentre resta intatto il fascino di esprimere il massimo grado di emozione attraverso un minimo di segni. Kerouac avverte che un haiku occidentale può anche ignorare la rigidità dello schema tradizionale, “deve essere molto semplice e libero da tutti i trucchi poetici e tuttavia essere aereo e aggraziato.”

Oggi vi sono in ogni Paese associazioni di poeti che coltivano questo genere di poesia e sono collegate ad un’Associazione Internazionale. In Giappone poi, dove il 10% della popolazione compone haiku, esistono tre associazioni nazionali, ogni grande quotidiano ed ogni rivista pubblicano una rubrica di haiku. In Italia l’haiku è stato introdotto da Sono Uchida, presidente dell’Associazione Internazionale e fondatore con altri di un’Associazione Nazionale Amici dell’Haiku che dal 1987 organizza ogni anno un’edizione del Premio Letterario Haiku, con il patrocinio dell’Ambasciata del Giappone presso la Santa Sede, dell’Istituto di Cultura Giapponese, dell’Istituto di Cultura Italiana a Tokio… I componimenti giudicati vincenti, oltre ad essere premiati (e fino al 1994 vi era come primo premio un biglietto aereo Roma-Tokyo-Roma offerto dalla Japan Airlines), sono pubblicati su una rivista giapponese di poesia.

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