Dante Alighieri – Divina Commedia – Purgatorio – Canto IX – Riassunto e commento

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G. Dorè, l’angelo portiere

Ci troviamo inizialmente ancora nella valletta fiorita dell’Antipurgatorio di cui il custode è Catone e successivamente nei pressi della Porta del Purgatorio di cui custode è l’angelo portiere, tra il tramonto del 10 aprile 1300, domenica di Pasqua ed il mattino dell’11 aprile, lunedì di Pasqua.

I personaggi descritti nel canto sono: Lucia santa martire siracusana[1] e l’angelo portiere.

ELEMENTI PRINCIPALI

1) Tema allegorico: la caratteristica più evidente del canto è la ricchezza di elementi allegorici e simbolici, da cui si intuisce chiaramente che ci troviamo di fronte ad uno dei punti chiave della cantica. Il primo dato è costituito dal sogno di D., dove l’aquila dalle penne d’oro che lo solleva fino alla porta del P. è simbolo della Grazia divina e della giustizia imperiale, che si raccolgono nella figura umana di S. Lucia, colei che aiuta il poeta a superare miracolosamente le difficoltà che gli impediscono di salire al vero regno della penitenza.

Il secondo elemento sono i tre gradini della porta del P., simbolo delle tre fasi della confessione (contritio, confessio oris, satisfactio operis), che sola può introdurre l’anima sinceramente pentita al luogo della purificazione.

Infine si può considerare allegorico tutto l’episodio dell’angelo custode del P., con la spada di fuoco simbolo della giustizia, le due chiavi simbolo del potere ecclesiastico ad ammettere il peccatore alla salvezza, e le sette P. segnate sulla fronte di D., simbolo dei sette peccati capitali, che verranno man mano cancella­ti dall’e­spiazione e penitenza nelle varie cornici.

2) Tema strutturale: la porta del Purgatorio. Nell’arco della narrazione, il canto rappresenta un momento importante poiché chiude una lunga introduzione con i luoghi e le anime dell’Antipu­rgatorio, ed immette direttamente al vero e proprio secondo regno dei morti. Questo passaggio è evidenziato fisicamente dalla presenza della porta.

Da ricordare che una porta aveva anche introdotto all’Inferno (cfr. canto III dell’Inferno); da notare anche come l’Antipurgatorio occupi molto più spazio, quasi un terzo della cantica, mentre la descrizione dell’Antinferno si era risolta in un solo canto. La porta si apre a fatica e pesantemente, a sbarrare il passo al peccato ma anche ad indicare come siano pochi coloro che vi entrano, nonostante la misericordia di Dio, sottoli­neata dalle parole dell’angelo (cfr. v. 127-129).

Dall’aper­tura della porta subito esce il suono di un canto di lode a Dio, così che l’entrata del Purgatorio subito si assimila all’entrata in una cattedrale.

3) L’angelo custode. L’angelo posto a guardia della porta del Purgatorio è la figura che domina il canto, al di là dei signifi­cati allegorici[2] che si concentrano nella sua figura e nelle sue parole. D. aveva già visto esseri angelici: il primo ad aprirgli la porta della città di Dite nel canto IX dell’Inferno, poi l’angelo nocchiero nel II di questa cantica, quando V. gli aveva annunciato che ne avrebbe visti molti (il primo dei quali – nel purgatorio vero e proprio – sarà l’angelo dell’umiltà che cancellerà – canto XII – la prima P, relativa alla superbia, dalla fronte di Dante); ancora nel canto precedente gli angeli che stanno a guardia della Valletta dei Principi.

Questo è però l’angelo che introduce al vero regno dei destinati alla salvezza, dove altri angeli simili a lui si mostreranno sempre più di frequente, ad occupare ed a popolare i luoghi a loro destinati da Dio, come è per i diavoli in Inferno.

Questo angelo ha ancora un altro importante motivo di interesse: si inserisce in quella particolare categoria di personaggi che svolgono la funzione di custodi di un determinato luogo, tanto più in evidenza come l’entrata dell’intero regno purgatoriale.  Esso completa la figura di Catone e propone il confronto con alcune figure infernali, quali Caronte, o Minosse, Flegias e altre ancora.

4) Il sogno. È da rilevare il fatto che D. usi qui un sogno, luogo tipico della retorica letteraria, per narrare come poté superare la ripida costa che portava alla porta del Purgatorio. È espediente tradizionale per inserire avvenimenti miracolosi e fantastici, che il poeta aveva usato in altre opere come la Vita Nuova, ma che colpisce per la sua novità nella Commedia. Si ripeterà ogni notte passata nel Purgatorio (cfr. c. XIX e c. XXVII).

RIASSUNTO TESTO E VERSIONE IN PROSA

Alle tre di notte, quando in Italia l’aurora già si appresta ad imbiancare il cielo, D., vinto dal sonno, si stende sull’erba dov’era seduto insieme ai suoi compagni di viaggio e si addormenta.

Poi, verso l’alba, quando i sogni si fanno più veritieri, vede sul monte Ida, e sopra di sé, in alto, librarsi un aquila dalle penne d’oro, che dopo aver roteato un poco, si cala a piombo su di lui, lo ghermisce e lo rapisce su nel cielo, incendiandosi.

Il calore delle fiamme sognate risveglia D. bruscamente; spaventato il poeta si guarda attorno non riconoscendo il luogo dove si trova (vv. 1-42).

Di fianco a sé D. vede solo V., sono svaniti Sordello e i due principi. Il sole è già alto ed il maestro, riconfortandolo, gli dice che si trova alle soglie del Purgatorio: mentre dormiva infatti, era giunta S. Lucia che presolo tra le braccia lo aveva trasportato fin lassù. Quindi la donna santa, dopo avergli mostrato l’entrata, si era dileguata poco prima che D. si risvegliasse.

Egli allora si rianima e Virgilio, vista cancellata ogni traccia d’ansia sul viso del compagno, si alza per intraprendere la salita alla porta del Purgatorio, seguito da Dante (vv. 43-69).

Dopo un avvertimento al lettore perché noti l’elevarsi dello stile in questo passaggio decisivo del viaggio, D. racconta che, avvicinandosi al punto in cui la cinta di roccia sembra rotta, egli vede una porta con tre gradini di diverso colore[3].

Sull’ultimo è seduto l’angelo: silenzioso, splendente in volto, ha una spada in mano che riflette i raggi del sole verso i due pellegrini, tanto da non poter essere guardata.

L’angelo chiede loro che cosa vogliano e con quale autorizzazione si presentino lì; V. cita la donna santa che li ha guidati, e subito il guardiano, divenuto cortese, li invita ad avanzare.

Dante sale il primo gradino, di marmo bianco, così liscio e lucente che vi si specchia, quindi il secondo, in pietra grezza, nera e crepata, infine il terzo di porfido rosso come il sangue, su cui l’angelo posa ambo i piedi, sedendo sulla soglia, dura come il diamante (vv. 70-105).

Su richiesta di V., D. si getta ai piedi dell’angelo, percuoten­dosi il petto e chiedendo di aprirgli la porta del secondo regno.

L’angelo allora con la punta della spada gli incide sulla fronte sette P. esortandolo a cancellarle nella salita verso la cima del monte.

Poi, tratte da sotto la veste grigia (è il colore della penitenza: tutti gli altri angeli hanno invece la veste bianca)  due chiavi, una d’oro, l’altra d’argento, apre la porta, spiegando come ogni volta che una delle due non funziona, quell’uscio non si apre.

La più preziosa è quella d’oro, simbolo della potestà, ma l’altra, che simboleggia la scienza, esige troppa arte e ingegno per aprire, così da essere quella che scioglie il nodo del peccato.

L’angelo aggiunge che ha avuto le chiavi da Pietro, con la raccomandazione di essere piuttosto indulgente che severo. Quindi spinge l’uscio della porta sacra, avvertendo che chi si volga indietro ne uscirà subito fuori (vv. 106-132).

La porta si apre girando sui cardini massicci con un gran ruggito, (più forte di quello della rupe Tarpea quando Metello volle impedire a Cesare di impadronirsi del tesoro custodito nel tempio di Saturno) che si stempera nel dolce suono di un coro che canta il Te Deum, accompagnato da un suono come di organo (vv. 133-145).

[1] Vergine e martire (Siracusa 283 circa – 304 circa). Martirizzata sotto Diocleziano, il suo culto è molto antico, come testimonia la presenza del suo nome nel canone della messa fin dai tempi di Gregorio Magno. È invocata come protettrice della vista, forse dallo stesso suo nome (L., da luce) oppure da una leggenda secondo cui si sarebbe strappata gli occhi e li avrebbe inviati a Pascasio, innamorato di lei. Festa il 13 dicembre. In molte città e centri italiani, particolarmente dell’Emilia e del Veneto, il giorno di santa L. si usa fare doni ai bambini; nelle zone in cui si festeggia santa L. non c’è la tradizione dei regali natalizi. Come sappiamo è già intervenuta all’inizio del viaggio dantesco (cfr. If. II, 97), qui trasporta D. addormentato dalla valletta fiorita all’ingresso del Purgatorio vero e proprio, sotto forma di aquila, nel sogno del poeta. Per alcuni commentatori è simbolo della Grazia illuminante, per altri della giustizia, per altri ancora, infine della fede. D. la rivedrà nella gloria dell’Empireo (Pd. XXXIII 137).

[2] Posto alla custodia del purgatorio, rappresenta il sacerdote che confessa i peccati. Siede, col volto splendente e la spada sguainata – simbolo della giustizia divina – sulla soglia dura come il diamante, indice della fermezza nell’assegnazione della penitenza. I suoi piedi poggiano sull’ultimo gradino, che simboleggia l’amore ardente per Dio, di cui l’angelo si nutre. Sulla fronte di D. pentitosi, l’angelo traccia con la spada le sette P che significano i sette peccati da purgare nelle sette cornici. L’abito dell’angelo è dimesso perché umile è il sacerdote servo di Dio, ma le chiavi che le vesti nascondono sono d’argento e d’oro a rilevarne i poteri divini, quelli della scienza e della autorità.

[3] Il primo è bianco e simboleggia il primo stadio della confessione, cioè la contrizione; il secondo è violaceo e corrisponde alla confessio oris ed il terzo simboleggia la satisfactio operis: è rosso per l’ardore che occorre nel formare il proponimento di non peccare più.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Purgatorio – Canto V – Riassunto e commento

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Siamo nel secondo balzo dell’Antipurgatorio di cui il custode è Catone.

Il personaggi descritti nel canto che è drammatico mentre il precedente era, come abbiamo visto,  elegiaco sono: Jacopo del Cassero, Bonconte da Montefeltro, Pia dei Tolomei; ciascuna di queste anime narra la sua tragica morte, dovuta alla ferocia umana e all’anar­chia politica.

I poeti incontrano una terza schiera di peccatori: essa è costitui­ta dagli spiriti negligenti, che appunto morirono di morte violenta e si pentirono solo al momento di questo evento.

La pena è quella di girare affannosamente intorno al monte del Purgatorio cantando il Miserere; essa non è tuttavia determinata nel tempo perché forse varia secondo la natura più o meno grave dei peccati o secondo la minore o maggiore profondità del pentimento.

Il tema principale: la vanità e l’assurdità dell’odio e della vendetta.

I due poeti si sono allontanati dalla schiera dei negligenti, quando uno di questi si accorge che forse D. ha un corpo umano, e allora lo indica e avverte ad alta voce i compagni che D. non risplende come le anime del P.[1] e fa ombra a sinistra (i poeti danno ora le spalle ad oriente ed il sole li colpisce dalla parte destra, facendo ombra a sinistra). D. si gira a guardare, le anime si meravigliano (forse per il ricordo e per la speranza di tornare un poco alla loro vita mortale) (vv. 1-9).

  1. rallenta quindi il cammino. e V., per paura che possa verifi­carsi di nuovo un episodio come quello di Casella, lo rimprove­ra un po’ aspramen­te[2]: la sua mente non deve distrarsi, non deve importar­gli ciò che nel P. si dice e deve lasciar dire, deve stare saldo come una torre che non muove la cima per il vento; non deve accadere che un pensiero si sovrapponga ad un altro e ne indeboli­sca la forza: diversamente D. rischia di rimandare ad altro tempo il perseguimento dei suoi impegni e delle sue responsabilità (vv. 9-18).
  2. risponde che si affretta e arrossisce di vergogna per il rimprovero, di quel rossore che talvolta fa l’uomo degno di perdono (D. è cioè sinceramente pentito) (vv. 19-21).

I due poeti vedono avanzare lungo la costa del monte, di traverso, una schiera di anime che cantano il salmo della penitenza Miserere (Signore, abbi pietà di me: ciò aiuta la purificazione) un verso dopo l’altro; le anime si accorgono che D. non fa passare i raggi del sole e sostituiscono il salmo con una esclamazione di meraviglia lunga e rauca[3] (vv. 22-27).

Due anime in funzione di messaggeri corrono incontro ai due poeti e domandano di renderli edotti circa la loro condizione (forse queste due anime sono curiose perché hanno lasciato la terra da poco tempo).

  1. dice alle anime che possono tornare indietro e riferire che effettiva­mente D. è di carne; esse devono essere contente di questo fatto perché il poeta, se sarà accolto con cortesia, renderà loro la desiderata carità della preghiera (vv. 33-36).
  2. afferma che la velocità con cui le due anime tornarono a riferire verso l’alto alle altre è superiore sia a quella delle stelle cadenti, sia a quella dei lampi che attraver­sano le nubi d’agosto al tramonto[4]; con la stessa velocità le anime ricongiunte corrono sfrenatamente[5] verso i due poeti (vv. 37-42).
  3. invita D. ad ascoltare le preghiere delle anime ma a non rallentare il cammino, per evitare di perdere troppo tempo (vv. 42-45).

Le anime in coro si rivolgono al poeta (conformemente alla legge spirituale che è propria del Purgatorio), riconoscono che egli, ancor vivo, sta facendo un cammino di purificazione e gli chiedono di rallentare affinché possa eventualmente riconoscere qualcuno tra loro, per riportare notizie ai cari in terra; comprendono con dispiacere il fatto che D. non si fermi[6] e gli fanno presente di essere stati uccisi tutti violentemente e di essere stati peccatori fino all’ultimo momento[7], aggiungono poi però, ed è questo il messaggio principale non solo del canto ma di tutta la cantica, che nel momento della conversione hanno anche perdonato i loro uccisori e si sono pacificati con Dio[8] (vv. 46-57).

  1. risponde alle anime con estrema gentilezza: egli non ne riconosce alcuna ma, in nome di quella pace che egli sta cercando (ossia la pacificazione con sé stesso, con gli altri e con Dio), si dispone ad esaudire le richieste che le anime desiderano muovere (vv. 57-63).

Una delle anime, che poi si rivelerà Jacopo del Cassero[9], afferma di non avere bisogno di giuramenti per rassicurarsi circa la volontà di D. di pregare per le anime, perché la sola impossibilità potrà troncare una tale volontà.

Aggiunge poi di essere la prima a parlare tra le anime e supplica D., se mai si dovesse recare nella Marca anconeta­na, di pregare per lei in Fano, così che le persone in grazia di Dio possano accomunarsi a tale preghiera e Jacopo riesca così a purgarsi i suoi gravi peccati (vv. 64-72).

Jacopo afferma di essere originario di Fano ma di essersi procurato altrove le sue profonde ferite da cui sgorgò il sangue ove l’anima sua ha sede[10]; precisamente nel grembo di Anteno­re[11], cioè nel padovano, là dove Jacopo si credeva al sicuro dalle vendette del marchese Azzo VIII (vv. 73-76); là questi lo fece uccidere perché lo aveva in odio più di quanto al Cassero interes­sasse perseguire la giustizia, cioè oltre il limite del giusto[12] (vv. 77-78).

Jacopo aggiunge che se fosse fuggito verso Mira[13], quando fu raggiunto dai sicari ad Oriago, forse sarebbe ancora vivo; ma al contrario decise di correre verso la palude dove si impigliò nelle canne e nel sangue e cadde; e lì si vide cadere in una pozza di sangue[14](vv. 79-84).

Subito un altro personaggio augura a D. di poter raggiungere la cima del Purgatorio ed in cambio chiede la sua preghiera, dal momento che sua moglie Giovanna ed i suoi cari[15] non pregano per lui, ed è per questo che triste cammina tra le anime a testa bassa (v. 85-90). Si tratta di Buonconte di Montefeltro[16] a cui D. chiede immedia­ta­mente notizie circa la sua fine e la sua sepoltura, dal momento che nessuno ne conosce il luogo[17] (vv. 85-93).

L’anima risponde che giunse a piedi[18] e macchiando di sangue la pianura a causa di un foro in gola là dove il fiume Archiano[19],  affluente di sinistra, si confonde con l’Arno[20]; qui perse la parola e la vista ma spirò con il nome di Maria sulle labbra ed in quel luogo rimasero soltanto le sue spoglie mortali, il peso inerte della carne (vv. 94-102).

Subito si accese una disputa tra il demonio e l’angelo di Dio che prese l’anima di Buonconte; il demonio non potendo utilizzare gli stessi argomenti che aveva utilizzato con Guido di Montefeltro[21], ricorre all’ironia (che è una forma di protesta) affermando che un’anima non può salvarsi per una lacrimetta[22]. Ma perduta l’anima al demonio non rimane che infierire sul corpo (vv. 103-108)[23].

Buonconte che si affida alla sapienza di Dante gli ricorda, sintetizzando la teoria aristotelica della pioggia, che nell’aria si condensa in nubi quel vapore acqueo che appena sale nell’atmo­sfe­ra ed incontra le correnti di aria fredda, diventa acqua.

Aggiunge che è potere e fu volere del demonio muovere appunto le nubi per scatenare una tempesta[24]: sopraggiunta la notte infatti Satana coprì di nebbia la valle del Pratomagno e rese l’aria così satura di umidità che si trasformò in tanta acqua che la terra non riuscì ad assorbire; e appena tale acqua confluì nei torrenti arrivò così velocemente in Arno che nulla poté trattenerla (vv. 109-123).

Così l’Archiano trovò il corpo gelato di Buonconte sulla foce e lo sospinse in Arno con una violenza che sciolse la croce che il montefeltrino aveva formato sul suo petto quando lo vinse il dolore dei propri peccati; il povero corpo fu voltato e rivoltato sulle rive e sul fondo del fiume e alla fine coperto di detriti[25] (vv. 124-129).

A questo punto della narrazione si fa sentire la voce di una terza anima che chiede a D. di ricordarsi di lei quando ritornerà nel mondo; dice di chiamarsi Pia[26], di essere nata a Siena e di essere morta in Maremma, come sa bene[27] colui che prima di sposarla l’aveva inanellata con una gemma (Pia si è cioè fidanzata e sposata nella stessa cerimonia) (vv. 130-136)[28].

[1] Ciò ci è già stato detto da D. con riferimento a V. ai vv. 29-30 del III canto (<<di retro a quel condotto/ che speranza mi dava e facea lume>>) nel momento in cui i due stanno risalendo la montagna del  Purgatorio con grande difficoltà.

 [2] Alcuni commentatori, ad esempio il Tommaseo, hanno ritenuto sproporzionata la reazione di V. per un piccolo rallentamento (ma forse proprio i piccoli rallentamenti sono i più pericolosi e comunque la vicinanza dei pigri richiedeva un intervento alto e vibrante). Forse D. si riferisce in particolare a coloro che criticavano il suo atteggiamento politico e morale che gli aveva precluso il suo ritorno in Firenze. Non c’è dubbio che V. esorta il discepolo non soltanto a non distrarsi dal suo dovere religioso (la conquista del libero arbitrio) ma anche da quello terreno, morale-poitico: una volta presa una decisione, bisogna agire, checché ne dica la gente.

[3] D. infatti può portare notizie nel mondo ed incitare i mortali a pregare per loro.

[4] La similitudine delle stelle cadenti e delle nuvole trapassate dai lampi – ripresa poiché la scienza medievale (v. Brunetto Latini, Tresor III)  riferiva i due fenomeni ad una stessa causa, all’accensione dei vapori – indica il grande entusiasmo delle due anime, nell’impeto di un promettente colloquio.

[5] Sussiste un forte contrasto, certamente voluto, tra il comportamento dei pigri e queste anime, desiderose di ottenere suffragi.

[6] Nelle anime c’è un’ansia e un accoramento rappresentato con energia; sentono di avere diritti da difendere sulla loro memoria, ma più di tutto chiedono di non essere abbandonati alla loro pena.

[7] E’ questo un anticipio sulla narrazione dei casi partico­lari che avverrà in seguito.

[8] Le anime sono pacificate con Dio, e quindi anche con gli uomini e con sé stesse. Il male che gli altri ci fanno potremo veramente perdonarlo solo quando saremo consapevoli del male e che ci viene perdonato.

[9] Nato nel 1260 fu valente uomo d’arme e saggio politico: occupò molte cariche. Fu podestà di Bologna nel 1296 e, per la sua fama, fu chiamato podestà a Milano negli ultimi anni del Duecento.

Durante il periodo bolognese si inimicò il marchese Azzo VIII d’Este (che D. pone nell’Inferno come parricida: If XII 110-112) che, con odio irriducibile, mentre il Cassero si stava recando a Milano, passando dal territorio di Padova, lo fece assassinare da alcuni sicari ad Oriago sulle rive del Brenta. La sua salma venne riportata a Fano e seppellita nella chiesa di San Domenico. La sua notorietà come uomo di governo discendeva anche da Martino, l’avo giurecon­sul­to autore di numerose pubblica­zioni di diritto, professore all’Univer­sità di Bologna, e poi domenicano. D. conobbe  Jacopo in Toscana, allorché questi fu messo a capo delle truppe fanesi, intervenute a favore di Firenze nella battaglia di Campaldino contro gli Aretini, e il canto infatti, nel proseguimento dell’epi­sodio di Buonconte, s’intrattiene sui particolari della stessa battaglia.

[10] Per i contemporanei di D. l’anima aveva sede nel sangue; e ciò in base ad un versetto del Levitico (VIII, 14): <<Anima omnis carnis in sanguine est>>.

[11] Dal momento che Antenore è considerato il prototipo dei traditori politici non si può escludere che D. pensasse ad una possibile connivenza tra Estensi e Padovani.

[12] L’uccisione di Jacopo del Cassero fu uno degli scandali del secolo; le offese recate ad Azzo VIII sono nella Cronica di fra Salimbene.

[13] Un borgo tra Oriago e Padova.

[14] Le due visioni che D. ci presenta raccontano di uno Jacopo che ha orrore del proprio sangue; stesso discorso D. propone nel canto XXXIII dell’Inferno con la figura del conte Ugolino. Ma mentre il conte è disperato per l’ingiustizia patita dai suoi figli, Jacopo ritiene che i suoi peccati fossero gravi, gravi le offese recate e che quindi l’ira del marchese fosse giustificata; come Manfredi Jacopo ammette i suoi peccati, anche se la vendetta era stata sproporzionata. Jacopo non è risentito contro i suoi uccisori, è stato odiato e D. si compiace di vederlo salvo, di farlo persuasore di mitezza; anche se un po’ lo “usa” per condanna­re gli Estensi, come fa in altri luoghi della Commedia ed anche in altre opere.

[15] La figlia Manetessa ed il fratello Federico, podestà di Arezzo.

[16] Il tema della guerra non è interrotto; Buonconte comandò l’esercito di Arezzo contro Firenze, e tra Poppi e Bibbiena, l’11 giugno el 1289, avvenne la battaglia di Campaldino. Per D., Buonconte è un avversario. Ha sofferto rievocando Jacopo, alleato di Firenze ed ora passa nel campo nemico. Vincitori e vinti, trascorsa la fatalità del momento, tutti chiedono, in ragione del Cristianesimo e dei diritti umani, la pietà. Buonconte, ghibellino, figlio di Guido (cfr. Inf. XXVII, 19-132) morì durante la battaglia di Campaldino, in cui gli Aretini ebbero 1700 morti e duemila prigionieri; c’è chi, tra i critici, sostiene addirittura che fu ucciso da Dante stesso ed è per questo che D. lo pone tra i salvi, per una sorta quasi di rimorso; in realtà D. vuole soltanto correggere gli errati giudizi umani sul conto delle vittime, colpite oltre nel corpo, nella memoria; D. assicura che la misericordia divina non abbandona l’uomo. Ed infatti mentre Guido da Montefeltro viene portato nel girone dei frodatori dal demonio e San Francesco non può far niente, qui, come vedremo, l’Angelo di Dio strappa l’anima di Buonconte al male.

[17] La difficoltà di ritrovare il corpo di Buonconte dipese dal fatto che non fu ferito a Campaldino.

[18] E fece più di cinque chilometri!

[19] Che nasce anche da un torrente che scorre sopra l’eremo di Camaldoli.

[20] A Bibbiena dopo aver attraversato la pianura casentinese.

 [21] Assolvere non si può chi non si pente, né ci si può pentire e volere il peccato insieme (Inf. XXVII 118-120).

 [22] Come nell’episodio di Manfredi D. vuol sottolineare che l’ultima parola spetta nel giudizio a Dio: gli uomini – anche il Papa – e lo stesso diavolo nulla possono contro la sua giustizia severa e misericordiosa.

[23] Ed è inutile l’odio infernale, proprio come è inutile l’odio umano quando non sia strumento della giustizia divina; e sarà inutile oltreché assurda se ricongiunta allo scopo, anche la furia degli elementi naturali, nel proseguio. Complesso e inutile l’odio, semplici e sicure la bontà e la pietà.

[24] D. ricorda che dopo la battaglia di Campaldino ci fu un temporale ma accetta il parere che fu anche di San Tommaso, che i diavoli hanno il potere di suscitare la tempesta.

[25] Buonconte aveva sin qui sempre parlato come anima, distinguendo da sé il corpo; improvvisamente però con esso si identifica nel momento in cui dice “voltommi” e “mi coperse e mi cinse”; l’accoramento di Buonconte per la cieca e spropositata crudeltà degli uomini è in queste parole decisamente più esplicito.

[26] Pia della famiglia dei Tolomei di Siena, sarebbe andata sposa a Nello dei Pannocchieschi, podestà di Volterra e di Lucca, e poi sarebbe satata uccisa in circostanze misteriose: forse dallo stesso marito che la punì per l’infedeltà o che voleva risposarsi con Margherita degli Aldobrandeschi, a suo tempo sposa del conte Umberto di Santa Fiora.

[27] Se Pia non fu colpevole di essere uccisa questi versi potrebbero essere intesi nel senso che neppure ella sa la ragione della sua morte: la conosce solo il marito che le aveva dato la fede, simbolo e pegno dell’altra fede, a cui ella non è mai venuta meno.

[28] Pia ha partecipato al suo tragico dramma ma in lei non c’è alcun dissidio da colmare; per questo al “disfecemi” non fa seguito la narrazione la cronaca della fine; tre versi sono dedicati allo sposalizio e tre versi alla preghiera. Pia non ha rancore né biasimo per colui che l’ha uccisa, sente solo la malinconia di ricordare che colui che ha posto fine alla sua vita era suo marito. Lo ama ancora e le dispiace che sia stato malvagio. Ma forse si può dire anche di più: c’è in Pia un affetto che manca sia a Jacopo che a Buonconte che pure si erano dimostrati cortesi con D. (il primo non chiedendo giuramenti ed il secondo con l’augurio della purificazione); c’è quella sollecitudine tutta femminile, materna, per le piccole cose della vita, per la quale gli uomini restano sempre e a qualunque età, dei bambini per le donne che li amano (Pia chiede di essere ricordato dopo che D. si sarà riposato: “e riposato de la lunga via”). E si noti anche la sua discrezione nel chiedere suffragi: Pia come Buonconte è una “dimenticata”, non ha che D. per sperare in qualche preghiera, ma così come non accusa nessuno di averla uccisa non accusa nessuno (come fa Buonconte) di averla dimenticata.

Guido Cavalcanti  

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S. Re- L. Simoni. L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001
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S. Guglielmino-H. Grosser. Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994
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A. Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento, Giuseppe Principato editore. Messina-Milano, 1937.

Nacque, tra il 1255 e il 1259, a Firenze, da famiglia di antica tradizione aristocratica che l’ambizione di primeggiare aveva spinto all’attività mercantile.

Il padre era quel Cavalcante che partecipò alla battaglia di Montaperti, l’“epicureo” che Dante incontra nel cerchio degli eretici insieme al capo ghibellino Farinata degli Uberti (Inferno, X). E la figlia di Farinata, Bice, dovette sposare più tardi il Cavalcanti, se il suo nome figurava accanto alla promessa sposa già dal 1267, in occasione di un riavvicinamento tra le due fazioni politiche.

 Guelfo di parte bianca, fu, nel 1280, fra i garanti della pace[1] del cardinale Latino, e quattro anni dopo venne eletto al Consiglio Generale del Comune, dove ebbe come colleghi Brunetto Latini e  Dino Compagni.

È nell’ambito di questa partecipazione che si colloca l’inizio della ostilità di Corso Donati verso il Cavalcanti, più volte sottolineata dal Compagni nella Cronica.

Ma è con gli Ordinamenti di giustizia di Giano della Bella (1293) che Cavalcanti, insieme a molti altri esponenti delle famiglie magnatizie, viene escluso dalle cariche pubbliche.

Dopo il 1295, sdegnandosi di iscriversi ad una delle Arti[2], si precluse ogni attività amministrativa, ma continuò a svolgere un ruolo primario nei contrasti politici di Firenze, avversando la fazione dei Neri e, con particolare tenacia appunto Corso Donati, che ne  era il capo.

Sui trentacinque anni, con decisione davvero sorprendente in un uomo come lui che attratto dalla filosofia averroistica, inclinava allo scetticismo in fatto religione, ed aveva anche irriso con alcuni versi la fede dei semplici, intraprese un pellegrinaggio a S. Jacopo di Compostella, in Galizia.

Non giunse al santuario, allora meta dei cavalieri penitenti, perché un improvviso malanno occorsogli a Nimes e il rancore per Corso Donati, che durante il viaggio aveva tentato di farlo assassinare, lo indussero a tornare a Firenze.

Qui, nel 1297, imbattutosi nel suo nemico che cavalcava con  alcuni seguaci, Guido, desideroso di vendicarsi <<lancio il dardo, il quale andò in vano» (D. Compagni).

Tre anni dopo, fu tra i protagonisti più attivi del tumulto cruento che, durante la festa di San Giovanni, scoppiò a Firenze, tra i Bianchi ed i Neri.

Per motivi di pubblica sicurezza, i Priori, fra i quali era anche Dante, inflissero  il bando dalla città ai più turbolenti capi delle due parti in lotta; e a Guido tocco il confino a Sarzana, una contrada della Lunigiana, allora infestata dalla malaria.

A distanza di un mese, revocato dalla nuova Signoria il bando ai Bianchi fuorusciti, poté tornare a Firenze. Consunto dalle febbri malariche, vi mori subito dopo, nell’agosto del 1300.

La personalità di Guido, almeno nei tratti della fierezza e della passionalità, si avverte già in questi dati della sua biografia; ma si precisa in più netto rilievo attraverso le testimonianze dei suoi contemporanei, numerose e tutte concordi nel riconoscerla singolare.

Da un poeta minore dello Stilnovismo, Guido Orlandi, il Cavalcanti ebbe versi di lode, nei quali si riflette 1’ammirazione che lo circondava, come uomo di armi e di lettere, nella società fiorentina del tempo[3].

«Cortese e ardito» lo definì Dino Compagni; e aggiunse che era «sdegnoso, solitario e intento allo studio».

Questo scrisse nella Cronica; ma più fervidamente lo aveva lodato in un sonetto,

come saggio, coltissimo e bene esperto «di varco e di schermaglia>>.

Benvenuto da Imola lo definì «uno degli occhi di Firenze», anticipando I’ apprezzamento del novelliere Franco Sacchetti, per il quale Guido «in Firenze forse suo pari non avea».

Filippo Villani vide nel nostro poeta un «uomo vertudioso in più cose, se non che era troppo altero e stizzoso».

Più tardi, il Boccaccio, che lo assunse a protagonista di una celebre novella del Decamerone, lo qualifico come «uno dei migliori loici [esperti di logica] che avesse il mondo, ed ottimo filosofo naturale… leggiadrissimo e costumato e parlante [eloquente] cavaliere molto».

A queste testimonianze si aggiunge, più d’ogni altra autorevole e significativa, quella di Dante, che negli anni giovanili dovette guardare a Guido come a maestro d’arte e di vita, se a lui dedico il libretto della Vita Nuova; e anche negli anni maturi lo citò con lode affettuosa, attribuendogli il primato della lingua, tolto «all’altro Guido».

Personaggio «di prima grandezza» fu dunque per i suoi contemporanei il Cavalcanti. E tale appare a noi, anche a spogliarlo di quegli aloni romantici che i biografi hanno via via diffuso sulla sua personalità.

Sotto il suo orgoglio solitario di pensatore laico[4] c’è chi avverte una moderna inquietudine conoscitiva; nella sua partecipazione tumultuosa alla vita politica si può cogliere una grande coerenza e nella varietà tonale della sua poesia si può trovare una certa complessità psicologica.

Complessa come la sua personalità e la poesia di Guido, tutta raccolta in un Canzoniere di una cinquantina di componimenti, fra canzoni, sonetti e ballate.

È poesia stilnovistica per alcuni motivi di origine guinizzelliana: l’amore come tensione suprema dell’anima gentile, 1’apparizione della donna in un’atmosfera di vibrante luminosità, il saluto di lei e gli effetti di gioia o d’angoscia che ne derivano all’uomo); e stilnovistica è pure per il rilievo che vi assume l‘indagine del poeta sul suo mondo interiore.

Ma nella maggiore e miglior parte del canzoniere di Guido quei temi son rivissuti nell’interno, reinventati da una sensibilità turbata e commossa, e quell’indagine introspettiva e drammatico impatto con una realtà oscura e dolente.

Non che manchino nel Canzoniere cavalcantiano i componimenti informati a franca spensieratezza nella figurazione della donna[5], ma più frequenti, e più ricche di interesse per noi, son le liriche che dicono il tremore dell’anima smarrita nella stretta della solitudine o sotto 1’incubo della morte.

Il poeta insiste nell’uso di parole come pianto, dolore, morte, paura, sbigottito, trema, ecc.; ma questo «lessico dell’angoscia» non e, come e parso a taluno, una scelta retorica finalizzata alla trattazione stilizzata (come per i poeti Siciliani) di un tema assunto con letterario distacco, bensì il naturale strumento espressivo di una profonda verità psicologica; e non ne coglie l’interiore vibrazione soltanto chi non ha orecchio alla voce della poesia.

Muovendo dalla propria esperienza esistenziale, oltre che dalla dottrina averroistica, Guido identifica 1’amore con una passione cieca e veemente che, avendo sede nell’anima sensitiva, non assurge alla sfera dell’intelletto e dunque non è, come ritenevano Guinizzelli e Dante, sollecitazione alla vita morale e iniziazione al Divino, ma tumulto che prostra ed angoscia nel presagio della morte.

Questa concezione, espressa con arduo, e non sempre limpido, procedimento filosofico e scientifico nella canzone-manifesto <<Donna mi prega>> è alla base di molte liriche del Cavalcanti, dove la donna non è angelo beatifico, ma terrena creatura dal cui fascino misterioso 1’uomo ricava fugaci attimi di gioia e lungo tormento.

E cosi Guido è il primo poeta della nostra letteratura che accosti all’amore la morte in un connubio che affascinerà la fantasia dei poeti del Romanticismo; la sua è un’anima passionale che però non si effonde con scompostezza ma si dispiega in forme stilistiche e ritmiche molto lavorate: il ritmo è musicale e le immagini sono lievi.

[1] Che doveva ricomporre i rapporti tra guelfi e ghibellini.

[2] L’iscrizione, che i1 «magnate» Guido considerava umiliante, era imposta dai nuovi Ordinamenti di Giustizia, di ispirazione democratica, come condizione all’accesso ai pubblici uffici.

[3] «Amico, saccio ben che sai limare / con punta lata maglia di coretto, / di palo in frasca come uccel volare, / con grande ingegno gir per loco stretto…».

[4] I contemporanei scambiarono per empietà epicurea codesta laicità.

[5] Sia essa Giovanna (Vanna), bella come la primavera e in se recante «li fiori e la verdura», o la gentile Mandetta, la tolosana, che Guido incontro durante il suo pellegrinaggio a S.  Jacopo, entrando «quietamente alla Dorada>>, o la bionda e rugiadosa pastorella vagheggiata e goduta su un luminoso sfondo boschivo.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Purgatorio – Canto III – Sintesi e commento

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Ci troviamo sempre sulla spiaggia dell’Antipurgatorio di cui il custode è Catone.

Il personaggio descritto nel canto è Manfredi.

I peccatori sono gli spiriti contumaci, che hanno come pena quella di rimanere nell’Antipurgatorio trenta volte il tempo che vissero nella scomunica.

Il tema principale è quello dell’apoteosi del perdono, ma anche quello della insufficienza della ragione umana, seppur insosti­tui­bile come guida dell’uomo, a penetrare i grandi misteri.

I poeti si affrettano verso il monte, D. sa che deve salire per purificarsi ma non può far a meno di stringersi a Virgilio che rappresenta la ragione, senza la quale non avrebbe potuto né intraprendere né continuare il cammino (vv. 1-6).

A D. sembra che V. sia contrito per essersi lasciato sviare dal canto di Casella, per aver abbandonato per un attimo la sua funzione di maestro e di guida; e nonostante che i rimproveri di Catone non riguardassero i due poeti, ma le anime, D. sottolinea che la contrizione è più forte, anche per un lieve peccato, laddove la coscienza è pura (vv. 6-9).

Quando V. rallenta il passo, ed il suo movimento si fa “decoro­so” (onesto, secondo gli insegnamenti del tempo), cioè riprende appieno la sua dignità dopo il “picciol fallo”, Dante abbandona il cruccio relativo al rimprovero di Catone ed il ricordo dell’a­mico Casella, e rinfranca­to si rivolge ad altro oggetto: indiriz­za lo sguardo verso il monte (vv. 9-15).

 I raggi del sole colpiscono il dorso di D. ed il poeta si turba nel vedere solo davanti a sé la terra oscurata dalla propria ombra; teme di essere stato abbandonato da Virgilio, perché non sa che il corpo aereo di V. non può fare ombra (vv. 16-21).

Virgilio lo conforta e gli chiede come mai abbia tanta paura di essere abbandonato; che sul suo corpo, ove in vita si proiettava l’ombra, è ora l’ora del tramonto[1] (vv. 22-27).

Poi V. aggiunge che se davanti a lui non c’è ombra D. non si deve meravigliare più di quanto si meraviglia nel vedere che i diversi strati dell’atmosfera fanno passare i raggi: i corpi dei purganti possiedono la stessa “materia”[2] dei cieli.

V. gli enuncia poi la natura misteriosa delle ombre, anche se a rigore, dopo l’episodio di Casella, non ce ne sarebbe bisogno: la Virtù divina ha disposto che, sebbene aerei, i corpi dei purganti sopportino tormenti, caldo e gelo, ma non vuole che i mortali sappiano come ciò avviene[3] (vv. 28-33).

È pazzo (o sciocco) colui che tenti di ripercorrere con la ragione la via infinita che segue Dio, uno e trino, cioè i misteri divini[4]: se la ragione fosse in grado di conoscere i misteri, non ci sarebbe stato bisogno che Cristo, seconda persona della Trinità, fosse nato da Maria per rivelarcela: l’uomo si deve accontentare di conoscere il quia, cioè che le cose sono[5] (vv. 37-39).

Non contano le capacità umane per raggiungere il mistero ed anzi chi è più dotato, più soffre nel constatare il suo desiderio e la sua impotenza; addirittura il desiderio di conoscenza, in quanto non appagato, è dato come pena mortale a coloro che dimorano nel Limbo (vv. 40-42)[6]: V. fa riferimento ad una tripartizione di delusi, Aristotele[7], Platone[8] e a molti altri (V. allude a sé stesso) e a questo punto china la fronte turbato e non proferi­sce più parola alcuna (vv. 43-45).

Giungono ai piedi del monte e si rendono conto che in quel punto è impossibile salire: il territorio tra Lerici e Nizza, allora senza strade e con scogliere impervie, è una scala acces­sibile e aperta, in confronto alla montagna del Purgatorio (vv. 46-51); si arrestano ed intanto V. medita il da farsi[9]: si chiede da che parte la montagna è meno ripida che possa salirvi chi non ha le ali (vv. 52-54).

Mentre V. riflette e D. guarda in alto, da sinistra giunge una schiera di anime che, colpite da scomunica, si pentirono in morte e quindi morirono senza essere riconciliate con la chiesa[10]; esse procedono in senso contrario a D. e V., lentissimamente[11] perché non hanno alcuna ragione di affrettarsi visto il tempo che devono rimanere sulla spiaggia (v. 55-60);

D. considera la prudenza di Virgilio come atto di incertezza e gli propone di chiedere quale sia il giusto cammino alle anime (vv. 61-62); V. con fare rassegnato (o rasserenato) propone a D. di andare verso coloro che si muovono lentamente e di rafforzare la sua speranza di aver consiglio da quelle anime (vv. 63-66);

V. e D. hanno fatto mille passi, ma le anime che costeggiano la parte più bassa del Purgatorio, sono ancora lontane un lancio di pietra; eppure si addossano alla roccia, l’una sull’altra, dubbiose e timorose (vv. 67-72)[12];

V. si rivolge a loro cercando di catturarne la benevolenza; chiede se possono indicare la strada per salire perché chi più sa, conosce il valore del tempo e non lo vuole sprecare (vv. 72-78).

Le anime sono paragonate ad un gregge di pecore, timide, semplici e quete[13] che, uscendo dall’ovile, seguono e si compor­tano come le prime di loro (<<della mandra fortunata[14]>>), senza sapere il perché; le prime della “mandria” infatti, appena si accorgono che il corpo di Dante, illuminato da sinistra, fa ombra verso la montagna, si ritraggono impaurite e coloro che le seguono fanno altrettanto, senza saperne la ragione (vv. 79-93).

V. spiega alle anime degne di salvezza che D. sta salendo la montagna per volere divino (perché solo il volere divino può consentire tale salita ad uomo mortale) ed esse gli mostrano col dorso delle mani la stessa direzione verso cui esse sono dirette ed aggiungono che i due poeti devono tornare indietro e camminare innanzi (vv. 94-102).

Qui si situa il colloquio con il re siciliano Manfredi, inse­pol­to[15], che racconta la storia della sua salvezza e prega D. che solleciti suffragio di preghiere dalla figlia Costanza.

Una delle anime, bionda, bella e  di gentile aspetto ma con una ferita che divide un ciglio[16], chiede infatti a D. di girarsi verso di lui e di meditare per vedere se lo riconosce. Ma D. dopo averlo fissato intensamente, gli dichia­ra di non averlo visto mai (103-108).

L’anima allora si rivela per re Manfredi[17], nipote di Co­stan­za imperatrice (e quindi re legittimo)[18] e prega il poeta, quando sarà torna­to nel mondo di annunciare alla figlia Costan­za[19] la sua salva­zione, anche se sulla terra si dice altrimenti (vv. 109-117).

Manfredi dichiara poi di essersi pentito in punto di morte[20], dopo essere stato colpito al ciglio ed al petto, e nonostante gli orrendi peccati, di essere stato perdonato da Dio nella sua infinita misericordia[21](vv. 118-123).

Ma i suoi avversari[22], non conoscendo la misericordia di Dio e l’inutilità dell’odio umano, hanno infierito sui suoi poveri resti, che, disseppelliti dal ponte di Benevento sul fiume Calore, dove Carlo d’Angiò li aveva posti sotto a delle pietre, vennero sparsi dal Cardinale di Cosenza, con una cerimonia religiosa, con i ceri spenti e capovolti  all’in­giù, al di là dei confini del regno, lungo il fiume Verde (nel Medioevo Liri, ora Garigliano) (vv. 124-132).

M. aggiunge che nonostante gli anatemi ecclesiastici[23] l’amor eterno è stato più forte: anche la scomunica ecclesiastica si paga, con un’attesa prima di cominciare l’espiazione, uguale a trenta volte il periodo vissuto in contumacia con la Chiesa, attesa che però si abbrevia se i vivi pregano (vv. 133-141).

D. dovrà rivelare a Costanza sia che Manfredi è salvo, sia che, nonostante il divieto di entrare in Purgatorio prima di un certo tempo, con la sua preghiera ella può abbreviare l’attesa nell’Antipurga­torio (vv. 142-145).

[1]  A Napoli dove la salma di Virgilio è stata trasportata da Brindisi, siamo infatti tra le 15 e le 18, in quanto l’Italia è a 45° rispetto a Gerusalemme.

[2] Nella concezione medioevale i cieli sono formati dalla quinta essenza che fa passare i raggi: le altre essenze sono la terra, il fuoco e l’aria e l’acqua.

[3] D. ritorna sulla natura delle ombre per invitare agli uomini ad accontentarsi di quelle che sono le cose senza volerne indagare il perché.

[4] Ed infatti lo stesso Manfredi che le gerarchie ecclesia­sti­che ritenevano dannato perché scomunicato, si è invece salva­to.

[5] E’ la dimostrazione a posteriori fondata, come nel caso del mistero trinitario, sull’autorità del Dio rivelante. Dagli effetti, se Dio ci aiuta, possiamo conoscere l’esistenza dell’Es­sere necessario.

[6] Si tratta della pena della saggezza filosofica senza fede, il “lutto” della ragione, la crisi sublime della civiltà antica.

[7] Che proponeva una filosofia dell’essere partendo dalla cognizione delle cose sensibili per arrivare all’idea metafisica.

[8] Che si fondava sulle idee reali sussistenti, ed esempla­ri, fuori dalla nostra mente, per arrivare alla spiegazione della vera scienza.

[9] L’incertezza rispecchia l’insufficienza della ragione a condurre alla salvezza.

[10] Esse devono stare nell’Antipurgatorio trenta volte il tempo che passarono in stato di scomunica. Mentre i ritardatari semplici stanno sulla Montagna sebbene al di fuori della porta del Purgato­rio, gli scomunicati sono confinati sulla spiaggia dell’isola del Purgatorio.

[11] La lentezza è sinonimo del ritardo nel pentimento.

[12] Vedendo i due poeti procedere nella direzione  opposta alla loro, fatto evidentemente insolito, e con passo assai più svelto e deciso, le anime si fermano perplesse, addossandosi allaroccia, <<come per dar libero passo>>, e stringendosi l’una all’altra.

[13] Gli scomunicati sono contenti perché in vita non hanno seguito le leggi di Dio ed hanno rifiutato la guida del Pastore che li ha espulsi, ma ora vi sono rientrate; ogni singolo è lieto di confondersi con tutti gli altri nella legge di Dio; vissero in guerra ed ora sono quete, furono superbi ed ora sono umili. Solo qui tuttavia il poeta guarda con benevolenza al comportamen­to delle pecore: nel Convivio le pecore sono coloro che di­sprezzano il volgare, seguendo ciecamente l’opinione altrui; mentre nel Paradiso (V, 80) sono pecore coloro che si comportano in modo leggero in materia di voti. Si tratta comunque di “pecore speciali” perché sono “pudica in faccia e ne l’andare onesta”, portamenti questi che sono degli uomini superiori e che D. come abbiamo già visto attribuisce a Virgilio (v. 10-11).

 [14] Gli scomunicati che si salvano, come D. tiene ad osserva­re, sono molti.

[15] Perché gli scomunicati non potevano essere sepolti in terra consacrata.

[16]Così viene descritto anche Rolando nella Chanson de Roland e Davide nella Bibbia.

[17]Insieme a Federico II è per D. l’ultimo grande principe italiano­ (De Vulgari Eloquentia I, XII 4), cortese e valoroso: essi furono i promotori della poesia in volgare. Figlio naturale appunto di Federico II e di Bianca Lancia di Monferrato, nacque intorno al 1232 e morì nel 1266 e fu sia antagonista dell’Impero che del Papa. Compiuti gli studi a Bologna e a Parigi, alla morte del padre (1250) divenne principe di Taranto e reggente del regno di Sicilia e dell’Italia meridio­nale, fino a che non giunse dalla Germania (1250), il figlio legittimo di Federico II, Corrado IV, già imperatore d’Italia e di Germania, per assumere la corona. Manfredi chiese quindi aiuto agli Aragonesi ed in particolare al futuro Pietro III d’Aragona cui concesse la Figlia Costanza. Morto Corrado IV (1254) lasciando la tutela del figlioletto Corradino al tedesco Bertoldo di Hohenburg, Manfredi tentò di ottenere il riconoscimento di Corradino (e con ciò della propria posizione) da papa Alessandro IV, ma di fronte all’ostilità del pontefice si ritirò a Lucera (1254) in modo da disporre del tesoro degli Svevi e delle fedeli truppe saracene e mosse una guerra di tre anni contro il legato pontificio riconquistando tutto il regno. Fatta diffondere ad arte la voce della morte di Corradino fu incoronato re di Napoli e di Sicilia a Palermo nel 1258. Il papa Innocenzo IV, tutore di Corradino, lo scomunicò e la lotta proseguì sotto gli altri due papi Ales­san­dro IV e Urbano IV che a loro volta lo scomunicarono, anche per la sua condotta immorale (fu infatti epicureo, miscredente e nemico della Chiesa, ma anche colto, appassionato di poesia e di scien­za). Per ampliare il suo dominio durante le discordie cittadine italiane, interven­ne a favore dei ghibellini di Toscana (rese possibile la sconfitta di Montaper­ti del 1260 ed anche l’esilio della casata degli Alaghieri) e nella Padania sbaragliò a Cassano d’Adda (1259) una lega di signori e comuni capeggiata da Ezzelino da Romano, signore di Treviso;  finché la sua politica non urtò con gli interessi della Chiesa (Roma era passata infatti dalla parte di Manfredi) con la politica angioina; a questo punto Urbano IV(1261-64), papa francese di nascita ed in seguito Clemente IV (1265-68), invitarono il fratello del re di Francia, Carlo d’Angiò (che D. salva in PG. VII, 113), ad occupa­re il regno di Manfredi. Carlo d’Angiò giunse a Roma con il finanziamento dei banchieri fiorentini e venne incoronato re di Napoli il 28 febbraio 1265. Manfre­di fu costret­to a guerra difensiva ed accettò battaglia presso Benevento, nella pianura di S. Maria di Grandella il 26 febbraio 1266. I soldati saraceni e alemannni di Manfredi furono sgominati e Manfredi morì con le armi in pugno. Il suo cadavere fu ricoperto con un cumulo di pietre, fu disse­polto per ordine del Vescovo di Cosenza ed i resti furono sparsi oltre il fiume Liri.

[18] Si tratta di Costanza figlia di Ruggiero d’Altavilla re di Sicilia e di Beatrice  dei conti di Rhetel, ultima dei Norman­ni in Sicilia (nasce nel 1146 e muore nel 1198); dopo essere stata suora fino a trent’anni divenne moglie di Arrigo VI (figlio di Federigo Barbarossa) nel 1186 e madre di Federico II; D. la glorifi­ca nel cielo della Luna del Paradiso insieme a Piccarda Donati. D. non cita quest’ultimo perché è un eretico e quindi danna­to.

­[19] Moglie di Pietro III d’Aragona e madre di Alfonso re di Aragona, Giacomo di Sicilia e Federico re di Aragona (succede ad Alfonso), visse fino al 1302.

 [20] Su questo ci sono diverse leggende nel Duecento, ad esempio la storia narrata da Fra Jacopo d’Acqui nell’Imago Mundi, in cui un ossesso riferisce le ultime parole del re svevo: “Deus propitius esto mihi peccatori”; forse D. conosceva un libro sulla vita di Aristotele (Liber de pomo sive de Morte Aristotelis) per cui M. aveva scritto nella prefazione che per raggiungere la perfezione l’uomo non deve contare sulla giustizia terrena, ma solo sulla misericordia divina, oppure D. si rifece alle ammis­sioni degli stessi cronisti guelfi o al fatto che lo stesso Federico II si era convertito in punto di morte.

 [21] L’immagine sembra tratta dalla parabola del Figliol prodigo o dai crocifissi trecenteschi; M. ha a sua volta perdona­to i suoi nemici.

[22]Il cardinale Bartolomeo Pignatelli, arcivescovo di Cosenza (1254-1266) aveva trattato con papa Clemente IV e Carlo d’Angiò per la spedizione contro Manfredi. Ora come un cacciatore viene incitato dal pontefice a porre in esecuzione le norme di diritto canonico che negavano agli scomunicati la sepoltura.

[23]Con la bolla del 1259 M. fu scomunicato per l’assassinio di Borello d’Anglona, la violazione di fedeltà alla Chiesa, l’alleanza con i saraceni, per aver osato essersi fatto incorona­re re di Sicilia, per aver invaso la Marca Anconitana.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Purgatorio – Canto II – Sintesi e commento

ponte vecchio

Siamo sempre sulla spiaggia dell’Antipurgatorio di cui il custode è Catone.

I personaggi descritti nel canto sono due: l’Angelo nocchiero e Casella.

Il tema principale del canto riguarda lo stato d’animo sospeso ed incerto nella ricerca della nuova via verso la salvezza.

La luce del sole[1] è di nuovo protagoni­sta del Canto con due descrizioni (vv. 1-9; vv. 55-57); D. nel Purgatorio vedrà sorgere il sole per ben quattro volte prima di arrivare alla cima: la prima descrizione occupa ben tre terzine ed è molto elaborata; noi dobbiamo gustarla semplice­mente come una raffinatez­za lette­raria[2].

Sono circa le sei del mattino all’epoca dell’equino­zio di primavera (21 marzo), sorge il sole all’orizzon­te del Purgatorio mentre sta tramontando a Gerusalemme.

Tra i due luoghi corrono quindi 12 ore (180° di longitudine); gli altri due punti estremi della terra sono Le colonne d’Ercole (Cadice) ed il fiume Gange che sono equidistanti da Gerusalemme, cioè a 90°da essa.

Già nell’Inferno Virgilio ha spiegato il rapporto tra le tenebre e la luce nei due emisferi (c. XXXIV vv. 112-115; E se’ or sotto l’emisperio giunto/ ch’è opposito a quel che la gran secca/coverchia, e sotto il cui colmo consunto/fu l’uom che nacque e visse senza pecca: e ora sei giunto sotto l’emisfero astrale/ che è opposto a quello che copre la terra emersa, e sotto il cui punto più elevato, Gerusalemme, fu ucciso Gesù Cristo, l’uomo che visse e nacque senza peccato).

Gerusalemme si trova nel centro del nostro emisfero (perché è luogo dell’uma­na redenzione) ed è antipode al Paradiso terrestre (luogo della colpa dei nostri progenitori).

Il poeta spiega che il sole era giunto all’orizzonte[3], il cui cerchio meridiano era allo zenith di Gerusalemme (cioè a Cadice dove è mezzogiorno), mentre la notte, che per la volta celeste segue un cammino opposto al sole (che è nella costellazione dell’Ariete al tempo dell’Equi­nozio di primavera) usciva fuori dal fiume Gange (nella zona delle Indie orienta­li, dove è allo zenit, cioè è mezzanotte) insieme con la costella­zione della Libra che prende la figura dal segno delle Bilance, la quale cessa di accompagnarla (le bilance cadono di mano dalla notte) nell’equi­nozio di autunno, quando diviene più lunga della durata del giorno (cioè entra il sole nella costellazione della bilancia) (vv. 1-6) in altre parole il sole stava tramontando su Gerusalemme e sorgendo nel Purgatorio[4].

Il colore dell’au­rora, prima bianco e poi rosso, con il sorgere del sole è paragonato da D. a quello giallo-arancio delle guance di ex bella donna invecchiata, mentre i due poeti pensano al loro cammino (vv. 7-12)[5].

Ed ecco apparire improvvisamente una luce sul mare: giunge da un angelo nocchiero dal volto rosso[6] e dalle ali bianche[7].

Dopo un attimo di smarrimento Virgilio spiega a D. che si tratta dell’ange­lo di Dio, lo invita a inginocchiarsi ed a pregare (come era già avvenuto con Catone nel primo Canto), aggiunge che da quel momento in poi i ministri di Dio che D. vedrà avranno le sembianze di quell’angelo; V. conclude afferman­do che l’angelo non ha bisogno dei mezzi umani per condurre la navicella affidatagli in quanto gli sono bastanti le sue <<etter­ne penne>>. D. non può sostenere la vista dell’Angelo che si avvicina e china lo sguardo (vv. 13-39).

L’angelo si trova su una piccola barca (<<vasello snelletto e leggero>> perché ripieno di soli spiriti) con le anime dei penitenti[8] che cantano tutti insieme[9] un salmo celebran­te l’u­sci­ta degli Ebrei dalla schiavitù d’Egitto[10] (vv. 40-48).

Dopo un segno di croce dell’angelo[11] le anime discendo­no sulla spiaggia e l’angelo torna indietro (vv. 49-52).

Le anime sembrano smarrite e chiedono ai poeti la strada per salire alla montagna; Virgilio risponde alle anime che anche loro non sono pratici perché in realtà sono forestieri che vengono da una via <<sì aspra e forte>>, cioè dall’Inferno (vv. 53-66; cfr. Inf. I, 5: così è detto della selva oscura).

Appena si rendono conto dal respiro che D. è vivo, le anime si spaventano ed impallidiscono, ma poi si addensano intorno al poeta, come a <<un messaggier che porta ulivo>> cioè ad una persona che porta pace.

Una delle anime addirittura cerca di abbracciarlo e D. a sua volta tenta inutilmente tre volte di ricambiarlo[12] (vv. 67-81).

D. si meraviglia, l’anima sorride e D. la segue; appena l’anima si mette soavememte a parlare D. la riconosce e la prega di fermarsi: è l’amico Casella[13] che conferma a D. il suo amore anche dopo la morte e gli richiede le ragioni del suo viaggio. D. risponde che compie quel cammino in modo tale da tornare un’altra volta, dopo la morte, in Purgatorio; a sua volta D. richiede a Casella perché, nonostante sia morto da tanto tempo, arrivi soltanto ora in Purgatorio (vv. 82-93).

Casella replica di non aver subito alcun torto perché l’angelo nocchiero che fino ad allora gli ha rifiutato il passaggio, mette soltanto in pratica la volontà divina; aggiunge poi che, in ogni caso, da tre mesi possono salire sulla barca tutte le anime che lo desiderano[14].

Perciò Casella che allora volgeva lo sguardo al mare, dove l’acqua del Tevere diventa salata, benevolmente fu accolto dal nocchiero; il che si è verificato perché le anime che non scendo­no nell’Infer­no si raccolgono alle foci del Tevere (vv. 94-105).

Casella, che riporta D. ai ricordi terreni, intona con grande dolcezza e su richiesta del poeta la canzone del Convivio Amor che nella mente mi ragiona[1]; la dolcezza del canto risuona ancora, al tempo della narrazione, nell’anima del poeta (vv. 106-114).

Tutti, compreso Virgilio, dimenticano ogni altra cosa; soprag­giunge allora Catone (<<vecchio onesto>>) che rampogna le anime dell’indugio, le invita a spogliarsi della scorza che non permet­te di vedere Dio, e le fa correre verso il monte come <<colombi adunati a la pastura>> che <<lasciano star l’esca perch’assaliti son da maggior cura>>. D. e Virgilio si comportano velocemente nello stesso modo (vv. 115-133).

COMMENTO

 D. in questo canto recupera la Firenze, domestica e familiare, della sua gioventù; di questa città son parte i maestri e gli amici; il primo degli amici ricordati nel Purgato­rio è Casella.

Incontrerà poi Belacqua (canto IV), il giudice Nino (canto VIII), il Guinizzelli (conto XXVI), Sordello (canto VI) e Stazio (canto XXVI).

In tutti questi episodi vi sono degli elementi comuni: un moto di reciproco affetto ed il ritardo del riconosci­mento. Mentre nei successivi episodi a quello del presente canto il ritardo è giustificabile, non si può dire altrettanto per l’incon­tro con Casella, trattandosi di un amico morto da poco; ma ciò gli serve per porre l’accento sulla soavità della sua voce, da cui appunto, D. lo riconosce.

Altri elementi in comune riguardano il bisogno di stare insieme il più a lungo possibile e la necessità di conoscere l’uno la condizione dell’altro e infine il riprendere per un momento le consuetudini d’un tempo (la musica, appunto, con Casella).

In questo canto D. celebra la potenza della musica (solo qui profana) che per lui sia nel Purgatorio che nel Paradiso, è sempre definita <<dolce>>; ma qui poesia dolce significa anche <<dolce stil novo>>; così come è dolce e soave la voce di Casel­la, dolce e soave è il nuovo stile di cantare l’amore, lo stesso cantare amore suona dolce (come dice D. nella canzone che fa intonare a Casella); e nell’incontro con Guinizzelli D. ci dirà: <<Padre/ mio e de li altri miglior che mai/ rime d’amor usar dolci e leggiadre>>.

Ma come mai D. fa intonare a Casella una canzone dottrinale che in quanto tale, non andava musicata? forse perché originariamente anche le canzoni dottrinali (cioè da interpretare allegoricamen­te) erano in realtà canzoni d’amore spiritualizzato (D. chiede a Casella infatti di intonare un amoroso canto). Casella probabil­mente quando musicava e componeva per D. non sapeva che il poeta avesse un’intenzione allegorica e comunque l’allegorizzazione è posteriore alla morte di Casella.

Un po’ in tutta la cantica D. cerca di recuperare il dolce stil novo anche se ormai lo vede in maniera diversa e la più perfetta reinterpretazione ce la fornirà con il canto XXXIV: il giovane amore-passione diventa amore-virtù; la reinterpretazione trionfa in Beatrice, creatura terrena e celeste.


[1] Il Purgatorio che è regno dell’attesa e quindi si apre con il mattino, mentre l’Inferno che è il regno delle tenebre principia con la notte, e il Paradiso, regno della luce, inizia col pieno meriggio.

[2]  Molti critici hanno ritenuto che tanta elaborazione non fosse necessaria: in realtà essa nasce dal bisogno di D. di fornire nelle prime due cantiche riferimenti temporali, arric­chendoli in vari modi. D. in particolare usa la mitologia (e Aurora è personi­fi­cata anche nel Canto IX vv. 1-3) per innalzare la materia oppure l’a­stronomia sia per dare valenza universale al suo viaggio sia per concretizza­re il suo canto.

[3] L’orizzonte astronomico di un luogo è determinato dal suo meridiano, cioè dall’arco il cui zenit lo sovrasta perpendico­lar­mente.

[4]  Quando in sostanza a Cadice il sole è allo Zenit (mezzo­giorno) a Gerusalemme sono le sei di sera ed il sole tramonta, mentre nel fiume Gange è mezzanotte e nel Purgatorio sono le sei del mattino ed il sole nasce.

[5] I versi 9-12 richiamano i versi 118-120 del I canto: col che si evince che questo canto è la ripresa e lo sviluppo senti­men­tale e narrativo del precedente.

[6] Come nelle raffigurazioni bizantine.

[7] Angelo che è da contrapporre al Caronte infernale ed è visto dapprima come un piccolo lume rosso che assomiglia a Marte anche per dimensioni e poi, piano, come qualcosa di bianco che si palesa in ali dritte come nelle raffigurazioni iconogra­fi­che del tempo – che servono da vele alla navicella.

[8] Che si raccolgono alle foci del Tevere e che sono desti­nate al purgato­rio: cfr. vv. 100-105.

[9] Da rimarcare è questa unità poiché nell’Inferno al contrario del Purgatorio le voci sono discordanti in quanto i dannati si odiano.

[10] Che va interpre­tato nel senso morale come l’uscita dell’ani­ma dal peccato (v. anche Cv II I 6-7, Ep. XIII 21, Par. XXV, 35-36): così come D. ascende il monte verso la libertà dal peccato, gli Ebrei vanno cantando verso la libertà della terra promessa. Questo salmo nella liturgia cattolica si cantava nell’accompagnamento del defunto al cimitero per indicare la sua liberazione dai vincoli terreni.

[11] Che è solo uno strumento di Dio e quindi non si cura di D. è Virgilio; assomiglia all’angelo mandato in soccorso da Dio per aprire le porte di Dite. In questa occasione ricorda alle anime che stanno per purificarsi l’opera di redenzione e di misericordia.

[12] Cfr. Aen. VI 700-701: si tratta dell’incontro tra Anchise ed Enea. Fuorché nell’apparenza le anime sono inconsistenti, in quanto il loro corpo visibile è aereo (cfr. Purg. XXV 79 e ss.). In sostanza D. fa applicazione in questo passo della seguente teoria: al sopraggiungere della morte la potenza vegetativa e sensitiva dell’anima, poiché il corpo è dissolto, non hanno come manifestarsi nelle membra, e perciò rientrano nella virtù informa­tiva, in quella vita che avevano potenzialmente nel seme umano. Con la morte la stessa virtù informativa rientra in azione e raggia intorno un corpo aereo, un corpo che si ricostituisce, come alla sua origine, con la facoltà vegetativa e sensitiva, capace di provare le medesime sensazioni terrene.

[13] Casella fu musico e cantore fiorentino morto poco prima della primavera del 1300. Anche D. si dilettò di musica sia come suonatore sia come compositore: ce lo rivela Giovanni Boccaccio.

[14] Dall’inizio del Giubileo (l’indulgenza del centesimo anno) bandito da Bonifacio VIII nel Natale del 1299 con la bolla Antiquorum habet, l’angelo accoglie senza difficoltà le anime che usufruendo dell’indulgenza possono essere accolte in Purgatorio. Anche Virgilio (Aen VI) immagina un’attesa delle anime prima di passare l’Acheronte; così D. ideò una specie di pre-purgatorio situato alle foci del Tevere, dove le anime potevano lucrare l’indulgenza giubilare. Si disputava in quel tempo sull’applica­bi­lità delle indulgenze ai defunti. D. seguì la sentenza afferma­tiva di S. Tommaso e S. Bonaventura, convalidando in senso figurativo la stessa e quindi immaginando che le anime si trat­tengano ancora in terra (dove l’acqua di Tevero si insala), dove poteva quindi sicuramente estendersi la giurisdizione ecclesia­stica.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Purgatorio – Canto I – Sintesi e commento

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CANTO I

BREVE RIASSUNTO

L’azione si svolge sulla spiaggia dell’Antipurgatorio di cui è custode Catone che è anche il personaggio descritto nel canto.

Il tema principale del canto: l’ansia di D. della Libertà morale (Catone è il custode di detta libertà).

COMMENTO

Questo primo canto è volutamente contrapposto al primo canto dell’Inferno perché la bellezza del paesaggio che tempera il primo incontro di D. con la fiera, svanisce poi nel secondo incontro; qui invece la serenità del paesaggio si mantiene.

Il paesaggio non è poi come nell’Inferno solo un simbolo, è reale; il canto ha un tono religioso, si compone di riti, ma, attraverso il paesaggio, ci vuol dare anche uno spaccato della nuova condizione psicologica di D. che ha lasciato la tenebra dell’Inferno.

Ma ecco che D. incontra Catone (l’ispirazione è virgiliana, ciceroniana, ma soprattutto lucana), illuminato dalle quattro stelle (virtù cardinali).

Ha raggiunto cioè il massimo di perfe­zio­ne morale conseguibile antecedente­mente alla rivelazione, anche se si è suicidato (in taluni casi Dio ispira il suicidio per essere di esempio agli uomini, diranno Tommaso e Agostino) perché lo ha fatto non per motivi egoistici e personali, seguendo la morale stoica[1].

Catone è un austero sacerdote della liturgica iniziazione di Dante al nuovo clima morale, ministro del primo rito ascetico: un che di mezzo, di non perfettamente saldato tra l’eroe repubblicano e il custode d’un regno cristiano, investito di compiti appena d’un poco inferiori a quelli che saranno assunti, nel corso del vero e proprio Purgatorio, dagli angeli: spia, dunque, prova di quel tentato e non completo sincretismo tra mondo classico e Cristianesimo che fu dell’età di Dante, e del nostro poeta in particolare; esemplare storico di altezza morale, di spregio della vita, di fedeltà inconcussa alla libertà, ma con significazioni spirituali che il personaggio reale, lo stoico, non può tutti contenere o esprimere, e anche con aporie sul piano storico se il custode dell’Antipurgatorio era stato l’avversario di Cesare, cioè di colui che fu per Dante il fondatore dell’Impero, anzi il primo degli imperatori.

Si può dedurre che la funzione di Catone si svolga tutta su di un piano morale, non storico-politico, in quanto primo avvertitore dell’imminenza della Rivelazione: per essersi rifiutato d’interrogare l’oracolo pagano, giacché l’unica voce che va ascoltata è quella della coscienza morale, ove è presente e opera il vero Dio.

L’austerità della scelta di Catone lo pone al di sopra d’ogni condanna, ma anche al di qua d’una vera e propria salvezza (quale sarà quella di Stazio, di Traiano, di Rifeo): egli non può varcare la soglia del Purgatorio, e anzi non può nemmeno muoversi dalle propinquità della spiaggia della montagna: accoglie, non guida; inizia, non reca a soluzione il processo catartico; simboleggia la magnanimità dell’uomo libero, non l’opposizione al compito provvidenziale dell’Impero; precede storicamente la costituzione dell’Impero, e quindi non può essere considerato uno strumento che ne ritarda la nascita e gli effetti voluti da Dio, e all’intelletto dell’esule e libero cittadino fiorentino Dante Alighieri rappresenta il cittadino dell’antica Roma che resta fedele sino all’ultimo al sentimento di patria e non agisce per la divisione degli animi, ma contro le lotte fratricide della guerra civile.

In analogia a quanto trova scritto nella Pharsalia (“Victrix causa deis placuit, sed victa Catoni“), Dante reinterpreta, reinventa il personaggio storico in forza d’un altissimo principio morale, che lo pone, nel dialogo con Virgilio (Purg., I, 40-108), in uno stato superiore anche al grande poeta di Roma, il quale gli si rivolge con reverenza, con ammirazione, persino con accattivante umiltà: segno che, nonostante la funzione di Virgilio nel viaggio di Dante sia superiore a quella di Catone, la collocazione di questi è superiore a quella d’un malinconico abitante del Limbo, d’uno che è sospeso, mentre Catone guida i primi passi dell’anima cristiana, è ministro d’un culto sacramentale.

Tuttavia (e il dialogo con Virgilio lo comprova) Catone vive in stato di perpetua solitudine: ammonisce, rimbrotta anzi aspramente, inizia la liturgia, ma non gode dei doni che pur elargisce con la sua parola eloquente, con i suoi atti sacerdotali.

Resta un magnanimo senza un futuro, almeno presumibile, il magnanimo, ha scritto il Paratore, “fra tutti i magnanimi della Commedia in una rappresentazione più nuda e più severa di ogni altra sua”, un ideale morale assoluto per Dante, non condannato perché la sua altezza di concezioni è tale che, se tutti i cittadini romani fossero stati come lui, l’umanità avrebbe da sola conquistata quella pace, acquisito quel senso della giustizia, mancando il quale si rese necessaria da parte di Dio l’istituzione della potestà imperiale.

Secondo alcuno rassomiglia anche un po’ a Farinata per la gravezza e la statuarie­tà, imperturba­bi­le e magnanimo come tutti gli stoici ma nello stesso tempo umile; ed è  un po’ patriarca biblico (assomiglia al San Bernardo del Paradiso; nel Convivio lo aveva già avvicinato a San Paolo).

La sua dirittura morale, che non lascia spazio al compromesso, si vedrà anche nel secondo canto ove C. rimprovererà D. e V. di essersi abbandonati alle lusinghe della musica di Casella.

C. rappresenta l’uomo che è destinato al soprannaturale e all’eterno: senza la libertà morale ch’egli ha ricercato con amore (vv. Monarchia e Convivio), cioè senza il pieno dominio di sè, non c’è per l’uomo possibili­tà di vita e di salvezza.

C. sa di non essere nato per sé stesso ma per il mondo e partecipa ad una guerra civile (per cui ha già indossato il lutto) senza speranza, per difendere libertà e giustizia (l’osse­quio alle leggi che Cesare aveva calpestato è la più grande forma di libertà).

Proemio al Purgatorio

D. enuncia l’indicazione dell’argomento (vv. 1-6; proposizione) ed invoca le Muse e in particolare Calliope perché accompagnino il suo canto con quel suono con cui vinsero le figlie di Pierio[2] (vv. 7-12).

D. contempla l’alba e le quattro stelle del polo antartico, simbolo delle virtù cardinali (Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza): uscito dalle tenebre infernali, gode della purezza dell’aria serena e guarda con piacere la volta illuminata dalle stelle; dopo aver guardato Venere che copre col suo splen­dore la costellazione dei pesci (nel 1300 V. era vespertina e non mattutina come D. pretende) è colpito dallo splendore di quattro stelle, che non furon viste mai se non da Adamo ed Eva, e com­piange il nostro emisfero perché privo della loro bellezza (vv. 13-27).

Colloquio tra Catone e Virgilio (vv. 28-84)

Catone, esaltato già da D. nel Convivio e nella Monarchia come il più santo degli eroi (il più degno di significare Iddio), è il custode (vv. anche Seneca nel proemio delle Controversiae) della montagna[3].

D. allontanato lo sguardo dalle quattro stelle vede un vecchio dall’aspetto venerando su cui si riflette la luce degli astri.

È Catone che si rivolge a D. e V. con tono sdegnato, credendoli dannati fuggiti dall’Inferno. Virgilio, fatto inginoc­chiare D., spiega a C. le ragioni del viaggio[4] e gli chiede, anche a nome della sua Marzia, il permesso di visitare il regno a lui sottoposto.

Il rito della purificazione (vv. 85-136)

Catone rievoca il suo amore per Marzia, acconsen­te al passaggio e indica il rito della purifica­zione: ordina a Virgilio di lavare il viso di D. per detergerlo dalle tracce dell’Inferno e di cingere i suoi fianchi con uno dei giunchi (che si piegano assecondando la “purificazione”) che nascono verso la spiaggia (vv. 85-108).

Virgilio e Dante, che solo adesso si alza in piedi, eseguono il comando, simbolo di purifica­zio­ne ed umiltà, lungo la spiaggia del Purgatorio: V. bagna il volto di D. e cinge i suoi fianchi con un giunco che appena strappato rinasce (simbolo della rinascita spirituale di D.) (vv.109-136).


[1] L’etica stoica si fonda sul principio che l’uomo è partecipe della ragione universale e portatore di una scintilla del fuoco eterno. La virtù consiste nel vivere con «coerenza» (homologia), scegliendo sempre ciò che è «conveniente» alla propria natura di essere razionale. Nello stato di assenza delle passioni (apatia) quello che poteva apparire come male e dolore si palesa come un punto positivo e necessario del disegno della provvidenza universale.

[2] In questi versi si esprime l’opera nefanda delle religioni errate, che distorsero la “melodia” della Divina Verità, che le muse, ovvero “le Sante”, nella loro vita terrena, portarono al mondo. Ed ecco il canto gracchiante delle “piche” le gazze, il canto della negazione, che condusse gli uomini a rinnegare, lungo i sentieri errati, la vera melodia del Verbo Divino: il “Divin Suono”.
Non è da escludere che, nel concetto dantesco, possa intendersi come espiazione di tale peccato anche quello di rinascere in corpo di gazze.

[3] Marco Porcio Catone (95-46 a.C.) è il simbolo della fedeltà alla libertà morale, mantenuta a costo della vita (Soprannominato l’Uticense, uomo politico romano, pronipote di Catone il Vecchio. Sostenitore di Cicerone contro Catilina, fu il più autorevole rappresentante dell’opposizione del senato al primo triumvirato. Allo scoppiare della guerra civile, si schierò a fianco di Pompeo, seguendolo in Oriente. Dopo Farsalo continuò la guerra in Africa, ma, assediato in Utica, si  uccise per non sopravvivere alla caduta della repubbli­ca); perciò è posto qui dove le anime, attraverso l’espiazione materiale e spirituale, si vanno conquistando la libertà dello spirito.

[4]  È necessario perché D., così vicino alla morte spiritua­le, riacquisti il corretto esercizio del libero arbitrio.

Il Purgatorio, Dante e la Giustizia (di Giorgio Drei)

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L’interpretazione del Purgatorio di Le Goff, come affermazione della classe borghese è piuttosto, se rivista nella giusta prospettiva storica e funzionale dell’organizzazione sociale, il tentativo di intercettare e captare una fonte di approvvigionamento ed al contempo la necessità di imbrigliare e controllare un fattore di squilibrio sociale che la borghesia, apparentemente novella entità sociale, rappresentava.
Ma facciamo un passo indietro. I cambiamenti climatici che hanno fatto seguito alla fine dell’ultima glaciazione determinano un cambiamento sostanziale, seppur non radicale, nell’organizzazione sociale. Da una conduzione di vita nomade derivante dalla fruibilità di risorse quali caccia e raccolta si passa gradualmente e con alterne vicende ad una vita stanziale basata sull’agricoltura e l’allevamento.
Con la stanzialità nascono le specializzazioni e le distinzioni di ruolo portano alle distinzioni di caste. Cosa spingesse queste comunità al cambio dello stile di vita è ancora questione dibattuta. Come giustamente osservava Lewis Binford è un controsenso che qualcuno voglia passare da una vita rilassata e di socializzazione in cui bastano due ore al giorno per procurarsi il necessario per vivere ad una vita logorante come quella legata all’agricoltura.
La spiegazione è con tutta probabilità proprio nella errata chiave di lettura. Non fu un passaggio volontario ma una coercizione e chi operò tale cooptazione è facilmente identificabile mediante la logica del “cui prodest”. Da una agricoltura stagionale alternata a caccia e pastorizia si passa ad una forma stabile accompagnandosi con le prime forme di contabilità e gestione dei magazzini. Queste a loro volta portarono ad una transizione dalle “bullae” alle tabulae e con esse alla scrittura.
In parallelo si passa dalla pietra ai metalli ma come ben sappiamo, il vero strumento di potere, più che l’acciaio delle spade, è lo stilo dello scriba. Si distingue una casta sacerdotale da una casta di guerrieri. Ma si dimentica spesso e volentieri che le due caste non sono che l’espressione di una unica casta dominante, a volte divergente ed a volte coincidente. Come durante il medioevo europeo si incontrano vescovi e conti nonché vescovi-conti così già nelle prime comunità della mezzaluna fertile in epoca pre-sumerica si incontra la stessa configurazione sociale.
Il ruolo dei condottieri d’armi è non solo difensivo o di espansione territoriale ma anche di amministrazione ingegneristica del territorio. Competenza specifica dei re è la creazione e manutenzione dei canali irrigui, delle mura di cinta e dei palazzi della casta sacerdotale. La casta sacerdotale facendo tramite con le divinità protettrici della città eleggono, autorizzano e giustificano il potere di controllo e gestione del re. Le derrate raccolte vengono amministrate e distribuite alla classe produttrice dalla casta sacerdotale e così facendo l’anello si chiude in perfetta armonia. Si fa per dire.
Ma già allora esiste una casta che si dedica al commercio che si interdigita e sfugge al controllo di una sola città, gode di privilegi e di indulgenze, paga la protezione e mediante l’introduzione di bullae e lettere di credito termina con i metalli preziosi ad accumulare ricchezze potenzialmente in grado di sovrastare i beni materiali controllati dalla classe guerriera-ecclesiastica.
Esemplare è la vicenda di Sargon, che passò da semplice mescitore di vino del re a ciò che potrebbe essere definito il primo imperatore della storia. Figura emblematica quella di Sargon, che per certi versi ci richiama alla memoria quelle di altri uomini di svolta. Spodestato il regnante per diritto divino lancia una campagna di disinformazione con la quale giustifica se stesso e la sua progenie quale reale ed onesta emanazione del dio Enlil. L’accusa è di alto tradimento a carico dei suoi predecessori, rei di aver accumulato ricchezze in metalli preziosi. Sargon, giunto al governo lancia in parallelo una serie di riforme accompagnata da una indulgenza plenaria. Vi suona familiare?
Si tratta della prima commercializzazione delle indulgenze della storia, seguita da innumerevoli altre e tuttora commemorata ogni 50 anni a Roma. Indulgenza che fu nel XVI secolo causa di una scissione nella casta sacerdotale con notevoli ripercussione nei secoli anche sulle classi produttrici. Quando il sistema tripolare (clero-cavalieri-produttori) si sbilancia a causa di un fattore perturbante introdotto da un convogliatore di risorse quale la ricchezza fittizia catalizzata dal denaro (borghesia-banchieri) si registrano disperati tentativi di controllo da un lato e efficaci meccanismi di corruzione dall’altro.
Dante ci presenta nella sua Commedia un Purgatorio preceduto da un Ante-Purgatorio in cui si trovano personaggi morti in contumacia scomunicati dalla chiesa insieme a nobili troppo persi nella vanagloria per assolvere al loro ruolo di protettori della Chiesa. Il concetto di Purgatorio era appena stato ufficializzato dal Concilio di Trento e veniva incastonato nel più efficace opera di propaganda di quei tempi (e dei secoli a seguire). Ma col senno del poi possiamo dire che non ebbe l’efficacia sperata. La capacità del denaro di solleticare le debolezze umane è di gran lunga maggiore.

Giorgio Drei

Introduzione al Purgatorio

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L’idea di purgatorio è piuttosto recente nella storia del pensiero occidentale.

Infatti il mondo antico aveva immaginato un regno dei morti in cui i rei, relegati nel Tartaro, fossero distinti dai suicidi o dalle anime dei beati che, nei Campi Elisi, attendevano di reincarnarsi in una nuova vita, mentre le anime di coloro che non avessero avuto esequie, si raccoglievano nel vestibolo.

Il VI libro dell’Eneide virgiliana ci offre un quadro esauriente dell’oltremondo pagano.

L’idea di un focum purgatorium compare nei primi secoli dell’era cristiana: il filosofo Beda il Venerabile (672-735) per primo immagina un luogo di purgazione.

Il concetto si definisce dopo il XII secolo, grazie ai contributi di san Bernardo di Chiaravalle, Pier Lombardo (Sentenze, 1155-1157), papa Innocenzo III, Tommaso di Chobhan (Somma dei confessori, 1215 ca), il monaco cistercense H (Purgatorio di san Patrizio, XII sec.), Guglielmo d’Alvernia (1180-1249).

Nel XIII secolo grandi teologi come sant’Alberto Magno, san Tommaso d’Aquino, san Bonaventura da Bagnoregio sanciscono la credenza di un luogo dove le anime, non più vagabonde, possano purificarsi dei peccati e ascendere ai cieli perfettamente riconciliate con Dio.

Il Concilio di Lione del 1274 ne costituisce la registrazione ufficiale della Chiesa, mentre proprio il giubileo del 1300, indetto da papa Bonifacio VIII, diffonde presso tutta la comunità cristiana la conoscenza del valore dei suffragi.

Storicamente possiamo collegare la nascita dell’idea di purgatorio, come nota lo studioso Jacques Le Goff (La nascita del Purgatorio, Torino, 1982), all’affermazione della borghesia come classe sociale intermedia fra i potenti (chierici e cavalieri) e la massa dei contadini e della plebe: essa, infatti, introduce nella mentalità occidentale una nuova prospettiva che sfuma il divario fra nobili e plebe, mediando fra coloro che alla ricchezza assommano il potere e quanti si vedano negate entrambi.

Dante non pone il Purgatorio sotto terra come aveva fatto Virgilio ma lo descrive all’aria aperta, certamente per creare anche paesisti­camente la differenza con l’Inferno.

Immagina quindi un isola nell’oceano della sfera australe e su questa isola un monte altissimo (simmetrico alla voragine dell’Inferno) con la punta smussata.

La caduta di Lucifero ha infatti causato il ritrarsi delle terre che sono sbucate nell’emisfero australe, generando il monte dell’espiazione che sorge circondato dal mare.

Il purgatorio finirà con il giudizio universale, quando il mondo terreno, scomparendo, non genererà più peccatori.

Il monte è circondato da una spiaggia che corrisponde al   vestibolo infernale.

Dalle foci del Tevere l’Angelo nocchiero trasporta le anime che sono destinate all’espiazione e alla redenzione sino a detta spiaggia che, insieme alla prima parte del monte, costituisce l’Anti­purgatorio (sotto la sorveglianza di Catone Uticense, simbolo del desiderio umano di libertà dal peccato) dove stanno:

a)     coloro che si pentirono quando non avevano più la possibilità di continuare a peccare[1] e pertanto devono attendere un tempo più o meno lungo per essere ammessi ad espiare (invenzione dantesca);

b)    gli scomunicati;

c)    i principi giusti, ma negligenti nelle cure religiose.

La seconda parte del monte divisa in sette cornici (per ogni vizio capitale o peccato mortale) costituisce il vero e proprio Purgato­rio a cui si accede attraverso la porta del Purgatorio, custodita dall’Angelo confessore. Egli apre una pesante porta con due chiavi, secondo un rito che configura la confessione: tutto l’itinerario di Dante costellato infatti di riti, preghiere, gesti di espiazione che sottolineano i momenti più importanti della liturgia cristiana e il procedimento spirituale che conduce alla coscienza di sé.

Come i dannati sono divisi nelle tre categorie degli incontinenti, violenti e fraudolenti, così i peccati degli espianti sono originati da tre cause fondamentali, che corrispondono (vv. Pg XVII) alla mancanza di amore verso il prossimo (vizi di superbia[2] nella prima cornice, di invidia[3] nella seconda, iracondia[4] nella terza), alla mancanza di amore verso Dio (accidia[5] nella quarta cornice), al troppo amore per i beni terreni (avari e prodighi[6] nella quinta cornice, golosi[7] nella sesta, lussuriosi[8] nella settima).

Ogni cornice è custodita da uno o più angeli: essi impersonano la pace (XVII), la misericordia (XVII), la sollecitudine (XVIII-XIX), la giustizia (XIX-XX-XXI-XXII), l’astinenza (XXII-XXIII-XIV), la castità (XXV-XXVI-XVII), la carità (XXVII).

Ognuno angelo cancella una delle sette P, incise sulla fronte di Dante dall’angelo guardiano della porta del purgatorio.

Nell’ambito di ogni cornice, uno o più personaggi incontrano Dante e discorrono con lui.

Fra i molti troviamo un papa, Adriano V, e due re, Ugo Capeto e Manfredi. Ma ci sono maestri di poesia, il Guinizelli e Arnaldo Daniello; amici e poeti, da Casella a Bonaggiunta, da Belacqua a Forese Donati.

Ovunque Dante raccoglie preghiere, notizie, o profezie: ma per una terra distaccata, e a un tempo presente come ineliminabile oggetto di passioni, di riflessioni, di speranze.

Gli espianti, a differenza dei dannati che restano fissati per l’eternità al luogo in cui devono pagare la loro colpa, percorrono tutte le cornici purgatoriali, fermandosi in ciascuna a seconda dell’intensità delle colpe.

L’espiazione implica, oltre alla pena fisica che risponde alla legge del contrappasso, anche momenti di riflessione e di pentimento: perciò le anime sentono voci o vedono scene che ricordano episodi di virtù premiata o di colpa punita.

In particolare in ogni cornice sono offerti con diverse modalità (tramite recitazione e grida e canti, o tramite sculture,  visioni) esempi di virtù e vizi.

In cima al monte, in una pianura è situato il paradiso terre­stre, perfettamen­te antipode di Gerusalemme[9].

Il paradiso terrestre,  è una foresta spessa e viva: corrisponde all’Eden biblico.

Qui vissero Adamo ed Eva prima del peccato originale; qui sarebbero vissuti gli uomini nelle generazioni e nel tempo, se non fosse stato consumato il peccato originale.

Qui si svolge una grande processione allegorica, e qui Beatrice scende, rimprovera Dante, e infine lo conforta e conduce con sé.

Qui, dopo che si è allontanata l’ultima visione drammatica, quella della Chiesa schiava del re di Francia, Dante, già purificato dal fiume Lete, può essere immerso da Matelda nel fiume della virtuosa ricordanza, l’Eunoè; e qui trovarsi, alla fine, “puro e disposto a salire alle stelle”.

Guide di Dante nel Purgatorio sono: Virgilio e, dalla quinta cornice, Stazio, ma il primo dilegua all’apparire di Beatrice, sul Paradiso terrestre. Cosi la ragione umana cede alla Verità rivelata.

Il viaggio attraverso il P. dura tre giorni: dal 10 aprile 1300, notte inoltrata, al 13 aprile mercoledì.

*.*.*.*

Il Purgatorio si distingue dall’Inferno anche per come i peccati, non valutati solo astrattamente, vengono considerati: nel secondo la distinzione tra di essi è capillare e si rifà a testi aristo­te­lici e giuridici; nel primo D. si rifà ai testi della Chiesa, seppure filtrati dalla dottrina tomistica; i dannati scontano infatti specifiche responsabilità (<<attuali>>) di cui non si sono pentiti.

Le anime purganti invece hanno cancellato con il pentimento e l’assoluzione il loro peccato (che quindi non necessita di tante descrizioni) e scontano qui soltanto la loro inclinazione al peccato.

Mentre il dannato sconta poi nell’inferno la sua colpa più grave, i penitenti espiano  nelle varie cornici tutte le loro impurità.

Il Purgatorio è ancora il regno di D., dove il poeta sa di dover tornare; mentre le anime dell’Inferno sono troppo basse per lui e quelle del Paradiso troppo alte.

Nel Purgatorio, in altre parole, Dante è tra i suoi pari, vede sé stesso, peccatore avviato alla salvezza.

Salvezza che è una conquista personale, un superamento faticoso del peccato che abbisogna di tempo, del tempo umano.

Ecco perché c’è nel Purgatorio non l’eternità delle altre due cantiche ma il recupero della dimensione temporale: gli espianti oscillano cioè tra il rimorso delle colpe passate e la certezza della salvezza; vivono di speranza che non è riservata ai dannati, né per opposte ragioni ai beati: quindi c’è sicuramente meno drammaticità rispetto all’Infer­no e maggiore abbandono al sogno, alle visioni, agli smemoramenti.

Il poeta recupera nel P. anche il paesaggio terrestre, il ricordo della sua giovinezza in Firenze, degli amici, di Beatri­ce.

I suoi sentimenti nei confronti dei purganti (che sono meno numerosi dei dannati) sono soltanto di dolore e reverenza, addirittura talvolta non parla del loro peccato (ad es. di Casella nel II canto o di Sordello nel IV), o non lo considera tale (ad es. Stazio), oppure se ne dichiara partecipe (ad es. con Forese nei canti XXII e XXIV); le anime stesse sono mansuete perché sono state perdonate da Dio ed hanno a loro volta perdona­to i fratelli.

Quanto alla lingua la cifra stilistica del Purgatorio è una “medietà” che, senza implicare uniformità, accosta il linguaggio a quello d’uso quotidiano: in tal modo evidenzia la misura, il senso del limite, l’autocoscienza illuminata che sono fondamentali per un vero rinnovamento nelle anime espianti. Così, anche se non mancano spunti di registro comico o termini” forti” (assai più frequenti nell’Inferno) come il «bordello» italiano del Canto VI o la «femmina balba» del Canto XIX o la «puttana sciolta» del XXXII, per lo più le espressioni propendono per una misura vagamente impregnata di elegia o di nostalgia.

Solo in taluni punti di eccezionale solennità il registro elevato compare a sottolineare un’ardita metafora astronomica (Canto II) o a proporre quei “neologismi danteschi” che appariranno frequenti in Paradiso.


 [1] In Pg XI 89-90 Oderisi da Gubbio dice:<< Di tal superbia qui si paga il fio: e ancor non sarei qui, se non fosse che, possendo peccare, mi volsi a Dio>>; v. anche in Pg XXIII 79-84 quanto afferma Forese Donati.

[2] I superbi avanzano lentamente gravati da enormi e pesanti massi.

[3] Gli invidiosi  recano il cilicio e hanno gli occhi cuciti.

[4] Gi iracondi sono avvolti da un denso e acre fumo poiché il loro amore peccò per troppo di vigore.

[5] Gli accidiosi sono colpevoli di amore difettoso per mancanza di vigore e sono quindi  costretti a correre affannosamente in atto di ansiosa sollecitudine.

[6] Stanno bocconi per terra, in dimensione animale, con le mani e i piedi legati.

[7] I golosi sono ridotti ad estrema magrezza dall’insaziata fame e dall’insaziata sete.

[8]  Sono avvolti dalle fiamme, siano essi lussuriosi carnali, siano essi sodomiti.

[9] Il Purgatorio sarebbe così diviso in dieci zone: spiag­gia, Antipurgatorio, sette gironi e Paradiso terrestre; così come l’Inferno (vestibolo + nove cerchi) e il Paradiso (dieci cieli).

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canti XVII-XXX Sintesi e commento

Inf. 27 Bartolomeo di Fruosino, Dante e Virgil...
Inf. 27 Bartolomeo di Fruosino, Dante e Virgilio con Guido da Montefeltro tra i Falsi consiglieri, 1420 ca. (Photo credit: Wikipedia)

XXVII Canto

Nell’ottavo cerchio e nella ottava bolgia: sempre tra i consiglieri fraudolenti. Un’altra fiamma interroga Virgilio: Guido da Montefeltro[1] (vv. 1-30).

Dante gli dà notizie sulle condizioni politiche della Romagna (vv. 31-54). Guido gli rivela l’inganno tesogli da Bonifacio VIII, con un’asso­luzione invalida ed illecita, e la storia della sua dannazione: Guido era stato indotto da Bonifacio VIII a dare un consiglio frodolento sul modo di prendere Preneste, sicuro dell’assoluzione datagli dal Papa prima ancora del peccato (vv. 54-111).

Guido racconta a D. che alla sua morte, accadde un breve contrasto tra S. Francesco ed il demonio, per il possesso della sua anima, contrasto vinto dal diavolo per l’invalidità dell’as­soluzione papale precedentemente al peccato, al quale non era seguito il pentimento (vv. 111-136).

XXVIII Canto

Nell’ottavo cerchio e nella nona bolgia. I poeti, stando sul ponte della nona bolgia, vedono passare i seminatori di discordie, di scandali e gli scismatici[2] (vv. 1-21), mutilati dalla spada di un demonio.

Tra costoro vi è Maometto[3], col ventre squarcia­to, che gli indica il genero Alì [4]che cammina davanti a lui, e manda un monito a fra Dolcino[5] (vv. 22-63), Pier da Medicina[6] (vv. 64-95), Caio Curione[7] (vv. 96-102), Mosca Lamberti[8] (vv. 103-111), Bertrando dal Bornio[9], che porta la testa staccata dal busto e tenuta per le chiome a guisa di lucerna, apparizione tale, che D. avrebbe paura di descriverla, se non avesse coscienza di dire il vero (vv. 112-142).

XXIX Canto

Nell’ottavo cerchio, nella nona bolgia e nella decima dove stanno i falsatori[10] di metalli[11], di persone[12], di moneta[13] e di parola[14] .

D. riconosce tra i seminatori di discordie un suo paren­te: Geri del Bello[15] (vv. 1-39).

I poeti passano poi alla decima bolgia dove i falsatori di metalli o alchimisti sono puniti di lebbra o scabbia (vv. 40-72), e vi trovano Griffolino d’Arezzo[16] e Capocchio di Siena[17].

XXX Canto

Nell’ottavo cerchio, nella decima bolgia, corrono mordendo i compagni di pena i falsificatori della propria persona[18]: Gianni Schicchi[19], un truffatore fiorentino, e Mirra[20] che amò suo padre re di Cipro facendosi credere donna straniera (vv. 1-48).

I falsificatori della moneta sono gravati dalla idropisia[21], come maestro Adamo[22], un falsificatore del fiorino fiorentino che, tormentato dalla sete, maledice quelli che lo hanno indotto a mal fare, i conti di Romena, compiacendosi della pena che uno di loro, Guido, al punto di volerlo cercare, se potesse muoversi, per tutta la bolgia, pur di avere la soddisfazione di vederlo(vv. 49-90).

D. chiede a maestro adamo chi siano i miseri alla sua destra che fumano come la mai bagnate nell’inverno; l’altro risponde che si tratta dei falsario di parola: i bugiardi sono colpiti da febbre violenta[23]; adamo presenta a D. come esempi la moglie di Putifarre[24] e il greco Sinone[25], che entra in diverbio con maestro Adamo per essere stato da quest’ultimo così presentato (vv. 91-129).

Virgilio rimprovera Dante di aver seguito, con attenzione ed interesse, un litigio così volgare (vv. 130-148).


[1] Guido da Montefeltro (1222-1298), definito dal Villani (Cron., VII, 80) « il più sagace e il più sottile uomo di guerra ch’al suo tempo fosse in Italia », fu uno dei più ardenti sostenitori del partito ghibellino, sia con le armi che con le astuzie. Nel 1268 fu vicario in Roma di Re Corradino : nel 1274 fu capitano generale di Forlì ghibellina, e nel 1275 capitano generale di tutti i ghibellini di Romagna. In tale qualità combattè fieramente i guelfi per parecchi anni, infliggendo loro memorabili sconfitte: come al Ponte di San Procolo (1275) e a Reversano (1275), contro l’esercito guelfo bolognese, comandato da Malatesta da Verrucchio, e a Forlì (1282), contro un esercito angioino-pontificio, comandato dal francese Giovanni d’Appia e inviato dal pontefice Martino IV, d’accordo con Carlo d’Angiò, per pacificare la Romagna, ceduta alla Chiesa da Rodolfo d’ Asburgo nel 1276. In quest’occasione fu scomunicato, ma continuò a resistere fino a quando le soverchianti forze pontificie, condotte da Guido di Montfort (Inf. XII, 119), e la volontà dei forlivesi, orrnai stanchi della guerra, non lo costrinsero a venire a patti col Papa ed a subire la pena del confino. Nel 1289 ruppe il confino per recarsi a Pisa, che,  dopo la catastrofe del conte Ugolino, lo aveva eletto podestà e capitano generale nella guerra che si combatteva contro Firenze, ed ottenne parecchi successi, per quanto non riuscisse ad impedire la resa del castello di Caprona. Nel 1292,  conclusasi la pace tra Pisa e Firenze se ne tornò in Romagna, ottenendo nel suo passaggio attraverso la Toscana, onorevoli accoglienze da parte dei fiorentini e dei loro alleati : e in Romagna prese ancora viva parte alle lotte del paese impadronendosi di Urbino, che difese contro Malatestino, podestà di cesena. nel 1294 fu assolto dalla scomunica da papa Celestino V, e nel 1296 partecipò con gli altri signori di Romagna alle trattative con cui Bonifacio VIII cercò di pacificare  questa regione: ma poco dopo entrò nell’ordine francescano, morendo ad Assisi nel 1298. Dante, che nel Convivio (IV, XXVIII, 8) ha per questa figura di capo ghibellino parole di alta ammirazione (“lo nobilissimo nostro latino Guido montefeltrano”), sembra che lo abbia condannato tra i consiglieri fraudolenti non tanto per la sua astuzia, quanto – come vedremo – per colpire il vero responsabile della sua dannazione, Bonifacio VIII.

[2] I seminatori di discordie, di scandali e gli scismatici vagano nella bolgia orrendamente mutilati, con il volto o il corpo squarciato dalla spada di un demone: una volta compiuto il giro della bolgia, le ferite così richiuse vengono riaperte dalla lama del diavolo.Ogni tipo di mutilazione o ferita ha riferimento preciso con il genere di scisma o discordia provocato in vita

[3] Maometto (560-633). Fondatore della religione mussulmana, fu considerato uno scismatico nel Medioevo perché si pensava fosse un cardinale romano, che deluso per la mancata elezione a pontefice avesse fondato una propria setta creando in tal modo un vero e proprio scisma.

[4] Alì (597-661). Genero di Maometto, tra i suoi primi seguaci, si ribellò poi a lui, fondando la setta dello Sciismo.

[5] Fra Dolcino. Predicatore di una dottrina che, unendo agli ideali di Gerardo Segarelli e della sua comunità degli “apostolici” alcuni principi simili a quelli propugnati dai catari e dai valdesi, vagheggiava una confraternita ideale di cristiani uniti dall’esperienza privilegiata della comunicazione con lo Spirito e liberi dall’obbedienza a qualsiasi autorità ecclesiastica. La comunità, forte di circa 4000 fedeli in Trentino e in Valsesia, fu colpita dalla crociata bandita dal papa Clemente V ; Dolcino fu giustiziato nel 1307.

[6] Pier da Medicina. Personaggio incerto, lo si identifica con un Piero dei Biancucci dei signori di Medicina, città dell’Emilia, o con il nipote di lui. I commentatori antichi parlano di lui come di un gran seminatore di discordie, da cui trasse cospicui vantaggi.

[7] Caio Curione. Vissuto nel I sec. a.C., tribuno della plebe, tradì Pompeo a favore di Cesare. Secondo Lucano, fu proprio Curione a spingere Cesare, incerto, a passare il Rubicone e mettersi in guerra con il senato romano.

[8] Mosca de’ Lamberti. Vissuto a cavallo tra il l 100 e il 1200, fiorentino, gli si attribuivano grosse responsabilità nell’inizio delle lotte tra le famiglie di Firenze. Mentre la famiglia degli Amidei si era riunita per vendicare l’offesa di Buondelmonte, che non aveva mantenuto una promessa di matrimonio, Mosca li consigliò con la famosa frase: «cosa fatta capo ha», cioè cosa fatta non può disfarsi, occorre uccidere il traditore senza esitare e senza pensare alle conseguenze. Da qui una lunga serie di vendette e lotte civili.

[9] Bertran de Born (Bertran dal Bornio). Poeta provenzale e feudatario di Perigord. Suddito di Enrico II d’lnghilterra, si dice abbia istigato il figlio Enrico III, detto il Re giovane, a ribellarsi contro il padre.

[10] I falsari sono affetti e sfigurati da malattie ripugnanti, diverse a seconda del loro peccato: gli alchimisti sono puniti con la lebbra, i falsari della persona con la rabbia, i falsari di moneta sono affetti da idropisia e quelli di parola da febbre. Come in vita sfigurarono in vari modi la verità, cosi ora sono sfigurati e oppressi da malattie schifose. In questo canto Dante raffigura la pena degli alchimisti, affetti da lebbra e scabbia. I dannati addossati l’uno all’altro si grattano furiosamente; la loro pena è conseguenza diretta del loro peccato, ossia del manipolare metalli, specie piombo, che causa avvelenamento.

[11] Ossia gli Alchimisti, coloro che cercarono di trasformare i metalli meno pregiati in oro.

[12] Coloro che si fingono altri per trarne vantaggio.

[13] Coloro che coniano monete false.

[14] I calunniatori, spergiuri bugiardi.

[15] Geri del Bello. Cugino di Alighiero II,  padre di Dante.  Seminatore di discordie, pare che fini ucciso da un tale Brodaio dei Sacchetti. Si mostra adirato con Dante perché ma fino al 1300 nessuno della famiglia lo aveva ancora vendicato.

[16] Griffolino d’Arezzo. Alchimista, morto prima del 1272, arso come eretico per accusa di Albero o Alberto da Siena, confidente dell’allora vescovo di Siena. Si racconta che Griffolino promise per scherzo ad Alberto di insegnargli l’arte del volare; questi però gli credette e, visto che l’altro non poteva accontentarlo, s’infuriò talmente da mandarlo a morte.

[17] Capocchio da Siena. Conosciuto personalmente da Dante, aveva la specialità di imitare perfettamente le persone. Si diede all’alchimia e fu arso per questo nel 1293.

[18] I falsari di persona, afflitti da una rabbia feroce che li fa correre come maiali impazziti fuori dal recinto. La rabbia ricorda la bramosia e l’ avidità che li ha condotti in vita a fingersi altri, e la loro furia è la pazzia che stravolge l’identità, come in vita cambiarono la propria.

[19] Gianni Schicchi dei Cavalcanti. Fiorentino contemporaneo. Abile nel truccarsi ed imitare gli altri, si sostituì a Buoso Donati sul letto di morte, dettando cosi al notaio un testamento con il quale assegnò a se stesso la migliore cavalla dell’armento di Buoso.

[20] Mirra. Mitica figlia di Ciniro, re di Cipro. Innamoratasi del padre si finse un’altra donna per potersi unire a lui. Ciniro, accortosi dell’inganno, voleva ucciderla, ma Mirra riusci a sfuggirgli, rifugiandosi in Arabia, dove fu tramutata nella pianta che porta il suo nome.

[21] Malattia del corpo che dimagrisce o si gonfia quando si forma un liquido in certi organi: fa venire una voglia smisurata di bere. I falsari di moneta hanno il ventre gonfio di cattivi umori, come i metalli vili che introducevano nelle monete d’ oro.

[22] Maestro Adamo. Vissuto nel 1200, dottore, di patria incerta. Giunse nel Casentino dove fu ospite dei conti di Romena, i fratelli Guido II, Alessandro e Aghilulfo II. Su loro incarico si mise a coniare fiorini falsi, mescolando tre carati di rame e ventuno d’oro. Arrestato a Firenze mentre spendeva tali monete, fu arso vivo nel 1281.

[23] Sono tormentati dalla febbre che li fa delirare falsando i sensi, come in vita confusero parole false e parole vere.

[24] Moglie di Putifarre. Personaggio biblico di cui non viene fatto il nome; invaghitasi dell’ ebreo Giuseppe e da lui respinta, lo accusò falsamente di averle usato violenza.

[25] Sinone. Personaggio dell’ Eneide: è il greco rimasto a Troia quando tutti gli altri finsero di togliere l’ assedio. Conquistata la fiducia del re Priamo, Sinone lo convinse ad introdurre il cavallo di legno dentro le mura  della città, assicurando che si trattava di un segno di buon augurio.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto XVI Sintesi e commento

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XXVI Canto

IN BREVE

– Nell’ottavo cerchio e nella settima e ottava bolgia. Dante inveisce di sdegno per aver trovato tra i ladri cinque fiorentini (vv. 1-12).

 I poeti passano all’ottava bolgia, dove sono arsi entro lingue di fuoco a due punte, i consiglieri fraudolenti (vv. 13-48), e incontrano quivi Ulisse e Diomede (vv. 49-84).

 Per desiderio di Dante, Ulisse narra, su richiesta di Virgilio, la sua ultima navigazione, oltre le colonne d’Ercole, in cui incontrò con i suoi compagni la morte.

Partito da Circe, dopo lunghe peregrinazioni, gli affetti famigliari non valsero a spegnere il suo desiderio di conoscere il modo e i vizi ed il valore degli uomini.

Messosi, già vecchio, con un legno e con alcuni compagni per l’alto mare aperto, naviga il Mediterraneo tra le coste della Spagna e dell’Africa, fino allo stretto di Gibilterra ove si credeva sorgessero, come limite estremo per gli uomini le colonne d’Ercole.

Esortati con una <<orazion piccola>> i compagni  a <<seguir virtute e conoscenza>> e ad affrontare i rischi del <<folle volo>>, Ulisse prosegue l’audace navigazione nello sconfinato Atlantico, e dopo cinque mesi giunge in vista di una montagna altissima e bruna per la distanza.

La gioia sua e dei compagni tosto si muta in pianto, perché quella montagna è il Purgatorio, alla quale nessun uomo vivente può approdare.

Da essa infatti, per volere divino, si scatena un turbine che colpisce la nave affondandola nel mare  v. 85-142).

*.*.*

Il canto si apre a mezzogiorno circa del 9 aprile 1300, sabato santo, nel cerchio VIII, Malebolge (cfr. c. XVIII) ed in particolare nell’8a bolgia. Attraverso un percorso roccioso e arduo ci si  affaccia al fossato il cui fondo risplende di fiammelle.

DANNATI

Sono i consiglieri fraudolenti. Sono coloro che, facendo cattivo uso del proprio ingegno, se ne servono per vincere con l’astuzia in politica.

PENA E CONTRAPPASSO

I dannati sono avvolti in fiamme appuntite come lingue, nascosti dallo stesso fuoco che li arde, e faticano nel parlare.

In vita con i loro consigli e le loro astuzie accesero disgrazie, liti e sventure, così ora ardono nelle fiamme appuntite, come le loro lingue acute ma pericolose, che tanto abili in terra a parlare ora riescono a fatica e con dolore a buttare fuori la voce.

PERSONAGGI

Ulisse. Eroe omerico, re di Itaca, figlio di Laerte e di Anticlea, simbolo dell’astuzia e della sete di conoscenza.

In Omero, ma soprattutto in Ovidio e Stazio, alle sue imprese si associa sovente il compagno Diomede.

Dante ne ricorda tre episodi che avrebbero determinato la sua condanna: l’inganno del cavallo di Troia, l’impresa con cui riuscì a convincere Achille a partecipare alla guerra di Troia e quindi a lasciare l’amata Deidamia, il furto della statua di Pallade Atena dal tempio di quella città, che si credeva proteggesse i Troiani.

Diomede. Nella mitologia greca, re di Argo e figlio di Tideo, uno dei guerrieri conosciuti come Epigoni, i figli dei Sette contro Tebe, che distrussero la città di Tebe.

Diomede fu uno dei principali eroi greci della guerra di Troia: uccise numerosi guerrieri troiani e, con l’assistenza della dea Atena, ferì Afrodite dea dell’amore, e Ares dio della guerra, entrambi sostenitori dei troiani.

Quando Diomede tornò dalla guerra e scoprì che la sua sposa gli era stata infedele, abbandonò il suo regno e si recò in Italia, dove fondò numerose città in Apulia (l’attuale Puglia).

ELEMENTI PRINCIPALI

1) Il canto di Ulisse. Dante colloca Ulisse come figura centrale del canto, e lo costruisce in base alle conoscenze che ne aveva non da Omero, bensì da Ovidio, da Stazio, da Virgilio stesso e da altri scrittori latini.

Cosi Ulisse assurge a simbolo dell’abuso dell’ingegno contro e oltre le regole morali o religiose, e si fa eroe tragico nell’ultima impresa narrata con buon agio dopo aver liquidato i motivi (cfr. vv. 53-63) della sua condanna come consigliere fraudolento.

È quindi l’ansia, il desiderio di conoscenza non illuminato dalla Grazia che porta l’eroe alla catastrofe inevitabile, proprio perché spinto da un anelito di verità che si può solo intravedere (come la montagna indistinta del Paradiso terrestre in lontananza), ma che non è dato senza rivelazione.

Proprio in questa luce va visto il richiamo che Dante fa a se stesso (vv. 19-24), uomo dotato del privilegio dell’alto ingegno, dono divino, che non va sprecato né usato senza il sostegno della virtù.

Intorno alla figura centrale di Ulisse gravita dunque tutto il canto, che si muove nella stessa atmosfera di alta tragicità e di dolorosa meditazione.

2) Invettiva a Firenze. Come l’episodio di Vanni Fucci si chiudeva con l’invettiva a Pistoia, l’incontro con i ladri fiorentini si chiude con una amara e dolente apostrofe contro Firenze.

È l’ennesima condanna della città, ma cosi diretta e in prima persona, messa in apertura di canto, sembra assorbire in sé le precedenti invettive e amare considerazioni sulla propria patria.

3) La commozione di Dante. L’ardente preghiera rivolta da Dante al maestro per poter parlare con la fiamma cornuta di Ulisse e Diomede è piena di fervore, e tradisce un’ansia che sfiora il patetico (vedi che del desio ver’ lei mi piego!), la quale si giustifica da un lato con la grande reverenza che il poeta prova nei confronti di un mondo, quello greco, che sente lontano e affascinante, dall’altro con l’occasione unica che gli si offre: quella di far raccontare la fine dell’eroe come monito ed esempio per coloro che fidano eccessivamente nella ragione e nell’ingegno umano.

4) Il paesaggio. La bolgia si presenta agli occhi di Dante con un’immagine lirica e quasi serena, nel clima cupo e oppressivo di Malebolge: tutta rischiarata da fiammelle, quante sono le lucciole che il contadino vede accendersi, dal poggio dove si riposa, giù nella valle nelle sere estive.

Anche la pena dei dannati non è visibile, si consuma senza stravolgimenti carnali, a sottolineare che qui il rapporto tra Dante e i penitenti del canto nuovamente si umanizza, senza gli eccessi di rappresentazione realistica e bestiale che caratterizzano le altre bolge.

RIASSUNTO E PARAFRASI

Invettiva di Dante contro Firenze (vv. 1 – l 2)

Dante ha incontrato nella bolgia dei ladri cinque fiorentini e questo gli fa pronunciare una amara e sarcastica invettiva contro Firenze che può essere fiera. poiché il suo nome si diffonde non solo per mare e per terra, ma anche nell’Inferno. Ma si avvicinano per la città le sventure che Prato e altri paesi agognano per lei, ed il Poeta si augura, pur con grande dolore, che avvengano al più presto.

L’8a bolgia: i consiglieri fraudolenti (vv. 13-42)

I due poeti proseguono il cammino: aiutandosi con le mani, ripercorrono la stessa strada da cui erano scesi e si arrampicano a fatica tra le rocce (borni= dal francese borne) del ponte che avevano fatto da scalini.

Dante, ripensando a ciò che vide nell’ottava bolgia, dove sono puniti i consiglieri fraudolenti che male si servirono del proprio ingegno, cerca di tenere a freno la propria intelligenza che gli è stata donata dalle stelle e dalla grazia di Dio, affinché sia sempre guidata dalla virtù[1].

Egli vede risplendere il fondo dell’ottava bolgia di tantissime fiammelle quante sono le lucciole che il contadino vede nelle sere d’estate dall’alto della collina giù nella valle.

E come la fiamma del carro impedì ad Eliseo, che si vendicò con gli orsi[2], di vedere Elia rapito al cielo[3], cosi nel fondo della bolgia, le fiammelle nascondono alla vista lo spirito che vi è condannato.

Ulisse e Diomede (vv. 43-75)

Dante, sporgendosi dal ponte, si accorge che all’interno delle fiamme si nasconde un peccatore, ma vorrebbe sapere chi vi sia dentro ad una fiamma che, diversamente dalle altre, è divisa in due punte come la fiamma che sorse dalla pira su cui furono bruciati Eteocle ed il fratello Polinice[4].

Virgilio risponde che vi sono Ulisse e Diomede, che insieme sono puniti da Dio, cosi come insieme da vivi ne affrontarono l’ira: motivi della loro condanna sono l’inganno del cavallo di legno che portò alla caduta di Troia, l’inganno per il quale Achille fu strappato all’amata Deidamia[5], e il furto del Palladio[6].

Dante esprime a Virgilio di avere grande desiderio di parlare con i due dannati e gliene chiede il permesso; ma Virgilio gli consiglia di lasciare che sia egli stesso a rivolgere le domande ai due spiriti poiché, essendo Greci, forse non gradirebbero di rispondere ad un uomo appartenente ad un’altra civiltà.

Ulisse narra la propria fìne (vv. 76-142)

Non appena la fiamma è più vicina e sembra il momento più idoneo, Virgilio si rivolge ai due spiriti prigionieri, pregandoli in nome dei versi che egli dedicò loro nell’Eneide, di fermarsi e di voler narrare la propria fine.

La punta più grande della fiamma in cui è imprigionato lo spirito di Ulisse, comincia allora ad agitarsi come mossa dal vento; poi muovendosi qua e là come fosse una lingua, inizia a parlare.

Quando egli lasciò Circe, la figlia del sole[7], che lo aveva trattenuto più di un anno presso Gaeta, né l’affetto per il figlio né l’amore filiale verso il padre, né l’amore per la sposa Penelope, poterono vincere la sete di conoscere il mondo, i vizi e le virtù degli esseri umani.

Perciò si avventurò in mare, con un’unica nave e con pochi fedeli compagni[8].

Navigando percorsero le coste europee fino alla Spagna e le coste africane fino al Marocco, costeggiarono la Sardegna e le altre isole del mar Mediterraneo e, ormai vecchi e deboli, giunsero allo Stretto di Gibilterra, dove Ercole pose le due montagne[9] per ammonire i naviganti a non avanzare oltre e infine oltre le Colonne d’Ercole superarono le città di Siviglia e di Ceuta[10].

Giunti a questo punto egli esortò i compagni a seguirlo nell’esplorazione dell’altro emisfero, rammentando loro che l’essere umano è stato creato per seguire la virtù e apprendere la scienza; queste parole rincuorarono i compagni al punto che non avrebbe più potuto trattenerli dal proseguire il viaggio; perciò, voltata la poppa della nave ad oriente, continuarono la navigazione sempre avanzando verso sinistra, verso il polo antartico.

Già le stelle del polo australe illuminavano il cielo, mentre quelle del polo boreale scomparivano, quando, dopo cinque mesi di viaggio, apparve sull’acqua una montagna tanto alta quanto mai egli ne vide.

La vista di questa montagna li rallegrò, ma presto la gioia si tramutò in pianto, poiché dalla nuova terra si levò un turbine che colpì la parte anteriore della nave, facendola girare tre volte su se stessa e poi inabissandola nel profondo del mare.


[1] Ciò perché nell’esilio Dante era divenuto un uomo di corte, un negoziatore di politico: e il consigliar frodi e ordire inganni sarebbe potuto divenire per lui un peccato professionale, un vizio del mestiere.

[2] Nel Libro IV dei Re (II, 23,-24), si legge che Eliseo, avviandosi verso la città di Betel, maledisse due fanciulli, che lo beffeggiavano, per cui due orsi, usciti da un bosco, ne divorarono un gran numero (e precisamente quarantadue).

[3] Nel Libro IV dei Re (II, l 1-12) si legge che il profeta Elia, rapito in cielo su di un carro di fuoco trainato da cavalli di fuoco, fu sottratto alla vista di Eliseo.

[4] Eteocle e Polinice, figli del re di Tebe Edipo, scacciarono il padre dalla citta e furono da lui maledetti: il padre predisse infatti loro odio eterno. Dapprima decisero di regnare su Tebe un anno per ciascuno, ma presto sorse tra di loro un conflitto che sfociò nella guerra di Tebe e nella morte di tutti e due. I corpi dei fratelli furono bruciati sullo stesso rogo, quasi a significare l’odio imperituro fra i due (Stazio,Theb. XII, 429 sgg.).

[5] Si tratta dell’astuzia con cui scopersero Achille, travestito da fanciulla, presso il re Licomede in Sciro, inducendolo a partecipare alla guerra di Troia, per cui l’innamorata Deidamia, fig1ia del medesimo re, morì di dolore (Stazio, Achill. I, 537 s99.)

[6] L’oracolo aveva predetto che dalla statua di Minerva  sarebbe dipesa la salvezza dei Troiani (En. II, 162 e ss.).

[7] Circe. Nella mitologia greca, maga figlia del Sole e della ninfa marina Perseide. Viveva nell’isola di Eea, vicino alla costa occidentale italiana. Con pozioni e incantesimi Circe trasformava gli uomini in animali, ma le sue vittime non perdevano il raziocinio ed erano dunque consapevoli dell’accaduto. Durante i suoi vagabondaggi, Ulisse capitò sull’isola con i suoi compagni, che furono trasformati in porci. Andando in cerca di aiuto per i suoi uomini, Ulisse incontrò il dio Ermes, dal quale ricevette un’erba che lo rese immune dagli incantesimi della maga. La costrinse dunque a restituire sembianze umane ai suoi compagni, e Circe, sorpresa dal fatto che qualcuno potesse resistere alle sue formule magiche, si innamorò di lui. Ulisse rimase appunto sull’isola per un anno, e quando decise di partire Circe gli spiegò come trovare nel mondo sotterraneo lo spirito del veggente tebano Tiresia, affinché gli indicasse la via più sicura per il ritorno in patria.

[8] D. si Basò forse su un passo di Cicerone (De officiis, III, 26), ove si legge che ad Ulisse non piacque <<regnare e vivere in Itaca, oziosamente con i genitori, con la moglie, col figlio>>, ed immaginò quindi che l’eroe, nel suo fortunoso viaggio di ritorno, non rivedesse la sua patria.

[9] Mentre si recava all’isola di Eritea per catturare i buoi del mostro a tre teste Gerione, sua decima impresa, Eracle pose, in ricordo del suo passaggio, appunto due grandi rocce, le cosiddette “colonne d’Ercole”, sui promontori Colpe e Avila che segnano lo stretto che separa il Mediterraneo dall’oceano Atlantico, l’odierno stretto di Gibilterra.

[10] Ceuta, citta del Marocco, situata di fronte a Gibilterra

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto XXII-XV Sintesi

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XXII Canto

 

Nell’ottavo cerchio e nella quinta bolgia, sempre tra i barattieri: è considerato il canto della malizia.

I poeti percorrono l’argine lungo lo stagno di pece bollente, guidati appunto da dieci demoni (vv. 1-30) che acciuffano il dannato Ciampolo di Navarra (vv. 31-75)[1].

Questi parla di sé e di frate Gomita[2] e Michele Zanche[3], barattieri sardi (vv. 76-96).

 Con un inganno Ciampolo si libera dai diavoli ributtandosi nella pece bollente, due diavoli si azzuffano tra loro e si invischiano con le ali nella pece; e mentre gli altri prestano loro soccorso, i due poeti si allontanano da essi (vv. 97-151).

XXIII Canto

Nell’ottavo cerchio e nella sesta bolgia, tra gli ipocriti[4]: in questo canto D. si scaglia contro l’ipocrisia di alcuni monaci medievali ed in particolare dei Benedettini di Cluny .

– Quando i poeti si vedono inseguiti si calano a precipizio nella sesta bolgia (vv. 1-57).

Una lunga processione di ipocriti, coperti di cappe di piombo dorato, si muove con estrema lentezza (vv. 58-75); tra questi vi sono due frati gaudenti bolognesi: Catalano de’ Malvolti[5] e Loderingo degli Andalò[6] (vv. 76-108), e insieme crocefissi a terra, Caifa[7] e gli altri del sinedrio che decretaro­no la morte di Cristo (vv. 109-126). Virgilio si avvede dell’inganno di Malacoda (vv. XXI Canto).

XXIV Canto

Nell’ottavo cerchio e nella settima bolgia.

Dopo le parole di conforto di Virgilio a Dante (vv. 1-21), i poeti salgono faticosamente sull’argine settimo (vv. 22-60), dove nella bolgia, piena di serpi, corrono i ladri (vv. 61-96)[8].

Tra i dannati è, violento e volgare, Vanni Fucci[9], che punto da un serpente, s’incenerisce, e di colpo riprende la figura umana come l’araba fenice (vv. 97-120), confessa il furto sacrilego del tesoro della sacrestia di S. Jacopo in Pistoia, e predice per vendetta a Dante che lo ha riconosciuto, la sconfitta dei Guelfi bianchi nell’agro pistoiese (vv. 121-151)[10].

XXV Canto

Nell’ottavo cerchio e nella settima bolgia, sempre tra i ladri.

Vanni Fucci per dileggio fa un verso sconcio verso Dio e viene punito immediatamente dalle serpi per tale atto (vv. 1-18).

I poeti, restando sull’argine, trovano sempre nella settima bolgia dei ladri, Caco[11] (vv. 19-33): assistono poi alla trasformazioni, da forma umana a quella serpentina e viceversa, di cinque fiorentini appartenenti alle famiglie più illustri (Cianfa Donati, Agnolo dei Brunelleschi, Buoso dei Donati, Puccio Sciancato, Francesco dei Cavalcanti)[12] (vv. 34-150).


[1] Ciampolo o Giampaolo (da ]ean Paul). Navarrese del 1200, di umili origini, riuscì ad entrare alla corte del re di Navarra di umili Tebaldo II e abusò della sua fiducia, barattando favori per denaro. Le uniche notizie che si hanno di lui provengono dal testo di Dante.

[2] Gomita. Frate sardo,  fu alle dipendenze di Nino Visconti di Pisa che ebbe il giudicato di Gallura dal 1275 al 1296. Per denaro, fece fuggire i prigionieri che Nino Visconti gli aveva affidato.

[3] Michele Zanche. Governatore del giudicato di Logudoro, in Sardegna, per conto di re Ezio, figlio di Federico II. Alla morte del re, ne usurpò il trono. <fu ucciso a tradimento dal genero Branca d’Oria nel 1275 o nel 1290 (cfr. XXXIII, 137).

[4] Procedono a gran fatica, lentissimi, piangendo sotto pesanti cappe di piombo, dorate all’esterno. In vita sotto un sembiante di virtù e di santità, nascosero una natura viziosa, ora sono nascosti sotto una cappa dorata esternamente, ma fatta di piombo. Così come si muovevano con circospezione nel loro peccato, ora si muovono lentissimamente. Gli ipocriti religiosi, quelli che consigliarono la crocefissione per il Cristo, sono a loro volta crocefissi e, avendo calpestato la verità, ora sono a terra, calpestati dagli altri dannati.

[5]  Catalano de’ Malavolti (1210-1285). Frate gaudente di famiglia guelfa, bolognese, fu podestà di Milano, Parma, Piacenza. Nominato podestà a Firenze insieme al ghibellino Loderingo degli Andalò (1266), invece di far da paciere, inasprì gli animi e aggravò le contese tra i partiti.

[6] Loderingo degli Andalò (1210-1290). Ghibellino, bolognese, fu fondatore dell’ordine dei frati gaudenti o Cavalieri della Milizia della Beata Vergine Maria Gloriosa, (istituito con lo scopo di operare per la pacificazione tra guelfi e ghibellini. Quest’ordine, detto dei “frati gaudenti” per la rilassatezza di costumi assunta dai suoi cavalieri); tenne, insieme a Catalano, il governo di Bologna, poi fu podestà con lui del Comune di Firenze.

[7]  Caifa. Sommo sacerdote di Gerusalemme; insieme al suocero Anna, consigliò all’ assemblea dei Farisei di condannare a morte Cristo. Secondo Giovanni (18:13-24), Gesù, dopo l’arresto venne appunto condotto da Anna, per un primo interrogatorio. I sinottici non menzionano l’episodio e riferiscono solo che Gesù venne condotto davanti al consiglio supremo degli ebrei, il sinedrio, dove Caifa gli chiese di dichiarare se era “il Cristo e Figlio di Dio” (Matteo 26:63). Alla risposta affermativa (Marco 14:62), il consiglio condannò Gesù a morte come blasfemo.

[8] Corrono nudi, spaventati e tormentati da serpenti che legano loro le mani. Alcuni vengono trafitti dalle serpi, s’incendiano e poi tornano ad assumere il loro aspetto. Altri si trasformano in serpenti e poi di nuovo in uomini, oppure si tramutano in esseri ibridi che hanno entrambe le nature.In vita ricorsero all’astuzia: ora convivono con i serpenti, simbolo di ogni malizia. Le loro mani, usate abilmente per rubare, sono legate dalle serpi, e cosi come si servirono di travestimenti e trucchi, ora subiscono continue metamorfosi.

[9] Vanni Fucci, dei Lazzari. Pistoiese della fazione dei Neri, esule nel 1294, era conosciuto come uomo violento e fu condannato per omicidi e ruberie. Dante lo colloca tra i ladri, perche rubò il tesoro della cappella di San Iacopo, nel duomo di Pistoia, furto per il quale fu ingiustamente incolpato un tale Rampino Foresi. Morì agli inizi del 1300.  La figura di Vanni Fucci è tra le più violente e disumane dell’ Inferno: la sua bestialità domina l’ atmosfera del canto e si contrappone all’atteggiamento altero e sprezzante di Dante. Annunciato dalla metamorfosi in cenere e dalla riconversione in essere, dallo sguardo vacuo come l’epilettico, Vanni è aggressivo, abietto nell’orgoglio della propria animalità, vergognoso solo di essere stato scoperto da Dante nella colpa, per cui altri era stato accusato.

[10] Fa riferimento alla guerra mossa dal marchese Malaspina di Lucca, alleato dei Neri fiorentini, contro Pistoia; guerra che culminò con l’assedio e la conquista della città. La sconfitta dei Bianchi pistoiesi avrebbe inevitabilmente segnato la rovina dei Bianchi di Firenze. La profezia di Vanni Fucci si aggiunge alle altre (quelle di Ciacco, di Farinata, di Brunetto Latini) presenti nella cantica; ma qui si colora dell’intenzione malvagia espressa da Fucci: È detto l’ho perché doler ti debbia! (v. 151). È la vendetta del ladro che si vede scoperto e nella sua astiosa umiliazione non può far altro che predire un triste destino peraltro già da Dante conosciuto.

[11] Caco. Figlio di Vulcano, rubò gli armenti che Ercole aveva rapito a Gerione; per questo Ercole lo uccise. Nell’ Eneide (VIII, 193-305), Virgilio lo rappresenta come satiro che vomita fuoco dalla bocca; Dante invece lo raffigura come centauro, che ha sulle spalle un drago che soffia fiamme e fuoco.

[12] Cianfa Donati. Fiorentino, della famiglia che fu a capo dei guelfi neri fino al 1300. Mori tra il 1283 e il 1289; fu noto come ladro di bestiame e altri beni.

Agnolo dei Brunelleschi (XIII secolo). Di nobile famiglia fiorentina, prima di parte bianca, poi passata ai Neri. Si diede a ruberie, ricorrendo spesso a travestimenti.

Buoso dei Donati. Da non confondere con lo zio Buoso Donati, che Gianni Schicchi sostituì sul letto di morte, per falsificarne il testamento (cfr. c. XXX, vv. 44-45). Fiorentino, fu tra i giurati della pace del cardinal Latini, firmata nel 1280 tra ghibellini e guelfi. Mori nel 1285.

Puccio Sciancato. Fiorentino della famiglia dei Galigai, ghibellina. Fu bandito dalla città nel 1268 e nel 1280 fu tra i giurati, con Buoso, della pace del cardinal Latini. Soprannominato (“Sciancato” perché era zoppo, gli era difficile scappare dopo i furti.

Francesco dei Cavalcanti. Detto il Guercio, fiorentino del XIII secolo, noto come ladro. Venne ucciso da alcuni uomini di Gaville, piccolo castello in Valdarno. l parenti di Francesco si vendicarono, facendo strage dei Gavillesi.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto XXI Sintesi

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IN BREVE

Nell’ottavo cerchio (frode di chi non si fida). Nella quinta bolgia  compaiono i barattieri, colpevoli di essersi valsi delle cariche pubbliche a loro privato vantaggio; sono immersi nella pece bollente, sotto la guardia dei diavoli (vv. 1-21); un Anziano di Lucca giunge in quel momento e viene beffato e dilaniato (vv. 22-57). – I demoni minaccia­no i poeti (vv. 58-105), ma poi ricevono dal loro capo Malacoda dieci diavoli per guida, a capo dei quali è posto Barbariccia, perché questi mostri al poeta (così spiega Malacoda) dove si trovi il ponte che sovrasta la bolgia seguente, in quanto che quello su cui son venuti sin qui, nella bolgia seguente è rotto.

È una bugia inventata da Malacoda per beffarsi dei due poeti, giacché tutti i ponti che sovrastano la bolgia seguente caddero per il terremoto seguito alla morte di Cristo (vv. 105-139).

*.*.*.*

Sono le sette antemeridiane del 9 aprile l 300, sabato santo. Il LUOGO è costituito dal cerchio VIII, Malebolge (cfr. c. XVIII). Siamo in particolare nella 5a bolgia. Il fosso è particolarmente scuro perche sul fondo bolle una pece nera che ingromma le coste. I Custodi: Malebranche, i diavoli guardiani e aguzzini dei dannati. I DANNATI sono i barattieri, coloro che fanno traffici dei pubblici uffici. PENA E CONTRAPPASSO: i dannati sono costretti a rimanere completamente immersi nel lago di pece bollente. Se ne escono fuori, vengono uncinati e straziati dai diavoli. In vita furono sleali e infidi, praticarono arti vischiose e nere; ora bollono nella pece vischiosa e nera e sono preda di diavoli altrettanto bugiardi e infidi.

 PERSONAGGI

Malebranche. Sono i diavoli, armati di uncini, custodi della bolgia: il nome, inventato da Dante come quello di Malebolge, fa riferimento agli artigli (branche) di cui sono forniti. Sono rappresentati secondo l’iconografia diffusa nel Medioevo. I loro nomi: Malacoda (loro capo), Alichino, Calcabrina, Cagnazzo, Barbariccia, Libicocco, Draghignazzo, Ciriatto, Graffiacane, Farfarello, Rubicante, Scarmiglione. Tra questi, solo Alichino e Farfarello sono nomi tradizionali di diavoli (il secondo lo ritroveremo anche in un famoso dialogo del “Le operette Morali”).

L’anzian di Santa Zita. Si tratta di un magistrato, uno dei reggitori di Lucca, città in cui si venerava la santa.

Guido da Pisa e il Buti lo identificano in Martino Bottaio, morto nella notte tra il venerdì e il sabato santo del 1300. Ma più che sull’anonimo personaggio, Dante riversa la propria ironia su tutta la borghesia lucchese, dedita a speculazioni e traffici illeciti, e per di più di parte nera: nel 1309 da Lucca furono banditi tutti gli esuli bianchi fiorentini, rifugiatisi in quella città.

ELEMENTI PRINCIPALI

1) La commedia dei diavoli. La struttura del canto è vivace, ricca di apparizioni improvvise, colpi di scena, rappresentazioni sarcastiche: il primo atto, insomma, della commedia dei diavoli, che si protrarrà fino al canto XXIII. Su tutto scorre lo sguardo polemico di Dante, che, padrone dei suoi personaggi, ne ritrae crudeltà e bassezze: di fronte al peccato vile dell’inganno per denaro, la pena è abbietta, la condanna si fa più feroce nello scherno e nella grossolanità dell’invenzione. Da notare:

a) in apertura di canto (v. 2), Dante ricorda che di comedìa si tratta, quasi a introdurre, con un avvertimento, la vivacità e grossolanità di toni e il linguaggio popolare, cinico, triviale, dell’episodio;

b) al suo apparire la bolgia è paragonata all’arsenale di Venezia nel fervore dei lavori invernali. La scena è movimentata e, allargando il termine di paragone cui è riferita – l’arsenale in piena attività di uomini e di gesti è suggerito solo dalla pece ribollente sul fondo della bolgia – serve ad imprimere ritmo e brillantezza a tutto il canto;

c) il linguaggio triviale e sarcastico dei diavoli: nei dannati, allo strazio fisico si aggiunge lo strazio delle parole;

d) l’inganno di Malacoda: untuoso e ingannevole, il capo dei Malebranche blandisce Virgilio e gli offre una scorta, indicandogli un passaggio che in realtà non esiste.

2) La paura di Dante. Come davanti alle porte di Dite, la ragione umana, incarnata da Virgilio, soccombe alla menzogna, mentre la paura di Dante finisce per essere più ragionevole della sicurezza del suo maestro e diventerà elemento risolutivo della situazione drammatica (cfr. c. XXIII: riesce a convincere Virgilio ad accedere alla sesta bolgia e quindi a salvarsi dai diavoli che li incalzano).

RIASSUNTO

La 5a bolgia. I barattieri (vv. 1-21) Così parlando di vari argomenti, Dante e Vìrgilìo gìungono sulla sommìtà del ponte che separa la quarta dalla quìnta bolgia: guardando in basso, si accorgono che è più buia delle altre. Come in inverno, arrestata la navigazione, nell’arsenale dei Venezianì, sì fa bollìre la pece per riparare le navi danneggìate, così nella quìnta bolgìa, non a causa del fuoco, ma per volontà divina, bolle una densa pece vischìosa che bagna tutta la riva. In essa sono immersi i barattieri, nascosti però alla vista di Dante a causa del ribollire della pece. I diavoli. Un barattiere: l’anziano di Santa Zita (vv. 22-57)

Mentre Dante fissa scrutando il mare di pece, Virgilìo lo esorta a guardare verso un determinato punto.

Il poeta subito si volta a guardare come chi ansiosamente ha fretta di vedere ciò che gli conviene fuggire e vede un diavolo nero che viene correndo sullo scoglio: è fìero nell’aspetto. con le ali aperte e velocissimo nel movimento.

Sulle spalle porta un peccatore tenendolo per le caviglie e, mentre corre, grida ai suoi compagni diavoli, chiamandoli Malebranche, di sprofondare nella pece quel dannato, un anziano di Santa Zita: aggiunge che egli tornerà nella città di Lucca, dove tutti sono barattieri, eccetto Bonturo Dati (un ricco mercante di Lucca  che sopravvisse a Dante), per prendere altre anime.

Pronunciate queste parole, scaraventa il dannato dall’alto del ponte e subito se ne riparte più veloce di un mastino che, liberato dalla catena, insegua un ladro.

Intanto il dannato, dopo essere sprofondato nella pece, torna a galla con la schiena curva, ma i diavoli che stanno sotto il ponte, si fanno beffe di lui dicendo che lì non si adora il Santo Volto come a Lucca. e non si nuota come nel Serchio (il fiume nei pressi di Lucca).

Poi gli consigliano di non tentare di uscire dalla pece se non vuole essere trafitto dai loro rampini e intanto lo uncinano e lo spingono sotto come gli sguatteri immergono la carne nelle pentole perché non venga a galla.

Virgilio a colloquio con i diavoli: Malacoda. Paura di Dante (58-105)

Virgilio invita Dante a nascondersi dietro uno scoglio, mentre egli andrà a parlare con i diavoli; non deve preoccuparsi per lui, poiché egli sa come comportarsi in tali situazioni, avendo avuto già occasione di trovarcisi.

Detto questo, supera il ponte, ma non appena giunge sulla riva tra la 5a e la 6a bolgia, i demoni gli corrono incontro con quel furore e quell’accanimento con cui i cani si avventano contro il mendicante che chiede l’elemosina.

Subito Virgilio li arresta, dicendo loro di non colpirlo prima che abbia parlato con uno di essi: i diavoli sono tutti d’accordo nel mandare a colloquio Malacoda che, uscito dalla schiera dei compagni, si avvicina a Virgilio domandandogli il motivo della sua venuta in quel luogo.

Il Maestro risponde che egli accompagna Dante in questo viaggio per volere divino; a queste parole Malacoda abbandona il rampino dicendo ai compagni di non arrecare alcun danno ai due poeti.

Virgilio, ormai rassicurato, esorta Dante ad uscire dal nascondiglio e a recarsi accanto a lui: ma i diavoli, alla vista di Dante, si fanno tutti avanti, cosicché egli crede che non vogliano mantenere fede alla parola data, come accadde quando i fanti pisani, nonostante si fossero arresi al nemico, uscendo dal castello di Caprona, temettero di essere assaliti.

Perciò Dante si fa più vicino al maestro e non distoglie gli occhi dai demoni che, eccitati, vorrebbero colpire Dante con i loro rampini, ma vengono trattenuti da Malacoda.

L’inganno di Malacoda. Il drappello dei diavoli (106-139)

Rivolgendosi ai poeti, Malacoda li avverte che, per arrivare alla 6a bolgia, non si può proseguire attraverso il ponte che è crollato da 1266 anni, cioè dalla morte di Gesù Cristo[1]: se vogliono proseguire il viaggio, devono seguire l’argine fino a quando incontreranno un altro ponte: lungo il cammino saranno accompagnati da un drappello di diavoli che intanto controlleranno che nessuno esca dalla pece.

Essi sono: Alichino, Calcabrina, Cagnazzo, Libicocco, Draghignazzo, Ciriatto, Graffiacane, Farfarello, Rubicane, e a capo di essi, Barbariccia.

Dante, intimorito dall’aspetto minaccioso della scorta di demoni, preferirebbe proseguire da solo il cammino. ma Virgilio lo rassicura e ad uno sconcio segnale del capo Barbariccia, la compagnia si mette in cammino.


[1] I due poeti si accorgeranno dell’inganno di Malacoda solo dopo essere stati nella bolgia degli ipocriti (canto XXIII). lnfatti anche tutti i ponti successivi sono crollati a causa della morte di Cristo.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto XI e XII – Sintesi

Inf. 11 Baccio Baldini, Dante e Virgilio sedut...
Inf. 11 Baccio Baldini, Dante e Virgilio seduti presso la tomba di Anastasio (Photo credit: Wikipedia)

Canto XI

Siamo sempre nel VI cerchio in cui vengono puniti gli eretici ed in particolare i monofisiti (coloro che riconoscono in Cristo la sola natura umana).

Virgilio e Dante giungono sull’estremità di un’alta riva posta al di sopra del VII cerchio, costituita da un’enorme quantità di grosse pietre e qui, a causa dell’orrendo fetore che sale dal “profondo abisso”, sono costretti a ripararsi dietro al coperchio di una grossa tomba sulla cui superficie è scritto che all’interno giace papa Anasta­sio II (498-496)[1] (ritenuto eretico per errore della tradizione) distolto dalla retta via e quindi dal diacono orientale Fotino[2].

Virgilio comprende che D. deve abituarsi gradatamente all’odore e allora fa una sosta.

Dante chiede allora al Maestro di trovare qualche argomento in modo che il tempo dell’attesa non trascorra inutilmente: perciò Virgilio si accinge a spiegare l’ordinamento del profondo inferno (che segue la tripartizione aristotelica: incon­ti­nenza, violenza o matta bestialità, malizia).

All’interno della riva costituita dai grossi sassi vi sono tre cerchi più piccoli di quelli precedenti, abitati da altri spiriti dannati.

Tali spiriti sono sistemati nei diversi cerchi secondo un certo ordine dovuto alle colpe commesse.

In generale, il fine d’ogni peccato è un'”ingiuria”, cioè un’ingiustizia, portata a compimento con la forza o con l’inganno a danno altrui, ma poiché l’inganno è proprio esclusivamente dell’essere umano, offende Dio in modo ancor più grande ed è per questo motivo che i fraudolenti sono condannati nei cerchi più bassi.

Il primo dei tre cerchi è occupato dai violenti, ma poiché la violenza può essere attuata in tre modi diversi, tale cerchio è diviso in tre gironi infatti si può commettere violenza verso Dio, verso se stessi e verso il prossimo sia nella persona sia nelle cose.

Nel primo girone sono dunque condannati i violenti verso il prossimo nella persona, cioè gli omicidi e i feritori, e i violenti verso il prossimo nelle cose, cioè i

guastatori e i predoni.

Nel secondo girone sono condannati i violenti verso se stessi nella persona (suicidi e scialacquatori: violenti verso se stessi nelle cose).

Nel terzo girone sono condannati i violenti verso Dio nella persona che negano la sua natura o la sua bontà (bestemmiatori) i violenti verso Dio nelle cose (usurai, sodomiti).

Virgilio espone poi le forme di malizia (o frode): contro chi non si fida (ipocrisia e lusinga), contro chi si fida (tradimento).

La prima forma di frode è meno grave poiché rompe soltanto quel vincolo d’amore che la natura ha stabilito tra gli uomini: e quindi i dannati (ipocriti, adulatori, maghi, falsari, simoniaci, ruffiani, barattieri ecc.) occupano il secondo cerchio (le malebolge).

I dannati della seconda forma che rompono oltre al vincolo d’amore anche quello di fiducia sono puniti nel terzo cerchio (cocito), dove è situato il punto ove Lucifero è conficcato e dove sono puniti per l’eterno tutti i traditori (vv. 1-66)

Dante vuol saper perché gli altri dannati (incontinenti) incontrati si trovano fuori dalla città di Dite: Vitgilio replica che secondo Aristotele (trattato VII dell’Etica[3]) l’incontinenza offende Dio in modo minore ed è quindi meno biasimevole.

Pur soddisfatto della risposta Dante chiede a Virgilio perché l’usura offende Dio: Virgilio risponde che la filosofia aristotelica spiega come la natura abbia la sua origine dall’intelletto divino e dall’operare di tale intelletto e che, secondo la Fisica di Aristotele, l’arte dell’uomo segue, per quanto è possibile, la natura, come il discepolo segue il maestro, in modo tale che l’arte dell’uomo è, si può dire, nipote di Dio.

Dalla natura e dall’arte, come dice il libro della Genesi, conviene che il genere umano prenda i mezzi per vivere e avanzare progredendo e, dato che l’usuraio segue un’altra via, cioè vive e si arricchisce col denaro dato in prestito, disprezza l’arte e la natura offendendo in tal modo Dio.

Quindi Virgilio esorta Dante a seguirlo, poiché i pesci guizzano per l’orizzonte, cioè si avvicina l’alba e l’altra riva si può discendere in un punto più lontano (vv. 67-115).

XII Canto

Virgilio e  Dante discendono a causa di una frana, custodita dal Minotauro e causata dal terremoto seguito alla morte di Cristo, nel 7° cerchio dei violenti diviso, come abbiamo accennato, in tre gironi: il primo è costituito dal Flegetonte, fiume di sangue bollente in cui sono immersi i violenti contro la vita e le sostanze del prossimo tra cui i tiranni: Alessandro Magno[4] (per altri Alessan­dro di Fere), Dionisio, Attila, Ezzelino da Romano, ed altri; inoltre si fa cenno a due predoni (Rinieri da Corneto e Rinieri Pazzo).

Stanno a guardia il Minotauro ed i Centauri che saettano i dannati qualora escano più del dovuto dal sangue (vv. 1-99); Chirone[5], su richiesta di Virgilio, affida ai due poeti come guida Nesso (traghettatore che aveva tentato di violentare la moglie di Ercole, Deianira) che parla di alcuni dannati e li trasporta in groppa al di là del Flegetonte nel 2° girone (vv. 100-139) dove sono puniti i violen­ti contro se stessi ed i propri averi.


[1] Anastasio II invece che condannare la dottrina monofisita preferì il dialogo e la conciliazione e gli ambienti romani non lo perdonarono.

[2] Fotino di Tessalonica fu accolto benevolmente dal Papa e questo atteggiamento gli portò la condanna della Curia.

[3] È dedicato alle debolezze morali.

[4] Alessandro, succedendo al padre, aveva fatto strage dei parenti e dei numerosi fratellastri che avrebbero potuto contendergli il trono, se questi omicidi avevano almeno una spiegazione politica, altre efferatezze nacquero solo da arroganza e da ira incontrollata: nel 328 a.C. ad es. uccise l’amico fraterno Clito (che nella battaglia di Granico gli aveva salvata la vita), solo perché questi, durante un banchetto, insisteva nel dichiararlo meno glorioso di Filippo II.

[5] Il più saggio e capo dei Centauri; era immortale: fu precettore in vita di Achille, Giasone, Asclepio ecc.; si scambiò con Prometeo per morire.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto X – Sintesi

Painting by Andrea del Castagno depicting Fari...
Painting by Andrea del Castagno depicting Farinata degli Uberti. Villa Carducci, Florence. (Photo credit: Wikipedia)

L’azione si svolge circa alle due antelucane del 9 aprile 1300, sabato santo.

Siamo nel cerchio VI: una valle di campagna buia, illuminata da tombe scoperchiate e incandescenti per le fiamme che le circondano.

I dannati puniti in questo canto sono gli eresiarchi. Sono coloro che seguirono dottrine diverse da quelle della Chiesa cattolica romana.

In questo scorcio del cerchio, Dante incontra gli epicurei, eretici che negavano l’immortalità dell’anima[1].

PENA E CONTRAPPASSO

Gli eresiarchi giacciono dentro tombe infuocate, col coperchio sollevato; sono raggruppati secondo il tipo di eresia, ogni capo con i propri seguaci, e le tombe sono più o meno arroventate secondo la gravità della colpa.

Come in vita furono abbagliati da una luce fallace, ora sono costretti nelle tombe di fuoco.

Da notare il riferimento realistico: nel Medioevo, infatti, gli eretici erano puniti con il rogo.

PERSONAGGI

1) Farinata, Manente degli Uberti. Farinata è appunto appellativo di Manente degli Uberti, di antica famiglia fiorentina di parte ghibellina, che Ciacco, come già sappiamo, cita fra gli uomini degni del tempo passato (Inf. VI, 79), i Fiorentini “ch’a ben far puoser li ‘ngegni“.

Farinata visse a Firenze nei primi decenni del XIII secolo, mentre la città era tormentata da continue discordie.

Già nel 1239 era a capo della sua consorteria di parte ghibellina, e svolse una parte di primo piano nella cacciata dei guelfi nel 1248.

Quando, in seguito alla morte di Federico II, i guelfi rientrarono in città, si riaccesero i contrasti, e questa volta furono i ghibellini ad essere costretti all’esilio.

Farinata si stabilì a Siena e, riconosciuto come il più autorevole capo di parte ghibellina, riorganizzò le forze della sua parte.

Con l’appoggio degli armati di Manfredi, figlio di Federico II, Farinata fu uno dei principali artefici della vittoria di Montaperti, il 4 settembre 1260 e, nello stesso tempo, riuscì a salvare Firenze dalla distruzione decretata dai Ghibellini.

Nel congresso di Empoli, seguito subito alla battaglia, infatti fu l’unico tra i vincitori ad opporsi al progetto di distruggere Firenze.

A Firenze Farinata morì nel 1264, due anni prima della battaglia di Benevento che segnò, insieme, il tramonto della potenza sveva in Italia ed il definitivo rientro dei guelfi a Firenze.

Gli Uberti furono nuovamente esiliati, ma la vendetta non risparmiò neppure i morti.

Nel 1283 Farinata e sua moglie Adaleta furono accusati di eresia: le loro ossa, sepolte nella chiesa di S. Reparata, furono riesumate ed i loro beni furono confiscati agli eredi: l’impressione su Dante, appena diciottenne, dovette essere fortissima ed incancellabile anche a causa della grande personalità di Farinata.

Gli studiosi sono discordi nel valutare la fondatezza dell’accusa di eresia. Certo è che gli eretici contestavano la supremazia religiosa della chiesa di Roma, mentre i Ghibellini ne contestavano l’ingerenza politica: la convergenza di finalità causò spesso una certa confusione, sicuramente alimentata dalla propaganda guelfa.

2) Cavalcante de’ Cavalcanti. Gentiluomo fiorentino del XIII secolo, padre del celebre poeta Guido Cavalcanti, amico di Dante.

Cavalcante fu di parte guelfa e quindi avversario politico di Farinata, accanto al quale Dante lo destina a rimanere per l’eternità.

Al secondo, definitivo, ritorno dei Bianchi in Firenze, nel 1267, per rendere più stabile la pace in città si strinsero legami di parentela fra le famiglie di opposte fazioni: il figlio di Cavalcante, fu così fidanzato alla figlia di Farinata, Beatrice.

Cavalcante era un epicureo, e ciò, fra il 1200 e il 1300, significava che non credeva nell’immortalità dell’anima e quindi nel magistero della chiesa: era, in sostanza, un pensatore laico.

3) Federico II. L’ultimo degli imperatori Svevi (1194-1250), re di Napoli e di Sicilia. Ammirato da Dante, protettore delle arti e della poesia. Fu accusato di eresia. Salimbene ci riferisce che fosse epicureo e che quindi cercasse e facesse cercare dai suoi dotti, nelle Sacre Scritture, ciò che potesse dimostrare che non vi è altra vita dopo la morte.

<<Il Cardinale>>. Ottaviano degli Ubaldini, vescovo di Bologna e poi cardinale dal 1245. Pur combattendo contro Manfredi e Federico II, a favore del pontefice fu fautore dei ghibellini, morì nel 1273. È considerato un epicureo perché i commentatori antichi riferiscono di lui un caratteristico motto: <<Io posso dire, se è anima, che l’ho perduta per parte ghibellina>>.

ELEMENTI PRINCIPALI

1) La figura di Farinata. Farinata degli Uberti è il personaggio che domina il canto e non solo metaforicamente: già la sua rappresentazione fisica, con quell’ergersi dalla cintola in su e l’espressione accigliata e sdegnosa, dicono di lui come di figura importante e degna.

Benché ghibellino irriducibile, avversario fiero di Dante, questi non può fare a meno di rilevarne la statura morale e politica, che espresse nell’amor patrio e nell’atteggiamento magnanimo, e che culminò nella difesa strenua di Firenze al convegno di Empoli.

Ma Farinata non è solo l’appassionato politico, è anche l’uomo che ha meditato gravemente sui destini suoi e della sua città, che è colpito da quanto Dante gli va raccontando, che mormora quasi a giustificarsi che quanto ha fatto a Montaperti non è stato senza una causa.

Farinata rappresenta insomma la figura dell’uomo politico integro, fedele ad una causa da generazioni, la cui azione e comunque dettata da necessità, e che opera in direzione del bene e della grandezza della propria patria.

2) La profezia di Farinata. «Non passeranno cinquanta mesi, che tu saprai quanto è difficile ritornare in patria»: così dice Farinata a Dante (cfr. vv. 79-81). La profezia si riferisce all’esilio di Dante; nel momento del dialogo con Farinata siamo nell’aprile del 1300, Dante sarà esiliato nel 1302 e fino al 1304 parteciperà ai tentativi dei Bianchi per tornare in Firenze: si tratta per l’appunto di quattro anni e due mesi.

Le parole di Farinata colpiscono profondamente Dante, più di quanto avessero fatto quelle di Ciacco (cfr. c. VI), per la gravità oggettiva delle sventure che preannunciano.

Altre profezie sul suo destino egli sentirà da altri dannati e anime salve, fino al definitivo svelamento del suo futuro, cui già allude qui Virgilio, nel momento del suo incontro con l’avo Cacciaguida in Paradiso.

3) Tema politico. Il canto ripercorre le tappe della storia politica di Firenze, così fortemente legata alla storia delle lotte tra fazioni guelfe e ghibelline, tra Bianchi e Neri, cui appartenevano le grandi famiglie come gli Uberti.

L’antagonismo tra Farinata e Dante e dunque un antagonismo di casato: si manifesta fin dalla cacciata dei guelfi da Firenze nel 1248, e nella successiva vittoria dei Ghibellini a Montaperti nel 1260 (“per due fiate dispersi”), quando Dante non era neppure nato.

E se la famiglia degli Alighieri non aveva in realtà il peso politico che rivestivano gli Uberti, poco importa: Dante è qui partecipe, nella finzione poetica, di quelle vicende che lo vedranno protagonista appassionato e poi, nell’esilio, sempre più staccato e amareggiato osservatore.

4) II dolore paterno di Cavalcante. Cavalcante Cavalcanti si stacca decisamente e volutamente dal personaggio Farinata, per il modo tutto personale di patire la stessa pena.

Personaggio minore, si solleva solo fino al mento, in ginocchio, mentre l’altro si erge con tutto il busto, imponente, vive come raffigurazione dell’amore paterno, angosciato per la sorte del figlio, al punto da equivocare le parole di Dante e crederlo morto.

Il suo episodio, inserito con taglio cinematografico all’interno del dialogo tra Dante e Farinata, illumina per contrasto anche l’altra scena.

Farinata interpella Dante avendone riconosciuto la parlata toscana, chiedendogli chi furono i suoi avi; Cavalcante lo riconosce subito ed e preso unicamente dalla preoccupazione di non vedere accanto a lui l’amato figlio, grande poeta e grande amico di Dante.

Farinata, del resto, riprende il dialogo come se non l’avesse neppure sentito, intento a riflettere su quanto Dante gli ha appena detto. L’angoscia è di entrambi, diverso e il modo di sentirla.

5) La preveggenza dei dannati. Il colloquio con Cavalcanti è funzionale anche a innescare la questione dottrinaria sulla preveggenza dei dannati, che viene poi trattata da Farinata.

Egli rivela a Dante che tale preveggenza è simile alla vista dei presbiti, che vedono bene da lontano, ma non da vicino.

Sanno cioè, i dannati, riconoscere bene gli avvenimenti nel futuro, ma quando quelli si avvicinano non li conoscono più, fino ad essere come ciechi rispetto al presente (ed infatti Cavalcante non sa se suo figlio sia vivo o meno).

Tale conoscenza del futuro durerà fino al giudizio universale, quando, non esistendo più il mondo, non vi saranno più categorie temporali, così che il chiudersi delle tombe sugli eretici coinciderà con la loro totale e definitiva cecità.

RIASSUNTO

1-21 Dante e Virgilio proseguono il viaggio per un angusto sentiero posto tra le mura della città di Dite e le tombe arroventate in cui sono puniti gli eretici.

Il discepolo chiede di potersi intrattenere con le anime che giacciono nei sepolcri incustoditi e dal coperchio sollevato.

Virgilio, intuendo l’inespresso desiderio del poeta – che sarà presto soddisfatto – di poter conferire con Farinata, ricorda a Dante che le tombe in cui sono puniti i negatori dell’immortalità dell’anima (epicurei) saranno serrate il giorno del giudizio universale.

22-51 Un dannato interrompe il dialogo tra i due pellegrini: il linguaggio usato da Dante gli rende manifesta la presenza di un concittadino. Il poeta, intimorito, si volge a Virgilio, ma questi lo rassicura, invitandolo a parlare degnamente: il peccatore è Farinata degli Uberti che chiede a Dante da quale casata discenda; il poeta replica di appartenere alla famiglia degli Alaghieri.

Farinata afferma di averli cacciati da Firenze due volte (1248-1260) e D. replica che essi sono tornati (1251-1266[2]) mentre gli Uberti sono rimasti esuli (dal 1258)[3].

52-72 Un’ombra si leva ginocchioni da un sepolcro: è Cavalcante Cavalcanti che cerca inutilmente con lo sguardo il figlio Guido, degno, secondo il padre, di affiancare Dante per altezza d’ingegno; il poeta ne spiega l’assenza perché il viaggio è dovuto alla Grazia divina, sdegnata da Guido, non a meriti poetici.

D. si lascia sfuggire “Guido vostro ebbe” per cui Cavalcante fraintende le parole di Dante deducendone la morte del figlio e si lascia ricadere supino per sempre nell’arca.

73-120 Farinata, impassibile, riprende il filo del discorso interrotto da Cavalcante dolendosi dell’esilio imposto ai suoi e afferma che prima di 50 giorni anche Dante saprà che cosa vuol dire l’esilio.

Chiede poi perché i Fiorenti­ni non facciano tornare in patria gli Uberti e Dante spiega che il motivo è da ritrovarsi nel perdurare del ricordo della batta­glia di Montaperti (1260), dove Farinata ed i Ghibellini avevano trionfato.

Farinata replica che non solo gli Uberti hanno parte­cipato a quella battaglia e che comunque fu proprio lui che nel Concilio di Empoli si oppose alla decisione dei Ghibellini di radere al suolo Firenze (la proposta venne dal senese ghibellino Provenzan Salvani che D. incontrerà nella prima cornice del purgatorio: v. canto XI).

Un ultimo dubbio assilla Dante: quale sia la condizione dei dannati che paiono prevedere il futuro ma non conoscere il presente. Tale condizione, spiega Farinata, analoga a quella dei presbiti (vedono le cose lontane ma non le vicine)[4], cesserà nel giorno del giudizio finale, quando la luce di Dio non illuminerà più il futuro, ma tutto sara presente, oscuro e morto.

Dante comprende allora perché Cavalcante sia rientra­to nella tomba[5] e prega Farinata di far presente al Cavalcanti che suo figlio è ancora in vita (morirà quattro mesi dopo).

Già richiamato da Virgilio, il poeta viene a sapere della presenza tra gli epicurei, di Federico II e del cardinale Ottaviano degli Ubaldini.

121-136 Farinata è ormai ricaduto nel sepolcro, ma la sua profezia ha sconvolto Dante, che viene rincuorato dal maestro: la verità sul futuro della sua vita gli sarà svelata da Beatrice, in Paradiso (sarà invece Cacciaguida nel XVII canto del Paradiso a narrare a D. il viaggio della sua vita). Quindi entrambi s’incamminano per un sentiero che conduce ad una valle dal puzzo orribile.


[1]  Epicuro pensò un’anima costituita da atomi sottili e corporea. La dissoluzione del corpo con la morte conduce alla dissoluzione dell’anima, che non può esistere indipendentemente dal corpo: la vita nell’aldilà non è dunque possibile. Poiché la morte significa estinzione totale, essa non ha significato per i vivi o i morti, giacché: “Se ci siamo, non c’è la morte; e quando c’è la morte, non ci siamo più noi“.

[2] Dopo la battaglia di Benevento.

[3] Nell’incontro con Farinata emergono soprattutto due temi, cari alla meditazione dantesca: 1. La disputa politica e la conseguente accusa di eresia 2. Il tema della famiglia: la pena per i propri discendenti esiliati, il dilemma se le colpe dei padri debbano ricadere sui figli. E’ lo stesso dilemma di Dante nelle varie occasioni in cui avrebbe potuto far ritorno a Firenze e liberare così dall’esilio i suoi figli maschi.

[4] Questa norma applicata qui per la prima volta come contrap­passo della colpa di questi peccatori, sarà estesa in seguito a tutti i dannati, diventando norma generale.

[5]  Fino a questo punto aveva creduto che i dannati cono­scesse­ro oltre al futuro anche il presente: v. il dialogo con Ciacco.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto IX – Sintesi

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ARGOMENTO IN BREVE

 Ancora nel 5° cerchio Dante è spaventato ma Virgilio lo rassicura (vv. 1-33) Sulla torre appaiono tre furie che chiedono a Medusa di impietrire Dante (vv. 34-63).

Uno spirito celeste interviene redarguendo i demoni ed apre con la verga la porta della città (vv. 64-105).

I due poeti entrano quindi nel 6° cerchio[1] ove sono puniti dentro sepolcri infuoca­ti gli eresiarchi (bestemmiato­ri, capi di una setta), gli ereti­ci, gli epicurei che non credettero nell’immor­talità dell’anima (vv. 106-133).

RIASSUNTO

1 – 33 PAURA DI DANTE  E CONFORTO DI VIRGILIO

Il pallore di D. spinge V. a nascondere maggiormente la sua preoccupazione per non accrescere nel discepolo i timori.

Si ferma un attimo porgendo l’orecchio per udire se si percepisce qualche rumore che preannunci l’aspettato aiuto, pronuncia tra sé e sé alcune parole reticenti, ma a Dante ne rivolge altre di conforto.

Questi impaurito chiede a Virgilio se alcuna mai delle anime del Limbo abbia percorso questa strada; V., che comprende il pensiero nascosto del discepolo, lo rassicura; conosce bene il cammino che già un’altra volta ha percorso per scendere, scongiurato da una maga, nel cerchio più basso, “per trarne un spirito”.

34 – 60 APPARIZIONE DELLE FURIE

Mentre ascolta le parole di conforto Dante è attratto improvvisamente dall’apparizione delle tre Furie sulla cima della torre arroventata: esse sono tinte di sangue ed hanno per capelli dei serpenti aggrovigliati.

Virgilio le indica a D.: Megera (che simboleggia la violenza del VII cerchio)  a sinistra, a destra Aletto (la frode di chi non si fida dell’VIII cerchio), nel centro Tesifone (la frode di chi si fida del IX cerchio).

Esse gridano e si graffiano il petto invocando la venuta di Medusa per impietrire l’ardito visitatore vivo.

Allora V. ordina a D. di chiudere gli occhi e di voltarsi avvertendolo che, se mai guardasse, vano sarebbe sperare nel ritorno: e non contento aggiunge ancora le sue mani per chiudere gli occhi al discepolo.

61 – 103 ARRIVO DEL MESSO CELESTE

Dante dopo essersi rivolto al lettore esortandolo ad aguzzar l’ingegno per cogliere il significato profondo del suo racconto, procede nella sua narrazione.

Un improvviso e spaventoso fracasso sulla palude annuncia l’avvento di qualcosa di straordinario.

Virgilio toglie le mani dagli occhi di D. e lo invita a guardare. Sta giungendo un messo celeste che passa lo Stige a piedi asciutti e dinnanzi al quale fuggono i dannati e i demoni: giunge alla porta e con una verga e  la spalanca.

Poi volgendosi ai demoni li rimprovera aspramente ricordando loro che non ci si può opporre al volere divino e infine, senza dire alcuna parola ai due poeti, se ne ritorna indietro.

104 – l33 DANTE E VIRGILIO ENTRANO NEL CERCHIO 6°

Allontanatosi il messo, D. e V. entrano nella città di Dite senza trovare resistenza.

I demoni, le Furie, tutto è sparito, non resta che la squallida solitudine del cerchio 6°’ che sembra un vasto e silenzioso cimitero.

Nell’aspra e nuda landa si aprono dei sepolcri arroventati: i coperchi sono alzati e si sentono i gemiti e i pianti dei dannati uscire dagli avelli. Chiestane spiegazione a V., D. viene a sapere che qui stanno gli eretici e prosegue il cammino tra le mura e le arche infuocate.


[1] I peccatori di questo cerchio si considerano a sé stanti in quanto non possono essere ricompresi nella tripartizione aristote­lica; difatti il peccato offende soltanto un dogma della religio­ne cattolica.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto VII – Sintesi

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L’azione si svolge alla mezzanotte tra l’8 e il 9 aprile 1300, venerdì e sabato santo nel cerchio IV, affollato più che altrove di dannati.

Al bordo esterno sgorga la sorgente d’acqua che ribollendo si riversa nel cerchio successivo. Il Custode del cerchio è  Pluto.

Si passa poi al cerchio V nella palude stigia: è costituita da acqua putrida e scura, melmosa. Il Custode è Flegias.

I dannati  del cerchio IV sono gli avari e i prodighi: sono coloro che non seppero usare con misura ed equilibrio i beni materiali. Divisi in due schiere, sono soprattutto uomini di Chiesa.

I dannati  del cerchio V sono gli iracondi e accidiosi. Sono puniti insieme, poiché l’accidia[1] è considerata una forma, un livello particolarmente cupo e introverso dell’ira.

PENA E CONTRAPPASSO

Gli avari e i prodighi sono costretti a girare attorno in due schiere distinte e in direzioni opposte rotolando enormi macigni col petto; si scontrano eternamente in un punto scambiandosi aspri insulti e quindi tornando indietro.

La loro fatica è  vana come in vita avevano vanamente accumulato o sperperato ricchezze.

Gli iracondi sono immersi nella palude, e si sbranano a vicenda con rabbia. Essi in vita furono vinti dal fumo dell’ira, e percossero e dilaniarono gli altri; ora stanno nel fumoso fango dello Stige, e si percuotono e dilaniano tra di loro.

Gli accidiosi sono completamente sommersi sotto il fango e mormorano continuamente la loro colpa e la loro pena: sono così costretti ad ingoiare fango, di loro si vedono solo le bolle in superficie.

Essi non seppero usare il tempo della vita terrena, né seppero far uso della parola o di altre facoltà umane; ora sono immersi totalmente nel fango ed è loro proibita la visione dell’aria, per cui possono solo lamentarsi gorgogliando.

PERSONAGGI

Pluto. Dio della ricchezza, figlio di Giasone e di Demetra. Era nato a Creta. Figurava inizialmente nel seguito di Demetra e di Persefone, sotto le sembianze di un bel giovane oppure d’un fanciullo che porta un corno dell’abbondanza.

Più tardi, con lo sviluppo della ricchezza mobiliare, Pluto si distaccò dal gruppo di Demetra[2] e diventò la personificazione della ricchezza in genere.

A lui è consacrata la forma sotto la quale interviene nella commedia d’Aristofane. Pluto è rappresentato dai comici (e dalla saggezza popolare) come cieco, poiché fa visita indifferentemente ai buoni come ai cattivi.

Secondo Aristofane, Zeus stesso avrebbe accecato Pluto, per impedirgli di ricompensare le persone dabbene e costringerlo così a favorire i cattivi. Ma siamo più nel campo della simbologia che del mito (Es. Teog. 969 55.; Diod. Sic. 5,49; Inno om. a Dem. 486. Aristof. Plut. passim.,).

Dante né fa un demone, con la tecnica collaudata di insistere su particolari realistici o grotteschi, come la voce chioccia o le enfiate labbia.

ELEMENTI PRINCIPALI

1) I dannati del quarto cerchio. Tra i dannati di questo cerchio degli avari e prodighi, Dante non riconosce nessuno. Al di là della spiegazione dottrinaria di Virgilio (essi furono ciechi alla conoscenza, cosi ora sono irriconoscibili), l’autore non cita alcun personaggio perché la sua condanna coinvolge l’intero organismo ecclesiastico, reo di una delle colpe più gravi, a giudizio di Dante: l’avarizia.

La Chiesa, in questo canto e nell’opera tutta, si è quindi macchiata del peccato maggiore, proprio quello simboleggiato nel canto I dalla lupa, la fiera che più delle altre costringe Dante a retrocedere dalla strada della salvezza.

2) Il concetto di Fortuna. La colpa degli avari e dei prodighi, che non seppero avere un rapporto giusto con i beni naturali, è occasione per inserire la questione dottrinaria sul concetto di Fortuna, che è anche una pausa, un respiro più lungo nella narrazione.

Dante qui modifica la concezione diffusa nel Medioevo ed ereditata dal mondo classico, trasformando la dea capricciosa[3] in una intelligenza celeste, in uno strumento della Provvidenza divina.

Così la ruota della Fortuna che cambia le sorti degli uomini e dei popoli diventa una sfera, al pari delle sfere celesti, e la dea è una delle intelligenze motrici dell’universo, quella che presiede ai destini umani e il cui mutevole e rapido agire e voluto da Dio.

Gli uomini non la possono contrastare, perché sarebbe vano qualsiasi tentativo di opporsi al sommo Fattore.

Questo è il monito che Dante, attraverso le parole di Virgilio, lancia alla presunzione umana, e originale è la collocazione, filosofico-teologica, di un concetto cosi squisitamente terreno.

3) La struttura del canto. Si tratta del primo canto in cui la struttura letteraria non corrisponde a quella topografica e figurativa, per cui ogni canto e occupato da un solo cerchio infernale.

Il settimo canto accoglie infatti il quarto e il quinto cerchio, e nel passaggio dall’uno all’altro si inserisce una pausa, che diventerà tipica, di carattere dottrinario (appunto la disquisizione sulla Fortuna).

Da notare, inoltre, che nel medesimo cerchio sono punite due categorie di peccatori, unite dalla correlazione della colpa per contrasto (avari/prodighi – iracondi/accidiosi).

RIASSUNTO

I-I5 Alla vista dei due poeti, Pluto, il demone custode del cerchio quarto, grida parole blasfeme.

Subito Virgilio interviene e, rassicurato Dante, zittisce il feroce mostro: il viaggio di Dante e voluto da Dio, là dove l’arcangelo[4] Michele vendicò la superbia degli angeli ribelli[5].

Pluto si accoscia sconfitto, come fanno le vele quando si spezza l’albero della nave.

16-66 Dante e Virgilio scendono nel quarto cerchio: tanta è la folla delle anime che lì si assiepa, in una ridda di movimenti che fa pensare ai gorghi di Scilla e Cariddi.

Sono gli avari ed i prodighi: divisi in due schiere, fanno rotolare con il petto grossi

macigni, girando in senso opposto gli uni agli altri, cosi da scontrarsi in uno stesso punto; dove ciascuno, prima di allontanarsi, grida con rabbia all’altro: «Perché trattieni?» o «Perché getti via?». Poi riprendono l’eterno tragitto per scontrarsi nel punto opposto. Vedendo tra gli avari tante teste con la chierica, Dante vuole sapere se furono tutti uomini di Chiesa.

Virgilio risponde che tutti, dell’una e dell’altra schiera, furono spiritualmente ciechi, perché incapaci di tenere la giusta misura tra l’avarizia e la prodigalità; in particolare gli avari furono non solo chierici, ma anche papi e cardinali.

Dante non riesce a riconoscerne nessuno perché, così come in vita furono incapaci di discernere tra bene e male, ora sono impermeabili a ogni conoscenza.

Andranno perciò a cozzare perpetuamente gli uni contro gli altri: gli avari risorgeranno col pugno stretto, i prodighi col capo raso e in eterno sara loro precluso il Paradiso.

Virgilio conclude affermando quanto sia breve l’inganno dei beni affidati alla Fortuna, quelle ricchezze per cui gli uomini si affannano tanto, perché neppure tutto l’oro che si trova sotto il cielo della luna potrebbe ora appagare queste anime dannate.

67-96 Dante chiede allora a Virgilio di spiegargli che cosa sia quella Fortuna che dispone così delle ricchezze terrene.

Virgilio volentieri lo illumina[6]: Dio, che ha creato i cieli e le intelligenze che presiedono ai loro movimenti, ha ugualmente assegnato al mondo una dispensiera di beni, che di volta in volta distribuisce all’uno o all’altro popolo, al di là delle previsioni e delle difese dell’uomo, secondo il suo occulto giudizio.

Le intelligenze motrici (i nove cori angelici),  secondo il disegno divino, illuminano ugualmente  con la loro luce intellettuale (che riflette la luce di Dio) ogni cielo materiale (ogni sfera celeste), così la Fortuna persegue il suo compito[7] senza che gli uomini possano contrastarla: i suoi cambiamenti sono rapidissimi e seguono appunto il volere divino.

Gli uomini la maledicono ingiustamente[8], ma lei non se ne cura e continua, lieta, a girare la sua sfera.

97-129 I due poeti attraversano il luogo all’altezza di una fonte che ribolle, riversando le sue acque in un fossato.

Dante e Virgilio ne seguono le sponde fino alla palude che si forma nel quinto cerchio: è la palude Stigia[9], dalle acque limacciose e scure, dove Dante vede immersi gli iracondi che si picchiano e mordono a vicenda.

Virgilio glieli indica e dice pure a Dante che, sotto il fango, stanno le anime degli accidiosi che, sospirando, fanno gorgogliare la superficie.

Essi mormorano eternamente la loro colpa, ricordando il tempo beato della loro esistenza quando furono tristi, e ora si rattristano nella melma. I due poeti girano intorno alla palude Stigia, fino a raggiungere i piedi di una torre.


[1] Accidia (gr. akêdía, da a priv. e kêdos, cura). Difetto di operosità nel fare il bene; negligenza: L’a. è uno dei sette peccati capitali.  Nella morale cattolica è il fastidio o tedio del ben fare e la negligenza per ciò che riguarda le cose di Dio e dell’anima.

[2] Demetra – «Madre Terra» o «Madre dell’orzo e del grano»; nata da Crono e da Rea, fu una delle più antiche divinità del mondo greco, personificante la forza generatrice della Terra. D. fu nell’Attica una delle più grandi divinità dell’agricoltura e venerata in Eleusi dove si celebravano i misteri eleusini.

[3] Fortuna Nella mitologia romana, dea del caso e della buona sorte. Fin dai tempi più antichi, il suo culto era diffuso in tutto l’impero romano. Dapprima fu considerata una dea della fertilità o della prosperità, ma poi la si invocò soltanto per essere favoriti dalla sorte, consultandola spesso sul futuro mediante il suo oracolo nei templi di Anzio e Preneste (oggi Palestrina). Tema artistico molto trattato, è solitamente raffigurata con un timone in una mano, per indicare la sua funzione di guida dei destini del mondo, e una cornucopia, simbolo dell’abbondanza, nell’altra. Con il tempo venne identificata con la dea greca Tyche (metà Potenza e metà Provvidenza).

 [4] Arcàngelo (gr. archángelos, da árchein, essere a capo e ángelos, angelo). Angelo di un ordine superiore. Gli a. sono nominati nel Nuovo Testamento e nella letteratura apocalittica giudaica. La tradizione cristiana vi annovera Michele, Raffaele, Gabriele e talora anche Uriele.

[5] Michèle Arcangelo, santo. Nella Bibbia, nome di un principe degli angeli. Nel Nuovo Testamento è menzionato nell’Apocalisse, dove a capo dei suoi angeli conduce la lotta contro le potenze del male e le sconfigge. Una tarda leggenda vide san M. nell’angelo apparso a san Gregorio Magno durante la peste del 590. – Festa l’8 maggio e il 29 settembre.

[6] Questo tema sarà ripreso con grande ricchezza di particolari nel canto XVI del Paradiso.

[7] Da D. è quindi assimilata, in ossequio alla tradizione cristiana, al concetto di Provvidenza: egli sottrae il mondo e la storia al caso e li razionalizza nel momento in cui riconosce l’insufficienza della ragione umana a comprendere i disegni della Fortuna.

[8] La dovrebbero invece lodare perché sta facendo ciò per cui è stata creata: in questo passo Dante ha certamente tenuto presente gli insegnamenti del filosofo Severino Boezio.

[9] Stige, «Odioso». Torrente dell’Arcadia, che nasceva dalla pendice nordorientale del monte Aroánia (od. Chelmos), precipitando in un’oscura e selvaggia gola rocciosa profonda oltre 200 m, e confluendo poi attraverso questa nel Crati, presso Nonacri. Nella mitologia greca, fiume situato all’ingresso degli Inferi su cui l’anziano barcaiolo Caronte traghettava le anime dei morti. Il fiume era personificato da una figlia del titano Oceano, e Stige era garante dei sacri giuramenti che vincolavano gli dei. Gli antichi greci ritenevano che le sue acque fossero venefiche e associavano il fiume con il mondo sotterraneo dai tempi di Omero. Achille vi fu immerso dalla madre Teti che voleva renderlo invulnerabile. Nell’inferno dantesco lo S. è appunto la palude che circonda la città di Dite.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto VI – Sintesi

Inf. 16 Baccio Baldini, Dante e Virgilio a col...
Inf. 16 Baccio Baldini, Dante e Virgilio a colloquio con Jacopo Rusticucci, Guido Guerra e Tegghiaio Aldobrandi, (Photo credit: Wikipedia)

Il canto si apre nella serata dell’8 aprile 1300, venerdì santo nel cerchio III,  battuto da una  pioggia fredda, scura, incessante, mista a grandine e neve.

Il custode del cerchio è Cerbero.

I dannati puniti in questo cerchio sono  i golosi, coloro che eccedettero nell’amore per il cibo e le bevande.

PENA E CONTRAPPASSO

I golosi giacciono a terra, immersi nel fango; sono tormentati dalla pioggia putrida e dai latrati feroci di Cerbero e dilaniati dalle sue zanne.

Come in vita amarono cibi e bevande raffinate, sono ora costretti a mangiare il fango, immersi nel limo nauseabondo e preda dell’avidità di Cerbero.

PERSONAGGI

Cerbero. Personaggio mitologico, figlio del gigante Tifeo e di Echidna. Nella mitologia greca, cane con tre teste e coda di drago che faceva la guardia all’ingresso dell’Ade, il mondo sotterraneo.

Il mostro consentiva a tutti gli spiriti di varcare la soglia, ma non avrebbe permesso a nessuno di andarsene. Soltanto alcuni eroi riuscirono a eluderne la sorveglianza: il poeta e musicista Orfeo incantò l’animale con il suono della sua lira, e l’eroe greco Eracle lo catturò con la sola forza delle braccia e lo portò per breve tempo nel mondo terreno.

Nella mitologia romana la bellissima giovane Psiche[1] e il principe troiano Enea riuscirono a distrarre Cerbero gettandogli un dolce al miele per poter continuare il viaggio attraverso gli Inferi. Talvolta Cerbero è raffigurato con un gran numero di serpenti sul dorso e cinquanta o cento teste.

Secondo alcuni autori classici, è un cane a tre fauci con coda e crini di serpente (cfr. Virgilio, Eneide VI,417-423; Georgiche I V, 483; Ovidio, Metamorfosi IV, 448-453).

Dante lo raffigura come un cane con tre teste, dagli occhi sanguigni, la barba unta e nera, il ventre largo e le zanne unghiate, mescolando elementi umani ed elementi bestiali, in una rappresentazione personale che evidenzia particolari di una crudezza realistica e grottesca, estranea ai modelli.

Ciacco. Non si sa chi sia: «ciacco» significa «porco» in toscano, ma Dante non ha accenti particolarmente spregiativi nei suoi confronti: Ciacco e anche nome proprio (da Giacomo o Jacopo). l’Ottimo e l’Anonimo lo identificano genericamente come uomo di corte e parassita, di buoni costumi, dedito ai banchetti e ai piaceri della gola. Per altri si tratta di Ciacco dell’Anguillaia, banchiere e rimatore fiorentino del XIII secolo.

PERSONAGGI CITATI

Farinata degli Uberti (cfr. c. X); Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari (cfr. c. XVI); Iacopo Rusticucci (cfr. c. XVI); Arrigo, forse dei Fifanti (cfr. G. Villani, Cronica V, 38); Mosca, dei Lamberti (cfr. c. XXVIII).

ELEMENTI PRINCIPALI

1) Tema politico. Il sesto canto e unanimemente considerato il canto politico dell’Inferno, in parallelo a quelli corrispondenti delle altre due cantiche. Qui Dante affida ad un fiorentino[2], tutto preso dall’amor patrio, il compito di esprimere quello che e il proprio personale giudizio sulle vicende politiche di Firenze, giudizio compendiato nei tre attributi che marchiano la città (cfr. vv. 74-75): la superbia del dominio, l’invidia tra i potenti, l’avarizia e l’avidità mercantile, vizi che saranno la causa della sua rovina.

2) La profezia di Ciacco. È la prima, importante profezia sul destino di Firenze e, implicitamente, su quello di Dante. Ciacco parla di lunghe contese tra le parti che sfoceranno negli scontri scoppiati il 1° maggio de1 1300, in occasione di una festa in piazza di Santa Trinità, tra alcuni giovani della famiglia Donati, di parte nera, e altri della famiglia dei Cerchi, di parte bianca.

L’episodio dà origine ad una serie di violenze ed odi cittadini e i Bianchi, che già avevano in mano la citta, cacciano l’altra fazione capeggiata dai Donati.

Ma a proteggere i Neri interviene allora papa Bonifacio VIII (“tal che teste piaggia”): interessato a impadronirsi di Firenze e della Toscana tutta, appoggia la parte più debole perché piu facilmente ricattabile.

Così nel 1301,  Bonifacio invia Carlo di Valois[3] a Firenze, apparentemente per pacificare le parti nella citta: in realtà Carlo entra in Firenze a fianco dei Neri per rovesciare il dominio dei Bianchi.

Nel 1302 i Neri, padroni del Comune, condannano e bandiscono da Firenze centinaia di Bianchi, tra cui Dante stesso. Cosi inizierà l’esilio del poeta, che sarà oggetto di tante altre profezie e passi del poema.

3) Tema teologico. Allontanandosi da Ciacco, Dante vuole sapere quale sarà il destino delle anime dopo il giudizio universale, se esse soffriranno di meno o se la pena rimarrà uguale.

Si tratta di una breve digressione dottrinaria a chiusura del canto, indice di quell’interesse tutto medievale per l’effettiva condizione dell’uomo dopo la morte, che il poeta continuerà a circostanziare lungo tutto il poema. Virgilio, rifacendosi alla teologia scolastica, ricorda che la perfezione, nel bene e nel male, fa «sentire» di più: il ricongiungimento dell’anima al corpo provocherà quindi una pena maggiore per i dannati, e una maggiore beatitudine per le anime del Paradiso.

RIASSUNTO

1-33 Dante riprende i sensi ed ai suoi occhi si presentano nuovi peccatori e nuove sofferenze: si e giunti infatti al terzo cerchio in cui vengono puniti i golosi.

Una pioggia fredda e nera mista a grandine e neve cade incessantemente sulle anime dei dannati prostrati nel fango, rintronati dagli assordanti latrati e scuoiati dalle unghiate di Cerbero, mostro con tre fauci dagli occhi vermigli, la barba ispida ed unta, il ventre largo: il demonio custode del girone. Alla vista dei due poeti la fiera smania e strepita, colta da violento furore, ma Virgilio l’acquieta gettandole manciate di terra tra le fauci.

34-75 Tutte le anime giacciono nel fango, ma tra esse una si leva a sedere al passaggio dei due pellegrini: è il fiorentino Ciacco, sfigurato dai patimenti, che, fattosi riconoscere da Dante, ne soddisfa il desiderio di conoscenza circa l’esito delle discordie a Firenze, l’esistenza di qualcuno che si mantenga al di sopra delle parti, l’origine delle contese nella città.

Le risposte del dannato sono dolorose per il poeta: dapprima lo scontro sara vinto dalla parte se1vaggia, i Bianchi, ma prima che siano passati tre anni i Neri riusciranno a prevalere con 1’aiuto di Bonifacio imponendo un giogo pesantissimo alla parte avversa; due sono i giusti, ed inascoltati; l’origine delle discordie è dovuta alla superbia, all’avarizia ed all’invidia.

76-93  Ciacco si interrompe e D. lo prega di fargli ancora conoscere la sorte di Farinata[4], del Tegghiaio[5], di Iacopo Rusticucci[6], di Arrigo[7] e di Mosca[8], tutti cittadini distintisi nell’impegno civile a Firenze[9]: ma per nessuno di costoro i meriti politici sono valsi a salvarli, tutti giacciono all’Inferno.

Prima di tacere per sempre Ciacco prega il poeta di ricordarlo al dolce mondo; poi, dopo aver distorto gli occhi da D., ricade nel fango con gli altri dannati.

94-115 Virgilio ricorda a Dante che l’anima del suo concittadino si ridesterà nel giorno del giudizio universale, quando tutti i dannati rivestiranno le propri spoglie mortali ed udranno la sentenza di condanna alla dannazione eterna.

Ragionando sulla vita d’oltretomba il poeta latino risponde alla domanda del discepolo circa la condizione delle anime quando saranno riunite al corpo: il supplizio sarà maggiore e perfetto, come insegna la dottrina scolastica[10]. Quindi giungono al luogo in cui si può discendere al girone successivo, custodito da Pluto (Pluto,  dio della ricchezza, o forse Plutone).


[1] Psiche, in gr. Psyche, protagonista, insieme con Amore, del mito tramandatoci da Apuleio attraverso la favola inserita tra la fine del quarto e il principio del sesto libro delle Metamorfosi (L’asino d’oro). È la minore di tre figlie di un re ed è tanto bella da suscitare la gelosia di Venere. Poiché tutti l’ammirano, rendendole anche onori divini, ma nessuno la chiede in sposa, i genitori interrogano sulla sua sorte l’oracolo di Mileto, il quale ordina che la fanciulla, vestita a nozze, sia condotta su di un’alta rupe e quivi abbandonata, in attesa che giunga il mostro a lei destinato come sposo. Ma Zefiro la rapisce e la porta su di un praticello fiorito, dove ella si addormenta. Quando si risveglia, entra in un palazzo bellissimo e quivi ogni notte riceve la visita di Amore, invisibile amante. Perché l’incantesimo duri è necessario però che accetti il patto di non guardarlo in viso. Per istigazione delle sorelle, invidiose della sua fortuna, e cedendo alla curiosità, Psiche disobbedisce all’ammonimento e illumina con una lucerna le fattezze del notturno visitatore. Questi le appare nella sua divina bellezza, ma subito fugge via in volo. Disperata, Psiche lo va cercando per ogni dove e, sottoposta alla vendetta di Venere gelosa e indignata contro di lei, è costretta ad affrontare dure e umilianti prove. Alfine Amore stesso, mosso a compassione, le viene in aiuto e, ottenutale da Giove l’immortalità, la sposa. Dalle loro nozze nasce una figlia, Voluttà.

[2] Nel VI canto del purgatorio D. utilizzerà un trovatore, Sordello da Goito, mentre nel paradiso l’argomento politico verrà affidato a Giustiniano.

[3] Principe capetingio (1270-1325), fratello di Filippo IV il Bello, conte di Valois e di Chartres (1284-1325), d’Alençon e del Perche (1293-1325), d’Angiò e del Maine (Carlo III) [1290-1325] in seguito al matrimonio con Margherita di Sicilia. Imperatore latino d’Oriente (1301-1308) in seguito al matrimonio con Caterina di Courtenay, del trono d’Oriente, non poté mai prender possesso. Fu il capostipite della casa capetingia dei Valois.

[4] Farinata: appellativo di Manente degli Uberti, famoso capo ghibellino che Dante incontrerà ncl cerchio degli eretici (canto X).

[5] Tegghiaio: Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari, podestà di S. Gimignano nel 1238 e di Arezzo nel 1256, << cavaliere savio e prode in armi>> come lo defìnirà il Villani, verrà incontrato dal poeta nel cerchio dei sodomiti (canto XVI).

[6] Jacopo Rusticucci: mediatore con Tegghiaio Aldobrandi della pace tra Volterra e S. Gimignano, procuratore speciale del Comune fiorentino nel 1254 per trattare con altri Comuni toscani tregue e alleanze, è condannato col Tegghiaio, nello stesso cerchio (canto XVI).

[7] Arrigo: non si sa esattamente chi sia, né lo troviamo più menzionato nel poema. Alcuni antichi commentatori lo ritengono, perche qui ricordato accanto al Mosca, della famiglia dei Fifanti e uno degli uccisori di Buondelmonte; altri dei Giandonati, altri tacciono del tutto. I1 Santini ritiene sia Arrigo di Cascia, perche costui fu, col Rusticucci e, con l’Aldobrandi, mediatore della pace volterrana e qui ricordato con quei due.

[8] Mosca: della famiglia dei Lamberti, fu nel 1242 podestà di Reggio, ove morì; aveva consigliato di vendicare l’offesa fatta da Buondelmonte alla famiglia degli Amidei (nel 1215 Buondelmonte dei Buondelmonti, rotto il fidanza­men­to con una figlia di Lambertuccio Amidei, viene ucciso il giorno di Pasqua mentre attraversa il ponte Vecchio sull’Arno. Autori dell’omicidio sono gli Amidei alleatisi per l’occasione con gli Uberti. In seguito a tale omicidio la città di Firenze si divide in due fazioni: i Guelfi che facevano capo alla famiglia Buondelmonti e i Ghibellini he invece parteggiavano per gli Amidei e gli Uberti). Lo ritroveremo tra i seminatori di scandalo e di scisma nella nona bolgia dell’ VIII cerchio (canto XXV, 111).

[9] Tali personaggi furono veramente benemeriti della loro città. Naturalmente quelle benemerenze vanno intese in senso strettamente civile, non in senso morale: infatti Dante stesso desidera sapere se costoro son dannati o beati, distinguendo subito e differenziando l’ azione politico-civile dalle responsabilità etico-religiose: differenza che verrà confermata dalla netta risposta di Ciacco.

[10] Esattamente il commento di S. Tommaso al De anima di Aristotele.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto V – Sintesi

Francesca de Rimini Paolo Malatesta
Francesca de Rimini Paolo Malatesta (Photo credit: Wikipedia)

Il canto si apre con le ultime ore dell’8 aprile 1300, venerdì santo.

I poeti si trovano nel cerchio II.

È più stretto del primo, e qui inizia l’Inferno vero e proprio.

Il luogo è tenebroso, d’ogni luce muto, battuto dai venti di un’incessante bufera.

Il Custode del cerchio è: Minosse.

I dannati puniti sono i lussuriosi, coloro che cercarono la soddisfazione dei sensi contro ogni regola e misura, tanto da sottomettere la ragione all’istinto.

La pena ed il contrappasso:  sono tormentati da un vento furioso, da una tempesta incessante che li sospinge rovinosamente per tutto il girone.

Come in vita furono trascinati dal turbine della passione, ora li trascina la bufera eterna.

La loro ragione, quando peccarono, fu ottenebrata; cosi ora sono immersi nel buio infernale.

Le anime di Paolo Malatesta[1] e Francesca da Polenta[2] sono le protagoniste del canto: sono unite nella pena come lo furono nel peccato[3].

I personaggi principali del canto sono:

Minosse

Figlio di Zeus e di Europa, mitico re di Creta, celebre per avere dato ai Cretesi le prime costituzioni e per la severità con cui amministrava la giustizia.

Ci viene presentato già da Virgilio e da Omero come giudice dell’oltretomba, insieme al fratello Radamanto.

In Dante, è custode e giudice di tutto l’Inferno: le anime dei dannati si confessano dinanzi a lui, ed egli, valutatone il tipo di peccato, le destina al cerchio che compete loro, avvolgendo la coda intorno al suo corpo tante volte quanti sono i gradi che l’anima deve scendere. È il rappresentante della giustizia divina nell’Inferno.

Semiramide.

Leggendaria regina degli Assiri che Secondo la tradizione greca, riportata da Diodoro Siculo, nacque dalla dea Derceto (divinità siriaca) e, dopo varie vicende, sposò il mitico Nino, fondatore dell’impero assiro, alla morte del quale tenne il regno per quarantadue anni, ampliandone i territori e fondando la stessa Babilonia, che ornò degli splendidi giardini pensili.

I costumi di questa regina erano talmente dissoluti che si innamorò del figlio che poi la uccise.

Didone

Figlia di Belo, re di  Sidone, e regina di Cartagine. Rimasta vedova di Sicheo, giurò di rimanere fedele alla memoria del marito, ma si innamorò di Enea e, quando questi la abbandonò, per la disperazione si uccise.

Cleopatra[4]

Figlia di Tolomeo Aulete e regina d’Egitto. Amante prima di Cesare, poi di Antonio, di cui causò la sconfitta nella battaglia di Azio (31 a.C.).

Si uccise per non cadere nelle mani di Ottaviano.

Elena

Moglie di Menelao, una delle principali eroine dell’Iliade e dei poemi ciclici.

Nata da un uovo deposto da Leda, che si era congiunta con Zeus, fu rapita da Teseo e da lui portata in Attica; fu liberata dai fratelli gemelli Castore e Polluce e ricondotta a Sparta, ove fu chiesta in sposa da tutti gli eroi della Grecia.

Tindaro (marito di Leda e padre di Castore e Clitennestra) fece giurare a questi ultimi che si sarebbero uniti contro chiunque avesse voluto contendere la donna allo sposo da lei prescelto.

Menelao fu l’eroe eletto come marito, ma mentre egli era lontano, Paride, figlio di Priamo, re di Troia, ospitato a Sparta, rapì Elena ed il tesoro reale.

Al suo ritorno Menelao ingiunse ai suoi antichi rivali di mantenere il loro giuramento: ebbe così inizio la guerra di Troia.

Elena rimase sempre per i Greci la personificazione della bellezza.

Achille

Leggendario eroe tessalico, re dei Mirmidoni, figlio di Teti e di Peleo.

Per renderlo invulnerabile la madre lo immerse fanciullo nello Stige tenendolo sospeso per un tallone che restò vulnerabile.

Fu allevato da ottimi maestri, Fenice e Chirone, che gli insegnarono a tirar d’arco, a curare le ferite, a combattere valorosamente. Dopo che Calcante ebbe predetto la sua morte sotto le mura di Troia, Teti lo nascose presso il re di Sciro; ma i Greci, consci del suo valore, lo fecero cercare da Ulisse e lo ritrovarono.

Achille non esitò ad abbandonare il suo rifugio, benché innamorato di Deidamia, figlia del suo ospite, e combatté con ardore fino a quando Agamennone non gli sottrasse senza ragione la diletta schiava Briseide: si ritirò allora nella sua tenda e lasciò che i Troiani riportassero numerose vittorie sui Greci.

Nel tentativo di arrestare l’offensiva troiana scese in campo l’amico prediletto di Achille, Patroclo, munito delle armi dell’eroe, ma fu ucciso da Ettore.

Per vendicare la sua morte, Achille riprese la lotta, rivestito dello scudo meraviglioso che Teti gli aveva fatto foggiare e decorare da Efesto, uccise Ettore in duello e ne trascinò il corpo sotto le mura di Troia, abbandonandosi in tal modo, nell’ebbrezza della vittoria, a un’empia ferocia che Apollo non gli perdonò.

Commosso dalle preghiere del vecchio Priamo, Achille rese poi il corpo di Ettore, ma cadde a sua volta, trafitto al tallone da una freccia scoccata da Paride e guidata da Apollo.

Paride

Eroe troiano figlio di Priamo e di Ecuba, famoso per la sua bellezza, detto anche Alessandro.

Poiché gli indovini avevano predetto che egli avrebbe causato la rovina di Troia, alla sua nascita fu esposto sull’Ida, dove fu allattato da un’orsa e infine raccolto da un pastore che lo allevò con i suoi figli.

Scelto da Zeus come giudice tra Era, Atena e Afrodite, che si disputavano la mela d’oro destinata da Eris[5] alla più bella, assegnò la vittoria ad Afrodite (che gli aveva promesso in cambio l’amore di Elena), attirandosi così l’odio implacabile di Era e di Atena.

In seguito ritornò a Troia, dove fu riconosciuto dai genitori e accolto con gioia.

Recatosi quindi a Sparta e ricevuto con grandi onori da Menelao, ne convinse, come detto più sopra, la moglie Elena a fuggire con lui, provocando così la guerra contro Troia. Durante l’assedio, con l’aiuto di Apollo uccise Achille. A sua volta ferito da Filottete, Paride morì sull’Ida.

Tristano

È un personaggio tratto da una leggenda medievale[6], forse di origine celtica, presente in numerose letterature occidentali. Tristano, nipote di re Marco di Cornovaglia, si innnamora di Isotta la Bionda, sorella di Moroldo d’Irlanda (ucciso da Tristano in un duello) e richiesta in sposa da re Marco.

ELEMENTI PRINCIPALI DEL CANTO

1) La figura di Francesca da Rimini.

L’incontro con Francesca, unita indissolubilmente a Paolo, è uno degli episodi centrali non solo del canto, ma dell’Inferno tutto.

Tra i due, Dante dà voce alla donna, e crea un personaggio ricco di dolorosi sentimenti.

Francesca non riferisce i particolari della sua triste vicenda, vi accenna solo per ricondurli alla dimensione di struggente dolore, senza rimedio, di cui è protagonista.

La sua delicatezza, i modi gentili, l’istinto che, insieme a Paolo, la spinge quasi con trepidante desiderio al colloquio con D., sono elementi che costituiscono necessariamente il personaggio, la sua <<umanità>>, non scevra da colpa, la <<cortesia>> che è propria degli innamorati, ma che non giustifica il loro peccato.

La figura di Francesca è da collegare  con due altre figure femminili: Pia dei Tolomei  (Pg. V)[7] e Piccarda Donati[8] (Pd. III) che D. pone in apertura delle due successive cantiche[9].

2) 22La pietà di Dante.

Al racconto di Francesca Dante, preso da forte commozione, cade a terra svenuto.

La pietà che lo investe è da un lato, emozione dell’uomo che partecipa della sventura e non regge alle lacrime dei due amanti, dall’altro, frutto della perplessità e della riflessione problematica dell’uomo di fede che non può perdonare la colpa di Paolo e Francesca, e tuttavia conosce bene i sentimenti di Amore e le debolezze che in nome dell’amore trascinano al peccato.

In sintesi: la pietà di Dante nasce dall’incontro tra un’anima vinta dal peccato e un’altra anima, la propria, che vuole vincere il peccato e le condizioni che lo determinano.

3) La forza di Amore e i dettami dello Stil Novo.

Tre volte Francesca nomina la parola amore, in inizio di tre terzine successive, in cui sintetizza la sua vicenda e qualifica in termini generali gli effetti di tale sentimento:

  • Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende (amore che si accende subito in un cuore nobile), verso ispirato ad uno dei manifesto della poesia stilnovista – Al cor gentile rempaira sempre amore (al cuore nobile amore torna sempre come alla sua propria dimora[10]) – di Guido Guinizzelli (v. 100);
  • Amor, ch’a nullo amato amar perdona  (amore che non permette a nessuna persona amata di non riamare): altro concetto questo fondamentale per la poesia stilnovistica (v. 103);
  • Amor condusse noi ad una morte (v. 106): non è solo la morte fisica ma anche la morte dell’anima e da qui nasce lo sgomento di Dante.

Così ella denuncia la forza del sentimento che trascina e non permette resistenza, e nello stesso tempo trasferisce su un piano generale la propria vicenda personale.

Questi versi sono giustamente famosi, anche perché, come detto, condensano i principi della dottrina d’amore esposta nei poeti dello Stil Novo.

4) L’occasione della dannazione di Paolo e Francesca.

La saldatura fra la vicenda drammatica dei due amanti e lo sfondo della cultura letteraria romanza si compie nei versi in cui Francesca espone la prima radice (Cfr. v. 124), l’occasione in cui si è manifestato l’amore che l’ha dannata, visto che Dante, sembra tanto desideroso di conoscerla (ma s’a conoscer la prima radice/del nostro amor tu hai cotanto affetto, vv. 124-125).

L’occasione è la lettura di un grande romanzo medievale in prosa francese, il Lancelot che si suole intitolare anche Lancelot propre, “Lancelot propriamente detto”, per distinguerlo entro una compilazione narrativa molto più vasta, detta Lancelot-Graal o anche Vulgata, al cui centro è la vicenda dell’amore di Lancillotto e Ginevra, la moglie di re Artù.

L’episodio che i due amanti stanno leggendo è quello del primo bacio.

Galeotto (Galehaut), potentissimo re delle Lontane Isole, ha mosso guerra a re Artù, ma vi pone fine perché affascinato dalle imprese di Lancillotto, cui si lega con un’amicizia intensa e velatamente morbosa che lo porterà alla morte.

Subito dopo la fine della guerra, egli procura all’amico l’incontro con la regina, nel quale Lancillotto giunge a rivelarle il suo amore, e la regina lo bacia.

Paolo e Francesca, narra quest’ultima, si sono identificati nella lettura (per più fiate li occhi ci sospinse/ quella lettura, e scolorocci il viso, vv 130-131), tanto che ora, raccontando, lei inverte le parti, come se fosse stato Lancillotto a baciare la regina: ma è stato Paolo a baciare lei tutto tremante, assumendo la parte di quell’amante esemplare che fa vibrare i cuori dei suoi lettori (cotanto amante, v. 134).

Perciò il libro, conclude Francesca, ha fatto per loro la parte che Galeotto ha fatto con Lancillotto e Ginevra, portandoli a manifestare l’amore reciproco e a baciarsi.

Già la seconda parte del Lancelot sviluppava la storia portando sempre più in primo piano il senso del peccato[11]: e la funzione assolta dal libro al posto di Galeotto con i due amanti è stata quella di portarli alla dannazione.

Così giudica Dante chiaramente, ma altrettanto chiaramente aderisce con la sua compassione (pietade, v 140) al loro dramma, espresso alla fine sinteticamente nel pianto che è la sola espressione di Paolo.

I due sentimenti si collocano su due piani diversi, senza che la compassione metta in dubbio il giudizio, ne il giudizio possa sminuire la compassione; ma Dante sceglie di esprimere il suo dramma, di persona che ha pur condiviso una concezione dell’amore che deve ora condannare, nel modo più semplice e al tempo drastico e poeticamente efficace, facendo sopraffare il suo personaggio dalla piena dei sentimenti fino allo svenimento (come corpo morto cade) con cui il canto si conclude.

5) La figura di Minosse. Minosse è la seconda figura, derivata dalla tradizione classica e trasformata in demone custode dell’intero regno infernale, che Dante ci rappresenta. a metà tra uomo e bestia, ringhioso con la coda che implacabile condanna.

Anche con lui Virgilio usa la formula che esprime la volontà divina per superarne l’ostacolo a proseguire:<<Non impedir lo suo fatal andare: vuolsi così colà dove si puote>>.

RIASSUNTO

Dante e Virgilio scendono nel secondo cerchio: alla sua guardia è posto Minosse, orribile e ringhiante, con il compito di stabilire il luogo della pena eterna destinato a ciascun dannato che al suo cospetto, confessa i propri peccati.

Il  giudice infernale ammonisce Dante a non fidarsi dell’ampiezza della strada che si accinge a percorrere e neppure della guida di Virgilio, ma quest’ultimo lo zittisce con parole di sapore rituale che indicano come il viaggio di D. sia volontà di Dio (vv. 1-24).

Nel secondo cerchio, buio  e mugghiante come il mare in tempesta, percorso da un vento assordante e violento, sono puniti i lussuriosi, che hanno sottomesso la ragione alle insane passioni d’amore; essi sono trascinati incessantemente dalla bufera infernale senza speranza di tregua.

Quando gli spiriti giungono di fronte alla “ruina”, cioè allo scoscendimento della roccia prodotto dal terremoto che seguì alla morte di Gesù Cristo[12], gridano, piangono, si lamentano e bestemmiano la virtù divina.

Dante capisce di trovarsi dinnanzi alle anime dei lussuriosi, peccatori carnali che sottomisero la ragione alle loro voglie: secondo la legge del contrappasso essi, senza alcuna speranza di sostare, sono trascinati di qua e di là dalla bufera, così come gli stornelli sono portati dalle ali nella fredda stagione invernale; e come le gru, volando in fila, vanno emettendo i loro versi lamentosi, così molte ombre, trascinate dal vento verso i due poeti, emettono i loro lamenti.

Virgilio, su richiesta di D., elenca alcuni di questi lussuriosi, protagonisti della storia e della letteratura, morti in modo violento: Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena, Achille[13],  Paride[14], Tristano[15] e mille altre anime vittime della passione d’amore.

Dante udendo nominare tanti famosi cavalieri e donne antiche è preso da pietà e sta per svenire. (v. 25-72)

Dante scorge due anime che procedono unite e sembrano più leggere al movimento vorticoso della bufera:  egli domanda al maestro di potersi intrattenere con loro, esprimendo poi direttamente tale desiderio ai due infelici amanti, che accorrono  prontamente come colombe trascinate dall’istinto (v. 73-87).

È  Francesca che parla al poeta, rammentando la sua città  natale, Ravenna, ed accennando (con formule tratte dallo stilnovo) all’innamoramento per  Paolo seguito dalla tragica morte per mano del marito Gianciotto, fratello di Paolo, che secondo Francesca è punito nella Caina, la zona dell’inferno destinata ai traditori dei parenti (vv. 88-107).

Dante, profondamente turbato, chiede alla donna di narrare in che modo nacque e si manifestò la passione d’amore tra i due peccatori;  mentre Francesca ricorda la lettura della storia di Lancillotto che sospinse i due amanti l’uno tra le braccia dell’altra, Paolo piange disperato ed il poeta sovrastato da questa perdizione senza scampo, perde i sensi (108-142).


[1] Fu capitano del popolo a Firenze tra il 1282 ed il 1283.

[2] Figlia di Guido da Polenta il vecchio, signore di Ravenna, aveva sposato tra il 1275 e il 1282 il fratello di Paolo, Gian Ciotto Malatesta, signore di Rimini.

[3] Morirono uccisi insieme tra il 1283 ed il 1286.

[4] 69-30 a.C.

[5] Nella mitologia greca è la dea della discordia.

[6] La trama è in sostanza la seguente: il giovane principe di Leonois, Tristano, nipote di Marco re di Cornovaglia (che è deturpato nella sua figura umana da mostruose orecchie equine) abbatte il terribile Morholt d’Irlanda, un mostro che affligge l’Irlanda stessa, cui la Cornovaglia deve annualmente il tributo di giovani vite; ma nella terribile lotta resta ferito da una spada avvelenata: e la ferita è incurabile.

Tristano lascia allora la corte dello zio; e da una nave senza vela, senza remi, senza timone, è portato sulle coste d’Irlanda; ed è curato e guarito dalla sorella del vinto Moroldo, esperta di arti magiche e mediche. Torna presso lo zio, che lo incarica di andare a chiedere per lui in isposa la fanciulla cui appartiene il capello biondo che una rondinella ha lasciato cadere ai suoi piedi.

La fanciulla è la sorella di Moroldo, figlia del re d’Irlanda, colei che ha guarito Tristano, Isotta la bionda. Dopo varie vicende, Tristano ottiene di scortare sino in Cornovaglia la dolce fanciulla, e al momento dell’imbarco la regina gli confida un meraviglioso filtro, che Isotta dovrà bere col suo sposo re Marco, che assicurerà per l’eternità un amore intenso e profondo fra i due coniugi.

Ma per un errore dell’ancella Brengania, Isotta beve durante la navigazione il filtro con Tristano. e i due giovani ardono l’un per l’altro di una irresistibile passione.

Re Marco, nonostante le precauzioni dei due amanti, li sorprende un giorno e li scaccia; e i due si riducono a vivere solitari nella foresta di Morrois.

Vi capita un giorno il re, durante una caccia; e coglie i due amanti nel sonno, ma divisi da una spada, collocata fra loro. Commosso da questo che gli appare un segno di innocenza, Marco riconduce con se Isotta la bionda e bandisce dalla corte Tristano, che va nell’Armorica, dove sposa Isotta dalle bianche mani, figlia del duca; la quale, nei tratti e nel nome, gli richiama la dolce sua amica perduta.

Ma il ricordo dell’amica opprime, invincibile, l’eroe, che si sente sempre più distaccato e remoto dalla sposa. Resta un giorno gravemente ferito e nessuno sa curarlo.

Occorre l’intervento di Isotta la bionda, che sola conosce i segreti dell’arte medica.

Una nave è inviata a cercarla. Se Isotta vorrà venire al letto dell’amico infermo, la nave, al ritorno, alzerà la vela bianca; vela nera, invece, se Isotta si rifiuterà. Passano i giorni e Tristano languisce; e solo per la dolce speranza di un ritorno della sua donna trattiene la vita che gli sfugge.

Finalmente la nave è in vista e alza vela bianca. Ma Isotta dalle bianche mani, spinta dalla gelosia che la tormenta, annuncia che la vela è nera; Tristano, che ha ancora solo un soffio di vita, disperato lo lascia sfuggire e spira.

Così Isotta la bionda trova, allo sbarco, la città immersa nel lutto; e accorre al letto del morto amico e cade morta di dolore al suo fianco.

[7] Pia della famiglia dei Tolomei di Siena, sarebbe andata sposa a Nello dei Pannocchieschi, podestà di Volterra e di Lucca, e poi sarebbe stata uccisa in circostanze misteriose: forse dallo stesso marito che la punì per l’infedeltà o che voleva risposarsi con Margherita degli Aldobrandeschi, a suo tempo sposa del conte Umberto di Santa Fiora.

[8] Sorella di Forese Donati, amico di Dante (posto nel Purgatorio Canto XXIV), e di Corso Donati, il più irriducibile nemico dell’Alighieri. Entrata nel convento delle Clarisse ne era stata tratta fuori con la violenza dal fratello Corso che l’aveva costretta a sposare uno dei più facinorosi dei suoi compagni, Rossellino. Piccarda morì poco dopo il rapimento: secondo una leggenda ottenne da Dio il dono di mantenere comunque la verginità.

[9] La ritroviamo nel Canto V del Purgatorio.

[10] Foco d’amore in gentil cor s’apprende/come vertute in petra preziosa.

[11] Che nell’ultimo romanzo del ciclo, la Morte di Artù, è presentato come la causa della rovina del mondo arturiano.

[12] In Inf. XII, 37-45 (cerchio VII dei violenti) si spiega che si tratta di una frana dell’orlo dei vari cerchi il cui ricordo fa sentire alle anime dannate più esasperata la loro condanna.

[13] Fu ucciso dal fratello di Polissena.

[14] Fu ucciso da Filottete

[15] Morì, come già detto, con Isotta a causa del loro amore infelice.

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