Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto I – Sintesi

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Inf. 01 Dante e Virgilio Giovanni di Paolo (c.1403–1483) (Photo credit: Wikipedia)

 

Il primo canto dell’Inferno è generalmente considerato proemio generale del poema, mentre il secondo è il proemio della sola prima cantica.

La descrizione vera e propria dell’Inferno comincia soltanto con il canto terzo.

I primi due canti ci forniscono gli antece­denti e le ragioni del viaggio ultraterreno.

Non ci si deve meravigliare se nel primo canto l’astrazione prevale sulla concretezza degli elementi naturalistici descritti, se i concetti cioè tendono a soffocare le immagini, se la filosofia e la teologia prendono il sopravvento sulla poesia.

L’azione nel primo canto ha inizio all’alba dell’8 aprile (o 25 marzo) del 1300, anno del Giubileo[1]; ma il viaggio negli inferi vero e proprio sarà intrapreso la sera dello stesso giorno ed ha la durata di 24 ore.

I personaggi del canto sono: le tre fiere (lonza, leone, lupa); Virgilio, simbolo della ragione umana; il Veltro.

Dante si è smarrito (ha smarrito il cammino del bene[2]) senza sapere come[3], di notte, in una selva oscura (del peccato[4]) a metà della vita (all’età di 35 anni[5] il venerdì santo del 1300)[6].

Dopo una notte di dolore e crisi disperata – tanto che l’orrore della selva, selvaggia (perché incolta e disabitata), aspra (perché intricata di pruni) e forte (perché difficile da traversare), rinnova il terrore solo a pensarvi – il poeta tenta di uscirne (per ritrovare la via della salvezza), trova un varco e giunge al mattino ai piedi di un colle (allegoria della redenzio­ne), illuminato dal pianeta[7]sole (luce divina; grazia illuminante che assiste chi vive virtuosamente) (vv. 1-18).

La vista del colle allontana un po’ la paura e D. (che si sente ormai liberato dalle tenebre del peccato), dopo essersi brevemente riposato[8], si accinge a riprendere la via per il pendio solita­rio[9] che conduce al colle con il piede che avanza ancora malfermo, dopo aver riguardato il luogo da cui è scampato[10], come il naufrago che si volge terrorizzato alle acque tempestose da cui si è ormai salvato (Dante trema come un naufrago perché si è salvato dalla morte) [11] (vv. 19-30).

Al cominciar della salita una lonza dal mantello maculato, agile e snella[12] impedisce il cammino al poeta e ostacola tanto i suoi passi che D. si volta più volte per tornare indietro (vv. 31-36).

L’ora fresca del mattino (la mattina dell’equinozio di primave­ra), il sole sorgente nella costellazione dell’Ariete, come al tempo in cui Dio iniziò la creazione, sembrano ridare al poeta momenta­neamente la speranza di giungere la sommità del colle; ma la speranza dura poco perché appare un leone[13] spavaldo e affamato, che diffonde nell’aria un angoscioso spavento, sembra venire contro al poeta e gli toglie quel primo conforto (vv. 37-48).

E subito dopo appare una lupa[14] che nella sua magrezza sembra carica di tutti i desideri e sbigottisce tanto D. che dispera ormai di poter salire (vv. 49-54)[15].

Dante si trova un po’ come nelle condizione dell’avaro che, se perde ciò che ha messo insieme con molte cure, si addolora e si dispera e a questo punto reso inquieto, appunto come l’avaro, precipita verso il basso (vv. 55-60)[16].

Mentre retrocede verso la selva Dante scorge una figura umana[17] che appare dalla voce fioca per non aver parlato da molto tempo[18]; il poeta implora pietà, anche se non sa distinguere se si tratti di un’ombra o di un uomo vivo; l’ombra, senza dire il proprio nome, risponde di non essere vivente ma di esserlo stato, che i suoi genitori erano entrambe lombardi[19] e mantovani (vv. 61-69).

Aggiunge di essere nato sotto Giulio Cesare[20] ma troppo tardi per conoscerlo[21] (e farsi apprezzare), di essere vissuto sotto il buon Augusto al tempo degli dei falsi e bugiardi (vv. 70-72), di essere un poeta e di aver cantato del giusto[22] figliol d’Anchise che venne da Troia dopo che la rocca fu distrutta (vv. 73-75).

Publio Virgilio Marone nasce il 15 ottobre del 70 a.C. ad Andes nei pressi di Mantova, che si può forse identificare con l’odierna Pietole.Sua madre è Magia Polla e suo padre Virgilio Marone un  piccolo possidente terriero che può e desidera assicurare al figlio un istruzione accurata.

Pertanto V., dopo aver vissuto i primi dodici anni a Mantova, frequenta le scuole di Cremona, Milano e Roma.

A Roma attende alla scuola di eloquenza del retore Elpidio: nella capitale incontra Ottavio (il futuro imperatore Ottaviano Augusto) e Marco Antonio che combatterà contro Ottaviano Augusto la famosa battaglia di Azio del 31 a.C., ove Menenio Agrippa (luogotenente di Augusto) sconfiggerà le diciannove navi della flotta di Cleopatra amante di Marco Antonio (guerra tolemaica).

Nella capitale V. dimostra scarso interesse per la eloquenza, e questo si verifica anche per il carattere timido e riservato del Mantovano; al contrario si dedica con fervore alla lettura dei c.d. poeti nuovi: Elvio Cinna, Cornelio Gallo, Catullo; si interessa alla poesia alessandrina, a quella epigrammatica ed alle elegie.

Da Roma si sposta alla volta di Napoli per studiare matematica e medicina e seguire le lezioni di Sirone, lezioni di filosofia su Epicuro che era stato fonte di ispirazione, proprio in quei momenti, di un grande poeta, Lucrezio, nel De rerum natura.

Ma già a Roma, come è stato detto, la poesia alessandrina nata non per il popolo ma per la corte aveva assai impressionato l’animo di V.: il risultato si nota nelle prime opere che vanno sotto il nome di Appendix Virgiliana; Appendix che fu scoperta ottanta anni dopo la morte del poeta e che si compone nel modo seguente:

1) Catalepton (versi spiccioli): 14 poesie di genere epigrammatico; nella quattordicesima in particolare V. invoca l’aiuto di Venere per comporre l’Eneide.

2) Culex (la zanzara): epillio in esametri, dedicato forse ad Ottaviano dove si parla di un pastore che uccide una zanzara; questa gli appare in sogno la notte successiva rimproverandolo per la sua azione poiché l’aveva morsicato soltanto per avvertirlo della presenza di un serpente; inoltre gli descrive il mondo sotterraneo e gli chiede sepoltura.

3) Ciris (l’airone bianco): poemetto amoroso in esametri che narra la passione di Scilla per Minosse che stava assediando Megara, e la trasformazione di lei in uccello marino a seguito del tradimento in favore del re minoico.

4) Aetna: poemetto in esametri sulle eruzioni vulcaniche per cui Virgilio, sulla falsa riga del De Rerum Natura di Lucrezio, assume che si possono spiegare razionalmente.

5) Dirae (le maledizioni): carme in esametri che espone, nella sua prima parte, le maledizioni di un colono spodestato del suo campo e nella seconda parte un canto d’amore.

6) Copa (l’ostessa): breve idillio in 19 distici in cui si narra di una giovane ostessa che invita i viandanti ad entrare nella sua taberna.

7) Moretum (la torta) in cui si parla di un contadino che impasta acqua e farina per fare quattro pani ed una rustica torta.

8) Priapea: tre poesie scherzose in onore di Priapo, il dio campestre rappresentato come spauracchio per gli uccelli.

A Napoli V. compone la sua prima opera di grande rilievo, le Bucoliche, un poema pastorale (42-39 a.c.) formato da 10 egloghe disposte secondo un criterio non cronologico ma estetico.

Tale composizione ha talmente successo a Roma che viene addirittura musicata; inoltre essa impone V. all’attenzione di Ottaviano e di Mecenate, tanto che al poeta fu donata una villa sull’Esquilino.

Due fondamenti stanno alla base delle Bucoliche: i precetti epicurei che invitavano l’uomo ad amare la vita semplice, la campagna, a liberarsi dalle ambizioni, dalle superstizioni (circa orridi mostri infernali e divinità); le vicende politiche che portarono e seguirono alla morte di Cesare (44 a. c.) e che toccarono vivamente il poeta.

Infatti dopo la battaglia di Filippi i triumviri assegnarono come premi di guerra ai loro veterani, le terre dei municipi rimasti fedeli all’idea repubblicana.

Ne fanno quindi le spese i territori di Cremona e Mantova (che pure non rientrava tra le città fedeli) e di conseguenza anche i poderi di V. sono affidati ai legionari di Ottaviano; due volte il poeta li perde e due volte li riacquistò per l’opera prima di Alfeno Varo e poi di Asinio Pollone, governatore della Gallia Cisalpina.

Nelle Bucoliche Virgilio narra appunto gli avvenimenti della vita campestre, esalta il sereno lavoro dei pastori e dei contadini; ma, in considerazione delle sue vicende personali, parla anche di veterani insolenti che costringono i contadini ad abbandonare le proprie terre, di madri che piangono la morte dei propri figli.

Su tutto domina la visione del tempo che sconvolge ogni cosa, del buio che avvolge la vita umana, la quale fiorirebbe senza che a noi sia dato modo di percepirne il significato, per la forza cieca del fato.

Assecondando il tentativo di riforma dei costumi intrapreso da Ottaviano, Virgilio vede però anche qualcosa al di là del dolore funesto delle passioni e degli egoismi: vede l’evoluzione, il progresso, le conquiste del lavoro e dell’ingegno umano; quindi il dolore e l’affanno sono solo il prezzo che l’umanità deve pagare per la sua redenzione.

Da questo mutato stato d’animo nasce la seconda grande opera di Virgilio, le Georgiche (37-30 a.C.), poema didascalico di 2183 esametri, scritto a Napoli, che si articola in quattro libri ove sono descritti vari tipi di attività agresti: I) la coltivazione dei campi, II) la coltura degli alberi III) l’allevamento del bestiame IV) l’apicoltura.

Il mondo delle Georgiche è sempre quello delle Bucoliche: la campagna, lo scenario sereno dei campi, contadini e pastori; ma questo mondo non è più concepito come possibile rifugio dove evadere dalla realtà dolorosa della vita ma come mondo ove il lavoro dei campi innalza l’uomo al di sopra del dolore, della violenza, dell’arbitrio.

Le Georgiche sono dunque una celebrazione del lavoro dei campi e della terra, con termini semplici e concreti, non idealizzando la campagna e i suoi abitatori ma calandoli nella realtà.

Compiuta questa seconda fatica il poeta si dedica alla stesura dell’Eneide (29-19 a.C.) poiché sia l’imperatore sia Mecenate erano rimasti entusiasti delle Georgiche e desideravano la redazione di un poema epico; prepara prima uno schema in prosa e poi lavora a diverse parti contemporaneamente; tra il  27 e il 25 a.C. Augusto ne chiede notizie, ma Virgilio leggerà all’Imperatore soltanto parte dell’opera, a partire dal 22 a. C. (II, IV e VI canto).

Nel 19 a.C., a prima stesura ultimata, il poeta, non essendo soddisfatto, decide di recarsi in Grecia ed in Asia Minore per vedere i luoghi ove si svolgono alcuni canti del poema.

Imbarcatosi incontra ad Atene Augusto che torna dall’Oriente e che lo convince a tornare con lui in Italia.

Ma dopo una visita a Megara, Virgilio prostrato da un sole fortissimo e già minato da altri mali, viene colto dalla febbre e approdato a Brindisi si aggrava e muore (22 settembre  del 19); viene sepolto a Napoli lungo la Via di Pozzuoli.

Nel testamento lascia tutti i suoi scritti agli amici Vario e Tucca e chiede che l’Eneide venga bruciata; ma Augusto vuole che l’opera venga pubblicata proprio da Vario e Tucca.

Virgilio chiede a Dante perché stia ritornando nella selva tanto molesta (o dolorosa) [23] e non salga invece il monte del bene, principio e ragione di ogni gioia (vv. 76-78).

Dante risponde con reverenza e retoricamente se l’anima sia quella del Virgilio[24] fonte viva dell’eloquenza; se potrà servirgli ad ottenere l’aiuto del Mantovano il grande amore ed il grande studio con cui D. ha affrontato l’Eneide e le Bucoliche[25].

D. chiama V. suo maestro e modello da cui ha appreso lo bello stile[26] che gli ha procurato tanto onore tra i contemporanei (vv. 79-87).

A questo punto D. supplica V. (definito saggio, cioè poeta) di salvarlo dalla lupa (vv. 88-90).

Virgilio afferma che per D., il quale sta piangendo, è necessario compiere un altro viaggio per uscire dalla selva; perché è impossibile sfuggire alla fiera che gli mette tanta paura, essa (carica di vizi di infiniti) non fa passare alcuno dalla sua strada e chi ci prova muore.

Virgilio gli spiega la natura malvagia della fiera che non è mai sazia di desideri e dopo un pasto ha più fame di prima; aggiunge che sono molti gli animali[27] con cui la lupa (l’avarizia) si unisce;  e dichiara che <<più saranno ancora>>, che cioè l’opera nefasta della stessa continuerà fino a che non giungerà un veltro[28] (cioè un salvatore) a liberare il mondo della sua presenza (vv. 91-102).

Con linguaggio oscuro come si addice alle profezie, il veltro è designato per alcune caratteristiche: non si ciberà né di terra né di peltro[29] (di danaro), ma sarà nutrito solo di sapienza, di amore e di virtù, e la sua nascita non avverrà tra le mollezze (“tra feltro e feltro”[30]) (vv. 103-105).

Sarà la salvezza dell’Italia che ora è caduta così in basso, per la quale[31] sono morti ammazzati (“di ferute”) i primi eroi cantati da Virgilio (Camilla, Eurialo, Turno, Niso), e caccerà finalmente nell’Inferno la lupa, che era uscita primariamente dall’invidia del demonio[32] (vv. 106-111).

Virgilio spiega infine a Dante che lui reputa come unica via di salvezza[33] il lasciare quei luoghi[34] e si offre quindi come guida per un viaggio attraverso l’Inferno (il “luogo etterno”) dove il poeta potrà udire le grida disperate dei dannati, anche più antichi, che ricercano una seconda morte che possa porre fine ai loro tormenti[35] e attraverso il Purgatorio dove le anime sono contente di purifi­carsi col fuoco[36] perché così sanno di poter raggiungere il Paradiso (vv. 112-120)

Se poi Dante vorrà salire al regno dei Beati un’anima più degna lo guiderà[37], perché a lui pagano, Dio, che come imperatore regna nel Cielo, ha vietato di accedere al Paradiso perché lui non si è sottomesso alla sua legge (non ha cioè ricevuto il battesimo) (vv. 121-126).

V. spiega a D. che Dio domina in tutte le parti dell’universo ma solo nei Cieli si manifesta re perché qui vi è la sua casa ed il suo trono; e conclude che è certamente beato colui che può risieder­vi (vv. 127-129)

Dante chiede a Virgilio di guidarlo nei luoghi che ha appena indicato perché è ansioso di poter vedere la porta del Purgatorio[38] da cui passano le anime che V. dice essere tanto meste; V. comincia  a camminare e D. lo segue (vv. 130-136).


[1] Proclamato da Bonifacio VIII.

[2] Non perduto, ma smarrito perché Dante spera di ritrovarla.

[3] Il poeta non si è accorto di esser entrato nella selva, perché il suo animo era assonnato ed intorpidito dopo aver abbandonato la virtù. Numerose sono le fonti spirituale e scrittu­rali che identificano il peccato col sonno; si veda ad esempio la lettera ai Romani di San Paolo (XIII, 11): <<hora est iam nos de somno surgere>>.

[4] Personale di Dante dopo la morte di Beatrice e della umanità dopo la confusione tra potere temporale e spirituale.

 [5] Che la metà della vita coincida con il trentacinquesimo anno Dante lo afferma nel Convivio (IV, XXIII, 7-9).

[6] La perifrasi è tratta da Isaia e poiché Isaia è il profeta che per primo parlerà della cattività babilonese e della liberazio­ne, ne consegue che il poema assume da subito un tono profetico.

[7] All’epoca di Dante il sole era uno dei sette pianeti.

[8] Dante ignora che per vincere il peccato e conseguire la vita virtuosa non basta la volontà umana, troppo debole in seguito al peccato originale, ma occorre un aiuto divino.

[9] Il pendio rappresenta il momento di transizione tra la vita peccami­nosa e quella virtuosa ed è deserto perché sono pochi coloro che si ravvedono.

[10] Il passaggio attraverso il quale non lasciò mai persona viva: il peccato è la morte dell’anima, la dannazione eterna.

[11] Si tratta della prima delle 597 similitudini del poema.

[12] Una specie di leopardo o pantera, indicante la lussuria, nell’allegoria morale, e la città di Firenze, volubile, per l’instabilità di governo, nell’allegoria politica (una leonessa era infatti tenuta in gabbia presso il palazzo del Comune di Firenze come simbolo della città); per altri rappresenterebbe l’invidia o ancora l’inconti­nenza, una delle tre categorie dei peccati infernali; per altri infine la frode, perché sono in minor numero i peccatori che cadono in questo peccato.

[13] Il leone rappresenta la superbia come vizio capitale, e la prepotenza della monarchia francese, con particolare riguardo a Filippo IV il Bello, perché questo monarca svolse una politica di prepotenza contro la chiesa (v. trasferimento della sede pontificia da Roma ad Avignone, scioglimento dell’ordine dei Templari ecc.); ancora si sostiene che essa rappresenti la seconda categoria dei peccati infernali: la matta bestialità o violenza.

[14] L’avarizia per quanto riguarda la degradazione morale, e la Curia romana, nel suo significato politico, perché Papa Bonifacio secondo Dante era pieno di cupidigia per i beni temporali; o ancora la terza categoria dei peccati infernali: la malizia o frode; per altri infine rappresenterebbe l’incontinenza perché è il peccato più diffuso tra gli uomini.

[15] Il poeta riesce quindi ad evitare le lusinghe della lonza, la violenza del leone, ma non il pauroso fascino della lupa che lo risospinge senza tregua verso la selva.

[16] Le tre fiere sono già presenti  in un passo delle lamentazioni di Geremia (V,6) che quindi avrebbe ispirato il poeta: “Il leone della selva  li ha percossi, il lupo vespertino li ha devastati, il leopardo sta in agguato presso le loro città”, passo che è rivolto contro i ricchi di Gerusalemme e in cui – secondo S. Gerolamo – il leone rappresenterebbe Nabucodo­nosor o l’Impero babilonese, il lupo l’impero medo-persiano, il leopardo l’impero macedonico.

 [17] Si tratta di Virgilio che rappresenta la ragione umana che libererà D. dal peccato e lo condurrà sino al Paradiso terrestre (simbolo della felicità naturale); e poiché l’uomo non può realizzarsi se non vivendo in società, Virgilio rappresenta anche l’autorità dell’Im­pero, che deve guidare il genere umano verso la felicità naturale. D. lo sceglie come guida perché nel Medioevo V. aveva fama di sommo scienziato, di profeta di Cristo (la IV ecloga per bocca di Pollione console parla dell’avvento di un fanciullo di natura divina), e di mago; sia perché per le sue idealità politiche (cantore dell’Impero romano) e religiose (cantore del regno dei morti), poteva meglio di ogni altro essere un precursore degli ideali e della poesia dantesca.

[18] Il v. 63 ha dato luogo a molte interpretazioni, perché il silenzio non rende fiochi, e perché D. non poteva accorgersi che V. fosse fioco se non aveva ancora parlato. Forse si dovrebbe intendere: “una figura d’uomo che per lunga abitudine al silenzio sembrava aver perduto ogni efficacia di parola”. Il senso allegorico che qui prevale su quello letterale è invece evidente: Virgilio rappresenta la ragione umana, quando il peccatore comincia a ravvedersi sembra assai fioca e solo quando il peccatore si è ravveduto essa acquista chiarezza e forza.

[19] Cioè dell’Italia settentrionale. La Lombardia vera e propria prenderà questo nome solo cinque secoli dopo Virgilio, con i Longobardi.

 [20] D. fa affermare da Virgilio che nacque “sub Iulio” sia perché le ombre usano la lingua che parlarono in vita, sia perché nel Medioevo le espressioni latine erano di uso comune.

 [21] Visto che V. nasce nel 70 e Cesare muore nel 44; le Bucoliche infatti sono state composte tra il 42 ed il 44 a.C.

[22] V. indica proprio nel primo canto dell’Eneide Enea come il più giusto (Aen. I 544-545).

[23] Quella di Virgilio è un’esortazione a D. perché si liberi degli orrori del peccato.

[24]  D. sa di trovarsi di fronte a Virgilio e allora dimentica per un momento il pericolo, per manifestare la sua sorpresa ed ammirazione.

[25] In Inf. XX, 114 D. affermerà di conoscere l’Eneide tutta a memoria. Più incerta è la conoscenza di Dante delle Georgiche.

[26] Nel De Vulgari Eloquentia D. aveva distinto tre tipi di stile: quello tragico, alto e solenne proprio dell’epica e della grande lirica (D. chiamerà l’Eneide <<tragedia>>), quello comico o stile mediocre (perciò il titolo del poema <<commedia>> o <<come­dia) e quello elegiaco o stile umile. Il bello stile che ha fatto grande D. è lo stile nobile ed elevato con cui lo stesso ha composto le canzoni morali e allegori­che, anterior­mente al 1300. Anche nel Purgatorio (XXI, 95) per bocca di Stazio D. non perde l’occasione di lodare l’Eneide.

[27] Secondo alcuni si fa qui riferimento alle persone, secondo altri ai vizi.

 [28] Secondo le interpretazioni più accreditate potrebbe essere: 1) un imperatore o un rappresentante della corona imperiale: perché D. afferma nella Monarchia che l’imperatore possedendo tutto non ha più cupidigie e quindi naturale nemico della lupa; in tal caso potrebbe essere a) Arrigo VII di Lussemburgo che si è trovato all’improvviso imperatore e a cui D. alluderà anche alla fine del Purgatorio (XXXIII, 37 e ss.) e nel Paradiso (XXX, 133 e ss.); b) Uguccione della Faggiuola, che morto Arrigo VII, fu uno dei più potenti capi ghibellini in Italia e sconfisse i Guelfi di Firenze nella battaglia di Montecatini (1315); c) Can Grande della Scala, che dopo la cacciata di Uguccione della Faggiuola da Pisa e da Lucca, divenne a sua volta un potente capo ghibellino, ed ebbe il titolo di Vicario imperiale in Italia (1318) e che per la corri­spondenza del nome (cane-veltro), per l’estensione dei suoi domini (tra Feltre nel Bellunese e Montefeltro nelle Marche), e per l’elogio che ne fa D. nel c. XXVII del Paradiso, si avvicina in più punti ai dati della profezia dantesca.

2) Un pontefice riformatore o una figura mistica: a) Benedetto XI (1303-1304) che fu uomo santo nato a Treviso, cioè sulla linea d’aria che congiunge Feltre nel Bellunese a Montefeltro nelle Marche; fu questo Pontefice ad inviare a Firenze nel 1304 il cardinale Niccolò da Prato, allo scopo di rappacificare i Neri coi Bianchi esuli; ma il tentativo fallì e il cardinale si allontanò da Firenze lanciando un interdetto; b) Gesù Cristo che deve venire a giudicare i vivi e i morti: poco plausibile perché la figura di Cristo ne verrebbe rimpicciolita e perché Cristo deve venire solo alla fine dei tempi; c) lo Spirito Santo: in base alla dottrina di Gioacchino da Fiore sulla terza era.

3) Il veltro e D. medesimo e l’opera sua, perché le cose che D. voleva dire all’umanità erano tali da far morire la lupa; poco plausibile perché D. è già venuto e perché nè D. né il suo poema sono nati “tra feltro e feltro”.

4) Il veltro è una persona indeterminata: e l’interpretazione degli antichi commentatori e forse la più accettabile.

[29] È una lega di argento e stagno ma qui significa metallo in genere e più propriamente ricchezze, denaro.

[30] Il feltro è un panno di lana non tessuta ma battuta, con cui si facevano indumenti di poco prezzo, per cui l’espressione potrebbe significare che il Veltro sarà di umili natali; ma altri intendono come si è visto, che il riferimento sia geografico.

[31] Più propriamente quindi l’Italia laziale.

[32] Che l’aveva fatta uscire per tentare l’uomo e privarlo in tal modo di quella felicità che godeva nel Paradiso terrestre.

 [33] Poiché la lupa domina nel mondo.

[34] V. in altre parole propone a D. di abbandonare la vita attiva e di abbracciare la vita contemplativa.

[35] Sulla “seconda morte” ci sono diverse interpretazioni: per alcuni si tratterebbe della morte dell’anima dopo quella del corpo, per altri che si fondano sulle Sacre Scritture (Apocal. XX, 14) e sul Cantico di S. Francesco (<<Beati quilli che trovarà ne le sue santissime voluntati, – ca la morte non li poterà far male>>) si farebbe qui riferimento alla morte come <<dannazione>> e in tal caso i dannati imprecherebbero alla loro dannazione.

[36] Veramente nel Purgatorio le uniche anime che si purificano col fuoco sono i lussuriosi.

[37] Si tratta di Beatrice che come vedremo rappresenta la Grazia santificante, e, in genere, tutti quei mezzi che Dio pone a disposizione dell’uomo, per rendere possibile la sua salvezza (Verità rivelata, Teologia, Autorità ecclesiastica ecc.).

[38] Per altri si intende quella del Paradiso.

Dante Alighieri: la Divina Commedia (Introduzione).

Dante and Beatrice, by John William Waterhouse...
Dante and Beatrice, by John William Waterhouse, 1915. (Photo credit: Wikipedia)

 

 

A)   La cronologia

 

 Non ci sono dati precisi sulla composizione. Boccaccio nella sua Vita di Dante afferma che l’Alighieri avrebbe composto i primi sette canti dell’Inferno prima dell’esilio e che questi, ritrovati tra le sue carte, gli sarebbero stati inviati in Lunigiana nel 1306 o nel 1307 quando il poeta si trovava alla corte dei Malaspina. Questa forse è soltanto una leggenda, fra le molte sorte intorno a Dante, subito dopo la sua morte.

 

Tuttavia è certo che dall’ottavo canto il linguaggio dantesco si fa più robusto e personale, si svincola dalle artes dictandi, dalle locuzioni curiali e stilnovistiche. E c’è poi il primo verso del canto ottavo: ” Io dico, seguitando”; legamento che si trova soltanto qui, in tutto il poema.

 

Attualmente si ritiene che parti di un poema in onore di Beatrice possano essere stati inviati (si veda al proposito anche l’ultimo capitolo della Vita Nuova) a Dante, ma non si sa quali parti.

 

Il poema così come noi lo possediamo si può dire, in sostanza, tutto composto nell’esilio del poeta, ovvero dopo il 1300.

 

Di sicuro possiamo affermare che l’Inferno era già conosciuto nel 1313, e ciò vale, a partire dal 1319, anche per il Purgatorio che secondo Petrocchi sarebbe stato composto nel Casentino, ossia in provincia di Arezzo (di qui i notevoli riferimenti alla terra di Toscana)[1].

 

L’opinione che alcuni dantisti sostennero in passato per cui l’inizio del poema sarebbe da porre dopo la morte di Arrigo VII (1313) – sicché Dante sarebbe stato “muto” sino quasi ai 50 anni – non è oggi molto seguita.

 

Secondo gli antichi esegeti, Dante avrebbe atteso alla sua opera massima sino alla morte, infaticabilmente.

 

Cosicché il Paradiso (1316-1321) sembra portato a termine poco prima della morte dell’autore, anzi pochi giorni prima. Boccaccio ci narra che gli ultimi canti sembravano essersi smarriti: soltanto il figlio Jacopo, in una visione, ebbe l’indicazione del luogo e i canti mancanti furono ritrovati.

 

 

B) Precursori e fonti

 

 

Si può distinguere tra precursori pagani e precursori cristiani; tra i primi annoveriamo Omero[2], i Misteri orfici, Platone, Cicerone, Virgilio, Ovidio[3] Lucano, Stazio e Seneca.

 

Tra i precursori cristiani vi sono le scritture sacre: l’Apocalisse, il libro di Enoc; alcune opere molto diffuse nel Medioevo: la Navigatio S. Brandani, il Purgatorio di S. Patrizio, la Visione di Tundalo, la Visione di frate Alberico di Montecassino, la De Jerusalem celeste (per le gioie paradisiache) e il De Babilonia civitati infernali (per le pene infernali) entrambe di fra Giacomino di Verona, il Libro delle Tre Scritture di Bonvesin della Riva.

 

Gli autori cristiani tuttavia non avvicinano nemmeno lontana­mente la spiritualità di Dante e sono solo la prova di quanto il genere religioso fosse diffuso.

 

L’unica fonte letteraria certa fu l’Eneide[4]: in particolare D. fece sicuramen­te riferimento al canto sesto[5], al concetto di superiore finalità del compito affidato ad Enea, alla struttura esteriore e alla figurazione dei luoghi ed esseri mitologici del Mantovano, all’idea di proiettare la vita nel regno della morte, di fondere la storia con la leggenda, il reale con il fantastico.

 

 

C) Titolo, metro e lingua

 

 

Con tutta probabilità il titolo di Commedia non è stato dato da Dante al suo poema; la parola Comedia che si ritrova in Inf. XVI, 128 (e XXI, 2) è usata per riferirsi allo stile del racconto in quei due luoghi[6] ma non ha niente a che vedere con il concetto dantesco di tragedia e di commedia (su cui si veda De Vulgari eloquentia II, IV,5); per cui l’attribuzione che presto si diffuse non era in linea con le idee dell’autore.

 

La Commedia infatti appartiene al genere umile per contenuto e per stile, cosí come esso è definito dalle retoriche medioevali e da Dante stesso nel suo Convivio: a questo genere, tra descrittivo e satirico, si dava l’appellativo di comico[7].

 

Divina fu poi un’aggiunta dei posteri, a cominciare da Boccaccio, a dire cioè che il poema era umile, ma trattava, ciò nonostante, di argomenti divini.

 

Solo nel 1555, a dire il vero, compare anche l’epiteto “Divina” nell’edizione veneziana del Giolito a cura di Lodovico Dolce.

 

Il poema si compone di tre cantiche di 33 canti ciascuna più l’introduzione nell’Inferno: il tutto quindi per un totale di cento canti.

 

Ciascun canto ha una media di versi un poco inferiore a 150, e presenta una lunghezza assai vicina a quella di tutti gli altri.

 

Il metro usato è la terzina dantesca a rima incatenata (aba, bcb, cdc,…vzv, z), così definita perché da lui utilizzata per la prima volta e derivata forse dal sirventese incatenato di tre versi o piuttosto dalle terzine del sonetto.

 

Il poema è in terza rima: i poemi medioevali di intendimento descrittivo e didascalico, sono in terza e in nona rima; verranno poi, con carattere narrativo, i poemi in ottava rima.

 

L’ endecasillabo della Commedia è in generale fortemente ritmico, e piano[8].  Rari, ma rilevabili, gli endecasillabi con l’accento spostato alla settima sillaba, che compongono il giro lungo e fermo di un’immagine eccezionale o di una sentenza perentoria.

 

La lingua utilizzata non è esattamente il volgare illustre teorizzato nel De Vulgari eloquentia: specialmente nell’Inferno si usano molti dialettismi toscani, fiorentini e di altre regio­ni; la materia da trattare era troppo vasta per usare il volgare illustre; il Paradiso tuttavia è stato scritto in una lingua superiore, nobile e dotta.

 

La lingua della Commedia può definirsi in generale il volgare fiorentino (ma non quello municipale e plebeo); tuttavia non si esaurisce in esso perché sono presenti molti latinismi, forestie­ri­smi e vocaboli coniati appositamente da Dante.

 

Importante è sottolineare che con la Commedia la lingua volgare esce dall’imitazione.

 

 

D) Disegno generale.

 

 

Il poema rappresenta la materia di un lungo sogno, o, come si diceva allora, di una visione, anzi di una mirabile visione[9].

 

Il viaggio nei tre regni dell’oltretomba si finge avvenuto nel 1300, l’anno del grande Giubileo romano, regnando sul trono di San Pietro papa Bonifacio VIII, lungamente avversato dal poeta.

 

Piú esattamente il viaggio avviene nel tempo dell’equinozio di primavera, dunque tra il finire del marzo e il principiare dell’aprile. Si snoda per sette giorni, due (dall’8 aprile, sera, al 9 aprile alle ore 18/19)  spesi nello scendere l’abisso infernale, tre (dal 10 aprile, notte inoltrata, al 13 aprile mercoledì) nel salire la santa montagna dell’espiazione, due nel volare su attraverso le sfere celesti sino all’Empireo (da mezzogiorno del 13 aprile, mercoledì, a mezzogiorno del 14 aprile, giovedì).

 

Per la struttura dei tre regni ultraterreni, Dante accoglie la visione geocentrica sostenuta da Tolomeo nell’Almagesto e accettata da San Tommaso e dalla Scolastica, suoi costanti punti di riferimento filosofico.

 

Nella rappresentazione tolemaica, la Terra è una sfera divisa in due emisferi, dei quali solo quello settentrionale abitato. Al centro di questo, Dante pone Gerusalemme e ai suoi antipodi la montagna del Purgatorio, sulla cui cima si trova il Paradiso terrestre. La Terra è circondata da nove sfere concentriche, ruotanti l’una dentro l’altra, tutte contenute da una decima, l’Empireo: esso è la dimora di Dio, degli Angeli e dei beati, ed è, invece, immobile.

 

 

E) Schema dell’Inferno

 

 

L’Inferno è una voragine a forma d’imbuto che si apre sotto la superficie terrestre dell’ emisfero boreale, al cui centro sta Gerusalemme.

 

Superata la porta, si traversa l’Antinferno, che è una vasta pianura ove corrono dietro a una folle insegna i vili, che vissero senza assumersi responsabilità, senza aver partito o fazione, senza peccati e senza virtù.

 

Miracolosamente Virgilio e Dante varcano il primo dei fiumi infernali l’Acheronte, oltre il quale sta il primo cerchio o Limbo, il cerchio di coloro che, non per loro colpa, morirono senza essere stati battezzati, pur essendo vissuti onestamente.  Seguono i quattro cerchi degli incontinenti, peccatori meno dannati, perché la loro colpa fu la smoderata passione, né ebbe per fine l’ingiuria o la malizia.

 

Ecco dunque i lussuriosi (secondo cerchio), i golosi (terzo cerchio), gli avari e prodighi (quarto cerchio), gli iracondi e gli accidiosi immersi nella palude Stige (quinto cerchio).

 

A questo punto vi è un canto di alta tragicità: i diavoli si oppongono a che Dante entri nella città di Dite. Ma interviene l’Angelo e la porta della città si apre.

 

I due poeti si incontrano con gli eretici e gli atei (sesto cerchio); poi calano giù per un burrato e percorrono il settimo cerchio dei violenti che fecero ingiuria a Dio, o al prossimo o a se stessi.

 

Dall’estremo margine del settimo cerchio si cala attraverso un baratro, che i poeti scendono sulle spalle del mostro Gerione, sul piano dell’ottavo cerchio, o cerchio dei fraudolenti, distribuiti in dieci fosse dette Malebolge.

 

Ed ecco i ruffiani, i seduttori, gli adulatori, i simoniaci, i maghi e indovini, i barattieri, gli ipocriti, i ladri, i consiglieri di frode, gli scismatici, i falsari.

 

Il pozzo dei giganti introduce alla parte piú profonda, riservata ai traditori e chiusa dall’ immenso corpo di Lucifero, confitto nel centro della terra.

 

Qui la palude di Cocito è ghiacciata; vi stanno conficcati i traditori dei congiunti, della patria, degli ospiti, dei benefattori (nono cerchio).

 

Nelle tre fauci di Lucifero sono eternamente maciullati Giuda, traditore di Cristo, e Bruto e Cassio, traditori di Giulio Cesare.

 

Sono essi tre i traditori della Chiesa e dell’ Impero.  Mai come qui, in sede poetica, si esalta la concezione politico-morale di Dante: essere il genere umano ordinato provvidenzialmente da Dio su due grandi perenni istituzioni, autonome l’una rispetto all’altra, rispettivamente responsabili dell’ordine spirituale e di quello temporale.

 

 

F) Schema del Purgatorio

 

 

Il Purgatorio è un monte gigantesco che si leva sulle acque dell’emisfero australe.

 

Dalle foci del Tevere l’Angelo nocchiero trasporta le anime che sono destinate all’espiazione e alla redenzione sino alla spiaggia dell’isola, sulla quale si leva la mole del sacro monte.

 

Le prime balze costituiscono l’Antipurgatorio. Esse sono occupate dagli scomunicati, dai tardi a pentirsi e dai principi giusti, ma negligenti nelle cure religiose.

 

Nelle sette cornici che sovrastano l’Antipurgatorio e cui si accede attraverso la porta del Purgatorio, custodita dall’Angelo confessore, stanno rispettivamente: i superbi, oppressi dai massi che domano la loro superba cervice; gli invidiosi, che recano il cilicio e hanno gli occhi cuciti; gli iracondi, il cui amore peccò per troppo di vigore, avvolti da un denso e acre fumo; gli accidiosi, rei di amore difettoso per manco di vigore, costretti a correre affannosamente in atto di ansiosa sollecitudine; gli avari e i prodighi, uniti insieme e proni sulla nuda terra; i golosi, ridotti a estrema magrezza dall’insaziata fame e dall’insaziata sete; i lussuriosi, rei di amore difettoso per male obbietto, avvolti dalle fiamme, siano essi lussuriosi carnali, siano essi sodomiti.

 

Il contrappasso fra colpa e pena è evidente. La topografia morale del Purgatorio è ragionata con sottigliezza da Virgilio e poi ripresa e conclusa da Stazio.

 

Guide di Dante sono Virgilio e, dalla quinta cornice, Stazio, ma il primo dilegua all’apparire di Beatrice, sul Paradiso terrestre. Cosi la ragione umana cede alla Verità rivelata.

 

Su ogni cornice, uno o più personaggi incontrano Dante e discorrono con lui.

 

Fra i molti troviamo un papa, Adriano V, e due re, Ugo Capeto e Manfredi. Ma ci sono maestri di poesia, il Guinizelli e Arnaldo Daniello; amici e poeti, da Casella a Bonaggiunta, da Belacqua a Forese Donati.

 

Su ogni cornice sono offerti in diverso modo – per recitazione e grida e canti, per sculture, per visioni – esempi di virtù e vizi.

 

Ovunque Dante raccoglie preghiere, notizie, o profezie: ma per una terra distaccata, e a un tempo presente come ineliminabile oggetto di passioni, di riflessioni, di speranze.

 

Il paradiso terrestre, che occupa la cima della  montagna, è una foresta spessa e viva: corrisponde all’Eden biblico.

 

Qui vissero Adamo ed Eva prima del peccato originale; qui sarebbero vissuti qli uomini nelle generazioni e nel tempo, se non fosse stato consumato il peccato originale.

 

Qui si svolge una grande processione allegorica, e qui Beatrice scende, rimprovera Dante, e infine lo conforta e conduce con sé.

 

Qui, dopo che si è allontanata l’ultima visione drammatica, quella della Chiesa schiava del re di Francia, Dante, già purificato dal fiume Lete, può essere immerso da Matelda nel fiume della virtuosa ricordanza, l’Eunoè; e qui trovarsi, alla fine, “puro e disposto a salire alle stelle”.

 

 

G) Schema del Paradiso

 

 

Secondo la dottrina geocentrica di Tolomeo, le sfere o i cieli che ruotano intorno alla terra immobile sono otto.

 

I sette pianeti (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno) sono, in questo ordine, incastonati nei primi sette cieli, mentre le stelle fisse o costellazioni sono raggruppate nell’ottavo cielo.

 

Il nono cielo e Primo Mobile è un cielo teologico, non astronomico: esso riceve il movimento da Dio e lo comunica ai cieli sottostanti.

 

Le creature viventi sulla terra il movimento, la vita vegetativa e le inclinazioni del temperamento sono comunicate dai cieli astronomici.

 

Le sfere ruotano intorno alla terra saldate in un solo e compatto sistema rotatorio: perciò le sfere sono tanto più veloci, quanto più sono ampie.

 

Le intelligenze motrici si raggruppano pure in nove ordini: ciascun ordine presiede a un cielo.

 

Ai nove cieli, a cominciare dalla Luna, corrispondono i nove ordini angelici e cioè gli Angeli, gli Arcangeli, i principati, le Podestà, le virtù, le Dominazioni, i Troni, i Cherubini e i Serafini.

 

Gli spiriti beati risiedono nell’Empireo, ma si distribuiscono transitoriamente nei cieli per rendere sensibile a Dante il loro diverso grado di beatitudine; quando il poeta sarà giunto alle soglie dell’Empireo, tutti gli spiriti ritorneranno alla loro sede.

 

Essi sono, a cominciare dalla Luna: le anime che non compirono i loro voti, gli spiriti attivi che operarono il bene per conquistare fama terrena, gli spiriti amanti, gli spiriti sapienti, gli spiriti militanti per la fede, gli spiriti giusti, gli spiriti contemplativi, gli spiriti trionfanti.

 

Il sistema delle sfere è compreso nell’Empireo, l’infinito che sta al di fuori di ogni tempo e di ogni spazio.

 


[1] Secondo alcuni nel 1308 l’Inferno era finito, e nel 1313 il Purgatorio; nel 1318, a detta di Francesco da Barberino, ambedue le cantiche erano conosciute e divulgate.

[2] In particolare il cap. XI dell’Odissea: l’evoca­zione di Ulisse delle ombre nel paese dei Cimmeri.

[3] Nelle sue Metamorfosi descrive un viaggio agli inferi.

[4] Dante la seppe <<tutta quanta>> (Inf. XX, 114)

[5] In cui Virgilio si diffonde sulla discesa di Enea nell’Averno alla ricerca del padre Anchise.

[6] Stile inferiore rispetto a quello che caratterizza l’alta tragedia dell’Eneide.

[7] Nell’epistola a Cangrande della Scala (di non sicurissima attribuzione), Dante afferma “Incipit Comedia Dantis Alagherii, Florentini natione, non moribus” (Comincia la Commedia di Dante Alighieri, fiorentino di nascita, non di costumi), e spiega il titolo: esso, secondo le leggi della retorica medievale, deve rispondere sia all’argomento sia allo stile del poema che comincia in modo triste e termina lietamente e che è scritto in un linguaggio remissus et humilis (dimesso e umile), come si addice appunto al genere “comico”.

[8] Con l’accento tonico quindi sulla penultima sillaba.

[9] E’ evidente che la Commedia è anche la storia interiore, personale del poeta, dal tempo nel quale egli si sta perdendo e dannando moralmente sino al tempo nel quale egli, libero dall’impedimento del peccato, muove naturalmente a Dio – così come muovono a Lui le creature innocenti o redente – e ottiene, alle soglie dell’Empireo, la visione di Dio.

L’itinerario della sua anima dall’innocenza all’espiazione alla redenzione alla beatitudine è assai difficoltoso, ed è rappresentato sensibilmente dal viaggio giù fra i dannati del baratro infernale e su fra gli espianti della dura montagna del Purgatorio.

L’ultimo rito espiatorio Dante lo sostiene sulla cima della montagna, dove si distende il Paradiso terrestre, sotto l’incalzare spietato dell’inchiesta e della diagnosi implacabile di Beatrice.

Poi il trionfo della sapienza, della carità, della beatitudine attraverso il linguaggio sensibile del Paradiso: che è linguaggio di armonie musicali, di danze, di luce e di lumi.

Ma il poema è anche la storia universale della redenzione umana. E non soltanto per una ragione estetica: e cioè perché poeticamente la vicenda privata del poeta si fa universale, comunica a tutti gli uomini se stessa. Ma per una ragione costituzionale al poema dantesco. Perché Dante sente pulsare in se stesso il sangue di tutti gli uomini. Le sue esperienze ripetono quelle dell’uomo in assoluto: la subdola tentazione del peccato, lo scivolare dolce e impaurito verso di esso, la dura fatica a conquistarsi di nuovo la libertà dal peccato, il procedimento e il rito espiatorio fatto di lacrime e di sangue. Per questa programmatica universalità, l’allegoria ha il suo vero, compiuto significato.  Allegoria è solidarietà, fraternità umana.  E’ caritas.  Dante si porta sulle spalle, oltre alla croce dei suoi peccati, la croce di tutti i peccati; e piange le lacrime dell’espiazione universale.

 

Dante Alighieri – Questio florulenta ac perutilis de duobus elementis aquae et terrae ed Epistole

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Forse  Dante si recò a Mantova[1] nel 1319 e qui nacque, come ci racconta il poeta stesso[2], una grossa disputa, la quale egli volle poi tratta­re e definire in una conferenza nella chiesa di S. Elena a Verona il 20/01/1320[3].

Tale questione concerneva il fatto se l’acqua in qualche punto fosse più alta della terra, visto che per i dotti l’elemento più nobile deve stare sempre in alto (fuoco su aria, aria su acqua, acqua su terra)[4].

Dante affronta l’argomento anche per rispondere alle critiche ricevute per la sua cosmografia dell’Inferno[5] ed è per la negativa: la terra è in ogni punto più alta dell’acqua, che pure è elemento più nobile, per l’attrazione esercitata dalle stelle; porta a soste­gno delle sue considerazioni Aristotele, Tolomeo e Alfergano[6] oltreché ad esperienze di carattere fisico che hanno per il poeta la maggior importanza.

La scienza di Dante tuttavia non supera quella del suo tempo nonostante porti qualche buona ragione (ad es. l’illusione dei naviganti in alto mare di vedere la terra più bassa): l’opera tuttavia ha un valore storico perché fa il punto sullo stato delle conoscenze del secolo.

Interessa anche la dichiarazione del poeta di essere vissuto fin dalla puerizia nell’amore della verità e la condanna delle indagini volte a cose che trascendono il nostro intelletto.

Il valore letterario è invece discutibile:  il latino utilizzato è piano e dimesso, seppure l’architettura del trattato sia armonica[7].

 L’attribuzione a Dante è per alcuno[8] incerta perché la concezione dell’Inferno è contrastante ed inoltre i commentatori antichi hanno ignorato quest’opera che è stata ritrovata solo nel XVI secolo.

Però c’è anche da rilevare che D. parlò della questione al clero di Verona (ne è testimone il figlio Pietro) e che l’Inferno e la Questio divergerebbero solo perché il primo è frutto di invenzione fantastica.

 Dell’Alighieri si sono conservate poche epistole ma quelle di cui disponiamo sono di grande importanza: dirette ad uomini pubblici importanti, dibattono temi politici e sociali di grande attualità e ci consegnano degli spaccati assai preziosi del secolo XIV.

 Nel marzo del 1304 D. scrive una lettera al Cardinale Niccolò di Prato a nome dei Bianchi fuoriusciti, perché il vescovo di Ostia e legato pontificio, riporti la pace in Firenze.

 In altra epistola si conduole con Guido e con Oberto da Romena della morte del loro zio Alessandro (estate del 1304); è dubbio che appartenga a Dante perché questo Alessandro troverà posto nell’In­ferno.

 Un’epistola anteriore al 1306 è diretta a Cino da Pistoia e ha ad oggetto la risposta ad una questione – posta da Cino con un sonetto – se l’anima possa passare dall’amore per una persona all’amore per un’altra con la stessa facoltà.

D. risponde affermativamente con il sonetto “Io sono stato con amore insieme” e spiega meglio nella lettera che la potenza dell’anima non si esaurisce in un atto e quando questo è compiuto essa passa ad un altro.

 Altre tre epistole, dallo stile polemico e personale (contra­ria­mente a quanto richiesto dall’epistolografia latina) sono scritte in occasione della discesa di Arrigo VII: una ai Principi di Italia: ai re d’Italia, ai signori dei feudi, ai senatori romani, perché accolgano l’Imperatore voluto da Dio (1310), un’altra <<agli scelleratissimi fiorentini di dentro>> perché non resistano alla calata di Arrigo VII (1311); la terza all’Impera­tore stesso, in uno stile solenne tanto quanto il destinatario cui tale epistola è rivolta (1311).

 Ancora nel 1311 Dante indirizza un’epistola al marchese Moroello Malaspina di Giovagallo: in essa confida all’amico che appena allontanato dalla Curia (quella del Marchese o di Arrigo VII) giunse sulle acque dell’Arno dove vide una donna che lo infiammò di una passione terribile (anche in questo caso forse si tratta di un’allegoria).

 Della primavera del 1311 sono anche tre biglietti di ringrazia­mento scritti da Dante in nome della contessa Gherardesca di Battifolle (figlia del conte Ugolino) e destinati all’imperatri­ce Margherita (moglie di Arrigo VII).

 Altra epistola è diretta ai cardinali convenuti in conclave dopo la morte di Clemente V nel 1314, perché si accordino ad eleggere un papa più degno (Clemente V aveva ingannato Arrigo VII) e soprattut­to eleggano un pontefice italiano in modo che la sede di Pietro sia riportata a Roma.

 Del 1315 è invece un’epistola destinata ad un amico fiorentino (di valore inferiore rispetto a quelle scritte in occasione della calata di Arrigo VII) che il poeta non vuole nominare: D. scrive in occa­sione dell’amnistia concessa da Firenze, affermando di non volerne fruire poiché egli è sempre stato innocente e quindi non ha intenzione di piegarsi ad inutili umiliazioni, ma preferisce seguire la ragione che appunto gli impedisce il ritorno.

 L’ultima epistola è diretta al signore di Verona Cangrande della Scala (Par., XVII, 76 e ss.) ma sull’autenticità i dantisti sono quanto mai discordi; per contraccambiare i favori ricevuti l’autore di questa lettera offre a Cangrande il Paradiso, con parole che fanno presumere che fosse già ultimato.

 D. ci spiega che un’opera dottrinale (così definisce la sua) va indagata su sei punti: soggetto, autore, forma, fine, titolo del libro, il genere di filosofia; che la sua opera ha due sensi quello letterale e quello allegorico (il morale l’anagogico sono qui da ricomprendere nell’allegorico); c’è quindi un chiaro riferimento al Convivio.

 Il poeta  passa poi a spiegare i sei punti: il soggetto di tutta l’opera nel senso letterale è <<lo stato delle anime dopo la morte, semplicemente preso; nell’allegorico, l’uomo che meritando o demeritando per la libertà dell’arbitrio, sia soggetto alla giustizia del premio o della pena>>.

 Il fine dell’opera per il poeta è quello di rimuovere i viventi in questa vita presente dallo stato di miseria e condurli allo stato di felici­tà.

 Il genere di filosofia è quello morale, perché l’opera è composta non con un intento speculativo ma pratico e se vi si trattano questioni speculative ciò è sempre in vista dell’opera­re.

 Il titolo di Commedia è giustificato in quanto l’opera ha principio aspro e fine felice ed è scritta in stile dimesso ed in lingua volgare <<nella quale anche le donnicciole conversano>>, all’opposto della tragedia che ha principio mirabile e quieto e fine orribile e stile sublime.

 Ma, indipendentemente dal fatto che non è sicuro che il titolo di Commedia sia stato dato da Dante al suo poema, quel che è certo è che lo stile illustre e difficile del Paradiso mal si conciliano con la definizione sovraesposta.

 Premesse queste cose l’autore passa all’esposizione letterale della cantica, cominciando dal prologo, cioè dai primi 36 versi del canto I. Parla diffusamente dei primi 12 versi. Poi opera un’af­frettata divisione dell’invocazione e d’improvviso si interrompe protestando che  la povertà lo incalza così da costringerlo ad abbandonare queste ed altre cose utili allo stato.

In un rapido ultimo paragrafo poi traccia le linee generali della cantica fino alla visione di Dio.


[1] Purtroppo però della disputa mantovana o della conferenza veronese non abbiamo notizia sicura in nessun documento storico e in nessun commentatore e biografo di Dante, ad eccezione di un cenno nel commento di Pietro Alighieri alla Commedia. Sfortunatamente non possediamo neppure un codice manoscritto della Quaestio, che però conosciamo perché nel secolo XVI Benedetto Moncetti, Priore degli Agostiniani di Padova, scoprì l’autografo e la pubblicò a Venezia nel 1508 in 14 facciate di testo. Tuttavia tale autografo andò perduto ed abbiamo notizia soltanto una successiva ristampa del 1576.

[2] L’accenno al fatto di Verona è contenuto nella seconda egloga di Dante a Giovanni del Virgilio, scritta dopo il 20 gennaio 1320.

[3] Mantova e Verona erano città culturalmente vivaci per la presenza di dotti ingegni e scuole di scienze fisiche.

[4] Il problema dei reciproci rapporti tra l’acqua e la terra abitata si era imposto alla attenzione della cultura medioevale quando questa si accolse l’aristotelismo e la visione cosmologica che poneva la terra al centro dell’universo e postulava la concentricità delle quattro sfere (terra, acqua, aria, fuoco) ove, nell’ordine, la sfera precedente è tutta circondata dalla seguente, e quindi la terra doveva risultare conglobata e sommersa dall’acqua, il che appariva in contrasto, oltre che con l’esperienza, anche con la separazione delle acque affermata dal Genesi.

[5] La narrazione dell’emersione della terra nell’emisfero boreale causato dalla caduta di Lucifero [Inf., XXXIV) aveva attirato gravi critiche, per cui Dante vuol dimostrare qui che è anche  in grado di darne spiegazione razionale e scientifica. Mentre la visione teologica spiega l’emersione in termini di repulsione,  quella scientifica la precisa in termini di attrazione.

[6] Al Farghani (nato a Baghdad, visse IX sec. e morì nell’861 in Egitto), astrofisico e astronomo revisore del sistema tolemaico, fu al servizio del califfo di Baghdad tra l’813 e l’833. I suoi studi sulla cosmologia tolemaica sono esposti nell’opera nota come “Compendio sulla scienza degli astri” e tradotta in latino con il titolo di “Rudimenta astronomica” da Gherardo da Cremona. Essa contiene considerazioni interpretative sulle eclissi di Sole e di Luna, che nel sistema geocentrico richiedevano spiegazioni meccaniche diverse da quelle attuali (la previsione delle eclissi forniva quindi un ulteriore meccanismo di verifica della validità della cosmologia di Tolomeo).

Inoltre Alfergano (latinizzazione del nome Al Farghani) fissa le dimensioni degli astri e le loro distanze fornendo una descrizione quantitativa dell’universo che lo stesso Dante Alighieri accetterà come modello dell’universo, come si evince inoltre dalle citazioni presenti nel “Convivio” e dai riferimenti astronomici nella Divina Commedia.

[7] E si dipani secondo l’ordine tipico delle Summae scolastiche: alla tesi avversarie Dante oppone la solutio auctoris, per ribattere poi uno ad uno gli argomenti contrari; all’interno delle varie sezioni, l’argomentazione segue i princìpi ed i moduli scolastici e gli abituali  schemi sillogistici.

[8] I primi dubbi li avanzò Giuseppe Pelli nel 1758, seguito dal Tiraboschi, dal Foscolo ed altri. Si giunse perfino ad attribuirla bizzarramente a un Dante III, umanista veronese del 1500. Il primo che fondò l’opinione negativa su argomenti seri fu il Bartoli, seguito da Lodrini, Passerini, Ricci, Scartazzini e Luzio—Renier. La tesi dell’autenticità fu validamente sostenuta da Angelitti, Moore, Russo, Toynbee, Biagi e più recentemente da Mazzoni, mentre la tesi negativa trovava ancora agguerriti sostenitori in Boffito e in Nardi (v. Pio Gaja, Introduzione QUESTIO DE AQUA ET TERRA DE FORMA ET SITU DUORUM ELEMENTORUM AQUE VIDELICET ET TERRE di Dante Alighieri, su http://www.classicitaliani.it).

Dante Alighieri – Monarchia

Basilica di Pompei

Nel momento in cui Dante si costruisce un credo politico un po’ in base alla dolorosa esperienza personale, un po’ seguendo la fede cattolica e la filosofia scolastica, troviamo a contendersi il campo politico-sociale due correnti, quella teocratica[1] e quella imperialista; la prima (che fa capo a Bonifacio VIII e a Giovanni XXII) individua il Papa come vicario di Cristo in terra; da ciò consegue che gli spetti la direzione religiosa e politica dei cristiani perché la politica è subordinata alla religione.

 La seconda afferma che l’Impero è potere universale istituito direttamente da Dio; l’Imperatore è quindi vicario di Dio, supremo difensore della Chiesa, superiore al Papa nell’ambito delle cose temporali.

 Nella Monarchia, opera composta in lingua latina tra il 1312 e il 1313 o forse successivamente alla morte di Arrigo VII[2], Dante tenta di conciliare entrambi le teorie[3]; afferma e dimostra con procedi­mento scolastico-dogmatico che il potere del Papa e quello dell’Imperato­re derivano da Dio, ma che l’uno e l’altro – pur essendo legati da rapporti necessari – sono indipendenti perché perseguono diversi fini.

L’opera, unico trattato non incompiuto, si dispiega su tre libri.

Dante procede dapprima a una definizione generale dell’istituzione monarchica, detta “unicus principatus et super omnes in tempore vel in hiis et super hiis que tempore mensurantur” (cioè “principato unico che sta sopra tutti gli altri nel tempo, ossia domina tutte le questioni di ordine temporale”),  e poi cerca di rispondere a tre interro­ga­tivi:

a) sulla necessità di un impero universale per il benessere dell’umanità;

b) sul diritto del popolo romano ad esprimere tale impero e ad offrirne sede;

c) sulla dipendenza dell’autorità imperiale da Dio o dal Papa.

Nel primo libro D. dimostra innanzitutto la necessità d’avere un unico monarca; scopo dell’uomo è la conoscenza[4] poiché essa lo rende felice; per poter conquista­re tutta la sapienza possibile è necessaria però la monarchia universale; ma questa può attuarsi soltanto se vi concorre tutta l’umanità e ciò è possibile solo a patto che regni la pace universale; a sua volta la pace universa­le può essere garantita soltanto da un’unica autorità.

Tra l’altro la sottomissione delle varie strutture politiche (città, regni ecc.) a un unico monarca è atto indispensabile per realizzare nella società mondana un ordinamento unitario che rispecchi quello celeste.

Un unico imperatore universale, assicurando la pace, assicura anche la massima libertà[5] e quindi il benessere[6] comune, che è elemento imprescindibile perché ogni uomo possa conseguire il suo vero fine.

Dal momento che gli uomini hanno un fine comune – la conoscenza – uno soltanto può essere colui che regola tale finalità; così come Dio è l’unico motore dell’universo l’umanità deve essere regolata nel suo moto da un unico principe.

Solo un monarca universale che tutto possiede può esercitare la giustizia, perché il suo agire non sarà ispirato da cupidigia (che, come afferma Aristotele, è il maggior ostacolo alla giustizia), ma da amore verso gli uomini che a loro volta lo amano perché procura benessere.

Il monarca detterà leggi universali cui si conformeranno le leggi particolari e realizzerà la concordia tra i vari corpi politici, nel senso che entro i principi universali potranno muoversi come crederanno.

La giustezza di questi argomenti (che appartengono ad una serie di undici) è secondo D. confermata dal fatto che il genere umano non fu mai felice quanto lo fu sotto il principato augusteo e dal fatto che Gesù Cristo attese a incarnarsi appunto nel momento in cui  il mondo avesse raggiunto l’unità politica sotto l’impero romano al tempo di Augusto.

Nel secondo libro D. dimostra come la monarchia universale appartenesse di diritto al popolo romano; la storia è attuazione della volontà divina e di conseguenza affermare che ad un popolo spetta di diritto una cosa vuol dire affermare che detto popolo segue la volontà divina.

Ma come è possibile riscontrare nelle cose la volontà divina che è occulta in sé? si deve guardare alle opere di quel popolo.

Il popolo di Roma fu il più nobile perché discendente da Enea sia per le virtù individuali sia per le  collettive espresse; aveva un innato senso del diritto perché trascurò la propria quiete per trava­gliar­si in azioni dirette al bene comune.

Perciò Dio lo predilesse: compì per lui vari miracoli (ad es. l’oca che svegliò i difensori del Campidoglio), gli concesse il dominio del mondo, riconobbe la legittimità della sua potestà perché Cristo nacque sotto Tiberio.

Se il potere di Roma sul mondo intero fosse stato illegittimo, la morte di Cristo, decretata dalla legge romana, non avrebbe potuto redimere il peccato originale dell’intera umanità (il che sarebbe contrario a uno dei più importanti dogmi della Chiesa).

Per queste ultime considerazioni anche Roma è sede provviden­zial­mente designata dell’Impero.

Queste argomentazioni servono anche a confutazione della credenza medioevale secondo la quale Roma avrebbe conquistato il mondo con la violenza: cosa che inizialmente aveva creduto e scritto anche il poeta il quale dimostra invece poi che tutto è stato frutto della Divina Provvidenza[7].

Il dominio del popolo romano finì per D. (III libro) sotto Costantino quando fece la sua famosa donazione (che è in realtà, come dimostrerà Lorenzo Valla nel 1440, un falso) anche se essa non avrebbe valore giuridico in quanto l’imperatore non avrebbe potuto donare l’impero di cui era solo depositario[8], senza andare contro il suo ufficio; ed il papa non avrebbe potuto accettare la sopradetta donazione perché ciò andava contro il Vangelo (“Non vogliate possedere nulla né oro, né argento” Mt. X, 19); tuttalpiù avrebbe potuto dispensare quel che aveva ricevuto a beneficio dei poveri.

 Per D. quindi fu un’usurpazione di diritto e non un diritto acquisito, l’incoronazione di Carlo Magno ad Imperatore da parte di Leone XIII: il Pontefice non gli poteva trasferire ciò che non gli apparteneva.

Per l’idea teocratica (è la reductio ad unum aristotelica) tutta l’umanità e quindi anche l’Imperatore deriverebbero quanto hanno ricevuto da un’unica fonte, il Papa (che non ha misura fuori di sé); per D. invece rivestire il ruolo di Papa o di Imperatore è un puro accidente (essere uomo è la sostanza); tra essi esiste infatti solo un rapporto di autorità; di conseguenza essi vanno ricondotti ad un principio unificatore che è Dio[9].

Da Dio deriva anche la autorità imperiale che esisteva prima di quella papale e a cui appartiene la sfera temporale; al Papa pertiene invece la sfera spirituale (qui si può notare che Dante aderisce alla corrente mistica) che deve perseguire secondo la legge di Dio e con l’aiuto della Teologia.

Papa ed Imperatore devono cooperare tra loro, sono due guide date da Dio per ricondurre l’uomo alla felicità terrena (Impera­tore) e a quella celeste (Papa): giacché l’uomo è stato ordinato a questi due fini.

L’Imperatore è indipendente dal Papa, ma dovrà avere nei suoi confronti reverenza filiale perché il Papa guida le anime alla felicità eterna, di conseguenza anche l’azione dell’Imperatore deve essere illuminata dalla luce della fede[10].

Affermando però che la felicità terrestre è ordinata per la felicità celeste, Dante finisce per concludere che uno solo è il fine ultimo dell’uomo e che una sola è la sua guida; conseguentemente la separazione dantesca a livello teorico non sembra valida; lo rimarrà invece a livello pratico per molti secoli.

Utopistica è anche la concezione della monarchia universale, così come si presentava la realtà del tempo; buona è invece l’idea di una sola entità che dia direttive di carattere generale e soprat­tutto il rispetto di D. per la libertà, la valorizzazione del progresso umano ed il fatto che sia necessaria la pace universale perché possano esistere libertà e progresso.


[1] Per teocrazia (dal greco “governo della divinità”) si intende una forma di governo esercitata dal potere religioso o in nome di esso. La teocrazia si è attuata storicamente in due forme distinte: come governo di una classe di interpreti della volontà divina (profeti, sacerdoti) oppure come governo di un re o di un capo al quale veniva attribuita un’investitura divina. Nel pensiero politico occidentale la dottrina teocratica fu sostenuta dalla patristica nel senso di una supremazia del dovere del cittadino verso Dio rispetto al dovere verso lo Stato, nel caso di contraddizione tra i due poteri. Con l’emergere della potenza politica del papato, da Gregorio Magno fino a Bonifacio VIII, e nella lotta tra papato e Impero, la dottrina teocratica assunse rilevanza nell’appoggiare il diritto del papa di deporre l’imperatore.

[2] C’è tuttavia chi parla del 1307 e chi sostiene che la data di composizione sia il 1317.

[3] Anche perché deve da un lato difendere l’imperatore dai sostenitori del primato pontificio e dall’altro sente la necessità di fronteggiare l’emergere degli stati nazionali come la Francia che tendevano a sottrarsi all’impero.

[4] Il fine della stessa società è quello di consentire all’uomo di tradurre in atto, sia sul piano speculativo sia quello pratico, la sua “potentia sive virtus intellectiva“.

[5] L’uomo può essere libero solo sotto un monarca universa­le che è disinteressato (v. anche il Convivio) e ne tutela la piena libertà; la demago­gia, le oligarchie e le tirannidi al contrario asserviscono l’uomo al loro potere.

[6] D. afferma che ciò che è uno corrisponde necessaria­men­te al bene mentre la molteplicità corrisponde al male; la motiva­zione di tale asserzione è di ordine teologico: l’Uno è il medium, cioè l’inter­posizione, tra l’Ente e il Bene; ne consegue che l’Ente è necessa­riamente uno e che l’Uno è necessariamente Bene.

[7] Dopo aver affermato che il volere divino si manifesta anche nell’esito di alcune prove, come le gare o le competizioni armate (purché condotte nel rispetto di certe condizioni) e che, dunque, quanto si acquista in duello o in combattimento si acquista col diritto, Dante dichiara legittimo il potere romano sugli altri popoli, in quanto tale potere fu conseguito appunto per giudizio divino. Alla meta dell’impero, del resto, la storia romana era giunta attraverso una lunga serie di giusti duelli, a cominciare da quello che aveva contrapposto Turno a Enea.

[8] Per volere di Dio.

 [9] Per D. ogni autorità discende da Dio. L’autorità non è altro che il palesarsi della virtù che nasce dall’essere inserito nell’ordine naturale stabilito da Dio. Nella mente del Creatore ogni realtà, in armonia con tutto il resto, tende alla soddisfa­zio­ne di un fine. Essa toglie autorità direttamente da Dio, che l’ha creata predisposta a ciò. E se è vero che alcuni elementi hanno maggior pregio di altri, è altresì vero che ogni cosa riposa sul consenso divino. Ne discende che nulla dipende da altro se non indirettamente, secondo un ordine voluto da Dio. Così la Luna deve il suo splendore al Sole che l’illumina, ma – ciò nonostante – non deve a questo la sua essenza; anche il corpo è sottoposto all’ani­ma, nel senso che questa – in un uomo che segua la via della virtù – guida quello, ma le leggi del corpo, la sua essenza, il suo sussistere, sono indipendenti dall’anima, perché emanano diretta­mente dalla mente di Dio. In altre parole il potere spirituale e potere temporale derivano entrambi direttamente da Dio, come due astri che brillano ciascuno di luce propria, completamente autonomi l’uno dall’altro. Quello imperiale è preposto al raggiungimento della felicità terrena, mentre quello papale alla felicità spirituale.  Non è quindi giusto affermare, come facevano alcuni, che l’autorità papale è simile al sole, in quanto deriva direttamente da Dio, e quella imperiale simile alla luna, che deriva la sua luce non da Dio, ma dal papa. Dante passa poi ad esaminare la seconda argomentazione dei suoi avversari, i quali pretendono che la primogenitura di Levi rispetto a Giuda, simboli l’uno del potere spirituale l’altro di quello temporale, stia a rappresentare la superiorità del papa sull’imperatore, interpretazione contestata dal poeta in base al fatto che precedenza di nascita non significa precedenza nell’autorità. Ugualmente non decisivi sembrano gli altri argomenti prodotti a favore del primato del pontefice. Se è vero, infatti, che il re degli Ebrei Saul fu prima eletto e poi deposto dal sommo sacerdote Samuele, è vero altresì che questi non fu vicario di Dio, ma semplice procuratore, provvisto di un’autorità limitata e circoscritta nel tempo. Considerato, d’altra parte, che non tutto ciò che è dovuto a Cristo è dovuto al suo vicario (il quale non può avere un potere equivalente a quello di colui che lo ha investito), ai fini della dimostrazione che si intende svolgere appare irrilevante il rimando dei sostenitori della supremazia della Chiesa al dono, fatto dai Magi a Cristo, di oro e incenso, attributi tradizionali dell’autorità regia e di quella spirituale. Riferito, poi, al solo ufficio spirituale il potere simboleggiato dalle due chiavi attribuite a san Pietro è contestato che le due spade che il primo apostolo disse a Cristo di avere presso di sé nel giardino del Getsemani rappresentino i due poteri.

[10] Quest’ultima conclusione è inserita da D. poiché temeva la reazione del Papa ad un trattato che minasse le basi di ogni pretesa teocratica; ma la sostanza dei concetti non viene intac­cata: difatti il libro incontrò subito l’ostilità degli ambienti ecclesiastici e pochi anni dopo la morte di D. venne bruciato sul rogo, finendo poi nell’indice dei libri proibiti, dove rimase addirittura fino al 1881.

Dante Alighieri: De Vulgari Eloquentia (Trattato sull’arte del dire in volgare)

Trittico

La Vita nuova ed il Convivio hanno in parte sollevato alcuni problemi[1]; per D. è giusto ritornarvi dal momento che sono di alto interesse dottrinale; per il dibattito di approfondimento è necessario utilizzare competenze specifiche e rivolgersi ad un pubblico molto ristretto; quindi il latino torna ad essere il linguaggio d’uso e l’opera è pertanto rivolta agli uomini dotti.

 Quest’opera, divisa in due libri, ma originariamente concepita in quattro, è stata iniziata anteriormente al Convivio nel 1302, venne interrotta nel 1304 e rimase incompiuta a partire dal 1305.

 In essa D. vuol celebrare una forma di volgare itali­co[2] nobilissimo e perfetto in sé, degno di essere posto a confronto con il latino e di competere con la lingua d’oc e d’oil (cioè con il provenzale ed il francese).

 Nella sua esposizione D. opera in primo luogo  un’analisi storica della lingua a partire da Adamo.

 Il linguaggio è un dono di Dio fatto al primo uomo, nel quale fu posta la facoltà di organizzare la parola, così come fu posto il tuono nelle nubi, lo strepito nelle acque.

Tuttavia è anche opera umana (essendo espressione di razionali­tà e di passione umana) e quindi è soggetto a mutamenti relativi al tempo ed al luogo.

Originariamente l’umanità dovette esprimersi in una lingua unica, formatasi intorno alla parola El (= Dio); a seguito della confusione originata dalla costruzione e distruzione della torre di Babele[3], tale lingua unica si frammentò in varie lingue; se ne diffusero tre in Europa: il greco, il tedesco e la lingua (non più ricostrui­bile, ma accertata dalle molte derivazio­ni) da cui sarebbero scaturite – nell’Europa sud-occidentale – il francese, il provenzale e la lingua del sì (cioè l’italiano).

A loro volta queste lingue nella forma parlata (locutio vulgaris) furono instabili e corruttibili.

Il latino invece non è una lingua naturale ma convenzionale (locutio artificialis), creata dai dotti per avere uno strumento costante ed universale al fine di comunicare il pensiero, in altre parole per unificare le espressioni: quindi la sua caratteristica fu di essere stabile e costruita da regole.

Tra le lingue di derivazione “naturale” la lingua del sì è per D. la più importante perché si avvicina a quella che D. definisce “comune lingua grammatica” (il linguaggio universale: il latino) e perché l’hanno usato grandi poeti come Cino da Pistoia e Dante stesso, più dolci e sottili di quelli che hanno poetato nella lingua d’oc e nella lingua d’oil.

Dopo queste parole introduttive il poeta si restringe a parlare del volgare italiano e confronta le varie parlate nel suo seno; ne conta quattordici; afferma ad esempio che il romanesco è la parlata peggiore; si sofferma poi sul siciliano dei nobili (non su quello popolaresco) in omaggio alla scuola sveva, riconosce il volgare illustre nel linguaggio di Cino (non in quello dei vecchi rimato­ri toscani, troppo dialettale); definisce quella bolognese la parlata più bella, ma non la migliore (tanto che il Guinizzelli se ne è allontanato).

 In conclusione il volgare illustre non esiste in alcuna città ma è l’unione delle parti più nobili delle singole parlate; è chiaro che Dante ha in mente non una parlata ma una forma d’arte.

 Il volgare di cui il poeta discorre negli ultimi tre capitoli del I libro deve poter svolger un compito politico, morale e spirituale e nello stesso tempo essere un linguaggio universale; pertanto secondo D. ha quattro caratteristiche:

a) è illustre (perfetto e sublime): è “qualcosa che diffonde luce e che investito dalla luce  risplende chiaro su tutti”; è investito da un magistero come lo sono i grandi uomini (Numa Pompilio, Seneca) che per questo si dicono illustri; ha un potere sulla volontà degli uomini che li determina “a volere e a disvolere”; solleva in alto chi lo usa anche se in esilio (come il poeta); in altre parole, determina una crescita interiore,  rende glorioso chi l’usa come linguaggio famigliare ed esprime con chiarezza tutti gli argomenti;  b) è cardinale: perché è il cardine su cui girano gli altri dialetti che sono, a seconda, fuori o dentro del suo ambito; strappa “i cespugli spinosi” dagli altri dialetti, ossia opera una selezione stilistica;

 c) è aulico: degno di una reggia nobiliare, sede del potere politico, se in Italia ce ne fosse una; il volgare in quanto universale e cioè di tutti non può che vivere nella casa comune degli uomini; tutte le regge parlano il volgare illustre;

d) è curiale: serve alla curia, cioè al senato – sede della cultura – se questo esistesse nei Comuni italiani; in Italia invece della curia ci sono gli intellettuali: cioè tanti uomini che utilizzano la curialità, cioè la ragione come norma del loro agire. In altre parole il volgare, in quanto curiale, deve essere una lingua con regole fisse come la lingua grammatica: solo così potrà definirsi universale.

Nel secondo libro[4] premesso che tratterà da chi, per quale oggetto, come, dove, quando,  e verso chi si deve usare questo volgare, D. aggiunge che esso può utilizzarsi sia per la prosa che per la poesia; in tal’ultimo caso deve essere usato solo dai poeti forniti di ingegno e scienza e deve riguardare soltanto argomenti nobili e degnissimi: la prodezza delle armi (Bertran de Born, Arnaut Daniel, Giraut de Borneil poetarono degnamente di questo argomento in provenzale), l’amore (in Italia abbiamo Cino da Pistoia) e la rettitudine (“l’amico suo ” cioè Dante).

In altre parole D. precisa che una lingua non si esprime mai allo stesso grado, essa riflettendo di necessità, il livello di colui che la parla.

Certamente un volgare illustre sarà parlato da un uomo illustre, che D. individua in coloro che esercitano il loro parlare in attività nobili.

 Il metro più adatto al volgare illustre è la canzone; D. insegna quali versi siano da adoperare e come; ma per non proce­dere a caso nella composizione, dal momento che la lingua deve adeguarsi alla materia che tratta[5], si devono distinguere tre livelli a cui corrispondono tre generi di stili: il tragico (stile elevato) costruito da gravità di pensiero, magnificenza di versi, elevatezza della costruzione ed eccellenza di vocaboli; il comico (stile mediocre) e l’elegiaco (stile umile) che sono stili inferiori.

Lo stile tragico è perfettamente realizzato nella poesia, soprattutto nella canzone[6]: D. insegna dapprima quali versi si devono usare e come; quindi mostra esempi che dimostrino un costrutto nobile e sostenuto ed afferma che per acquistarlo bisogna studiare i grandi poeti latini.

Infine D. tratta della scelta dei vocaboli: essi devono essere nobili, eleganti, vigorosi, ed armoniosi insieme.

Distinti poi i vari sensi della parola canzone (cantio) – melodia e canto; poesia in genere adatta alla musica – e data la definizio­ne della canzone per eccellenza (<<unione in stile tragico di stanze uguali, senza ripresa, d’ispirazione unita­ria>>), D. passa a parlare della stanza, del suo rapporto con la musica, della disposizione e qualità delle rime, del numero dei versi di essa. Qui il trattato si interrompe (cap. XIV del II libro).

Tre volte ci sono dei rimandi ad un quarto libro, dove egli avrebbe trattato del volgare mediocre ed umile.

La maggiore importanza del De vulgari eloquentia consiste nel fatto che essa rivela quanta consapevolezza e quanto studio D. ponesse nella ricerca dei mezzi espressivi.


[1] Nel capitolo XXV del primo trattato della Vita Nova D. aveva parlato delle diversità tra poeti latini e volgari, si era soffermato sul linguaggio poetico, il quale, a differenza di quello in prosa, si nutre di immagini e di modi della retorica. Il Convivio a sua volta si chiude con una decisa difesa della lingua volgare, che, secondo Dante, può esprimere ogni sentimento e si presta anche a trattare materie scientifiche e filosofiche.

[2] Non quello che si parla ma quello che si apprende con lo studio.

 [3] Distruzione provocata da Dio come castigo per i discen­denti di Noè che insuperbiti avevano appunto costruito tale torre.

[4] Si tratta di una ricerca più particolare di quello che occorre perché una lingua possieda i predetti quattro requisiti.

[5] Uno stile elevato diventa ridicolo se usato per questioni di poco conto, almeno quanto appare rozzo e sconveniente  uno stile umile quando si trattino argomenti eccelsi.

[6] Questa, infatti, è una composizione d’alto contenuto e di stile impeccabile, come dimostrano la sua struttura: strofe compiute e ben articolate, che perciò si chiamano più propriamen­te stanze, e versi nobili a partire dall’endecasillabo, ch’è il più importante, il più musicale, e quindi anche il più usato nella canzone.

Dante Alighieri – Convivio

angelo

Composto tra il 1303-04 ed il 1307-08 (o forse per quanto riguarda il IV trattato tra il 1306 ed il 1309)[1] il Convivio vuole offrire un convito di sapienza (<<la scienza è ultima perfezione della nostra anima>>) agli uomini ben disposti[2], ma lontani per occupazione dal mondo degli studi e delle università.

Originariamente l’opera avrebbe dovuto contenere quindici trattati, uno intro­dut­tivo più quattordici a spiegazione (che soltanto Dante si ritiene in grado di dare) di altrettante canzoni; ma in realtà il poeta ne scrisse soltanto quattro, a commento, letterale e allegorico, di tre canzoni.

Nella impostazione dantesca le “vivande” sono le canzoni (“sì d’amore come di virtù materiale”), mentre il pane si identifica con i suoi trattati, indispensa­bili per gustare le canzoni.

La prosa del Convivio è il primo esempio di prosa scientifica e letteraria; è un’opera di grande impegno stilistico[3].

Dante scrive l’opera in volgare prezioso[4], non già per disisti­ma del latino, ma perché chi continua a fare cultura in latino (o anche preferisce in poesia il provenzale) gli appare colpevole di vanagloria, d’invidia e di viltà d’animo (i letterati del suo tempo per il poeta hanno fatto la letteratura <<di donna meretri­ce>>).

Il divorzio tra il nuovo pubblico borghese e le consuetudini della scienza che imponevano l’uso del latino, non potrebbe essere denunciato più apertamente: l’Alighieri dice che quel che porgerà saranno briciole cadute dalla mensa dei dotti, ma saranno adatte ai bisogni dei borghesi; sarà pane orzato e non pane di grano, ma potrà essere dato liberamente e in abbondanza; e meglio questa luce del volgare che rimanere nelle tenebre per un sole (il latino) che a molti più <<non luce>> (I, XIII, 12).

Dante si propone inoltre, bisogna non dimenticarlo, di far cono­scere ad un più vasto pubblico di quante conoscenze scientifiche, filosofiche, stilistiche e linguistiche egli è fornito, anche nella segreta speranza di poter rientrare in Firenze.

Il Convivio fu scritto dal poeta in esilio, ebbe come mera occa­sione la difesa dall’accusa di infedeltà nei confronti di Beatri­ce e da quella di essere vile, perché mendico e peregrino; dimostrando che la femmina adorata non era mortale (ma la sapienza) il poeta pensò di poter far fronte ad entrambe le accuse.

Non più soltanto l’amore, ma la sapienza è il nuovo argomento; non più la salvezza (v. la Vita Nova), ma il riscatto dalle accuse presenti è il nuovo scopo; non soltanto Beatrice, di conseguen­za, ma la donna pietosa e bella, da lei allontanata sul finire della Vita Nova è la nuova figura simbolica del Convivio.

Alla storia della sua redenzione spirituale, D. antepone ora la difesa del suo operato di cittadino, impegnato nella vita e nelle istituzioni del Comune. Firenze nel Convivio non è più il luogo dell’incontro con Beatrice, ma la patria che ha ingiustamente allontanato con la violenza uno dei suoi figli.

Nel I trattato, che funge da introduzione generale[5] e presenta le motivazioni e piano complessivo dell’opera, quattro paragrafi introduttivi servono appunto alla dimostrazione predetta, mentre i restanti nove vengono utilizzati per giustifica­re l’uso del volgare al posto del latino, di utilizzazione corrente, ma insolito per un’opera dottrinale: Dante intende, come si è detto, offrire il cibo della sapienza a lettori nobili d’animo, ma non dotati di una cultura strettamente accademica[6].

Il volgare è per il sommo poeta un amico necessario, la cui diffusione sarà inevitabile; è strumento, luce e sole, della nuova cultura.

Il trattato si conclude con la sottolineatura del ruolo e della responsabilità morale dell’intellettuale.

Nel secondo trattato per spiegare la prima canzone dell’opera, “Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete” (il poeta si riferisce agli angeli del cielo di Venere)[7] afferma che vi sono quattro “sensi[8] per interpretare una lirica:

1) lettera­le (relativo al senso “che non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti“),

2) allegorico (che svela il senso “che si nasconde sotto ’l manto di queste favole“),

3) morale (che riguarda il significato “che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitate di loro e di loro discenti“) ,

4) anagogico o sovrasenso (relativo al senso che scaturisce “quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora sia vera eziandio nel senso letterale, per le cose significate significa de le superne cose de l’etternal gloria“: si tratta di un sovrasenso spiritua­le)[9].

Gli ultimi due “sensi” sono di fatto da Dante trascurati[10]; in realtà essi sono soltanto un pretesto per varie disquisizioni stori­che, filosofiche, teologiche, che però non hanno mero carattere compilativo, come in altre opere dell’epoca.

Ricollegandosi all’episodio narrato in Vita Nuova (XXXV-XXXIX), Dante racconta come tre anni dopo la morte di Beatrice si fosse innamorato di una “donna gentile”.

Diviso tra la memoria della “gloriosa” e la nuova passione per questa donna, il poeta aveva allora invocato in suo aiuto gli angeli del terzo cielo con la canzone “Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete“.

Il primo verso della canzone fornisce a Dante lo spunto per esporre la sua concezione astronomica, tolemaica e cristiana dei cieli.

Di seguito si diffonde sulle due beatitudini dell’umana natura: quella attiva (nella vita civile) e quella contemplativa (che il poeta ritiene superiore); ed infine fornisce indicazioni sui divini motori e sulle gerarchie angeliche.

Per agevolarne l’esegesi, il testo della canzone viene diviso in tre parti: l’invocazione del poeta alle intelligenze angeliche del cielo di Venere (stanza I), la rappresentazione della “battaglia di pensieri” che si combatte nel cuore di Dante (stanze II-IV), il congedo (stanza V) [II].

Dopo una lunga digressione dedicata alla descrizione dei cieli (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, Stelle fisse, Primo Mobile, Empireo) [III] e delle intelligenze immateriali che presiedono al loro movimento (ripartite in tre gerarchie di tre ordini ciascuna: 1. Angeli, Arcangeli, Troni; 2. Dominazioni, Virtù, Principati; 3. Podestà, Cherubini, Serafini) [IV-V], la spiegazione letterale del testo prosegue fino al congedo, interrotta soltanto da una breve digressione sull’immortalità dell’anima[11] [VI-XI].

Esaurito il primo livello di lettura, l’interpretazione allegorica esordisce rivelando nella “donna gentile” la personificazione della Filosofia, al cui studio Dante si era applicato dopo la morte di Beatrice, quando aveva cominciato a frequentare “le scuole de li religiosi e le disputazioni de li filosofanti” [XII][12]: il poeta conclu­de affer­man­do che l’unica donna amata dopo Beatrice è quella che Pitagora chiama Filosofia.

 La filosofia di cui Dante discute nel Convivio è quella aristotelica (anche se D. conobbe molto bene anche quella platonica), penetrata in Europa a partire dalla metà del Duecento per il tramite della cultura araba, e poi tradotta in latino.

 Fonti del Convivio sono pure le enciclopedie, le grandi «summae» del sapere medievale, i padri della Chiesa, Agostino con le sue Confessioni, il Boezio del De consolatione philosophiae, Seneca, i commenti di impostazione sia tomistica (seguita soprattutto però nella Commedia) sia «radicale» (più seguita nel Convivio[13]), vale a dire averroistica, all’Etica Nicomachea e alla Politicadi Aristotele[14], nonché i commenti ad Aristotele di Alberto Magno.

Già nella Vita Nova era testimoniata la nascita in Dante di un interesse per la filosofia sotto la veste allegorica della «donna gentile giovane, e bella molto» oggetto per qualche tempo del suo amore dopo la morte di Beatrice.

Nel secondo trattato del Convivio l’autore evoca esplicitamente, l’incontro con questa donna «savia» che compare nella parte finale, della Vita Nova e che presenta molte analogie con la donna gentile e «saggia» della canzone del secondo trattato, Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete.

Nel Convivio la filosofia aristotelica non è subordinata alla teologia; l’opera è dunque una diretta testimonianza di una fase nuova, nella vita e nel pensiero di Dante: un momento in cui egli non sente il bisogno di affidarsi a forze divine, per raggiungere la conoscenza.

La felicità terrena è data dalla saggezza: è una visione per molti aspetti eterodossa (in quanto propria dell’aristotelismo più radicale), soprattutto uno dei concetti chiave per intendere meglio l’altra operazione tentata con i1 Convivio.

Nel quarto trattato (XVII, 8) Dante riprenderà, in proposito, la definizione che di felicità aveva dato Aristotele: «felicitade è operazione secondo virtude in vita perfetta»; e noi sappiamo che in Aristotele la vita perfetta risiedeva nell’attività speculativa, ossia nell’attività della parte, più nobile dell’uomo, l’intelletto.

Tuttavia, tanta fiducia nella filosofia umana, nel quarto trattato, ci appare entrata in crisi.

Nel III trattato troviamo ancora il commento alla canzone “Amor che nella mente mi ragiona” ; il poeta canta le lodi della nuova amata, la filosofia, conforto della mente, simbolizzata dalla “donna salvifica” (in altre parole Beatrice) e quindi fornisce la spiegazione allegorica della figura di Beatrice.

Premesso che la canzone in lode della “donna gentile“, Amor che ne la mente mi ragiona, è stata scritta per dimostrare l’eccellenza di questa donna e, nel contempo, per stornare dal poeta il biasimo di quanti lo potrebbero accusare di aver tradito la memoria di Beatrice, Dante divide il testo della canzone in tre parti: proemio (stanza I), lode della “gentile” (stanze II-IV), congedo (stanza V) [I].

Nell’intraprendere la spiegazione letterale del testo anche il proemio viene suddiviso in tre parti, riguardanti, nell’ordine, l’ineffabilità del tema (la lode della “gentile“), l’insufficienza del poeta nel trattarlo, la giustificazione di tale insufficienza che non può addebitarsi a colpa del poeta [II-IV].

Ugualmente tripartita è la seconda parte della canzone: alla lode della “gentile” condotta “interamente e comunemente, sì nell’animo come nel corpo” (stanza II), segue la “laude speziale de l’anima” (stanza III) e la “laude speziale del corpo” (stanza IV).

La spiegazione del v. 19, “Non vede il sol, che tutto ’l mondo gira“, offre lo spunto per una complessa digressione cosmologica dedicata alla terra, centro dell’universo, e all’alternanza del giorno e della notte, con relativa dimostrazione del fatto che “per lo divino provedimento lo mondo è sì ordinato che, volta la spera del sole e tornata a un punto, questa palla dove noi siamo in ciascuna parte di sé riceve tanto tempo di luce quanto di tenebre” [V].

Dopo aver spiegato l’ordine gerarchico dell’universo, nonché il processo della conoscenza nei termini di un rapporto causa-effetto [VI-VIII], giunto al congedo, anch’esso diviso in “tre particole“, Dante si preoccupa di chiarire l’equivoco che potrebbe ingenerarsi dall’accostamento di questa canzone, che esalta la “donna gentile“, a una sua “ballatetta” (Voi che savete ragionar d’amore), dove la stessa donna è dipinta come creatura “orgogliosa e dispietata“.

La contraddizione, solo apparente, è sanata riferendo le qualità opposte attribuite alla donna nei due testi non alla natura della “gentile“, ma alle sue diverse percezioni da parte del poeta. Per spiegare come ciò sia possibile Dante paragona questo fenomeno allo scarto che spesso si verifica tra la qualità costante della luce stellare e il grado variabile della sua percezione da parte dell’uomo.

Tali variazioni sono dovute sia al mutare delle condizioni atmosferiche, cioè delle condizioni del mezzo in cui si trasmette la luce, sia al variare delle capacità visive dell’uomo, più o meno acute a seconda delle circostanze [IX-X].

L’interpretazione allegorica della canzone ha inizio ribadendo l’identificazione della “donna gentile” con la Filosofia, il cui nome viene fatto risalire a Pitagora [XI].

Dopo aver definito i diversi gradi di partecipazione degli esseri alla filosofia e aver asserito che da essa sono esclusi gli angeli ribelli, mentre gli uomini vi accedono nei rari momenti di speculazione concessi loro dalla fisicità della propria natura [XII-XIII], Dante descrive separatamente le componenti di “amore” e di “sapienza” che concorrono alla definizione del concetto di “filosofia”, per poi finire spiegando che gli attributi di “fera e disdegnosa“, da lui conferiti alla “donna gentile” nella ballata Voi che savete, erano scaturiti da difficili esordi del suo apprendistato filosofico [XIV-XV].

È questo trattato un inno alla mente umana, alla nobiltà della natura, alla filosofia attraverso cui l’uomo raggiunge la sua perfezione ed è appagato; ci sono però cose che si possono intendere solo con la fede e non con l’intelletto.

La filosofia è emanazione dell’amore di Dio, è uno strumento per arrivare, anche se non in terra, a Dio.

Il IV trattato verte sul tema della nobiltà ed è il più lungo: è diviso in due parti; nella prima D., prendendo spunto dalla canzone “le dolci rime d’amor ch’i’solia”, cerca di confutare alcune definizioni comuni di questo valore, mentre nella seconda cerca di dimostrare l’infondatezza della teoria per la quale la nobiltà deriverebbe dalla ricchezza e dai nobili natali

– Scritta “per riducere la gente in diritta via sopra la propria conoscenza de la verace nobilitade”, la canzone Le dolci rime d’amor ch’io solia, che rifugge il registro allegorico, è presentata come testo provvisto di sola chiosa letterale [I].

Dopo aver tracciato una mappa minuziosa delle partizioni della canzone, Dante ne inizia il commento dai versi che espongono, per poi confutarla, la definizione della nobiltà fornita dall’imperatore Federico II di Svevia: “antica richezza e be’ costumi“. Per dimostrare errata questa definizione, che il volgo aveva successivamente decurtato dell’”ultima particola”, cioè i “belli costumi“, Dante è costretto ad affrontare il tema dell’autorità imperiale e di quella filosofica (dato che l’opinione volgare sembrava suffragata dal giudizio di Aristotele, secondo il quale “quello che pare alli più, impossibile è del tutto essere falso“) [II-III].

Inizia così un’ampia digressione sui caratteri e i limiti dell’autorità imperiale, il cui fondamento è individuato in quella stessa legge di natura che impone all’uomo la realizzazione della propria felicità.

Poiché, infatti, condizione indispensabile al perseguimento di tale fine è vivere in una società giusta e pacifica, la necessità dell’Impero universale emerge dal fatto che soltanto esso può garantire pace e giustizia all’intera comunità umana.

Dopo aver dimostrato che a conferire l’ufficio imperiale a Roma e al popolo romano era stata la stessa Provvidenza divina, che attraverso un ordinamento politico unitario aveva voluto garantire, nell’imminenza dell’incarnazione del Figlio di Dio, un terreno di facile propagazione al verbo cristiano [IV-V], Dante passa a indagare in che cosa consista l’autorità filosofica e come essa, soprattutto nella persona di Aristotele, sia degna di fede e di obbedienza.

A una breve rassegna dedicata alle scuole filosofiche antiche (Stoici, Epicurei, Accademici, Peripatetici) fa seguito l’affermazione della complementarità di autorità imperiale e di autorità filosofica, fondata sul fatto che la prima senza la seconda è pericolosa e la seconda senza la prima è debole [VI].

Deplorata l’opinione popolare, che considera la nobiltà un retaggio di famiglia, per spiegare in cosa consista la vera “gentilezza” Dante ricorre alla parabola dell’uomo, che dovendo attraversare un territorio i cui sentieri sono stati completamente nascosti dalla neve, sebbene edotto sul giusto percorso dalle orme di qualche savio che lo ha preceduto, prende una strada sbagliata e “tortisce per li pruni e per le ruine“.

Se il primo che ha percorso rettamente quel cammino può essere considerato “valente” (e dunque nobile), l’altro, che malgrado l’esempio ha tralignato, è da considerare uomo “vilissimo” (ovvero discendente degenere) [VII].

Una volta dimostrato che dissentire da Aristotele e da Federico II non significa, riguardo allo specifico argomento trattato, mancare di rispetto all’autorità filosofica e a quella imperiale [VIII-IX], Dante contesta l’identificazione di nobiltà con “antiche richezze” prima di tutto perché queste, lungi dal dare o togliere nobiltà, sono beni spregevoli, sia considerando i modi in cui si acquistano, sia considerando l’insaziabile avidità che ingenerano in chi le possiede [X-XIII]; secondariamente perché il tempo, insito nella nozione di antichità, non può generare nobili prosapie, e ciò in virtù della stessa impossibilità, asserita dal volgo, che da un padre vile possa nascere un figlio nobile.

Delle due dunque l’una: o la nobiltà non esiste, oppure (affermazione contraria sia alla filosofia che alla religione) gli uomini non sono discesi da un unico progenitore (il che li farebbe tutti indistintamente nobili o villani) [XIV-XV].

Passando alla pars construens del trattato, dopo aver presentato la nobiltà come “perfezione di propria natura in ciascuna cosa” e dunque come una qualità ad appannaggio non esclusivo degli uomini ma di tutti gli esseri viventi e non viventi, Dante contesta l’etimologia di “nobile” da nosco a favore di quella che fa derivare l’aggettivo da non vile, per poi dichiarare che la natura della nobiltà umana si valuta dai suoi frutti, che sono le virtù morali e intellettuali [XVI]. Dopo aver presentato sulla scorta dell’Etica aristotelica le 11 virtù morali (Fortezza, Temperanza, Liberalità, Magnificenza, Magnanimità, Amativa d’onore, Mansuetudine, Affabilità, Verità, Eutrapelia, Giustizia) e aver affermato la superiorità, su di esse, delle virtù intellettuali (e conseguentemente della vita contemplativa su quella attiva) [XVII-XIX], Dante definisce la nobiltà umana dono individuale e non dote di schiatta, in quanto “seme di felicità messo da Dio nell’anima ben posta” [XX].

L’infusione da parte di Dio di questa “bontate” nell’anima umana offre lo spunto sia per esporre il processo della generazione dell’anima nel feto, sia per parlare dei doni elargiti dallo Spirito Santo all’anima ben disposta a riceverli [XXI].

Definita la nobiltà “seme” di felicità, Dante distingue due forme di felicità, connesse, rispettivamente, alle operazioni pratiche e a quelle speculative in cui si esplica l’attività razionale [XXII].

Il seme della nobiltà germoglia negli individui producendo in ciascuna delle quattro età umane diverse “perfezioni“: obbedienza, soavità, vergogna e adornezza corporale nell’adolescenza [XXIII-XXV], temperanza, fortezza, amore, cortesia e lealtà nella gioventù [XXVI], prudenza, giustizia, larghezza, affabilità nella “senettute” [XXVII], mentre ciò che rende perfetta l’anima nell’ultima età, quella del “senio“, è il fatto che essa ritorna a Dio benedicendo il cammino compiuto durante la propria vita terrena [XXVIII].

Finalmente, ribadito che la nobiltà è una dote individuale e che le stirpi possono dirsi nobili solo in virtù della “gentilezza” dei loro membri, il trattato si chiude con un breve commento del congedo [XXIX-XXX].

Il Convivio a questo punto si interrompe: si è detto che D. abbia abbandonato un progetto che non lo soddisfaceva più (la prosa non gli è molto congeniale) ma forse il vero motivo sta nel fatto che come abbiamo rilevato più sopra D. perde fiducia nella forza della filosofia e quindi preferisce tornare alla prospettiva teologica della Vita Nuova.

Constatata l’impossibilità di una simbiosi fra le due sfere del sapere, Dante sembra avviarsi verso la netta separazione della filosofia umana, che comporta la felicità terrena, dal sapere teologico, fonte di felicità immortale.

La forte tensione intellettuale di stampo aristotelico « radicale» che pervadei primitre trattati sembra attenuarsi nell’ultimo, che secondo alcuni studiosi sarebbe stato composto quando ormai l’autore stava scrivendo la Commedia.

In effetti, il ritorno all’autorità delle Sacre Scritture, e a San Tommaso, i temi e le ideologie anche politiche contenute nel quarto trattato, lo avvicinano certamente alla Monarchia o alla Commedia.


[1]  I1 cenno nel trattato introduttivo al proposito di scrivere il De vulgari eloquentia ci permette di ipotizzare per la composizione del Convivioglianni intorno al 1303-04, quando Dante esiliato visse a Forlì e a Verona. Tuttavia, è probabile che la stesura abbia conosciuto pause e riprese; il quarto trattato potrebbe addirittura essere stato composto negli anni 1306-1309, quando Dante si trovava in Toscana.

[2] E quindi a chi non ha potuto addottrinarsi; chi non ha saputo o voluto è per D. irrecuperabile.

[3] Dante stesso all’inizio del I trattato contrappone il Convivio, opera “temperata e virile” dell’età matura, alla Vita Nova, il libello giovanile “fervido e passionato” (che il poeta dichiara di non voler rinnegare in alcuna sua parte).

[4] <<Per i nobili, uomini e donne, che sono in più gran numero e degni dell’alto beneficio del sapere: e questi nobili sono principi, baroni, cavalieri, e molt’altra nobile gente, non solamente maschi, ma femmine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari, e non litterati>> (I, IX, 3-5).

[5] Dopo aver constatato che tutti gli uomini aspirano naturalmente al sapere in quanto fonte di somma felicità, Dante individua due generi di cause che possono precludere all’uomo l’accesso alla scienza. Il primo genere è rappresentato da alcune limitazioni intrinseche alla natura umana, riguardanti sia il corpo (impedimenti fisici come sordità, mutismo ecc.), sia l’anima (impedimenti morali, consistenti in “viziose delettazioni” che inducono a disprezzare il sapere). L’altro genere di cause, per così dire esterne all’uomo, è costituito dalla necessità e dalla pigrizia. La prima, costringendo l’individuo a provvedere ai bisogni della famiglia e della comunità, lo tiene lontano da “l’ozio di speculazione“, l’altra, ingenerata da un ambiente sociale intellettualmente povero e poco stimolante, lo rende refrattario agli studi. Proprio ai pigri e agli uomini impegnati nelle cure familiari e civili Dante dedica il “generale convivio“, ovvero banchetto di sapere, che si appresta a imbandire nella sua opera.

[6] Dante spiega, in base a tre ragioni, perché nella chiosa (spiegazione) ai testi abbia usato il volgare anziché il latino. La prima ragione è costituita dalla “cautela di disconvenevole ordinazione“. Considerata la superiorità del latino rispetto al volgare una chiosa scritta nella lingua della “grammatica” sarebbe stata sconveniente perché avrebbe assunto un ruolo prevaricante, anziché diservizio, rispetto ai testi in volgare [V]. D’altro canto, il bilinguismo dell’opera avrebbe potuto comprometterne la fruizione integrale, dato che alcuni lettori, ignari del volgare del (così definisce Dante il latino), avrebbero potuto accedere al commento ma non alle canzoni, mentre altri, ignari di latino, avrebbero compreso i testi e non la chiosa [VI]. L’adozione del volgare porge dunque il commento a un pubblico più ampio, comprensivo sia di “litterati” che di “illitterati” [VII]. La seconda ragione dell’uso del volgare è la “prontezza di liberalitate“, ovvero la spontanea generosità. Tale generosità deve rispondere a tre condizioni: il “dare a molti“, il “dare utili cose” e il dare “senza esser domandato” [VIII]. Tutte queste condizioni risultano pienamente soddisfatte dal volgare, che è, infatti, lingua compresa da molti e perciò utile a condurre “a scienza e a virtù” anche gli “illitterati“. Per il lettore del Convivio, inoltre, la chiosa in volgare rappresenta certamente un dono inatteso (e dunque non richiesto), in quanto tale lingua non è mai stata usata per un commento [IX]. La terza ragione dell’adozione del volgare è il “naturale amore a propria loquela“. Come tutti gli amori esso si esplica in tre atteggiamenti: “magnificare l’amato” (cosa che Dante fa mostrando il volgare capace di esprimere alti contenuti concettuali), “essere geloso di quello” (gelosia che spinge il poeta ad adottare questa lingua per cautelarsi contro gli eventuali cattivi volgarizzamenti di cui sarebbe stato oggetto un commento latino) e “difendere lui” (comportamento che Dante mette atto attaccando coloro che preferiscono al volgare del sì le lingue d’oc e d’oïl) [X]. Dopo una digressione sull’infamia di quegli italiani che disprezzano il loro volgare [XI], Dante riconduce l’origine del suo amore per la lingua appresa dalla nutrice sia a “prossimitade” e “bontade“, che sono dette “cagioni d’amore generative“, sia a “beneficio“, “studio” e “consuetudine“, cioè “cagioni d’amore accrescitive“. Il volgare, infatti, è una lingua non solo al poeta “prossima più che l’altre“, ma anche “buona” a “lo bene manifestare dei concetti” [XII]. Dal volgare, inoltre, egli è stato beneficato, perché da esso ha ricevuto il dono della vita (in quanto è stato “congiungitore de li suoi generanti che con esso parlavano“) e dell’esser buono (dato che il volgare è stato il suo “introduttore … ne la via di scienza“). Infine, attraverso il suo “studio” di poeta, Dante, che con il volgare ha avuto sempre “consuetudine, ha cercato di provvedere alla conservazione di questa lingua, conferendole “con numero” (delle sillabe nel verso e dei versi nelle strofe) e “con rime” quella stabilità che le mancava [XIII].

[7] In cui è centrale e drammatico il contrasto tra il ricordo dell’amore per Beatrice e l’amore per la filosofia, la donna pietosa della Vita Nova e non del tutto assente nelle Rime.

[8] Il poeta riprende l’uso dei commentatori medioevali di voler interpreta­re in un primo tempo gli autori pagani e successivamen­te le Sacre Scritture.

[9] D. prende ad esempio l’interpretazione delle vicende bibliche legate all'”Esodo” degli Ebrei: il senso letterale si riferisce alla realtà storica dell’Esodo degli Ebrei dall’Egit­to, mentre gli altri tre si riferiscono ai signifi­cati che Dio, dettatore delle Scritture, ha voluto annettere al fatto, per cui “Esodo” significa la redenzione di Cristo (allego­ri­co), il passag­gio dal peccato alla grazia (morale), l’uscita dalla corruzione corporale per raggiunge­re la gloria eterna (anagogico).

[10] Dante stesso dichiara che procederà, nella chiosa delle canzoni, esponendo prima il sensoletterale e poi quello allegorico, mentre si occuperà degli altri due solo sporadicamente [I].

[11] Gli unici rivelatori dell’immortalità sono per D.: la speranza degli esseri umani, la divinazione, i passi delle Sacre Scritture da cui essa si evince.

[12] La decodificazione allegorica di cielo (v. 1) come “scienza” innesca un elaborato parallelismo tra cosmologia celeste e le discipline del sapere umano. In virtù di esso ai primi sette cieli vengono fatte corrispondere le arti del Trivio (Grammatica, Dialettica, Retorica) e del Quadrivio (Aritmetica, Musica, Geometria, Astrologia), al cielo delle stelle fisse la Fisica e la Metafisica, al Primo Mobile la Scienza Morale e all’Empireo la Teologia [XIII-XIV]. Dall’equivalenza allegorica del terzo cielo con la retorica discende, infine, l’attribuzione del ruolo di “intelligenze motrici” di quella disciplina a Boezio e Cicerone, i primi autori che con le loro opere avevano avviato Dante allo studio della filosofia [XV].

[13] Soprattutto nell’opinione che la filosofia possa essere del tutto indipendente dalla fede e produrre grande felicità a livello intellettuale. Tuttavia D. non dichiara mai la sua adesione all’averroismo, e in seguito abbandona completamente questa dottrina.

[14] Tra questi ultimi, spiccano quelli dei filosofi dell’università di Parigi Boezio di Dacia e Sigieri di Brabante, averroisti già condannati dalla Chiesa come eretici;  Dante pone il Brabante nel Paradiso con Tommaso d’Acquino ed Alberto Magno, dimostrando grande apertura intellettuale.

Dante Alighieri – Rime

Sono pervenute a noi liriche[1] che si attribuiscono[2] a Dante e che sarebbero state composte in un tempo non continuativo, tra il 1283 ed il 1307(1308?) durante la stesura della Vita Nova, nel periodo che va da detta composizio­ne all’esilio e durante l’esi­lio stesso contemporaneamente quindi alla stesura del De Vulgari eloquentia e del Convivio[3]; non è facile però stabilire né la datazione precisa, né i fatti o le persone a cui si riferiscono.

Possiamo considerare queste liriche il “laboratorio della Commedia”.

In relazione alle composizioni di Dante si parla di <<rime>> e non di <<canzoniere>>, come nel caso delle poesie del Petrarca, perché l’autore non ne curò mai direttamente l’ordinamento e la struttura: la sequenza che noi leggiamo oggi è frutto di una ricostruzione critica[4], basata su criteri di ordine cronologico e tematico.

Anche se non è facile stabilire la datazione precisa delle liriche nel corpus delle rime si possono riconoscere e distinguere alcune fasi di produzione.

Due serie formano il gruppo delle rime giovanili.

1) le rime prestilnovistiche, improntate al modello guittoniano, ancora acerbe ed immature;

2) le rime stilnovistiche escluse dalla Vita nuova (dette extravaganti) o perché non pienamente rappresentative del nuovo stile o perché destinate ad altre donne: nelle liriche amorose sono presenti varie donne (Beatrice, Fioretta, Lisetta); D. imita la poesia siciliana e guittoniana; si ritrovano quindi situazioni psicologiche convenzionali narrate con moduli espressivi astrusi e rigidi; il poeta risente poi dell’in­fluenza dei versi del Cavalcanti (con l’accettazione della dottrina cavalcantiana dell’amore e quindi con la personale conquista di una lingua e una poetica dense di complessità intellettuali) e del Guinizzelli.

Nel cuore della stagione stilnovistica si situano il sonetto Guido, i’ vorrei[5], quello per Violetta, la ballata Per una ghirlandetta, il sonetto Sonar bracchetti: tutti facenti parte di un unico amichevole clima, quello della scuola del Dolce Stile, tutti debitori in qualche modo della tradizione del plazer di marca provenzale e giullaresca.

Al magistero di Cavalcanti e alle requisitorie antiguittoniane (prima nella Vita nuova, poi nel De vulgari eloquentia) subentra progressivamente il Guinizzelli: nei sonetti De li occhi de la mia donna e Ne le man vostre e nelle canzoni E’ m’incresce di me e Lo doloroso amor, che preparano la strada al ciclo delle dottrinali.

Vi sono poi le rime della maturità e del tempo dell’esilio comprendono:

1) le rime allegoriche: commentate nei libri II, III e IV del Convivio; alle  rime allegoriche appartiene la più bella canzone scritta da Dante durante l’esilio (Tre donne intorno al cor mi son venute): la giustizia umana, quella divina e la legge, scacciate dagli uomini, divengono tre nobili donne, esuli e mendiche, che sono venute da Dante per avere il conforto di essere ascoltate; il poeta a questo punto si sente orgoglioso del suo esilio (<<l’essilio che m’è dato, onor mi tegno>>), considera il suo destino come un riflesso di un destino di decadenza che ha colpito tutta la umanità.

2) Le tre canzoni dottrinali: una sulla leggiadria, un’altra sulla liberalità ed una terza sulla nobiltà che entra a far parte del Convivio; sono però liriche, secondo alcuni, di poco spessore poetico.

3) Due canzoni (“Io son venuto al punto della rota“; “Così, nel mio parlar[6]), una sestina (“Al poco giorno“) ed una sestina doppia (“Amor, tu vedi ben che questa donna“), dedicate ad una donna insensibile chiamata Pietra.

Sono le cosiddette <<rime pietrose>> (1296) in cui non vi è la descrizione di un amore incorporeo ma di una passione violenta, sensuale ed amara, di un amore duro, difficile, aspro[7]: alcuni sostengono che Petra sia soltanto un’immagine allegorica della conquista della sapienza; altri vi vedono un’allegoria di Firen­ze.

Come lo stesso D. conferma nel De Vulgari Eloquentia[8], que­ste poesie hanno una funzione sperimentale. In effetti più che ad una donna l’Alighieri si ispira al poeta provenzale Arnaut Daniel, facendo un arduo esercizio di stile aspro (così detto <<trobar clus>>).

4) Rime varie, tra cui si annoverano canzoni, sonetti, rime di corrispondenza con altri poeti: tra queste ultime ritroviamo versi che sono oggetto di una tenzone con Forese Donati[9] (scritti tra il 1294 ed 1296 anno in cui Forese morì) di cui D. farà ammenda nel XXIII canto del Purgatorio: il Donati lo accusava di povertà ed avari­zia, D. replica dipingendolo come un violento ed un ghiottone (il linguaggio è assai realistico, addirittura scurrile e volgare: qui D. fa le prove per certe espressioni dell’Inferno ed in particolare delle Malebolge).

Nelle rime allegoriche come in quelle dottrinali, del resto, c’è già il mondo della Commedia, sebbene la mano dell’artista non sia ancora matura.

5) Ventisei rime la cui attribuzione a Dante è discussa.

Nel complesso le Rime rivelano la capacità artistica di Dante nell’affrontare qualunque materia in qualunque stile.


[1] In totale il corpus delle Rime conta 54 componimenti: 34 sonetti (di cui uno rinterzato), 15 canzoni (tra cui due stanze isolate, una sestina e una sestina doppia), cinque ballate.

[2] Ventisei rime sono ancora molto discusse.

[3] Al 1283 corrisponde probabilmente la stesura del sonetto dedicato a Beatrice, A ciascun alma presa e gentil core, scelta poi per inaugurare la Vita nuova ed inviata a tutti i rimatori fiorentini, come ci fa sapere Dante stesso (Cap. III della Vita nuova). Al 1307 risale probabilmente la canzone Le dolci rime d’amor ch’i’ solia, commentata per inaugurare il quarto libro del Convivio e al 1308 l’ultima canzone “O montanina mia canzon” che il Momigliano ascrive alle rime pietrose.

[4] Condotta da Michele Barbi che aveva adoperato, in un suo studio del 1915, il titolo di Canzoniere poi abbandonato da successivi editori.

[5] Destinato a Guido Cavalcanti testimona l’amicizia che legò i poeti stilnovisti (“il sodalizio tra i fedeli d’amore”),  una ristretta schiera di persone elette sul piano morale ed intellettuale (“gentili”) che “ragionano sempre d’amore”. Tuttavia nella lirica si fa riferimento anche ad un sodalizio tra donne gentili tra cui spicca per virtù Beatrice (“quella ch’è sul numer de le trenta” fa riferimento alla prima donna-schermo della gentilissima). Anche le donne gentili (cfr. Voi ch’avete intelletto d’amore) sono considerate un uditorio privilegiato, anzi l’unico a cui destinare le “nuove rime” (le  rime della lode: cfr. la Vita nuova). Questo duplice sodalizio è trasferito su un piano fantastico, in una dimensione di sogno ed incantesimo grazie al riferimento al vascello incantato (creato da “un buon incantatore“: il mago Merlino), che D. deriva dalla narrativa cortese in lingua d’oil e che viene tradotta in lirica nel plazer(elencazione di cose piacevoli) dai provenzali; questo motivo che lega la poesia alla tradizione pre-stilnovistica, ne giustifica forse l’esclusione dalla Vita Nova.

[6] Dal Momigliano considerata la migliore delle rime pietrose ed una delle più originali della lirica contemporanea (v. A. Momigliano, Bullettino della società dantesca italiana, 1908, p. 132; cfr. A. Momigliano, Antologia della letteratura italiana –volume primo, Messina, Giuseppe Principato, 1937, p. 119). Per un commento autorevole di questa composizione v. E. G. Parodi, in Le rime, nel volume collettivo Dante, Milano, Treves, 1921, p. 63.

[7] Si legga come esempio del registro stilistico il congedo della lirica Così, nel mio parlar:

Canzon vattene dritto a quella donna

che m’ha ferito il core e che m’invola

quello ond’io ho più gola,

e dàlle per lo cor d’una saetta;

chè bell’onor s’acquista in far vendetta.

[8] In cui parla di queste rime come <<di qualcosa di nuovo e non ancora tentato in poesia>>.

[9] Un gruppo di sei sonetti nelle Rime costituiscono la Tenzone con Forese Donati. Si tratta di un dialogo in versi che ci è giunto frammentato in due gruppi di codici, il che è all’origine delle discussioni sulla loro datazione e sul loro ordine.

Dante Alighieri – Vita Nova

Si tratta di un’operetta autobiografica in cui Dante tocca il vertice dello stil novo[1], composta tra il 1283 ed il 1292 e raccolta nel 1293-94; il suo tema è la vita giovanile del poeta ma soprattutto la vita spiritualmente rinnovata dall’amore per Beatrice.

Non sappiamo molto di quest’ultima ma abbiamo tre testimonianze sulla sua storicità, da parte di Bambaglioli Graziolo (1323), di Pietro (figlio di Dante), e di Boccaccio; inoltre vi sono alcuni particolari assai realistici presenti sia in quest’opera che nella Divina Commedia.

Forse Beatrice fu figlia di Folco Portinari e andò sposa a Simone De Bardi prima del 1288; morì l’8 giugno del 1290.

Dante ne fornisce una visione incorporea e indeterminata: ciò rientrava nei canoni del dolce stil novo ove l’amore veniva celebrato come un sentimento che si nutre solo di sé stesso, di adorazione umile e muta.

Ma la donna-angelo assume qui un signi­fi­cato più vasto e profondo, quello della Salvezza (concetto questo già in parte presente in Guinizzelli: v. il sonetto Io voglio del ver la mia donna laudare e che D. esprimerà magistralmente nella canzone Donne che avete intelletto d’amore) e della Grazia, sigillate dalla stessa morte di Beatrice, secondo un disegno provvidenziale.

Beatrice è colei che è beata e che dona beatitudi­ne, è davvero “donna della salute”, portatrice della salvezza.

In altre parole la dimensione descritta da D. non è soltanto emotiva e formale, ma compiutamente religiosa: la poesia iniziale (nel capitolo III: A ciascun alma presa e gentil core), cavalcantiana, esprime un amore visto come pena e dissidio, ma in seguito esso dispande beatitudine e appunto salvezza.

Il libro, diviso in 42 capitoli, dispone cronologicamente 25 sonetti, 4 canzoni una stanza ed una ballata[2][3] più alcuni com­men­ti in prosa delle liriche, che verranno composti ed inseri­ti soltanto nel 1293-94; sono queste prose, decisamente più mature delle poesie, a dare all’opera un tono tra il mistico e l’allucina­to (si descrivono spesso sogni, visioni ed incubi)[4].

Come nella Commedia D. è sia autore che protagonista dell’opera che, allo stesso modo, costituisce un exemplum di rinnovamento della vita morale

La trama si impernia soprattutto su due incontri che il poeta ebbe con Beatrice a nove e a diciotto[5] anni (quando se ne innamorò perdutamente) e soprattutto su un saluto che da Beatrice ricevette nel secondo incontro[6].

Vi sono poi citati vari altri avvenimenti, dal momento che siamo in presenza di una raccolta di poesie di diverso periodo ed occasione: la finzione del poeta di amare una donna diversa da Beatrice (donna-schermo) per evitare che altri possa conoscere il segreto del suo amore; la morte di un’amica di Beatrice; la sostituzione della prima donna schermo che si allontana da Firenze con una seconda[7] e quindi, in relazione alle chiacchiere della gente sulla presunta “infedeltà”, la negazione del saluto da parte dell’of­fesa Beatri­ce[8]; una visione di Amore che convince D. a parlare apertamente del suo amore a B. e la burla (il gabbo) della stessa e di altre donne per l’improvviso smarrimento del poeta che trema ad una festa nuziale di fronte alla donna amata [9]; il colloquio con alcune donne[10] circa la natura dell’a­mo­re di Dante[11] ed il proposito di utilizzare solo Beatrice come oggetto delle sue rime[12], dal momento che il saluto, unico oggetto del suo amore, è venuto meno[13].

Da quest’ultimo proposito nascono le nuove rime iniziate con le canzoni di lode “Donne che avete intelletto d’amore” e “Amor e ‘l cor gentil sono una cosa” e proseguite con alcuni sonetti che sono capolavori del dolce stil novo e di tutta la poesia italia­na: “Ne li occhi porta la mia donna Amore“, “Tanto gentile e tanto onesta pare“, “Vede perfettamente onne salute[14].

Tra il primo ed il secondo dei sonetti sopra citati è narrata la storia della morte del padre di Beatrice; segue poi la descri­zione del delirio di Dante (di nove giorni) in cui il poeta vede la morte di Beatrice (cantata nella canzone “Donna pietosa e di novella etate“), mentre viene portata in cielo dagli angeli e tutta la natura si copre di segni luttuosi (con evidente riferi­mento alla morte di Cristo ed ai suoi effetti di sacrificio redentivo).

In queste poesie Beatrice è ormai considerata una creatura angelica; grande è il dolore di Dante per la morte (già prefigu­rata nel capitolo III e nel capitolo XXII) che poi effettivamente avviene (capitolo XXVIII) e che viene immortalata nella canzone “Li occhi dolenti per pietà del cuore” (capitolo XXXI).

Trascorso però un anno dalla morte di Beatrice una donna gentile (la filosofia) da una finestra muove segni di pietà e quindi D., seppure riluttante, se ne innamora; a questa passione sono dedicati quattro sonetti  (Videro li occhi miei; Color d’amore; L’amaro lagrimar; Gentil pensiero).

Beatrice appare in sogno a D. che piange per il rimorso della temporanea infedeltà (altro sonetto: Lasso per forza di molti sospiri).

Nel penultimo sonetto (Deh peregrini che pensosi andate) Dante invita alcuni pellegrini diretti a Roma a piangere anch’essi Beatrice.

Nell’ultimo sonetto (Oltre la spera che più larga gira), dopo una visione in cui contempla Beatrice oltre il primo empireo, il poeta afferma che non parlerà più di lei finché non sarà in grado di dire quello che non fu detto da alcuno (è palese il richiamo alla Commedia); in altre parole D., anche se non sa ancora che scriverà la Commedia, si rende conto che quella che sta descrivendo è ancora una donna reale e che i mezzi stilnovi­stici sono insufficienti a dire di più, ad esprime­re la funzione redentiva di Beatrice; egli si ripropone quindi di cantarla in modo nuovo e straordinario ed allora tronca il libello.


[1] La stagione poetica che si consuma negli ultimi decenni del Duecento tra Bologna e Firenze è definita <<dolce stilnovo>>: è un primo punto d’arrivo della lirica italiana.

È Bologna, città all’avanguardia negli studi a dare l’avvio a questo movimento poetico con l’opera di Guido Guinizzelli, ma sarà Firenze, tra il 1280 ed il 1310, ad imporsi come nuova capitale della poesia italiana: fiorentini sono i due principali esponenti della nuova scuola, Dante Alighieri e Guido Cavalcanti, i quali insieme a Cino da Pistoia, non furono comunque estranei all’in­fluenza dell’ambiente bolognese.

Il dolce stil novo è nuovo perché sceglie come tematica quella amorosa, tralasciando i temi politici e morali tipici di Guitto­ne, anche se l’impostazione è certamente filosofica.

Guido Guinizzelli (1230 o 40-1276), un giudice bolognese di parte ghibellina – che nel 1270 fu pure podestà di Castelfranco Emilia, ma quando nel 1274 la parte guelfa ebbe la meglio, dovette andare in esilio, rifugiandosi con la moglie e il figlio a Monselice, dove morì pochi anni dopo – ne è l’iniziato­re (o il precursore secondo alcuni) perché è il primo a formulare poeticamente un’organica teoria dell’amore.

Nella poesia guinizzelliana sono compresi entrambi i filoni che saranno ripresi e approfonditi dai fiorentini: il tema della lode ad una donna ineffabile, ammirata esteticamente in un trionfo di luce (tema che viene ripreso da D. che accentua la spiritualiz­zazione), il tema dell’amore visto come passione tormentosa dei sensi che provoca angoscia e morte (tema ripreso dal Cavalcan­ti).

L’idea fondamentale da cui parte il Guinizzelli è quella dell’identità di amore e cuore gentile, per cui l’amore può nascere solo nel cuore di una persona gentile il cui sguardo sia così puro da poter riflettere la luce che proviene dagli occhi della donna, così come gli angeli riflettono la luce di Dio.

La donna angelicata ha in sé tanta virtù da mettere nel cuore gentile la volontà di sottomettersi a lei, realizzando così l’unione spirituale beneficante. Al contrario un cuore vile non può sentire quest’amore.

Quando il poeta morirà e Dio gli farà notare di aver riservato l’onore a Lui dovuto ad una donna, il poeta risponderà che tale donna aveva sembianze d’angelo e amare lei era come amare una creatura del paradiso.

Mentre nella poesia trovadorica il rapporto tra la donna ed il poeta è, come abbiamo già visto, di vassallaggio, di ordine sociale, in quella stilnovistica il rapporto di lontananza tra l’amante e l’amata è di ordine morale, religioso, per cui la donna è vista come incarnazio­ne della virtù (la donna-angelo) e il distacco è quantitativo e non qualitativo, per cui il poeta ottiene attraverso l’amore di elevarsi spiritualmente.

La figura femminile insomma si fa portatrice dei valori di nobiltà e purezza, che innalzano l’amante devoto, cosicché l’amore profano, benché caduco ed effimero, assurge a principio di virtù e non di perdizione.

Nel dolce stil novo il problema è infatti quello di conciliare l’amore per Dio e l’amore per la creatura: la donna è chiamata a mediare questo contrasto facendosi tramite tra i due livelli; quando la passione per essa rimane legata all’anima sensitiva, la donna può essere solo uno strumento per esaurire le forze del vitali del poeta.

Il dolce stilnovo è “dolce”: i poeti che vi aderiscono hanno tutti la preoccupa­zione di rinnovare l’espressione attraverso una selezione accurata del lessico e della sintassi poetica; vengono abbandonate le oscure sperimentazioni stilistiche di Guittone; essi devono essere dolci perché tale dolcezza, ossia una più facile cantabilità del verso, corrisponde ad una aristocrazia del sentire, ad una maggiore elevatezza della lode della donna.

Anche la lingua usata è nuova, dal momento che viene privilegiato il fiorentino illustre, depurato sia dai municipalismi plebei, sia dai provenzalismi e sicilianismi, sentiti ormai come ingombran­ti ed usurati.

[2] In cui si discosta dalla lirica di Guittone (che ricompa­rirà nel De Vulgari Eloquentia) per abbracciare la poesia di Guido Guinizzelli.

[3] In essi D. non rievoca la sua vicenda amorosa in quanto tale, ma ciò che questa riverbera nella sua anima, a partire dal 1274, allorché bambino di nove anni, vede per la prima volta la gentilis­sima Beatrice.

[4] Nella composizione della Vita nuova Dante poté rifarsi a un autorevole modello di prosimetro. il testo tardo-latino De consolatione philosophiae di Severino Boezio, un dialogo fra l’autore e la Filosofia, personificata, che con i suoi consigli di sapienza allevia al primo il dolore provocato dalla prigionia. Un ruolo altrettanto importante nella composizione dell’opera dantesca hanno senza dubbio giocato i generi provenzali delle «vidas» (cioè, le biografie idealizzate o romanzate dei trovatori) e delle «razos» (le esposizioni dei motivi ispiratori e le analisi tematiche e retoriche che i provenzali elaboravano sulle loro stesse poesie).

[5] I numeri sono multipli di tre, simbolo della Trinità divina.

[6] D. ode il saluto di Beatrice e fugge turbato, dalla presenza degli uomini, si raccoglie inebriato nella solitudine di una camera; qui lo coglie un “soave sonno”, e nel sonno una visione che è quasi un compendio del suo amore. Amore gli appare con involta nelle braccia Beatrice in un drappo sanguigno; il dio costringe la giovane a mangiare il cuore del poeta. Ma passa poco tempo e Amore prorompe in  un pianto e sparisce con la donna verso il cielo.

[7] Donne a cui apparentemente il poeta dedica il suo amore.

[8] Saluto che D. non riottiene nemmeno scrivendo una ballata in cui dichiara la sua fedeltà a lei sin dalla puerizia.

 [9] Da ciò nascono due sonetti ove D.confessa come la passio­ne lo porti là dove spera di vedere la sua donna e lo getti  nel più profondo sconforto quando la vede.

 [10] Che hanno nella storia funzione di intermediarie.

[11] Irrealizzabile in quanto non può più sostenere lo sguardo di Beatrice.

[12]A seguito della convinzione del poeta di dover amare Beatrice disinteressatamente, senza aspettarsi una ricompensa.

[13] In questo senso la Vita nova è la storia di un progressi­vo distacco dei due protagonisti, così che la morte di Beatrice, preparata da tutta una serie di indizi, diventa in un certo senso indispensabile affermazione dell’affetto interiorizzato di D.: è la vicenda dell’io che interessa, non un rapporto obiettivo.

[14] Queste poesie serviranno poi  sia  a D. per il Purgatorio e per il Paradiso, sia a Petrarca per il suo Canzoniere.

Dante Alighieri – le opere in breve

Domenico di Michelino, La Divina Commedia di D...
Domenico di Michelino, La Divina Commedia di Dante (Dante and the Divine Comedy). 1465 fresco, in the dome of the church of Santa Maria del Fiore in Florence (Florence’s cathedral). Dante Alighieri is shown holding a copy of his epic poem The Divine Comedy. He is pointing to a procession of sin. (Photo credit: Wikipedia)

Affronteremo ora i tratti essenziali di nove opere del grande poeta  partendo da un breve schema e premesso che la produzione letteraria di Dante appartiene per la maggior parte agli anni dell’esilio.

In lingua  volgare Dante scrive:

– Fiore e Detto d’Amore (1285-1295)

– Vita nova (1290-1294)

– Rime (1283-1307)

– Convivio (1303-1304)

– Divina Commedia (?)

In lingua latina sono invece:

– De Vulgari Eloquentia (1304-1305)

– Monarchia (?)

– Quaestio de aqua et terra

– Egloghe

– Epistole

Tra le prime opere troviamo dunque il Fiore e il Detto d’Amore.

Si tratta di due poemetti, diversi sia per forma metrica sia per contenuto, che sono stati tramandati insieme da un unico manoscritto privi dell’indicazione dell’autore e del titolo.

Solo nel secolo scorso i due testi furono separati e pubblicati dai loro primi editori con i due titoli distinti con cui ancora oggi vengono designati.

Dopo svariate attribuzioni, in una edizione critica (1984) Gianfranco Contini ha definito le due opere «attribuibili» a Dante per i numerosi elementi stilistico-formali che le accostano alle rime e alla Commedia.

Per il registro comico intensamente realistico, addirittura con punte di violenza verbale talvolta stupefacenti, apparterebbero alla produzione con ogni probabilità. alla fase pre-stilnovistica.

Sia il Fiore sia il Detto d’Amore traducono in parte il poema allegorico in francese antico Roman de la rose[1],composto nel secolo XIII la cui diffusione è databile tra il 1237 ed il 1280.

La composizione dei due poemetti è perciò ascrivibile a un periodo compreso entro il decennio 1285-1295: vi compaiono infatti alcuni aspetti della vita politica di quel periodo di tempo, fra cui la lotta fra borghesi e magnati a Firenze, e le persecuzioni religiose, subite da alcuni gruppi ereticali e dai filosofi averroisti.

Il Fioree formato da una «corona» di 232 sonetti, i cui personaggi allegorici (ripresi dalla trama del Roman de la rose), come la Rosa, la Vecchia Falsembiante, raffigurano la conquista dell’unione carnale con la donna (fuori d’allegoria, per «fiore » si intende, come già abbiamo accennato, il sesso della donna).

Assai vigorosa è anche la polemica contro gli ordini religiosi francescano e domenicano, responsabili per Dante della morte del filosofo averroista fiammingo Sigieri di Brabante (considerato invece, dal futuro autore della Commedia, degno del paradiso) che era venuto a tenzone con San Tommaso.

Il testo è di non facile leggibilità, dovuta soprattutto all’affastellarsi di francesismi che danno luogo a una sorta di «franco-toscano».

Il Detto d’Amore è composto da 480 settenari in rima baciata, ed offre una sintesi delle caratteristiche e delle regole comportamentali dell’amor cortese; in esso si avverte la forte influenza della cultura provenzale, come già sappiamo il modello più diffuso prima che Dante elaborasse la sua originale versione stilnovistica dell’amor cortese.

La Vita Nova è composta di liriche alternate a brani in prosa che raccontano la storia d’amore di Dante per Beatrice e la morte di lei; nel “libello” (come lo chiama Dante)  le vicende vissute sono interpretate simbolicamente, in chiave stilnovistica: Beatrice infatti viene descritta come creatura divina e angelica, strumento di elevazione dell’uomo verso Dio.

Le Rime comprendono 54 liriche autentiche e 26 di attribuzione più incerta, composte da Dante durante tutto l’arco della sua vita e ordinate dopo la sua morte. I temi sono diversi e spaziano dal fantasioso e sognante (“Guido, i’ vorrei che tu e Lapo e io“), al musicale (“Per una ghirlandetta“), dal passionale (“Così nel mio parlar“), al solenne (“Tre donne intorno al cor“).

La diversità di temi, stile e periodo di composizione permette di seguire l’evoluzione del pensiero e della poetica di Dante.

Il Convivio è un’esposizione enciclopedica del sapere medioevale, scritta in volgare e non in latino perché, nell’intenzione del poeta, doveva rivolgersi ad un vasto pubblico: misto di prosa e di versi, non fu completata e dei 15 trattati progettati solo 4 ne furono composti.

La Divina Commedia, iniziata in  esilio forse nel 1304, è il racconto in prima persona di un viaggio compiuto da Dante all’età di trentacinque anni nei tre regni dell’oltretomba cristiano.

Le due guide principali del poeta in questo viaggio sono Virgilio (Inferno – Purgatorio) e Beatrice (Paradiso).

Il poema si compone di tre cantiche, l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. Ciascuna cantica comprende trentatré canti, a cui si deve aggiungere il primo canto dell’Inferno (che quindi ne ha trentaquattro), che funge da introduzione a tutta l’opera. I versi sono endecasillabi raggruppati in terzine a rima incatenata.

Quest’opera rappresenta una summa di cultura, di valori etici ed estetici del Medio Evo.

Attraverso una visione metaforica di un viaggio nell’oltretomba, il poeta esprime con una sapiente e ricca regia compositiva motivi politici, storici, teologici e personali (vedi la sua posizione nei confronti dell’amata e criticata Firenze).

In questo viaggio verso la perfezione divina, Dante assume il compito di raccontare la sua esperienza al mondo con la speranza che questo ne tragga insegnamento.

Rimase invece incompiuta una grandiosa opera in latino, il De vulgari eloquentia, un trattato intorno all’origine e all’essenza del nostro linguaggio. Dante indica come modello ideale di lingua letteraria, o volgare illustre, una lingua che prenda i suoi termini da ogni dialetto, nessuno dei quali adatto di per sé all’uso letterario.

Nel De Monarchia Dante espone le sue convinzioni politiche sulla necessità di un impero universale, unico garante di giustizia e libertà.

Affronta inoltre un problema molto dibattuto ai suoi tempi, cioè quello del rapporto tra le due supreme autorità: il papa e l’imperatore, le due grandi guide dell’umanità; essi per il poeta hanno ricevuto direttamente da Dio la loro autorità e la devono esercitare in due sfere distinte, quella spirituale e quella temporale, per il conseguimento della felicità celeste e terrena.

Questo trattato tuttavia ai tempi di Dante non incontrò l’approvazione della chiesa e a nulla servì che nelle parti conclusive il poeta indicasse comunque una supremazia spirituale del papa sull’imperatore; nel 1329 fu fatta addirittura bruciare ed in epoca più tarda fu inserita nell’indice dei libri proibiti..

Importanti in lingua latina anche le Epistole, soprattutto le tre scritte per la venuta di Arrigo VII. Meno interessante il trattatello scientifico Quaestio de aqua et terra: nel 1319 mentre Dante si trovava a Mantova, come ci racconta il poeta stesso, partecipò ad una grossa disputa che concerneva il fatto se l’acqua in qualche punto fosse più alta della terra, visto che per i dotti l’elemento più nobile deve stare sempre in alto (fuoco su aria, aria su acqua, acqua su terra).

Interessanti sono in conclusione anche due Ecloghe sempre in latino dal tono malinconico e speranzoso indirizzate a Giovanni del Virgilio, umanista bolognese che lo aveva invitato nella sua città per ricevere l’alloro poetico.


[1]  Fra i testi più fortunati della lingua d’oil troviamo il Roman de la Rose (<<Il romanzo della Rosa>>), poema sul tema dell’amor cortese. Si tratta di un’opera in due parti, scritta nel corso del XIII secolo da due poeti francesi, Guglielmo De Lorris (per i primi 4.000 versi composti nel 1237) e Giovanni De Meung (per i successivi 18.000 che si possono datare attorno al 1280). La prima parte, attribuibile al De Lorris è il racconto dei sentimenti personificati (rappresentanti l’autore) che cercano con le parole di cogliere nel giardino dell’Amore (che rappresenta la vita cortese) una Rosa (simboleggiante la donna amata); dopo un alternarsi di insuccessi e speranze, l’amante non riesce a soddisfare la propria passione amorosa. La seconda parte, composta dal De Meung, è la descrizione dei vari episodi attraver­so cui l’autore riesce a raggiungere la Rosa, ben custodita in una torre. Entrambi gli scrittori si servono di procedimenti didattico-simbolici tipicamente medievali, e non di rado indulgono nel sensualismo più audace; ma il De Meung, meno fornito di sensibilità narrativa, tende alla compilazione enciclopedica, infarcendo il discorso di nozioni scientifiche relative ai vari settori dello scibile medioevale; inoltre la sua composizione si allontana dal tema di fondo: agli ideali cortesi viene sostituita l’esaltazione degli aspetti più materiali dell’amore, la figura femminile diventa oggetto di pesanti attacchi, mentre a valori come la carità o la rinuncia si preferiscono agi e ricchezze.

Cenni sulla vita di Dante Alighieri

All’interno della scuola stilnovista il personaggio di maggior spicco insieme a Guido Cavalcanti è sicuramente Dante Alighieri.

Il sommo poeta nasce a Firenze tra il 21 maggio ed il 20 giugno del 1265[1]; appartiene alla piccola nobiltà fiorentina ed è figlio di Alighiero di Bellinciona (commerciante di parte guelfa: forse cambiavalute)[2] e di Donna Bella degli Abati.

Perde la madre a cinque o sei anni[3]  e viene allevato dalla seconda moglie di Alighiero, monna Lapa di Chiarissimo Cialuffi, che gli dà anche un fratellastro Francesco[4] ed una sorellastra Gaetana o Tana.

A nove anni probabilmente si invaghisce di Beatrice che amerà pienamente soltanto verso i diciotto anni.

Nel 1277, appena dodicenne, viene destinato sposo a Gemma Donati che effettivamente prese in moglie dopo il 1283[5] quando morì suo padre, Alighiero.

Dal matrimonio con Gemma nacquero quattro figli: Pietro, Jacopo, Antonia[6] e forse Giovanni.

 Sempre nel 1283 D. inizia forse le sue Rime che concluderà con tutta probabilità nel 1307.

 Niente sappiamo sui suoi primi studi: forse fu autodidatta[7].

Secondo alcuno ebbe la possibilità di dedicarsi agli studi presso i frati francescani di Santa Croce, dove apprese le arti del Trivio (grammatica, logica, retorica) oltre alla pratica delle armi e all’addestramento negli altri esercizi cavallereschi

A diciotto anni  Dante diviene amico di Guido Cavalcanti che divenne in qualche modo suo maestro insieme a Brunetto Latini (Inf. XV v. 82-87).

Dalle sue opere si ricava che conosceva la poesia provenzale, quella siciliana[8], la latina[9] e la lirica volgare italiana nei testi della Scuola siciliana e di Guittone D’Arezzo (che in seguito criticò); imparò probabilmente a disegnare, a dipingere e a leggere la musica.

Nel 1287 forse si recò a Bologna alla celebre università (dove approfondì probabilmente gli studi giuridici), ma non risulta che abbia conseguito alcun titolo accademico.

 Morta Beatrice l’8 giugno del 1290 D. si gettò nello studio della filosofia (lo afferma chiaramente nel Convivio che tale studio durò trenta mesi) e approfondì lo studio dei filosofi pagani come Severino Boezio (De conso­latione philosophiae) e Cicerone (De amicitia e De Officiis), suo autore preferito.

In tre anni di studio intensissimo (v. una certa interpretazione delle cosiddette rime petrose) coltiva la filosofia aristotelica[10]: in Santa Maria Novella approfondisce la corrente tomistica, insegnata dai frati domenicani, e quella mistica di Bonaventura impartita dai France­scani in Santa Croce[11].

Beatrice sulla vetta del purgatorio rimprove­rerà a Dante questi anni di traviamento filosofico-religioso.

Giova ricordare che dopo il 1280 la popolazio­ne di Firenze si divide in due classi: i Magnati, cioè i nobili, e le Arti, cioè i borghesi, che sono divise in dodici categorie e si distinguono in Arti maggiori di calimala, della lana, della seta, dei giudici e notai, dei medici e speziali, dei banchieri-cambiavalute, dei pellicciai (cioè il popolo grasso), e Arti minori, che ricomprendono il popolo minuto: beccai, calzolai, maestri di pietra e legnami, fabbri, rigattieri.

L’11 giugno del 1289  D. combatte come “feditore”[12] a Campaldino[13] contro gli Aretini ed i Ghibellini di Toscana ed è sicuramente presente alla resa del castello di Caprona[14], ove combatterono Fiorentini contro Pisani.

 Dopo la battaglia di Campaldino i Guelfi[15], specie in relazione a dissensi sulla politica estera, si dividono a loro volta in due fazioni che si combattono tra loro una volta tornati in Firenze e che fanno capo a Vieri dei Cerchi (partito dei Bianchi)[16] e a Corso Donati (partito dei Neri)[17].

 Dante appartiene politicamente ai Cerchi (Bianchi), meno abili ma anche meno facinorosi.

 La sua fazione è, infatti, perdente: le Arti sono governate dalla alta borghesia, cioè, dal popolo grasso (i Neri).

Nel 1293 gli Ordinamenti di Giano della Bella[18] stabilirono che le cariche pubbliche potessero venire occupate solo da cittadini iscritti alle Arti, e con ciò si escludevano implicitamente i nobili, che per orgoglio di casta si astenevano dalle attività produttive e affaristiche e non volevano quindi iscriversi a nessuna Arte.

Nel momento in cui D. si avvia sulla scena politica, gli Ordinamenti, che erano nati per favorire la parte popolare (cfr. l’istituzione del gonfalone di giustizia), finiscono per favorire anche quei nobili che accettino di iscriversi alla Arti: cosa che è incentivata dal fatto che, tra il 1293 ed il 1295, popolo grasso e nobiltà si alleano.

Dopo aver onorato nel 1294 Carlo Martello[19] che gli promise protezione ed aver ultimato la composizione della Vita Nuova, iniziata nel 1290,  D., nonostante appartenesse alla piccola nobiltà bianca (e quindi dovesse sentirsi ostile, come ad es. il Cavalcanti, agli Ordinamenti), si iscrive all’ordine degli Speziali, onde ricoprire alti uffici comunali.

Ciò consente al poeta di rivestire vari ruoli a livello politico: farà parte del Consiglio del Capitano del Popolo dal 1295 al 1296; sarà tra i Savi che eleggono il Priore di Firenze; rivestirà la carica di ambasciatore presso il Comune di San Gimignano per trattare affari della lega guelfa nel 1300, anno in cui rivestirà (dal 15 giugno al 15 luglio) anche la carica di Priore[20]; farà parte del Consiglio dei Cento (1301) ove parlerà a sfavore della continuazione della guerra a fianco di Bonifacio VIII contro gli Aldobrandeschi.

Sul finire del 1200 Bonifacio VIII invia il cardinale Matteo di Acquasparta a Firenze, ufficialmente per far da paciere tra le fazioni (bianca e nera) in lotta, ma in realtà per approfittare della debolezza della città ed estendere su di essa la sua ingerenza.

Nel 1300 scoppiano dei violenti tumulti: i Magnati (i nobili) cercano di attentare addirittura ai Priori e gli stessi (tra cui troviamo anche Dante) esiliano i capi fazione, Corso Donati[21] (per i Neri) e Guido Cavalcanti, bianco e come già detto, amico e maestro di Dante.

Non avendo il cardinale Matteo di Acquasparta ottenuto alcunché lascia Firenze nell’agosto lanciando l’interdetto; Dante si reca a Roma per supplicare il Papa di levare l’interdetto.

Nel 1301 sta per giungere in Firenze il principe francese Carlo di Valois richiesto da Bonifacio VIII ufficialmente per pacificare la città ma in realtà per occuparla.

Dante è a Roma ed il Papa lo trattiene, forse con l’inganno: comunque sia il poeta non rientrerà più in Firenze.

Nel novembre del 1301 il principe Carlo di Valois entra in Firenze: i Neri, con Corso Donati rientrato in Firenze, si abbandonano a saccheggi ed uccisioni, l’8 novembre eleggono Podestà Cante Gabrielli, per processare e condannare i capi Bianchi e prendono il governo.

Nel 1302 il padre di Petrarca e Dante[22] vengono esiliati dal predetto Gabrielli[23]; in quest’anno troviamo D. a difendere la fortezza di Serravalle Pistoiese e poi a Forlì nel 1303; nel frattempo il poeta cerca anche di rientrare in Firenze con la forza ed i Guelfi nell’occasione decidono – Dante dissenziente – di appoggiarsi ai Ghibellini ma il tentativo non va a buon fine[24].

In condizione di mendicante D. si rifugia a Verona da Bartolomeo della Scala (1303).

 Gherardo da Camino lo ospita a Treviso tra il 1304 ed il 1306. Sempre nel 1304 il Poeta divenne per oscure ragioni inviso sia ai Bianchi che ai Neri.

 Nel 1306 lo troviamo a Sarzana come procuratore del marchese Francesco Malaspina per firmare un trattato con il vescovo di Luni.

 Nel 1307 e nel 1311 viene ospitato a più riprese nel Casentino dal conte Guido da Battifolle.

 Nel 1308 si reca a Lucca[25] e forse è a Parigi tra il 1309 ed il 1310.

 Nel 1310 quando Arrigo VII di Lussemburgo scende in Italia Dante spera non solo di rientrare in Patria ma che l’autorità imperiale restauri l’ordine; a questo proposito invia una lettera ai principi di Italia perché accolgano onorevolmente il “redentore mandato da Dio”.

Per tutta risposta Firenze si schiera contro Arrigo VII e quindi Dante scrive una dura missiva contro i Fiorentini ed un’altra lettera al monarca lussemburghe­se (che è a Brescia) perché muova guerra contro Firenze (a questo punto Dante viene totalmente escluso dalla possibilità di rientrare in Firenze).

Nel  1312 Arrigo cinge la corona imperiale, assedia Firenze ma muore a Buonconvento il 23 maggio del 1313: i sogni di Dante svaniscono.

Il poeta si reca quindi, sempre nel 1313, a Verona alla corte di Cangrande della Scala di cui esalta valore e generosità (XVII Par. v. 76 e ss.).

Nel 1315 Firenze concede un’amnistia a condizione che gli esuli paghino una multa e si offrano come pubblici peccatori al santo della città in una pubblica processione; Dante si rifiuta: viene confermata quindi la condanna a morte e la confisca dei beni; detti provvedimenti sono estesi anche ai figli del poeta.

Tra il 1319 ed il 1321 il poeta si reca con i figli a Ravenna da Guido da Polenta; qui compone il Paradiso.

Tornato da un’ambasceria a Venezia muore, per un attacco di malaria,  il 13 settembre del 1321 e viene sepolto nella chiesa di S. Francesco.

Nel 1483 Bernardo Bembo, pretore della Repubblica di Venezia gli fa costruire un mausoleo dove D. è tuttora sepolto.


 [1] Non sappiamo nulla di preciso sulla sua nascita se non quello che D. stesso scrive; L’anno lo ricaviamo nel modo seguen­te: nel prologo dell’Inferno afferma che nel 1300 (anno del Giubileo) era a metà della sua vita; nel Convivio D. dice che “lo punto sommo dell’arco della vita” è “ne li perfetti naturati” trentacinque anni, metà esatta dell’esistenza umana, la cui durata secondo le scritture, è di anni settanta; di conseguenza D. non può che essere nato nel 1265. Per quanto riguarda il mese, nel XXII canto del Paradiso (VIII cielo) D. afferma di aver respirato per la prima volta l’aria di Toscana quando il sole era entrato nella costella­zione dei Gemelli.

 [2] A parte il popolo romano (che fondò Firenze; Conv. I, III, 4) cui D. si sentiva di appartenere, il più antico antenato della sua casata fu per D. Cacciaguida vissuto nel 1100, fatto cavalie­re da Corrado III e morto, martire per la fede, in Terrasanta nella crociata del 1148. Quegli aveva sposato una donna di “val di Pado”(forse di Ferrara), Alighiera, da cui derivò il nome della famiglia. Da questa unione era nato Alighiero I (che D. pone tra i superbi nella prima cornice del Purgatorio), da Alighiero I nacque Bellincione, uomo politico di parte guelfa esiliato dopo la battaglia di Montaperti del 1260, e da Bellincione Alighiero II, appunto padre di Dante. Alighiero II svolgeva un’attività disonorevole per un nobile ed inoltre non rivestiva un ruolo importante dal punto di vista politico poiché, nonstante fosse guelfo, poteva risiedere in Firenze nonostante il governo della città fosse ghibellino (il primo governo guelfo instauratosi in Firenze ad opera del Popolo grasso, verso la metà del secolo, resse fino al 1260, quando i ghibellini fuorusciti, alleandosi con Siena e con Manfredi, riportarono la vittoria di Montaperti e ripresero momentaneamente il dominio in Firenze; solo nel 1266 in Firenze riuscirà ad imporsi nuovamente il dominio guelfo).

 [3] Alcuni sostengono tra i 5 e gli 8 anni, cioè tra il 1270 ed il 1273.

 [4] Più esperto di D. nel mondo degli affari lo aiuterà negli anni dell’esilio.

[5] Forse nel 1285.

[6]  che divenne forse Suor Beatrice del monastero di S. Stefano degli Ulivi a Ravenna.

[7] Le sue prime composizioni secondo il Contini sarebbero da ritrovarsi in due poemetti: Il Fiore e Detto d’amore, composti forse tra il 1285 ed il 1295.

[8] D. affermò che <<siciliana>> va definita ogni manifesta­zione poetica che precede la poesia sua e dei suoi amici (Guido Cavalcan­ti, Cino da Pistoia, Lapo Gianni…) da lui definite, come già sappiamo, <<Dolce stil novo>>, di cui riconosce iniziatore Guido Guinizzel­li, definendolo <<…padre/ mio e de li altri miei miglior che mai/ rime d’amor usar dolce e leggiadre>> (Pg. XXVI).

[9] Approfondì certamente Virgilio (che cita come suo maestro più di duecento volte), Orazio, Ovidio, Stazio, Seneca, Giovena­le, Terenzio, (indirettamente) Plauto, Boezio, Claudiano, Persio.

[10] Di cui conobbe anche la interpretazione averroistica.

[11]  Approfondisce soprattutto Sant’Agostino, i padri della Chiesa ed i Mistici (ad es. Bernardo di Chiaravalle).

[12]  Cavaliere con armi leggere che aveva il compito di attaccare per primo il nemico.

[13] Ricordata nel canto XXII dell’Inf. ai vv. 4-5. Per assicurarsi libertà di movimento nei suoi commerci, Firenze dovette garantirsi il controllo dei passi appenninici, verso il Nord, e delle strade che la mettevano in contatto col mare e con 1’ltalia centro-meridionale. Perciò essa lottò contro Siena, e la batté a Colle Val d’Elsa nel 1269, e contro Arezzo, che sconfisse appunto a Campaldino nel 1289.

[14] Lo ricorda in Inf. XXI (vv. 94-96). Insieme a Pistoia, Pisa, che rappresenta l’ambìto “sbocco al mare”, deve subire l’egemonia economico-politica di Firenze nel 1293.

[15] Nel 1215 Buondelmonte dei Buondelmonti, rotto il fidanza­men­to con una figlia di Lambertuccio Amidei, viene ucciso il giorno di Pasqua mentre attraversa il ponte Vecchio sull’Arno. Autori dell’omicidio sono gli Amidei alleatisi per l’occasione con gli Uberti. In seguito a tale omicidio la città di Firenze si divide in due fazioni: i Guelfi che facevano capo alla famiglia Buondelmonti e i Ghibellini he invece parteggiavano per gli Amidei e gli Uberti.

[16]  Egli favorisce i Bianca al Governo di Pistoia e parteggia per il popolo minuto, per il popolo colto e per la piccola nobiltà avversa agli Ordinamenti di Giano della Bella del 1293.

[17] Il Donati rappresenta il popolo grasso insieme ai nobili potenti e si allea ben presto con Bonifacio VIII appoggiandone la politica teocratica e le continue ingerenze nella città di Firenze. I Neri  sono fautori di una politica estera decisamente aggressiva, che miri a stabilire il predominio di Firenze in Toscana e su buona parte dell’Italia centrale.

[18] Giano della Bella (Seconda metà del secolo XIII), politico fiorentino di famiglia aristocratica. Nella lotta politica all’interno del Comune di Firenze, si schierò con la fazione popolare. Ottenuta la carica pubblica di “priore” fu, secondo le cronache del tempo, tra gli estensori della riforma istituzionale detta appunto degli Ordinamenti di giustizia (1293), che escluse i magnati dalle cariche governative. Poco più tardi, però, la classe dei magnati strinse un’alleanza con il cosiddetto “popolo grasso” e Giano, trovatosi privo di sostegno, fu costretto a lasciare la città; nel 1295 si ritirò in esilio in Francia, dove morì.

[19]  Figlio di Carlo d’Angiò che nel 1263 era venuto in Italia chiamato dal pontefice ed aveva sconfitto Manfredi di Svevia a sua volta figlio di Federico II.

[20] Dopo la carica di podestà la carica di priore era la più prestigiosa del Comune. I Priori si dicevano a Firenze i rappresentanti elettivi delle Arti. I priori che governano Firenze, però, non sono eletti dal popolo e non rappresentano il popolo ma solo una minoranza di mercanti e di magnati.  Il Comune – a Firenze come altrove – è in ogni sua fase un regìme sostanzialmente oligarchico, fondato sul privilegio di questa o di quella classe.

[21] Che era parente di Dante, tramite la moglie Gemma.

[22]  Il 27 gennaio 1302 per le imputazioni di guadagni illeciti, di frode e di opposizione al pontefice. D. viene condannato a pagare una multa, a due anni di confino, al divieto a vita di partecipare al governo della città; non avendo pagato il 10 marzo fu condannato alla confisca dei beni e alla morte sul rogo se fosse stato catturato dall’autorità.

[23] Iniziano gli anni errabondi di Dante che però sono molto fecondi dal punto di vista letterario: comporrà il Convivio, il de Vulgari Eloquentia, la Monarchia e la Commedia.

[24] I fuorusciti bianchi vengono infatti sopraffatti sanguinosamente, il 29 luglio del 1304, alla Lastra alla Loggia.

[25] Tutte queste notizie sull’esilio si ricavano dalle lettere e dai trattati che riportano la firma del poeta.

La letteratura in prosa: trattatistica, cronaca storica e di viaggio, novella. (Seconda parte)

S. Re- L. Simoni. L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001
R. Luperini-P. Cataldi-L. Marchiani-F. Marchese. La scrittura e l’interpretazione. Dalle origini al manierismo. Volume primo. Palumbo editore. Firenze. 2000.
AA. VV., La letteratura italiana in Cd-Rom, G. D’Anna editore- La repubblica Edizioni.  Milano. 1999.
S. Guglielmino-H. Grosser. Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994
E. Gioanola, Storia della Letteratura italiana. Dalle origini ai giorni nostri. Librex editore, Milano, 1992.
A. Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento, Giuseppe Principato editore. Messina-Milano, 1937.
C.A.Calcagno, La scuola dei poeti toscani, in I grandi classici della poesia italiana, Duecento, p. 90 e ss., Bottega d’arte di Penna d’Autore, Torino, 2006

Il Duecento è un secolo ricco di storiografia latina e volgare soprattutto in relazione alla vita dei Comuni della Toscana; vale la pena di ricordare almeno la Istoria fiorentina di Ricordano Malispini che non ha pregi letterari ma apre la grande stagione storiografica, illustrata di lì a poco dal nome di Dino Compagni e poi da quello di Giovanni Villani.

Sempre legata all’attività borghese e mercantile dei comuni lagunari è Le divisament dou monde (La descrizione del mondo)[1] redatto da Rustichello da Pisa, compagno di prigionia a Genova di Marco Polo, caduto nelle mani dei cittadini della nemica repubblica dopo uno scontro a Curzola nel 1298, durante la battaglia della Meloria.

Rustichello era uno scrittore di avventure cavalleresche ed è probabile che sia venuto da lui, oltre che dalla straordinarietà delle cose in sé, l’alone avventuroso del racconto.

In questo senso si capisce meglio anche l’uso della lingua d’oil, la lingua romanzesca per eccellenza: del resto il libro, diventato presto famosissimo, costituì, si può dire, l’unico vero “romanzo epico” della nostra tradizione letteraria[2].

L’ispiratore di tale opera, Marco Polo, nasce da una famiglia di mercanti a Venezia nel 1254; a diciassette anni intraprende un viaggio in Oriente e in Cina, durato 24 anni, dal 1271 al 1295, e compiuto col padre Niccolò e lo zio Matteo, che precedentemente avevano già fatto un viaggio di 15 anni negli stessi luoghi[3].

I Polo visitarono San Giovanni d’Acri per ottenere una lettera papale per Kublai Khan. Gregorio X, da poco eletto al soglio pontificio, si trovava ancora in Terra Santa. Accolse i mercanti veneziani e affidò loro un’ampolla d’olio del Santo Sepolcro di Gerusalemme, facendoli accompagnare da due frati domenicani, che però, dopo pochi giorni, abbandonarono la spedizione.

I Polo attraversarono  la Persia e raggiunsero lo stretto di Hormuz, dove speravano di trovare una nave che li conducesse in India.

Fallito il loro obiettivo, proseguirono il viaggio via terra fino a raggiungere Kashgar (l’attuale Kashi), città commerciale della Cina occidentale. A Kashgar Marco si ammalò e i veneziani furono costretti ad attendere quasi un anno prima di poter riprendere il viaggio.

Risalendo il fiume Oxus (oggi Amudarja) attraversarono l’Hindukush e le montagne del Pamir, dove Marco fu il primo europeo ad avvistare e a descrivere l’argali, una pecora selvatica detta anche “pecora di Marco Polo”.

Costeggiarono il deserto del Taklimakan fino a raggiungere la regione del lago di Lop Nor, nella provincia cinese del Sinkiang (oggi Xinjiang Uygur). Dopo aver attraversato il deserto di Gobi con una carovana di cammelli, i Polo raggiunsero infine la corte del Khan a Shangdu nel 1275, tre anni e mezzo dopo aver lasciato l’Europa.

Molti dei territori da loro attraversati, in particolare il Pamir e la regione del Gobi, non erano mai stati visitati prima d’allora da europei.

Attratto dalla millenaria civiltà cinese, splendida di leggenda­rio folklore, ma anche molto avanzata tecnicamente, Marco non tardò ad integrarsi in essa, e tanto salì nella considerazione del Khan, ch’ebbe da lui incarichi diplomatici e amministrativi di grande importanza.

Svolse questa attività per diciassette anni. Raggiunse il Tibet, navigò sullo Chang Jiang, sullo Hwang Ho e lungo il corso superiore del Mekong. Fu probabilmente il primo europeo a visitare l’interno della Birmania e raggiunse quasi sicuramentela Siberiae l’arcipelago indonesiano.

Per tre anni, fra il 1282 e il 1285, Marco Polo ricoprì inoltre l’incarico di governatore della città di Yangzhou.

Nel 1292 i Polo, che nel frattempo erano divenuti consiglieri militari dell’imperatore, decisero di partire insieme a Marco perché l’impero si stava sfaldando.

Furono autorizzati a partire nel 1292 con un’ultima missione da compiere: scortare una principessa mongola destinata ad andare in sposa al re di Persia.

Poiché la guerra in corso ai confini occidentali dell’impero mongolo rendeva impossibile il viaggio via terra, i Polo decisero di raggiungerela Persia via mare alla testa di una flotta di quattordici navi e 600 uomini d’equipaggio, che salpò dal porto cinese di Zaitun (l’attuale Quanzhou).

Raggiunta Sumatra, la spedizione attraversò lo stretto di Malacca, fece rotta verso Ceylon, le isole Andamane e Nicobare, fino ad arrivare allo stretto di Hormuz nel 1294.

Soltanto diciotto dei 600 uomini partiti dalla Cina raggiunsero il golfo Persico.

Nel frattempo era morto anche il re dei persiani e la principessa mongola andò in sposa al suo erede.

Marco descrisse tutte le regioni dell’Asia, con scientifica puntualità di geografo e di etnografo, nel libro che molto probabilmente servì di base a Rustichello.

I Polo raggiunsero Venezia nel 1295, ben ventiquattro anni dopo la loro partenza, ricchissimi grazie soprattutto alle pietre preziose che avevano cucito nei loro vestiti.

La Serenissima era allora in guerra con Genova; e Marco fu chiamato alle armi. Partecipò appunto alla battaglia della Meloria e fu fatto prigioniero dai Genovesi.

In carcere e con l’aiuto di Rustichello, Marco realizzò appunto il progetto, già concepito ed in parte compiuto in Oriente, di narrare in un libro la sua singolare vicenda di esploratore.

Il tono avventuroso della stessa non esclude il preciso riferi­mento a cose[4], vicende e personaggi[5] ben reali, nella precisione di un mercante che riferisce le cose che ha visto, sia pure strabi­lianti, a mercanti come lui[6].

La novità del libro sta proprio in questa presenza massiccia, e indubitabilmente reale, del “diverso”, di ciò che non è previsto dagli schemi di una cultura, come quella medievale, fondata sulle astrazioni universalizzanti dell’intellettualismo filosofico e teologico.

È appunto l’osservazione del mondo come è ad aprire le strade alla scienza umanistica e di tutta la nuova cultura.

Il nome di Rustichello è anche legato alla nascita in Italia della prosa narrativa, anche se il suo Meliadus[7], imperniato sulla figura del padre di  Tristano, non è scritto in volgare ma in franco-italiano.

Quanto agli argomenti della prosa di narrazione è evidente che essa sia tutta, o quasi, di derivazione francese[8], come testimo­nia­no i numerosissimi Tristani in varie versioni regionali  (il Tristano Veneto, il Tristano Riccardiano e una sezione della Tavola Rotonda); del resto, il tema di Tristano è comune alla letteratura medievale di tutta Europa.

Non meno numerosi romanzi tratti dal “ciclo classico”, come le Storie di Troia e de Roma in volgare romanesco, o l’Istorietta troiana[9], in buon volgare toscano o ancora I Fatti di Cesare, di anonimo, rielaborano in forma di lettura gradevole, ma priva di approfondimento, Li faits des Romains (I fatti dei Romani), che raccolgono leggende su eroi romani.

Alla stessa materia s’ispira l’opera I conti di antichi cavalieri, anch’essa di anonimo, che invita i governanti ad imitare le azioni esemplari dei grandi uomini, mossi da ideali di giustizia e di buongoverno.

Tra questi vi sono eroi dell’epica classica, come Ettore, e personaggi della storia romana, come Scipione e Cesare, ma anche figure più recenti, quali il Soldano ed Enrico II Plantageneto, primo re d’Inghilterra.

Alla tradizione francese del fabliaux (=favolelli)[10], oltre che a fonti bibliche, si rifà anche la novellistica, che viene ad affiancarsi alla tradizione degli exempla moralistici e alle vite dei santi[11], in una prospettiva di mutamento dei fini e di sempre maggiore interesse per i valori mondani.

Tra romanzo e novella si assiste ad una vera e propria afferma­zione della narrativa pura, sganciata da finalità etico-religioso e volta al mero diletto o all’ammirazione per quelle virtù che costituivano la mira alta della nuova borghesia: valore, generosi­tà­, gentilezza, amore cortese, magnanimità, le antiche qualità nobiliari e cavalleresche intese come sublimazione delle qualità nuove di ingegnosità, furbizia e senso pratico[12].

Vale la pena di sottolineare, tuttavia, che la novella d’impronta laica non esclude, di per sé, componenti morali, e che la tradizione religiosa non viene mai abbandonata. Al contrario, essa si sviluppa per tutto il Trecento, con motivi e toni specifici.

Dal francese viene tradotto in Toscana il Libro dei sette savi una raccolta di 14 novelle di derivazione indiana, dove il narrato prevale sulle finalità etiche.

Ciò che lo rende degno di nota è la sistemazione delle novelle. Esse, infatti, sono narrate all’interno di una “cornice”, vale a dire di un filo conduttore, che coordina e giustifica il susseguirsi dei vari racconti. Questo espediente letterario, ripreso più tardi da altri, diventerà un elemento essenziale nel Decameron di Giovanni Boccaccio.

Il così detto Novellino[13], o Libro di novelle et di bel parlar gentile secondo un titolo più antico (1281), rappresenta nella Toscana di fine secolo il risultato più alto di questa ricerca della narrazio­ne dilettevole: la raccolta, che secondo un numero chiuso destinato a diventare canonico comprende cento unità narrative[14] (almeno nella versione manoscritta del Cinquecento), si presenta come un vero e proprio serbatoio di motti arguti, di sentenze, di esempi di nobili virtù, di racconti amorosi e avventurosi, di racconti biblici, di favole di Esopo, concentran­do in sé tutta la tematica narrativa diffusa in quel tempo.

Manca una qualsiasi organizzazione generale di vicende e personaggi e non vi è alcun filo conduttore tematico o ideologico.

L’autore (o più autori?), anonimo (fiorentino probabilmente e certo uomo di cultura e di gusto), dichiara nel prologo il fine del suo lavoro: vuole “rallegrare il corpo e sovenire [aiutare] e sostentare”, senza per questo offendere Dio, la religione e la morale e mettere insieme <<alquanti fiori di parlare (motti eleganti e divertenti), di belle cortesie, di belli risposi, di belle valentie, di belli donati e di belli amori>> ossia si propone di dire cose piacevoli in forma piacevole; egli intende proporre ai lettori, perché li ripetano nel rapporto civile, alcuni esempi di cortesia cavalleresca[15].

L’autore trae la sua materia da molte fonti diverse, e non di rado le cita in apertura della novella. I ricordi biblici si accostano a quelli degli scrittori pagani classici, tra i quali Valerio Massimo e Aulo Gellio. Alcune novelle si ispirano invece a testi provenzali e francesi; altre ancora attingono agli exempla medievali in latino e in volgare.

Convivono quindi tra di loro personaggi come il Saladino e il re Giovane, Davide o Salomone, Lancillotto e Tristano, Alessandro Magno e Traiano o anche personaggi più vicini all’autore come Carlo Magno, Carlo d’Angiò o Federico II ( che spicca sugli altri personaggi).

Tutti costoro sono portatori di valori positivi di un mondo aristocratico vagheggiato, ma percepito come inevitabilmente trascorso.

Accanto al recupero dei modi cortesi è presente anche una vivace rappresentazione della realtà contemporanea con le sue città, le sue piazze ed i suoi mercati, dove il racconto perde sovente ogni intento edificante e si concentra su situazioni comiche.

Il linguaggio è semplice, disadorno ed efficace, non per la poca cultura dell’anonimo compilatore ma per consapevole adozione dell’espediente retorico della brevitas: le narrazioni sono brevi, scarne le descrizioni paesaggistiche o d’ambiente, rapidi ma vivaci ed espressivi i dialoghi che si chiudono spesso con un motto che fa da commento alla situazione o la risolve; il risultato di questo stile è spesso incantevole e davvero si può dire che quest’opera inauguri la storia della nostra prosa letteraria d’arte.

Certo l’intendimento principale dell’autore, nello scrivere chiaro e semplice, fu quello di farsi leggere da un pubblico vasto, nella riconversione dei modi della predica popolare a fini non più moralistici ma dilettevoli.


[1] Meglio noto come Il Milione da Emilione (il soprannome della famiglia Polo): questo titolo però riguarda una volgarizzazione in toscano del Trecento.

[2] Il libro subì molte manipolazioni nella tradizione mano­scritta e nelle traduzioni, e c’è voluta molta fatica filologica per riportarlo alla redazione originaria.

 [3] Il padre Niccolò e lo zio Matteo, soci in affari, erano mercanti veneziani con importanti interessi a Costantinopoli (l’attuale Istanbul) e in Crimea. Quando Costantinopoli cadde nelle mani dei genovesi, Niccolò e Matteo andarono alla ricerca di mercati alternativi a nord del mar Caspio. Partiti da Laias in Siria, arrivarono a Buhara (oggi in Uzbechistan), che a quel tempo era una delle città più importanti lungo la via commerciale che conduceva in Cina (detta allora Catai); attraversarono la Persia e si unirono a una carovana persiana diretta alla corte del grande imperatore mongolo Kublai Khan a Shangdu (Shang-tu, la Xanadu del poema di Coleridge Kubla Khan), non lontana da Pechino (allora Cambaluc). La carovana percorsela Via della Seta (il Korassan, il Turkestan) e fece sosta a Samarcanda, attraversò i deserti del Tibet settentrionale e le steppe della Mongolia. I fratelli Polo furono accolti con simpatia alla corte dell’imperatore mongolo che, minacciato dalla pressione degli eserciti musulmani ai confini meridionali del suo impero, li invitò a tornare con cento missionari cristiani, cui avrebbe affidato il compito di convertire il suo popolo al cristianesimo. I Polo impiegarono tre anni per ritornare a Venezia, passando per Buhara,la Persia,la Siria e San Giovanni d’Acri (oggi in Israele), raggiungendo Venezia nel 1269.

[4] Scambi commerciali, monete, rete stradale, mezzi di trasporto, dogane, apparato amministrativo, prodotti della terra.

[5] Famoso è il ritratto del Gran Khan signore dei Tartari o Mongoli.

[6] Questo libro fu addirittura considerato come un manuale della mercatura.

[7] Un romanzo sulle imprese dei cavalieri di re Artù.

[8] Una volgarizzazione di opere francesi.

[9] È una riduzione del colossale romanzo di Benoît de Sainte-Maure (XII secolo), intitolato Le roman de Troie (Il romanzo di Troia), che narra le vicende della guerra tra Achei e Troiani.

[10] Sono composizioni brevi, scherzose, spesso di argomento licenzioso e triviali nel linguaggio. I loro autori sono, in massima parte, trovieri, parola che all’origine indicava coloro che traducevano in lingua d’oïl i testi in lingua d’oc. I fabliaux nascono probabilmente in ambiente aristocratico, come forma di satira contro le classi inferiori, e lasciano una traccia consistente nelle letterature dei secoli successivi, non solo in Francia, ma anche in Italia. Ad esempio, se ne ritrova l’influenza nel Boccaccio, che scrive nel Trecento, e in Matteo Bandello, un autore del Quattrocento.

[11] L’antenato più diretto della novella è l’exemplum. È un racconto breve, a volte brevissimo, che riporta un detto, oppure un episodio, una vicenda, non importa se reali o fantastici. Lo scopo essenziale, se non l’unico, dell’exemplum è quello di sorreggere una teoria, far meglio comprendere una tesi, attraverso un esempio probante. Il carattere dimostrativo degli exempla è il motivo per il quale queste succinte narrazioni non nascono come testi indipendenti, ma accompagnano l’esposizione di argomenti che, per la loro astrattezza o difficoltà, possono essere definiti con più precisione grazie ad una testimonianza concreta. L’exemplum viene usato, infatti, nella trattatistica religiosa, nelle prediche e nell’agiografia. Con il tempo, l’exemplum perde la sua primitiva stringatezza, si amplia e acquista sempre più i contorni di un racconto in piena regola, anche se resta semplice e breve. Già un anonimo senese, nei Dodici conti morali, che descrivono modelli di comportamento esemplari ispirati alla vita dei santi, fa il primo tentativo di conciliare l’intento morale con l’efficacia artistica della narrazione. I suoi racconti sono brevi ma ben congegnati, in modo da rendere avvincente la lettura. Apoco a poco, l’exemplum si estende dall’ambito religioso a quello della vita sociale e civile, pur non rinunciando ai suoi intenti educativi. I temi si arricchiscono e si diversificano con il moltiplicarsi degli interessi della borghesia cittadina, che avverte il bisogno di una letteratura rispondente ai suoi gusti e ai suoi ideali. Questo arricchimento coincide con un cambio di prospettiva: il racconto si libera dai criteri di rigida moralità finora rispettati e si prefigge sempre più chiaramente lo scopo di intrattenere e di divertire il pubblico. A questo punto, si può già parlare della novella come di un genere dalla forma definita, che segue regole precise di composizione e tratta argomenti laici.

[12] Un’altra importante fonte per lo sviluppo della novella sono i lais. Con questo termine francese si designano quei poemetti accompagnati dalla musica, nei quali prevale il gusto per l’avventura e l’esaltazione dell’eroismo, proiettati spesso su uno sfondo fantastico. A queste componenti si lega di solito un preciso intento morale. I lais infatti descrivono episodi nei quali rifulgono il coraggio, la liberalità, la cortesia, doti che vengono presentate come essenziali all’uomo che voglia agire con dignità e giustizia.

I conti di antichi cavalieri si accostano a questo modello, cui si ispira appunto anche il Libro dei sette savi.

[13] Titolo convenzionale in voga dal Cinquecento.

[14] Generalmente brevi o brevissime, sono novantanove più un prologo.

[15] Il destinatario dell’opera ha un profilo netto: è uomo intelligente, di buone maniere, abbastanza colto e sagace da apprezzare quegli “specchi” (esempi) di vita che gli verranno presentati.

La letteratura in prosa: trattatistica, cronaca storica e di viaggio, novella. (Prima parte)

S. Re- L. Simoni. L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001
R. Luperini-P. Cataldi-L. Marchiani-F. Marchese. La scrittura e l’interpretazione. Dalle origini al manierismo. Volume primo. Palumbo editore. Firenze. 2000.
AA. VV., La letteratura italiana in Cd-Rom, G. D’Anna editore- La repubblica Edizioni.  Milano. 1999.
S. Guglielmino-H. Grosser. Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994
E. Gioanola, Storia della Letteratura italiana. Dalle origini ai giorni nostri. Librex editore, Milano, 1992.
A. Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento, Giuseppe Principato editore. Messina-Milano, 1937.
C.A.Calcagno, La scuola dei poeti toscani, in I grandi classici della poesia italiana, Duecento, p. 90 e ss., Bottega d’arte di Penna d’Autore, Torino, 2006

    In tutte le letterature la prosa nasce dopo la poesia, poiché per la prima è necessario che si siano consolidate le strutture morfologi­che[1] e sintattiche[2].

    A tenere a battesimo la prosa volgare è il latino che presta ad essa il lessico e la dignità costruttiva[3]; il Duecento è un secolo di traduzioni ed è proprio Cicerone[4] il centro di riferimento per chi intende misurarsi con lo stile prosastico.

    La prosa volgare nasce quindi in massima parte colta e ligia alle regole della retorica classica[5].

    Inizialmente infatti essa era riservata ad un livello di comunica­zione spesso privato o di carattere ufficiale.

    Con l’affermarsi però delle nuove istituzioni comunali, che sentivano la necessità di coinvolgere nella gestione pubblica uno strato più ampio di cittadini, con le esigenze della classe borghese mercanti­le in forte espansione che necessitava di strumenti di comunicazio­ne più agili e comprensibili e infine con il sorgere di scuole legate al Comune e non ai centri ecclesiastici, si fa strada  l’esigenza di una lingua scritta più vicina al parlato e fruibile da un pubblico sempre più ampio e soprattutto digiuno di latino.

     I primi esemplari di prosa letteraria volgare si trovano, in qualità di inserti, nel trattato in lingua latina Gemma purpurea (1243) di Guido Faba, che è una raccolta di lettere scritte come modello per servire ai dotti, secondo i precetti della retorica ciceroniana.

     Guido Faba, notaio bolognese e collega[6] nell’Università di Bologna del celebre maestro di retorica Buoncompagno da Signa, adotta ed adatta per la prosa volgare i precetti retorici che quello nel Boncompagnus e nella Rhetorica novissima aveva dato per la prosa latina.

    In Parlamenta et epistole Guido Faba, accomunando ancora latino e volgare sotto la medesima regia dell’ars dictandi (l’arte del comporre lettere in bello stile) e del cursus (la cadenza ritmi­ca)[7], si presenta nettamente come il primo scrittore italiano in prosa volgare[8].

    Non è casuale che Faba fosse notaio, come non lo è che fosse notaio Brunetto Latini: si trattava di una professione che metteva in contatto volgarizzandola la cultura medievale formale, concisa ed astratta con il mondo borghese in dinamica espansione, desidero­so di acculturarsi ma anche legata ai processi concreti del nuovo sviluppo socio-economico[9].

   Al di fuori di Bologna ove abbiamo, come detto, esempi della prosa d’arte in campo giuridico ed epistolare, un altro esempio di volgarizzazione è in Toscana il primo trattato scientifico della letteratura volgare, la Composizione del mondo (1280) – in dialetto aretino – del frate astronomo Restoro D’Arezzo, enciclope­dia in cui si parla delle stelle, dei pianeti e della terra e delle reciproche influenze, oltre che dei regni minerale, vegetale e animale.

– A leggere nel proemio che <<l’omo è creato per conosciare e per sapere e per entèndare e per audire e per vedere le mirabili operazioni di questo mondo>> sembra di trovarsi di fronte all’Ulis­se dantesco o al primo umanista.

– Invece ci troviamo di fronte ad un autore del Duecento che mette a disposizione nel volgare della sua città il suo sapere, ossia il sapere dell’antichità e del Medioevo più remoto, dai tempi di Aristotele, Plinio il Vecchio e Tolomeo a quello di Isidoro di Siviglia[10] e degli scienziati di Bagdad e del Cairo, miscela di cose fantastiche e di raffinatissime nozioni scientifi­che, frutto di fantasie fertili e di pazienti osservazioni celesti, di supersti­zione e di matematica.

    Restoro ci appare intricato, ingenuo e a tratti buffo ovviamente agli occhi del Duemila nella sua ossessione di spiegare tutto: perché il giorno ha ventiquattrore, perché i giorni della settimana sono sette, perché le dimensioni delle cose sono quelle che sono, perché la destra è la destra, la sinistra la sinistra e non viceversa, perché il movimento delle costellazioni è da oriente ad occidente e non viceversa (perché altrimenti i corpi celesti mostrerebbero sul davanti “le nateche”, parte ignobile, e sul dietro la fronte, parte nobile).

    L’unica cosa nell’universo che non agisce secondo ragione è per Restoro, l’amore, ma a lui va bene così (<<eo lo lodo>>).

     Traduttore di Cicerone fu anche Brunetto Latini, il maggiore dei trattatisti del Duecento, amato e ammirato da Dante (che “lo incontra” nel canto XV dell’Inferno) per i suoi meriti culturali di autentico maestro della nuova cultura laico-borghese.

    Brunetto nacque a Firenze verso il 1220, figlio di un notaio e notaio egli stesso, e partecipò fin da giovane alla vivacissima lotta politica della città schierandosi dalla parte guelfa: fu mandato nel 1260 presso il re di Castiglia Alfonso X il Saggio (che era stato designato “re dei romani”)[11], per ottenere aiuto contro i Ghibellini.

      Fu una missione inutile perché non evitò la battaglia di Montaperti[12] e comportò per Brunetto l’esilio (in un primo tempo a Montpellier)[13] per la sconfitta della sua parte.

      Fermatosi in Francia, esercitò la sua professione a Parigi, dove scrisse la sua opera maggiore, Li livres dou tresor, in lingua d’oil (francese) non tanto per il soggiorno in quella nazione ma perché era la lingua più diffusa, largamente conosciuta anche in Italia.

     Tornato a Firenze dopo la battaglia di Benevento[14], nel 1266,  fu insegnante e partecipò alla vita pubblica: fu  priore nel 1277 e nel 1284 divenne membro del Consiglio del podestà, assieme a Guido Cavalcanti e a Dino Compagni..

      Nel frattempo la sua fama si era estesa ovunque, anche fuori d’Italia, come attestano le traduzioni del Tesoro in catalano e castigliano (oltreché in volgare toscano, in bergamasco e in latino): morì nella sua città nel 1294.

      Il Tesoro è una tipica enciclopedia medievale, in tre libri, il primo dedicato soprattutto alla cosmogonia con incursioni nel territorio della geografia, della zoologia, della botanica, dell’anatomia e della storia; il secondo alla filosofia morale, con la solita elencazione dei vizi e delle virtù; il terzo è dedicato alla retorica e alla politica, con diretti agganci alla situazione contemporanea e con intenti di formazione dell’uomo politico attraverso l’oratoria; in quest’ulti­mo libro si vede come l’arte della retorica è strettamente correlata al buon governo del Comune di Firenze, le cui istituzioni sono contrapposte, in quanto ritenute migliori, a quelle della contemporanea monarchia francese.

     L’opera con la quale Brunetto Latinimanifesta maggiormente l’intenzione di coniugare il pratico esercizio della politica con l’arte del dire e dello scrivere è la Rettorica[15]; chi intende governare deve sapersi esprimere degnamente, non per imporre con l’astuzia i propri convincimenti, bensì essendo l’arte retorica strettamente legata all’etica[16], per il bene della propria città e in nome del buon governo.

      Ricordiamo ancora un’opera di Brunetto: il Tesoretto, poemetto didattico incompiuto dove tratta soprattutto di teologia, filosofia naturale ed etica, ma anche dell’astronomia e della geografia. Il suo insegnamento offre un eccellente studio sulla visione medievale del mondo: Dante sarà fortemente ispirato da quest’opera[17] .

       Offriamo qui in lettura un bel passo di quest’ultima opera. Brunetto descrive il Mediterraneo.

Di questo mar ch’i’ dico 

vidi per uso antico 

nella perfonda Spagna 

partire una rigagna 

di questo nostro mare, 

che cerehia, ciò mi pare, 

quasi lo mondo tutto, 

sì che per suo condotto 

ben pò chi sa dell’arte 

navicar tutte parte, 

e gire in quella guisa 

di Spagna infin a Pisa 

e ‘n Grecia ed in Toscana 

e ‘n terra ciciliana 

e nel Levante dritto 

e in terra d’Igitto. 

Ver’ è che ‘n orïente 

lo mar volta presente 

ver’ lo settantrïone 

per una regïone 

dove lo mar non piglia 

terra che sette miglia; 

poi torna in ampiezza, 

e poi in tale stremezza 

ch’io non credo che passi 

che cinquecento passi.  

Da questo mar si parte 

lo mar che non comparte, 

là ‘v’e la regïone 

di Vinegia e d’Ancone: 

così ogn’altro mare 

che per la terra pare 

di traverso e d’intorno, 

si move e fa ritorno 

in questo mar pisano 

ov’è ‘l mare Occïano.


[1]  La morfologia è lo studio della formazione delle parole e delle loro variazioni grammaticali.

[2]  La sintassi è quella parte della grammatica che studia le relazioni che le parole hanno fra di loro all’interno della frase e stabilisce le norme che regolano tali relazioni.

[3] Per costruzione si intende la disposizione delle parole nella proposizione, e delle proposizioni nel periodo, che ubbidisce al senso, allo stile o agli usi propri di ciascuna lingua.

[4] L’opera di Cicerone comprende 58 orazioni (altre 48 sono andate perdute), che riguardano la sua attività di magistrato e di uomo politico, caratterizzate da una prosa ricca e fluida che unisce chiarezza ed eloquenza. Le più note sono In Catilinam (I-IV) e le Philippicae (I-XIV) contro Antonio. Nelle opere di retorica, quali il De oratore, il Brutus, l’Orator, Cicerone passò in rassegna i diversi stili, il grandioso, il semplice e l’intermedio. Importantissime, perché informano sulla vita privata e pubblica di Cicerone e al tempo stesso forniscono uno spaccato della vita del tempo, sono le oltre 900 Epistole indirizzate agli amici, ai familiari, ai politici e agli intellettuali suoi contemporanei. Con la sua prosa duttile, che sa essere magniloquente senza riuscire oscura, ed è in grado di trattare temi assai diversi – dalle minuzie quotidiane alle questioni etiche, dalle argomentazioni filosofiche alle sottigliezze giuridiche e all’invettiva politica – Cicerone stabilì i canoni della lingua colta ed ebbe appunto un’immensa influenza sugli scrittori dei secoli successivi, fino a Petrarca e alla letteratura del Rinascimento.

[5] I trattatisti latini (Cicerone e Quintiliano) distinsero cinque fasi dell’elaborazione del discorso: inventio (ricerca degli argomenti); dispositio (disposizione degli argomenti), a sua volta suddivisa in exordium (inizio), captatio benevolentiae (finalizzata ad accattivarsi i favori del pubblico o dell’interlocutore), narratio (esposizione degli argomenti), confirmatio (spiegazione dei fatti), peroratio (epilogo); elocutio (elaborazione stilistico-formale); memoria (apprendimento mnemonico del discorso) e actio (cura dell’intonazione e della gestualità). Queste ultime due fasi erano ovviamente riservate ai discorsi da tenere in pubblico.

[6] In quanto professore di retorica ed ars dictandi.

[7] Ossia delle regole proprie della prosa latina.

[8] A un discorso volgare (parlamentum) corrispondono tre esempi di lettere in latino (epistole): una ampia e nel contenuto e ornata nello stile (major), una più sintetica e meno elaborata (minor) e una terza ancor più minima e concisa (minima). Si passa da esempi di lettere ufficiali e pubbliche rivolte principalmente alle istituzioni cittadini o alle autorità ecclesiastiche, a lettere di contenuto più leggero e privato. Più che al contenuto, l’attenzione è rivolta alla forma, che deve non solo abbellire il dettato, ma anche dar forza agli argomenti.

[9] Al proposito gli Statuti di Bologna del 1246 stabilivano che i notai dovessero saper leggere e scrivere sia in latino sia in volgare.

[10] Isidoro di Siviglia (Siviglia 560 ca.-636 ca.), santo, teologo, arcivescovo ed enciclopedista spagnolo, studiò in monastero sotto la vigilanza del fratello, san Leandro, a cui successe come arcivescovo di Siviglia. Con tale carica, Isidoro contribuì a unificare la Chiesa spagnola convertendo i Visigoti, che avevano completato la conquista della Spagna nel V secolo, dall’arianesimo, eresia tra le più controverse nella storia della Chiesa, all’ortodossia cristiana. Presiedette anche numerosi concili importanti, tra cui il quarto concilio nazionale di Toledo (633), che decretò l’unione di Chiesa e Stato, l’istituzione di scuole vescovili in ogni diocesi e l’unificazione della pratica liturgica. La sua opera più importante sono le Etymologiae, nella quale cercò di compendiare tutto il sapere, laico e religioso: composta di venti sezioni, divenne il testo di riferimento adottato dagli studenti nel corso di tutto il Medioevo e per molti secoli successivi. Tra le altre opere di Isidoro si annoverano trattati di teologia, linguistica, scienza, storia e commenti sulle Scritture. Il suo Sententiarum Libri Tres fu il primo manuale di dottrina e pratica cristiana della Chiesa latina.

 

[11] Alfonso X (Toledo 1221 – Siviglia 1284), re di Castiglia e di León (1252-1282), figlio e successore di Ferdinando III. Il suo regno fu segnato da continui scontri con i mori, da numerose guerre civili e da ripetuti e infruttuosi tentativi di ottenere la corona del Sacro romano impero. Venne deposto nel 1282, a seguito di un’insurrezione guidata dal figlio Sancho IV, contrario alla ripartizione del regno fatta dal padre, in favore dei figli del primogenito, Fernando, morto nel 1257. Alfonso morì due anni più tardi in totale abbandono. Poeta e autore di numerose opere storiche (Primera crónica general de España) e di trattati scientifici (Lapidario e Libros del saber de astronomía), stimolò la vita culturale spagnola del XIII secolo; sotto la sua direzione fu avviata la traduzione dell’Antico Testamento in lingua castigliana e, nel 1252, furono realizzate da astronomi arabi una serie di tavole astronomiche tuttora famose con il nome di Tavole Alfonsine. Il sovrano promulgò un codice di leggi intitolato Las siete partidas (Le sette parti), redatto sulla base dell’antico diritto romano.

[12] In cui i guelfi fiorentini erano stati sconfitti dai ghibellini fuoriusciti e dai senesi alleati con i tedeschi di Manfredi, figlio naturale di Federico II.

[13] Insieme al nonno di Dante, Bellincione.

[14] Tale battaglia sancisce la sconfitta di Manfredi ed il definitivo predominio nella città di Firenze dei Guelfi anche se non porta la pace in quanto poi questi si divideranno nella fazione dei Bianchi e dei Neri.

[15] Volgarizzazione del trattato ciceroniano De inventione.

[16] Etica (Greco, ethiká, da ethos, “carattere”, “costume”), insieme di principi o norme che regolano la condotta umana, e per estensione lo studio di tali principi, denominato filosofia morale (dal latino mores, “costumi”). L’etica cerca di rispondere a domande come: “Quando un’azione è giusta?”, “Quando un’azione è sbagliata?” e “Qual è la natura o la norma che decide del bene e del male?”.

[17] E’ utile ai medievalisti avere a disposizione un testo leggibile del Tesoretto. Il poema è breve, tuttavia riassume ammirevolmente molti dei topoi medievali, l’insegnamento per mezzo di personificazioni allegoriche, che trasmettono al poeta discepolo – sostituto del lettore – le idee per quanto concerne  il mondo, i quattro elementi, i quattro umori, le quattro virtù, i sette peccati capitali, la caduta, l’incarnazione, e così via; fonde elementi cristiani e pagani, sacri e profani, soprattutto nel modo giocoso in cui è percepito Amore (Tillyard, pp. 98-102; Lewis, pp. 23-75). La struttura del Tesoretto di Latino, come l’ovidiano De arte honeste amandi di Andrea Cappellano, presentando l’arte e il rimedio d’amore, è quella di una palinodia. E’ stato difficile per i lettori moderni comprendere come leggere tali testi medievali ironici, e il Tesoretto di Latino può essere d’aiuto per decodificare tale genere. Può anche essere utile per decodificare la Vita Nuova e la Commedia di Dante, la House of Fame (La casa della fama) e i Canterbury Tales (I racconti di Canterbury) di Chaucer. Se Eliot e Joyce hanno potuto includere Brunetto Latino nel loro canone, allora certamente i medievalisti e i dantisti avrebbero potuto fare lo stesso, vedendo in Brunetto Latino il maestro di Dante, da lui venerato e diffamato, il cui Tesoretto fu ripetutamente citato e riecheggiato da Dante nella sua Commedia (v. per un approfondimento  “Il tesoretto”, a cura di Julia Bolton Holloway in http://www.florin.ms/Tesorettintroital.html).

LA LETTERATURA RELIGIOSA NEL DUECENTO La lirica didattica

 

La lirica padana e Bonvesin Della Riva 

S. Re- L. Simoni. L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001
R. Luperini-P. Cataldi-L. Marchiani-F. Marchese. La scrittura e l’interpretazione. Dalle origini al manierismo. Volume primo. Palumbo editore. Firenze. 2000.
AA. VV., La letteratura italiana in Cd-Rom, G. D’Anna editore- La repubblica Edizioni.  Milano. 1999.
S. Guglielmino-H. Grosser. Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994
E. Gioanola, Storia della Letteratura italiana. Dalle origini ai giorni nostri. Librex editore, Milano, 1992.
A. Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento, Giuseppe Principato editore. Messina-Milano, 1937.
C.A.Calcagno, La scuola dei poeti toscani, in I grandi classici della poesia italiana, Duecento, p. 90 e ss., Bottega d’arte di Penna d’Autore, Torino, 2006

Di una ricca produzione letteraria duecentesca[1] possiamo parlare anche a proposito della lirica religiosa padana che però è legata alle varie parlate, e presto, a differenza di quella toscana e a cagione di quella toscana, scomparve anche nella tradizione manoscritta, tanto che le opere rimasteci si sono conservate fortunosamente in un unico codice, venendo alla luce soltanto grazie alla ricerca erudita di fine Ottocento.
La lirica padana non è tanto tesa alla manifestazione dell’amore per Dio, come quella umbra, ma all’ammaestramento morale da impartire, attraverso esempi ed ammonizioni, ad un pubblico di fedeli.
Ciò trova corrispondenza anche nell’adozione di uno stile “prosastico”, con la tipica scelta del metro classico della narrativa in versi, la lassa monorima (per lo più quartine di alessandrini e novenari)[2]dei poemi cavallereschi.
Questi poeti raccontano di fatti biblici e di esempi di virtù e di peccato ad un pubblico abituato a sentire le storie dei giullari, diffusissime in tutto il Nord-Italia: da qui il linguag­gio semplice, la grande evidenza e concretezza dei fatti racconta­ti, la sintassi paratattica[3], le frasi brevi e staccate.
In tutta questa letteratura i riferimenti all’Inferno sono frequentissimi, per la presa diretta di questo argomento sul pubblico popolano e la possibilità di ottenere attraverso la paura un comportamento più conforme ai precetti cristiani.
Abbiamo esempi molto precoci (1150-1160) di questa poesia come nei Proverbi di un anonimo autore di area veneta che riprende la diffusa tematica di invettiva contro le donne, considerate fonti di ogni male, capaci di ogni tranello, pronte, come il ragno, ad avvolgere l’uomo nelle loro ragnatele inestricabili.
Altro poeta assai arcaico è il cremonese Girardo Patecchio le cui liriche risalirebbero ai primi anni del XIII secolo che si rifà al genere provenzale dell’enueg[4] (elencazione di cose noiose) adattato alla morale cristiana è si intrattiene soprattutto sui vizi capitali, sulle seccature recate dall’amore e dalle donne (nell’opera Le noie), su ammaestramenti morali desunti dalla Bibbia e dalla letteratura latina (nell’opera L’uno è lo Splanamento de li proverbii de Salomone= Spiegazione dei proverbi di Salomone).
Si ricorda poi Uguccione da Lodi, influenzato dall’eresia patarina, che scrisse un poema epico, Il libro, dove i temi avventurosi sono sostituiti da preghiere, esempi di virtù e di vizi puniti, minacce di pene infernali.Come nota il critico contemporaneo Luigi Russo, l’uomo vi appare “preda del demonio, fin dalla nascita”. Uguccione è ispirato da una fervida volontà di espiazione, che vuol trasmettere ai lettori attraverso l’impeto di immagini terrificanti e concretamente minacciose per chi vive nel peccato.
Inferno e paradiso sono i temi di un poemetto in due parti[5] di Giacomino da Verona, frate minore, De Babylonia civitate infernali e De Jerusalem coelesti: a Giacomino non interessa l’arte ma l’efficacia persuasiva dei suoi versi e quindi si lancia in una colorita sceneggiatura delle due città oltremondane.
Pur confessando l’ineffabilità[6]della materia paradisiaca, il narratore si lancia nella descrizione del paradiso come di una città dalle altissime mura, tutte incrostate di pietre preziose, percorsa da fiumi luminosi e pervasa di soavi profumi, abitata dalle schiere degli angeli e dei beati tutti attorno a Dio Padre, a Cristo e alla Madonna.
Il De Jerusalem si chiude con l’invocazio­ne alla Vergine perché l’autore ottenga la grazia della salvezza eterna: con una dichiarazione di fede mariana che è caratteristica di tutta questa letteratura settentrionale.
Più colorita ed ingenua è la narrazione delle pene infernali, con diavoli orribili che in un inferno-cucina fanno arrostire come porci i dannati che urlano e vengono bastonati, il tutto avvolto nelle tenebre e in presenza di una puzza raccapricciante.
Manca in Giacomino la descrizione del Purgatorio e ciò è stato inteso come un segno, rinvenibile in tutti i poeti settentrionali, di collusione con l’eresia paterina, o valdese[7]; ma questa interpretazione non sembra corretta: Giacomino non si interessa del Purgatorio perché a lui interessa soltanto la destinazione finale delle anime ed inoltre è fornito di una scarsa capacità di elaborazione teologica; ci penserà Dante ad approfondire l’argomen­to attraverso la mediazione della sofisticata filosofia tomistica[8].
Il linguaggio del poemetto è rozzo, le rappresentazioni sono impregnate di elementi corporei, proprio per richiamare con immediata evidenza gli aspetti concreti del mondo terreno. L’argomento dell’opera, vivace e non priva di una sua forza di suggestione, ha fatto pensare che Giacomino potesse essere stato una delle fonti dantesche.
Bonvesin Della Riva è la personalità milanese di maggior spicco tra questi poeti e moralisti “lombardi” ed anche nell’ambito della letteratura profana: nato a Milano proprio “sulla riva” del naviglio di Porta Ticinese attorno al 1240 (1250?), si fece una buona cultura letteraria e divenne uno dei più apprezzati maestri di grammatica prima di Legnano e poi di Milano, esercitando la professione di insegnante privato, con molti scolari non tutti molto solleciti a pagargli le lezioni se è vero che, nel suo De vita scholastica[9], non mancano paragrafi dedicati al dovere che gli allievi hanno, tra gli altri, di pagare i propri maestri.
Bonvesin appartenne come terziario all’ordine laico degli Umiliati[10], si sposò due volte e due volte rimase vedovo, si distinse per la sua carità e quando morì, verso il 1313 (o 1315?), lasciò suoi eredi i poveri, affidando i suoi libri ai frati di un ospedale milanese.
Alla dottrina Bonvesin aggiunge una grande perizia stilistica, come dimostra la sua abbondante produzione poetica in volgare[11], che comprende:
a) rime didattiche sul ben comportarsi a tavola[12]o sull’ele­mosina agli ospedali;
b) disputationes (“contrasti”) di argomento morale (ad es. Contrasto della Vergine e di Satana; Contrasto tra l’anima ed il corpo) o profano (ad es. la disputa tra la rosa e la viola in cui la superba e avara rosa è opposta all’umile  viola, simbolo delle virtù cristiane della  modestia e della moderazione);
c) le Laudes Virginae Mariae: cinque poemetti che narrano con intento edificante altrettanti miracoli della Madonna.
Tra le opere in lingua latina, a parte il De Vita scholastica già citata, troviamouna rielaborazione dei Disticha (sentenze morali) di Catone ed e il De magnalibus urbis Mediolani (Le meraviglie di Milano del 1288), una descrizione elogiativa in cui Bonvesin coltiva il sogno di una vita comunale attiva e pacifica e svolge anche una ricerca storica ed urbanistica sulla Milano del XIII secolo.
Ma va ricordato soprattutto il Libro delle tre scritture[13] che più avvicina il Bonvesin ai moralisti della Padania, trattando­si di un poemetto dedicato ai regni oltremondani dell’In­ferno (Scrittura negra) e del Paradiso (Scrittu­ra dorata), oltreché alla passione di Cristo (Scrittura rossa).
Nella prima parte Bonvesin si sofferma sui dodici diversi castighi che affliggono i dannati, ricercando una corrispondenza tra il peccato e la pena: i golosi, ad esempio, sono condannati a provare in eterno il tormento della fame e della sete, mentre i violenti subiscono la ferocia dei diavoli che infieriscono sulle loro membra dilaniandole.
Nella Scrittura dorata invece descrive le dodici beatitudini del Paradiso, trasferendo ed estremizzando nella città celeste ciò che nella vita terrena è fonte di bellezza e di piacere: così per descrivere il pane spirituale di cui si nutrono i beati, Bonvesin raffigura una ricca tavola imbandita con cibi prelibati e vini delicati.
Anche in Bonvesin manca il Purgatorio[14], ma per lui valgono le stesse ragioni già espresse per gli altri poeti settentrionali: in questo precursore meno degli altri rozzo e semplicistico della Commedia dantesca si bada al destino finale dell’uomo e si cerca di influenzare un pubblico popolano con la rappresentazione delle pene e delle delizie eterne.

                                                                                                                                                          Carlo Calcagno


[1]L’area padano-veneta è caratterizzata, già negli ultimi decenni del XII secolo, da una considerevole penetrazione dei modelli occitanici e delle tematiche cortesi. Compongono liriche in provenzale il bolognese Rambertino Bulavelli (morto nel 1221), il mantovano Sordello (1200 ca.-1269), i genovesi Lanfranco Cigala e Bonifazio Calvo, il veneziano Bartolomeo Zorzi.
[2]Nella metrica medievale la lassa è una strofa composta da un numero variabile di versi monorimi (appunto lassa monorima), cioè con la stessa rima, o legati da un’assonanza; è il raggruppa­mento tipico della poesia epica medievale francese (Chanson de geste). Nella metrica italiana otto-novecentesaca ripresero la lassa alcuni poeti come Pascoli e D’Annunzio. Il secondo utilizzò lasse di dodecasillabi (quinario più settenario) o di endecasilla­bi.
[3]L’uso cioè delle coordinate e non delle subordinate.
[4]Si contrappone al plazer, ossia all’elencazione di cose piacevoli.
[5]Ispirati dall’Apocalisse di San Giovanni e dalla letteratura francescana
[6]Cioè l’impossibilità di descrivere pienamente con le parole.
[7]I Valdesi, fondati nel 1176 da Valdes, un commerciante di Lione avevano cercato di riformare la Chiesa (in particolare non tolleravano le ricchezze del clero) insieme ai Catari (o Albigesi) ma erano caduti ben presto nell’eresia, divenendo al principio del XIII secolo un vero pericolo per la Chiesa stessa ed il regno cattolico di Francia.
[8]Si tenga inoltre conto del fatto che il Purgatorio entrerà a far parte della ufficialmente della dottrina della Chiesa solo tra il 1254 (Innocenzo IV scrive una lettera su questo tema) ed il 1274 (il Concilio di Lione).
[9]Poemetto in due libri, il primo sui doveri degli scolari, il secondo sui doveri degli insegnanti.
[10]Una congregazione di laici e religiosi percorsa da forti spinte egalitaristiche e spesso in sospetto di eresia.
[11]La lingua utilizzata è il milanese con qualche apertura ad altre parlate dell’area lombarda; il dialetto è tuttavia imprezio­sito da numerosi inserti latini e francesi. Il metro utilizzato è quello della lassa alessandrina monorima.
[12]Si tratta del De quinquaginta curialitatibus ad mensam (Cinquanta cortesie a mensa), un trattato composto in età giovanile e probilmente rivolto agli scolari figli dei borghesi cittadini che Bonvesin dichiara di voler educare alla “cortesia”.
[13]I poemetti che lo compongono sono in quartine monorime.
[14] O meglio il  passaggio tra Inferno e Paradiso è dato dal collegamento con la passione di Cristo che, con la sua morte, riapre agli uomini la via per la salvezza.

La Scuola dei poeti toscani (Seconda parte)

 

 
                                                                                  

S. Re-L. Simoni. L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001

R. Luperini-P. Cataldi-L. Marchiani-F. Marchese. La scrittura e l’interpretazione. Dalle origini al manierismo. Volume primo. Palumbo editore. Firenze. 2000.
AA. VV., La letteratura italiana in Cd-Rom, G. D’Anna editore- La repubblica Edizioni. Milano. 1999.
S. Guglielmino-H. Grosser. Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994
E. Gioanola, Storia della Letteratura italiana. Dalle origini ai giorni nostri. Librex editore, Milano, 1992.
A. Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento, Giuseppe Principato editore. Messina-Milano, 1937.
C.A.Calcagno, La scuola dei poeti toscani, in I grandi classici della poesia italiana, Duecento, p. 90 e ss., Bottega d’arte di Penna d’Autore, 2006, Torino.
P. Renucci, Guittone d’Arezzo e i cavalieri gaudenti, in Storia d’Italia, vol. III, Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII. Il pensiero, l’arte, la letteratura, Einaudi, 1974, Torino.

Con tutto ciò è indubbio che la maggior figura poetica prima di Dante non è quella di un fiorentino, ma di un aretino, Guittone del Viva (vissuto all’incirca tra il 1235 e il 1294)[1].   Secondo il Renucci è <<il solo autore toscano di cui si sia certi che abbia sperimentato l’arte di scrivere in volgare  sia in prosa, sia in versi>>.
Guittone introduce nella tradizione ormai lunghissima e stanca della poesia siculo-provenzale un’ardua tematica politico-religioso-morale che rompe gli argini della stilizzazione precedente.
Come annota il De Sanctis e concorda il Momigliano <<In Guittone senti è notabile questo: che nel poeta senti l’uomo: quella forma aspra e rozza ha pure una fisionomia originale e caratteristica, una elevatezza morale, una certa energia d’espressione>>.
Guittone apparteneva ad una numerosa famiglia aretina e il padre, Viva di Michele,  era stato anche camerlengo (tesoriere) del comune ai tempi della massima fioritura della città.
Egli trascorse un lungo periodo impegnato in una serie di viaggi, compiuti forse per ragioni di commercio, e in incarichi sostenuti per coadiuvare il padre nel suo ufficio.
Di fronte alle lotte che si scatenano tra le fazioni, Guittone, schieratosi tra i Guelfi conservatori, sceglie nel 1256 volontariamente l’esilio fuori della Toscana, entrando nel 1265 (anno in cui nasce Dante) nell’ordine dei Milites Beatae Virginis Mariae[2], che furono detti “frati gaudenti”, il cui impegno era quello della pacificazione delle parti in lotta nei comuni e tra i comuni[3].
La conversione religiosa del poeta è anche conversione letteraria. Guittone era stato poeta dell’amor cortese siculo-provenzale[4]; muovendosi nella consueta tematica dell’innamoramento alla vista della donna, dell’esaltazione sentimentale delle sofferenze amorose e così via, ora sente che quel potere irresistibile dell’amore che annichili­sce l’innamorato è follia e immoralità.
Di qui la sua decisione di abbandonare la tematica amorosa sostituendola con quella politico-morale, con adozione privilegiata della canzone[5]come metro atto a veicolare una tematica alta e solenne, di stile “tragico” (del poeta rimangono 50 canzoni, oltre a 24 sonetti e per lo più amorosi e ad 8 epistole metriche)[6].
Il passaggio da una tematica all’altra era già previsto nella poetica provenzale, specialmente con il metro della canzone: ma Guittone accentua tale viatico, facendo della conversione il momento culminante di una vicenda esemplare e offrendo in questo modo uno schema organico di “canzoniere” che sarà adottato dallo stesso Dante e Petrarca.
Le sue rime sono ardue e complesse perché il poeta ricorre volutamente ad un “ornato difficile” per innalzare il tono poetico.
Uno dei primi esempi di questo tipo di poetica è offerto dalla celebre canzone Ahi lasso, or è stagion de doler tanto, scritta da un guelfo (e quindi con un approccio di parte) per la sconfitta dei Guelfi a Montaperti che vide vittoriosi i senesi[7], alleati ai Ghibellini esiliati da Firenze e guidati da Farinata degli Uberti[8].

Guittone d’Arezzo
Ahi lasso, or è stagion de doler tanto[9]

I[10]
Ahi lasso, or è stagion de doler tanto
a ciascun om che ben ama Ragione,
ch’eo meraviglio u’ trova guerigione,
ca morto no l’ha già corrotto e pianto[11]
,
vedendo l’alta Fior[12] sempre granata
e l’onorato antico uso romano[13]
ch’a certo pèr, crudel forte villano,
s’avaccio ella no è ricoverata:
ché l’onorata sua ricca grandezza
e ’l pregio quasi è già tutto perito
e lo valor e ’l poder si desvia.
Oh lasso, or quale dia
fu mai tanto crudel dannaggio audito?
Deo, com’hailo sofrito,
deritto pèra e torto entri ’n altezza?

II[14]
Altezza tanta êlla sfiorata Fiore
fo, mentre ver’ se stessa era leale,
che ritenea modo imperïale,
acquistando per suo alto valore
provinci’ e terre, press’o lunge, mante;
e sembrava che far volesse impero
sì como Roma già fece, e leggero
li era, c’alcun no i potea star avante.
E ciò li stava ben certo a ragione,
ché non se ne penava per pro tanto,
como per ritener giustizi’ e poso;
e poi folli amoroso
de fare ciò, si trasse avante tanto,
ch’al mondo no ha canto
u’ non sonasse il pregio del Leone[15]
.

III[16]
Leone, lasso, or no è, ch’eo li veo
tratto l’onghie e li denti e lo valore,
e ’l gran lignaggio suo mort’a dolore,
ed en crudel pregio[n] mis’ a gran reo.
E ciò li ha fatto chi? Quelli[17]
che sono
de la schiatta gentil sua stratti e nati[18],
che fun per lui cresciuti e avanzati
sovra tutti altri, e collocati a bono;
e per la grande altezza ove li mise
ennantir sì, che ’l piagâr quasi a morte;
ma Deo di guerigion feceli dono[19],
ed el fe’ lor perdono;
e anche el refedier poi, ma fu forte
e perdonò lor morte:
or hanno lui e soie membre conquise[20].

IV[21]
Conquis’è l’alto Comun fiorentino,
e col senese in tal modo ha cangiato,
che tutta l’onta e ’l danno che dato
li ha sempre, como sa ciascun latino,
li rende, e i tolle il pro e l’onor tutto:
ché Montalcino av’abattuto a forza,
Montepulciano miso en sua forza,
e de Maremma ha la cervia[22]
e ’l frutto;
Sangimignan, Pog[g]iboniz’ e Colle
e Volterra e ’l paiese a suo tene[23];
e la campana, le ’nsegne e li arnesi[24]
e li onor tutti presi
ave con ciò che seco avea di bene.
E tutto ciò li avene
per quella schiatta che più ch’altra è folle.
V[25]

Foll’è chi fugge il suo prode e cher danno,
e l’onor suo fa che vergogna i torna,
e di bona libertà, ove soggiorna
a gran piacer, s’aduce a suo gran danno
sotto signoria fella e malvagia,
e suo signor fa suo grand’ enemico.
A voi che siete ora in Fiorenza dico,
che ciò ch’è divenuto, par, v’adagia;
e poi che li Alamanni[26]
in casa avete,
servite i bene, e faitevo mostrare
le spade lor, con che v’han fesso i visi,
padri e figliuoli aucisi;
e piacemi che lor dobiate dare,
perch’ebber en ciò fare
fatica assai, de vostre gran monete.
VI[27]

Monete mante e gran gioi’ presentate
ai Conti e a li Uberti e alli altri tutti[28]

ch’a tanto grande onor v’hano condutti,
che miso v’hano Sena in podestate;
Pistoia e Colle e Volterra[29] fanno ora
guardar vostre castella a loro spese[30];
e ’l Conte Rosso ha Maremma e ’l paiese,
Montalcin sta sigur senza le mura;
de Ripafratta[31] temor ha ’l pisano,
e ’l perogin che ’l lago no i tolliate,
e Roma vol con voi far compagnia.
Onor e segnoria
adunque par e che ben tutto abbiate:
ciò che desïavate
potete far, cioè re del toscano.
Baron lombardi e romani e pugliesi
e toschi e romagnuoli e marchigiani,
Fiorenza, fior che sempre rinovella,
a sua corte v’apella,
che fare vol de sé rei dei Toscani,
dapoi che li Alamani
ave conquisi per forza e i Senesi.

I
Ahi misero, ora è il momento di addolorarsi assai
per chiunque ami la ragione,
che mi sorprendo si trovi salvezza
per chi non è stato già ucciso dal pianto e dal lamento,
vedendo l’alta Firenze sempre potente
e l’onorato antico costume romano
certamente perire; crudeltà grave e vergognosa
se al più presto non sarà soccorsa:
perché il suo onore, la sua fastosa grandezza
e la sua potenza sono quasi del tutto morti
ed il suo valore ed il suo potere cambiano strada.
Ohi misero, o in quale giorno
 fu mai udita una sciagura tanto grave?
Dio, come hai potuto sopportare
Che perisca il diritto e si innalzi l’arbitrio?

II
Tanta nobiltà nella sfiorita Firenze
ci fu, finché fu leale verso di sé,
che manteneva il suo prestigio di città imperiale,
acquistando per il suo alto valore,
molte province, terre, vicine e lontane,
e dava l’impressione di voler fare un impero
così come aveva già fatto Roma, e gli era facile,
perché non c’era alcuno che potesse sopravanzarla.
E ciò gli spettava di diritto,
perché non si affannava per se stessa,
ma per mantenere giustizia e pace;
e poiché le piacque ciò,
si portò tanto avanti,
che al mondo non c’è luogo
dove non risuonasse la fama del Leone.

III
Leone, misero, ora non lo è più, perché vedo che gli
hanno strappato le unghie, i denti ed il prestigio
e (vedo)  la sua nobile stirpe morire di dolore,
e (lo vedo) posto in una crudele prigione con grave colpa.
E chi gli ha fatto ciò? Coloro che sono
nati dalla sua nobile stirpe,
che furono per suo merito resi grandi e potenti
più di tutti, e collocati in una posizione di prestigio;
e per la importante posizione che acquisirono
insuperbirono così, tanto che lo ferirono quasi a morte;
ma Dio concesse al Leone la pace,
ed egli li perdonò;
e poi lo ferirono ancora una volta, ma fu forte
e li perdonò di averla colpita a morte:
ora lo hanno conquistato insieme alle sue membra.  

IV
È stato conquistato l’alto Comune fiorentino,
ed ha cambiato la sua posizione nei confronti di Siena,
in modo tale che tutte le offese e il disonore che Firenze ha sempre dato a Siena, come tutti gli italiani sanno, (Siena)  li restituisce a Firenze, e gli toglie tutti i vantaggi e gli onori; perché ha espugnato con violenza Montalcino, ha conquistato Montepulciano, ed incamera i tributi della Maremma;
(Siena) tiene in suo potere Sangimignano, Poggibonsi, Colle Val d’Elsa e Volterra ed il contado;
e la campana (Martinella), le insegne e gli strumenti e gli arredi della guerra sono stati tutti strappati
insieme a ciò che (Firenze) portava con sé di più prezioso.
E tutto ciò accadde
Per colpa di quella genia che è più pazza delle altre[32].
V

È folle chi evita il proprio vantaggio e cerca il danno,
e fa in modo che il suo onore si trasformi in vergogna,
e da una certa libertà, nella quale dimora con gran piacere, si sottomette con suo grave danno
ad una signoria perfida e malvagia,
e rende suo dominatore il suo grande nemico.
A voi che abitate ora in Firenze dico
che ciò che è accaduto sembra farvi piacere;
e poi che avete in casa i Tedeschi,
serviteli bene, e fatevi mostrare
le loro spade, con le quali vi hanno ferito i visi,
ucciso i padri ed i figli;
e mi fa piacere che dobbiate pagare loro un forte tributo,
perché dovettero fare
una gran fatica, per guadagnarsi le vostre monete.   
VI

Molte monete e gioielli preziosi offrite
Ai conti Guidi e agli Uberti e a tutti gli altri
che vi hanno portato a tanto onore,
che vi hanno sottoposto alla dominazione di Siena;
Pistoia e Colle Val d’Elsa e Volterra fanno ora guardare i vostri castelli a loro spese;
e il Conte Rosso domina la Maremma ed il paese di Montalcino può stare sicuro senza la cinta muraria;
il castello di Ripafratta non ha timore dei pisani
e i perugini non temono di perdere il lago Trasimeno,
e Roma vuol essere vostra alleata.
Or dunque pare che abbiate tutto, onore, ricchezza e dominio:
ciò che desideravate
potete realizzare, cioè diventare signori della Toscana.
Baroni lombardi, romani, pugliesi,
toscani, romagnoli, marchigiani,
Firenze, fiore che sempre rinasce,
vi chiama alla sua corte,
in quanto si vuol fare re della Toscana,
dopo che i Tedeschi ed i Senesi
ha sconfitto con le armi.



[1]Chiaro Davanzati, che pure riprende essenzialmente l’esperienza siciliana e occitanica, con predilezione per i temi dell’infelicità d’amore, si rifà infatti a Guittone, e ancora più ne risente Monte Andrea.
[2]Quest’ordine, detto dei “frati gaudenti” per la rilassatezza di costumi assunta dai suoi cavalieri, fu preso molto sul serio da Guittone, come rivelano le sue sentenziose e moralistiche Lettere (ne sono pervenute 36), la cui importanza sta nel fatto che rappresentano il primo epistolario scritto in volgare con propositi letterari (in esse Guittone tenta di riprodurre il ritmo del periodo latino).
[3]Ma anche la difesa delle donne e dei fanciulli, dei poveri in nome della Vergine Maria: era una specie di ordine cavalleresco legato però alla realtà comunale.
[4]In questa produzione già si nota un certo moralismo e un funanbolico esibizionismo lessicale e strutturale.
[5]La canzone è formata da un numero variabile di strofe o stanze (5 o 7 per lo più). Ogni stanza comprende due parti: la prima parte detta fronte, è divisa in due piedi con uguale numero di versi e tipo di rime; la seconda parte detta coda o sìrima, può rimanere indivisa (come nelle canzoni del Petrarca), o può dividersi in due parti dette volte. Spesso la canzone è chiusa da un congedo o commiato, consistente in una stanza più breve con la struttura metrica ripresa dalla coda. I versi della canzone sono generalmente endecasillabi o settenari; le rime possono essere disposte in vario modo, ma è di regola che il primo verso della coda, detto diesi, rimi con l’ultimo della fronte.
 [6]Il suo linguaggio tuttavia rimane spesso aspro e disarmonico perché in esso si mescolano espressioni dialettali a sugge­stio­ni colte, latine, siciliane, provenzali; non aggrada inoltre il gusto moderno la cosiddetta replicacio (usatissima sia dai Provenzali sia dai Siciliani) cioè la ripetizione di parole, e certi giochi di parole che sembrano un compiacimento di enigmista, perfettamente in linea però con il trobar clus provenzale e quindi con il gusto del tempo.
[7]Per evitare questa battaglia si operò inutilmente un altro grande letterato, Brunetto Latini. Vi partecipò anche Cavalcante Cavalcanti, il padre di Guido Cavalcanti (forse il più importante poeta del dolce stil novo) coprotagonista del canto X dell’Inferno, nel quale Dante ci descrive mirabilmente appunto il condottiero delle forze vincitrici, Farinata degli Uberti. 
[8]Questa battaglia è uno spunto per dar vita ad un’orazione morale il cui tema di fondo è la corruzione e la malizia dei tempi, a cui viene contrap­posta un’antica grandezza simboleggiata da Roma antica e dalla Firenze prima delle guerra civile, che avrebbe potuto diventare la nuova Roma.
Si tratta, in questa canzone come nelle altre, di una poesia moralistico-oratoria che ha bensì per tema la politica presente, ma che tende ad innalzarsi ad una visione ideale e profetica, rivolgendosi al passato come modello per un futuro diverso.
In questo senso la poesia guittoniana rappresenta una tappa ineludibile sulla strada, che sarà percorsa genialmente da Dante,delle grandi canzoni della “rettitudine”,  in altre parole di esaltazione della virtù.
[9]Si tratta di una canzone formata da sei stanze di due piedi ed una fronte (ABBA CDDC EFGGFFE) oltre al congedo. Ogni strofa ha la particolarità di iniziare con il termine con cui finisce la strofa precedente (coblas capofinidas).
[10]Non può che piangere un uomo che ragioni a veder certamente la fine di Firenze paragonabile all’antica Roma per potere, onore e prestigio.
[11]Dittologia sinonimica.
[12]Allegoria.
[13]I fiorentini si consideravano eredi dell’antica Roma, in quanto i Romani avrebbero fondato Fiesole.
[14]Finché Firenze fu leale verso se stessa conquistò molte città e dimostrò la sua qualità di città municipale; e ciò perché aveva funzione di mantenimento della pace e della giustizia e questa funzione gli era riconosciuta da tutto il mondo.
[15]Nello stemma araldico di Firenze era raffigurato un leone che teneva tra gli artigli un giglio.
[16]Ormai Firenze è un leone a cui hanno strappato denti, forza, valore e nobiltà ed è stato imprigionato; e tutto ciò è stato realizzato dai Ghibellini di Firenze che insuperbirono tanto da ferirla a morte due volte.
[17]Con questa perifrasi Guittone indica appunto i Ghibellini.
[18]Metafora.
[19]Nel 1258.
[20]Si tratta della battaglia di Montaperti del 1260.
[21]Siena è divenuta padrona di Firenze e le ha restituito tutto il danno che quest’ultima le aveva recato in passato. Siena ha conquistato Montepulciano, Montalcino, San Gimignano, Poggibonsi, Colle Val D’Elsa, Volterra e tutti i loro beni, per colpa di quella stirpe (i Ghibellini) che è folle più di ogni altra. 
[22]La cerva era il simbolo del tributo che i signori fiorentini avevano imposto a quelli di Santa Fiora della Maremma.
[23]Tutti questi comuni dopo la battaglia di Montaperti erano passati da Firenze a Siena.
[24]Si tratta della campana che i Fiorentini portavano in battaglia e degli altri simboli e strumenti della guerra. Dal punto di vista sintattico Guittone ci propone dei polinomi.
[25]Folle è chi rifugge i vantaggi, cerca i danni e fa che l’onore suo si trasformi in vergogna e rinuncia alla libertà per sottoporsi ad una signoria malvagia. E stranamente ai Fiorentini questa condizione sembra stare bene come il fatto di essere dominati dagli Svevi che avendo sopportato una grande fatica devono essere ben remunerati.
[26]Le truppe al seguito di Manfredi.
[27]E allora donate tutte le vostre ricchezze ai Ghibellini; le loro città guardano ora a loro spese i vostri castelli; nessuno, in realtà,  può dirsi più sicuro ora che comanda Siena.
In questa strofa il dolore di Guittone viene soverchiato dal sarcasmo.
[28]Si tratta delle famiglie ghibelline più famose in Toscana.
[29]Con la battaglia di Montaperti sono passate a Siena.
[30]Naturalmente Guittone vuole intendere qui il contrario di ciò che scrive, come in tutte le affermazioni che seguono.
[31]In precedenza strappato dai fiorentini ai pisani.
[32]Lo spirito partigiano è forse in questi versi un po’ troppo accentuato.

La Scuola dei poeti toscani (Prima parte)

Ponte vecchio

S. Re-L. Simoni. L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001

R. Luperini-P. Cataldi-L. Marchiani-F. Marchese. La scrittura e l’interpretazione. Dalle origini al manierismo. Volume primo. Palumbo editore. Firenze. 2000.
AA. VV., La letteratura italiana in Cd-Rom, G. D’Anna editore- La repubblica Edizioni. Milano. 1999.
S. Guglielmino-H. Grosser. Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994
E. Gioanola, Storia della Letteratura italiana. Dalle origini ai giorni nostri. Librex editore, Milano, 1992.
A. Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento, Giuseppe Principato editore. Messina-Milano, 1937.
C.A.Calcagno, La scuola dei poeti toscani, in I grandi classici della poesia italiana, Duecento, p. 90 e ss., Bottega d’arte di Penna d’Autore, 2006, Torino.
P. Renucci, Guittone d’Arezzo e i cavalieri gaudenti, in Storia d’Italia, vol. III, Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII. Il pensiero, l’arte, la letteratura, Einaudi, 1974, Torino.
            Prestissimo i canzonieri manoscritti della poesia siciliana cominciarono a circolare in Toscana, forse anche prima della morte di Federico II.
            Copisti e poeti locali contribuirono gradualmente, con molte incertezze e differenze tra un luogo e l’altro, a trapiantare nel volgare toscano le rime provenienti dalla Magna Curia[1]: del resto alla Corte di Federico II erano certamente presenti rimatori toscani che già univano il volgare toscano a quello siciliano[2].
            Infatti i codici che ci hanno trasmesse le rime dei siciliani[3], hanno pure conservato le liriche dei poeti lucchesi, senesi, fiorentini, aretini e pisani, detti appunto siculo-toscani, che sono stati tramite del passaggio della poesia sicula in Toscana.
            In questa regione però detta poesia si infarcisce delle parole dei singoli vernacoli[4] ed è proprio questo “imbastardimento” che preparerà la strada a quel linguaggio che poi Dante andrà ad utilizzare così bene. 
            La poesia toscana[5] è inoltre un portato comunale e quindi della borghesia che cerca di soppiantare la nobiltà con uomini[6] e cultura propria: perciò pur conti­nuando a coltivare la tematica dell’amor cortese, sviluppa sempre più l’afferma­zione che cortesia e nobiltà non sono eredità di sangue e di stirpe, ma conquista individuale[7].
             Inoltre i poeti toscani continuano quel processo di spiritualiz­za­zione dell’amore e di moralizzazione, per cui esso diventa spinta alla conquista della virtù non cavalleresca quanto decisamente morale.
            I poeti toscani della poesia siciliana sembrano prediligere la forma facile e cantabile della canzonetta[8], con innesti spesso efficaci di modi popolari e borghesi: in questo ambito viene accolto il tipo metrico della ballata (o canzone a ballo)[9], non usata dai siciliani ma dai provenzali.
            In questo tipo di poesia facile (trobar leu = poetare chiaro) si distingue particolar­mente Bonagiunta Orbicciani[10], notaio in Lucca, attivo intorno al 1250, ammiratore di Jacopo da Lentini, di cui imita la casistica della nascita e degli effetti del sentimento d’amore, con predilezione per le note psicologiche dell’oppressione amorosa, sentita però sempre, con anticipazioni stilnovistiche, come esperienza privile­giata ed esclusiva.  
            I rimatori toscani sembrano rifarsi alla poesia occitanica anche introducendo frequenti paragoni col mondo animale, secondo il “bestiario” adottato dai provenzali, e insistendo sul tema della primavera e del giardino delizioso.
            Particolare attenzione merita la produzione dei poeti fiorentini, dal momento che è proprio qui che si sta preparando il terreno per la stagione stilnovistica e dantesca; si fa riferimento alla cosiddetta “poesia di transizione” e a poeti come Chiaro Davanzati[11], Monte Andrea e Compiuta Donzella[12], prima poetessa della letteratura italiana.
            È anche da citare Ciacco dell’Anguillaia la cui famosa “villanella” deve essere riportata ai <<contrasti>> ossia ai dialoghi della scuola siciliana.


[1]Che era peraltro una corte “mobile”. Il che significa che l’influenza politica e culturale della scuola è più evidente nei luoghi toccati da Federico II.  
[2] Il Contini rileva in questo senso che il termine di Siciliani vale ad individuare i rimatori che appartennero alla corte di Federico II o le gravitarono intorno.
[3] Trovano posto nella più estesa e organica silloge sulle nostre origini che è il Canzoniere vat. 3793(=A). Detto canzoniere è diviso in fascicoli: dal IV al XII accanto a liriche d’autore anonimo trovano posto le composizioni di Ruggeri Apugliese (giullare senese), del pisano Galletto, di Mazzeo, di Re Enzo, di Percivalle Doria di Genova, di Paganino da Serzana, di Campagnetto da Prato, di Messer Osmano, di Neri de’ Visdomini (poeta fiorentino), di Neri Poponi,(poeta fiorentino) di Don arrigo (di Castiglia) e di Messer Folco di Calavra.
[4]  Per questa “contaminazione” lo stesso Dante muoverà accuse a Guittone.
[5] Una disamina di questa poesia (detta municipale) in contrapposizione a quella della Magna curia (elaborata da doctores illustres) è fatta da Dante nel primo libro del De Vulgari Eloquentia.
[6]I reggitori e burocrati del Comune.
[7] Questo era un motivo già evidente nella poesia provenzale, ma veniva esposto in forma astrattamente accademica e speculativa.
[8] Componimento poetico del XIII secolo dall’andamento piano e dimesso e dal tono volutamente un po’ popolare, composto di versi vari, più frequente­mente brevi (settenari ed ottonari), con inserimento di versi tronchi e sdruccioli.
[9] Componimento d’origine provenzale e di ispirazione lirica, legato in origine al canto e alla danza: giunge in Italia attorno al XIII secolo; da principio lo schema era vario ed indeterminato; era formata da una o più strofe, dette stanze, e da un ritornello, detto ripresa, che veniva cantato all’inizio della ballata e poi ripetuto dopo ogni stanza; con gli stilnovisti in seguito si preciserà meglio e si dividerà in una strofa introduttiva (appunto il ritornello o ripresa) seguita da una stanza divisa a sua volta in due piedi (che hanno un eguale numero di versi e di rime) e una volta (parte della stanza che ha struttura analoga a quella del ritornello). I versi più comunemente usati nella ballata sono endecasillabi misti a settenari; le rime possono essere disposte in vario modo, ma è regola che l’ultimo verso della volta rimi con l’ultimo verso della ripresa.
[10] Incontrato da Dante nella sesta cornice del Purgatorio, in cui dimorano i golosi, riconosce i limiti della propria poesia e di quei poeti che non giunsero a far poesia nei nuovi modi del “dolce stil novo”. Dante attraverso questo poeta vuole insegnarci che senza ispirazione non ci può essere poesia.
[11] Rimatore fiorentino (seconda metà del XIII sec. e per il Momigliano morto prima del 1280). Ebbe rapporti letterari con Guittone d’Arezzo. Scrisse d’amore e fu un estremo rielaboratore di temi e modi tradizionali. Di lui si ricorda anche un sirventese (poesia narrativa di avvenimenti contemporanei) sulla sconfitta dei Guelfi nel 1260 a Montaperti (argomento come diremo anche della più famosa opera di Guittone). 
[12] Nome con cui è indicata una rimatrice fiorentina (XIII sec.) la cui esistenza storica, a lungo messa in dubbio, si tende ora ad ammettere: nulla però si sa di lei. I codici ne conservano tre aggraziati sonetti. Il più interessante è da considerarsi <<Alla stagion che il mondo foglia e flora>>.
Alla stagion che il mondo foglia e flora,
accresce gioia a tutti i fini amanti:
vanno insieme ali giardini allora
che gli augelletti fanno nuovi canti:
la franca gente tutta s’innamora,
ed in servir ciascun traggesi innanti,
ad ogni damigella in gioi’ dimora,
a me n’abbondan marrimenti e pianti.
Ché lo mio padre m’ha messa in errore,
e tienemi sovente in forte doglia:
donar mi vole, a mia forza, signore.
Ed io di ciò non ho disio né voglia,
e in gran tormento vivo a tutte l’ore:
però non mi rallegra fior né foglia.
In merito a questo sonetto il Momigliano scrive:<<Dei suoi tre sonetti merita d’esser conosciuto almeno questo, che è chiuso con una malinconica grazia fra una ghirlanda di fiori e di foglie! (vv. 1 e 14). L’ultima terzina è di una sobrietà da vero poeta; e tutto il sonetto adombra in poche linee di misurata tristezza il dramma di un’anima raccolta e pensosa>>.

I poeti siciliani

Qui riposa Federico II

S. Re- L. Simoni. L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001

R. Luperini-P. Cataldi-L. Marchiani-F. Marchese. La scrittura e l’interpretazione. Dalle origini al manierismo. Volume primo. Palumbo editore. Firenze. 2000.

AA. VV., La letteratura italiana in Cd-Rom, G. D’Anna editore- La repubblica Edizioni.  Milano. 1999.

S. Guglielmino-H. Grosser. Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994

E. Gioanola, Storia della Letteratura italiana. Dalle origini ai giorni nostri. Librex editore, Milano, 1992.

A. Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento, Giuseppe Principato editore. Messina-Milano, 1937.
C. A. Calcagno, I Poeti Siciliani, in I Grandi Classici della Poesia Italiana, Duecento, A.L.I. Penna d’Autore, Torino, 2006

             

La poesia lirica italiana nasce in Sicilia intorno alla metà del secolo XIII, con un secolo e mezzo di ritardo rispetto alla poesia occitanica, modello ineludibile per i nostri poeti, tutti funziona­ri della Magna Curia (la Corte imperiale di Palermo[1] di Federico II[2] e dei suoi figli Manfredi ed Enzo).

 

            Il grande imperatore promosse ogni forma culturale[3], ma perché nascesse la poesia era necessario il concorso di un autentico talento, quello appunto di Jacopo (Giacomo) da Lentini, protonotario di corte, ossia primo segretario o cancelliere di Corte[4].

            Dal momento che quest’ultimo forse scrisse le sue liriche fra il 1233 e il 1240, si attribuisce a questo periodo l’inizio della scuola dei poeti siciliani.

            Altri poeti vicini o della scuola siciliana tuttavia sono sicuramente da ricordare.  

            Il primo è Cielo d’Alcamo che si ritiene fosse un giullare campano o uno studente siciliano della scuola salernitana (pochissime ed incerte notizie si hanno comunque sul suo conto)[5].

            Secondo una nota dell’umanista Angelo Colucci appartiene a Cielo D’Alcamo il famoso contrasto (dialogo) Rosa fresca aulentissima, ricordato da Dante nel De vulgari eloquentia, scritto in un dialetto meridionale tra il 1231 e il 1250.

            Composto di 32 strofe di cinque versi, pare un testo destinato alla rappresentazione scenica, ed è il dialogo tra un giullare seduttore e una ragazza che, dopo qualche resistenza, finisce per capitolare.

            Segue un modello consueto della letteratura popolare del tempo, ma con una notevole consapevolezza della rappresentazione psicologica.

            Il componimento Rosa fresca aulentissima ch’apari inver’ la state riprende modelli tematici e stilistici già presenti nella letteratura provenzale, che ci testimoniano la familiarità del poeta con la cultura del suo tempo.

            Tuttavia, a differenza di altri, Cielo inserisce nel testo forme e battute proprie del linguaggio popolare, che hanno una forte connotazione realistica. Ciò induce a supporre che con lui sia cambiato, almeno in parte, il pubblico cui l’opera è destinata: non solo uomini di corte, e dunque di cultura, ma anche uditori di ceti più bassi, di fronte ai quali il dialogo può essere cantato o, tra l’altro, sceneggiato.

            L’abilità con cui stile alto e stile umile sono alternati e fusi esclude, tuttavia, che si possa pensare ad un autore “popolare”: siamo di fronte, semmai, ad un accorto uso di modi popolareggianti da parte di un letterato, di un uomo colto che si compiace di sperimentare diverse forme espressive.

            Si deve menzionare ancora Giacomo Pugliese di cui ci resta il canzoniere più nutrito.

            Segue poi Rinaldo d’Aquino: personalità di rilievo, forse parente di San Tommaso. È autore sia di testi in stile elevato, sia di poesie di tono popolaresco come la celebre canzonetta Già mai non mi conforto, o “lamento del crociato“.

            La critica, soprattutto quella romantica, ha attribuito a lungo la presenza di questa vena popolare a una presunta spontaneità del poeta, ma essa appare oggi piuttosto il frutto di una meditata scelta stilistica, che rispetta i canoni retorici del tempo e testimonia la formazione dotta dell’autore.

            Ma ancora si segnala Odo delle Colonne[6], il più vicino ai provenzali.

            In ultimo, ma non ultimo, Pier della Vigna da Capua che si dedicò invece con maestria alla prosa aulica, un genere di discorso tipicamente diplomatico e fu anche autore di pregevoli opere in latino.

            Ma ci furono anche poeti delle regioni settentrionali che ci avvertono che l’attributo siciliano va preso come un semplice riferimento topografico.

            In ogni caso la fioritura della poesia siciliana fu intensa ma breve, essendo già terminata nel 1250, quando Federico morì (anche se di vera e propria fine della scuola siciliana si può parlare solo con la morte di Manfredi nel 1266).

            Federico voleva che i suoi poeti creassero poesia d’amore in volgare siciliano anche perché egli desiderava sganciarsi del tutto dalle influenze ecclesiastiche e pontificie: la corte doveva essere il luogo della gioia oltre che del sapere, centro produttivo di cultura, non soltanto strumento di una concezione del mondo e di un potere trascendenti.

            Lo stesso imperatore ed i figli (Enzo, Federico D’Antiochia, Enrico e Manfredi) furono autori di versi[7], dando per primi l’esempio di quel dilettantismo che caratterizza i poeti siciliani a differenza di quelli provenzali[8]: i primi infatti erano funzionari, notai o magistrati della corte che facevano poesia come attività di ricreazione rispetto alla loro reale attività.

            Per tale motivo i siciliani non sono affatto, in quanto poeti, al servizio di un sovrano, e per questo non trattano mai argomenti politici: della lirica trovadorica cercano e interpretano soltanto il tema amoroso e l’amor cortese.

            La scelta tematica comporta anche una scelta di stile: è una poesia monostilistica, senza concessioni al trobar clus e alle sperimentazioni di vario genere: la mira fondamentale è quella dell’armonia, della perfezione tecnica, della musicalità.

            Si direbbe che questa poesia, scritta per la lettura e non per il canto[9], abbia assorbito in sé le esigenze armoniche della musica, perfettamente equilibrata nella scansione regolare delle quartine e delle terzine.

            Vocaboli e costrutti latini, francesi, provenzali, scelti tra i più raffinati, furono innestati sul tronco del dialetto siciliano e certo giovarono al fine di quell’aulicità di dettata che permise ai testi della Scuola di imporsi, come modelli esemplari di stile, anche in aree culturali lontane: soprattutto in Toscana.

            Anche nella poesia siciliana, come nella poesia trovadorica, l’amore è presentato nella forma idealissima dell’omaggio del poeta alla donna, non più, però, domina nel senso feudale di signora della corte, a cui l’ossequio d’amore è rivolto come da vassallo a padrona, ma signora in senso interiore[10], oggetto altissimo di una mira senti­mentale assoluta, senza riferimenti concreti: per cui si può dire che sia l’Amore stesso[11], più che la donna, il vero argomento di questa poesia.

            Dal momento che questi poeti sono funzionari di alto livello, assimilati per grado e funzioni alla nobiltà di sangue, la tematica amorosa riguarda spesso gli effetti dell’amore sull’animo del soggetto: e sono effetti, appunto, di nobilitazione, di innalzamen­to dell’ani­mo, di accostamento ai privilegi della “virtù”, e della “fortuna” (due termini largamente presenti, di netta anticipazione rispetto allo stilnovismo).

            Siamo anche qui in presenza di una poesia molto stilizzata e convenzionale[12], ma ciò non toglie che questi poeti, a cominciare da Jacopo Da Lentini, danno vita ad una ricca fenomenologia degli effetti amorosi sull’animo, con invenzioni metaforiche di grande efficacia.

            Giacomo Pugliese e Rinaldo D’Aquino hanno però anche tratti di poesia non riconducibili al greve intellettualismo della Scuola e certamente rilevatori di nativa sensibilità alla vita reale.

            Ma l’importanza autentica della scuola siciliana, al di là di ogni giudizio di valore sulla consistenza di questa poesia, sta nell’invenzione di un linguaggio letterario: il volgare passa di colpo dall’uso parlato alla più raffinata organizzazione della scrittura poetica.



Jacopo da Lentini

Amor è uno desio che ven da core[13]

Amor è un[o] desio che ven da core

per abondanza di gran piacimento;

e li occhi in prima genera[n] l’amore

e lo core li dà nutricamento.

 

Ben è alcuna fiata om amatore

senza vedere so ’namoramento,

ma quell’amor che stringe con furore

de la vista de li occhi ha nas[ci]mento:

 

ché li occhi rapresenta[n] a lo core

d’onni cosa che veden bono e rio,

com’è formata natural[e]mente;

 

e lo cor, che di zo è concepitore,

imagina, e [li] piace quel desio:

e questo amore regna tra la gente.

L’amore è un desiderio che proviene dal cuore

per eccesso di piacere;

e sono gli occhi a generarlo

ed il cuore lo nutre.

 

È vero tuttavia che un amante

ama senza vedere l’oggetto del suo innamoramento[14],

ma l’amore che avvince con la stretta della passione

ha origine dalla vista degli occhi:

 

perché gli occhi riportano al cuore

l’immagine d’ogni cosa buona e cattiva,

così come essa è al naturale;

 

e il cuore, che accoglie tale immagine,

la rielabora, e si compiace di quello che è ormai un desiderio:

e le persone sono dominate da questo amore.

 




[1]Punto d’incontro tra civiltà diverse (araba, cristiana, ebraica) e precorritrice del fenomeno, destinato ad avere rigoglioso sviluppo durante il 1400 e il 1500, del mecenatismo, ossia della protezione e dell’incoraggiamento dato dai Signori agli “intellettuali”, e quindi dello sviluppo della cultura.

[2] Imperatore del Sacro Romano Impero e re di Germania.

[3] Si interessò vivamente di filosofia, di diritto, di scienze naturali, di astronomia; inoltre parlò correttamente sette lingue.

[4] Jacopo da Lentini, visse fra il 1210 e il 1260 circa (per alcuno morì fra il 1246 e il 1250), fu notaio imperiale di Catania e poeta considerato da molti il caposcuola del cenacolo poetico siciliano.

Si dice che sia stato l’inventore del sonetto.

Dante ne cita una canzone nel De Vulgari Eloquentia come se egli fosse un caposcuola. 

Lo chiama “‘Il Notaro” per antonomasia e lo considera l’esponente tipico della poesia di corte (Divina Commedia, Pg. XXIV, 56).

I versi del Lentini, pur imbevuti di manierismo cortese, sono pieni di ampiezza espressiva e tematica e nelle liriche amorose esprimono ardore e spontaneità.

Di Jacopo ci restano una quarantina di componimenti: numerose le canzoni, di varia struttura, talora unissonaus, al modo provenzale, cioè con rime costanti.

I suoi temi si raccolgono intorno a un sentimento amoroso pur nella ispirazione di moduli e strutture provenzali (come nel sonetto Meravigliosamente o Amore è un desio che ven da core) ma sa trovare anche personali accenti (si legga in particolare il sonetto Io m’agio posto in core a Dio servire).

[5] Cielo sarebbe il diminutivo di Michele (Celi) mentre Alcamo, che è una cittadina siciliana, indicherebbe la provenienza del poeta.

[6] Rarissime e incerte sono le notizie biografiche. Molto apprezzato nel XIX secolo perché meno legato ai canoni della scuola siciliana più incline ai motivi naturali del canto popolare, mostrò vivacità ritmica nei versi.

[7] Federico coltivò sia la versificazione volgare sia quella latina.

[8] Che erano poeti di mestiere e vivevano come cortigiani del frutto del trobar.

[9] La poesia provenzale, come quella in lingua d’oil, era invece sempre accompagnata dalla musica.

[10] È interessante notare, però, che in Provenza la situazione descritta idealmente nella poesia era davvero simile a quella reale, poiché quella regione era suddivisa in tanti piccoli feudi, ciascuno retto da un Signore, che stabiliva con i suoi fedeli un rapporto di vassallaggio corrispondente a quello che la donna stabiliva nei confronti dei suoi innamorati; ma questo non è il caso della corte di Federico II, assai più centralizzata. Il modello feudale appare qui fittizio: è, più che altro, spunto e terreno per sperimentare nuove forme poetiche, per esercitare e raffinare lo stile; contemporaneamente, offre agli scrittori l’occasione per affermare la propria collocazione di intellettuali che si dedicano all’esercizio letterario per passione, e in tale esercizio mostrano la loro abilità e sapienza. Così essi rivendicano, insomma, il prestigio legato ad una precisa condizione socioculturale.

 [11] Svuotato dell’aura religiosa che esso ebbe in origine ma arricchito di molte implicazioni dottrinali.

[12] La donna ha sempre gli stessi tratti fisici e psicologici: testa bionda, chiaro viso, distaccata alterezza, enigmatica chiusura alla pietanza (pietà) per l’amante.

[13] Si tratta di un sonetto (schema ABAB ABAB CDE CDE) che fa parte di una “tenzone poetica” intervenuta tra il Lentini ed altri due poeti della scuola siciliana. Il tema su cui si dibatte concerne la natura, l’essenza e gli effetti dell’amore. Il Mostacci sostiene che si tratti di un’entità invisibile di cui però il poeta si chiede l’origine. Pier Delle Vigne è d’accordo sulla invisibilità, ma ritiene che l’amore si faccia comunque sentire nel cuore; il Lentini nella lirica qui riportata afferma invece che sia un’esperienza dei sensi e soprattutto visiva: penetra proprio dagli occhi e trova nutrimento nel cuore che rielabora il desiderio fino a che questo non si trasforma in furore e domina l’innamorato con un pensiero fisso. È questo un topos che rimarrà nella poesia lirica fino al Petrarca, ma che poi si ritroverà anche nell’epica (si pensi all’Orlando Furioso dell’Ariosto) e che trova i suoi fondamenti nel notissimo trattato De amore di Andrea Cappellano, ed in particolare nell’asserzione sull’amore: “Si muove per veduta e per grandissimo pensiero di persona ch’abbia altra natura”. 

[14] Qui Lentini cita la tesi del cosiddetto “amore da lontano” che viene portata avanti in modo sublime dal trovatore provenzale Jaufre Raudel (vedasi ad esempio la lirica “Poiché il getto della fonte”).

Sulle origini della lingua e della letteratura italiana (Prima parte)

Valnontey
– S. Re-L. Simoni,  L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001

– Lingua francese,”Microsoft® Encarta® Enciclopedia Online 2009 http://it.encarta.msn.com © 1997-2009 Microsoft Corporation. Tutti i diritti riservati.
– R. Luperini – P. Cataldi – L. Marchiani – F. Marchese, La scrittura e l’interpretazione. Dalle origini al manierismo. Volume primo. Palumbo editore. Firenze. 2000.
– AA. VV., La letteratura italiana in Cd-Rom. G. D’Anna editore- La repubblica Edizioni.  Milano. 1999.
– S. Guglielmino – H. Grosser, Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994
– E. Gioanola, Storia della Letteratura italiana. Dalle origini ai giorni nostri. Librex editore. Milano.1992.
– A. Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento. Giuseppe Principato editore. Messina-Milano. 1937.

La lingua italiana deriva per trasformazione dal latino parlato dal popolo; ma occorre precisare che è il latino parlato a trasformarsi con più duttilità, mentre il latino scritto, quello usato per finalità letterarie e culturali, è di gran lunga più statico, tende, grazie soprattutto all’opera dei chierici, ad autoriprodursi e a cristallizzarsi[1]:ciò è molto importante perché determina il mantenimento di una cultura unitaria in Europa ma nello stesso tempo determina anche l’allontanamento della lingua parlata da quella scritta.

         Nelle varie aree (Italia, Francia, Spagna ecc.) che avevano fatto parte dell’Impero romano e avevano avuto come lingua ufficiale ed imposta il latino, sorgono per una serie di fattori[2] quelle lingue che vengono chiamate neo-latine o romanze[3].
         Per l’Italia bisogna tener conto dell’influsso che esercitano in questa trasformazione del latino parlato le dominazioni dei popoli germanici (i Goti di Teodorico[4], i Longobardi[5], i Franchi che peraltro coltivano anche il latino scritto[6]) nell’area settentrionale e quella degli Arabi soprattut­to in Sicilia[7].
         Tenendo conto della differenza – per così dire, istituzionale – tra la lingua scritta (di destinazione culturale) e lingua parlata (di destinazione pratico-comunicativa) si arriva via via ad una situazione di “bilinguismo”; vale a dire: il popolo, il volgo parla una lingua che è risultato della trasformazione plurisecolare del latino, e che viene appunto detta “volgare”, mentre per le destinazioni ufficiali (editti, liturgia, ecc.) viene usato appunto il latino.
         Ad un certo punto (IX-X sec.) però si ha la chiara consapevolezza sia della distanza che c’è fra latino scritto e volgare sia – e soprattutto – del fatto che il volgare è una lingua “completa” e funzionalmente autosufficiente; e ciò grazie all’apporto dei dotti che ne pongono le regole per l’uso scritto: l’utilizzazione tuttavia inizialmente ha una ragione pratica o religiosa[8], solo in un secondo tempo, come già abbiamo accennato più sopra, nascerà quella che noi chiamiamo letteratura.
         È importante sottolineare come le considerazioni sopradette smentiscano la tesi cara alla critica romantica, secondo cui la nascita delle lingue volgari fu il frutto di un’autonoma e spontanea elaborazione “dal basso”, sorta dal profondo della coscienza popolare senza la mediazione della cultura classica e degli intellettuali di professione: insomma, una specie di slancio vitale che spazzò via una tradizione ormai fiacca e isterilita, sostituendola con forme più libere e pronte ad accogliere la sensibilità di un mondo nuovo.
         Al contrario, la mediazione e il filtraggio ci furono, fino a produrre, soprattutto nell’area romanza, un bilinguismo in cui latino e volgare non si configuravano come opzioni alternative, ma come soluzioni complementari e integrate da utilizzare di volta in volta a seconda dei contesti, dei generi e dei destinatari.
         In questo ordine di idee va collocato il cosiddetto Indovinello veronese risalente ad un giorno imprecisato tra la fine del secolo VIII e del secolo IX: un chierico della cattedrale veronese scrive tre righe sul margine superiore del manoscritto che aveva davanti (un libro liturgico spagnolo).
         La terza riga è una breve formula di invocazione in latino, ma le altre due sono di altro genere e contengono dei versi spiritosi (una specie di indovinello per gli altri monaci), un’analogia tra il lavoro dei campi e quello dello scrittore.
Se pareba boves, alba pratalia araba,
 
(lo scriba) si spingeva davanti i buoi (le dita che reggono la penna), arava un campo bianco (il foglio di pergamena)
albo versorio teneba, et negro (?) semen seminaba 
reggeva un bianco aratro (la penna d’oca), e seminava nero seme (l’inchiostro)
Gratia tibi agimus, potens sempiternus Deus.
ti ringraziamo, potente sempiterno, Dio.
 
I primi due versi dunque contengono caratteristiche che non sono più latine ma rimandano ad un linguaggio della vita di tutti i giorni, un linguaggio <<neolatino>> per la prima volta fissato nella scrittura.
       Il passaggio dal latino all’italiano si nota dalla mancanza di desinenze (il sistema è andato ormai in crisi): albo versorio sta per album versorium; negro sta per nigrum (qui la i latina è sostituita dalla é); sono cadute le desinenze verbali di terza persona singolare, pareba, araba, teneba, seminaba, sostituiscono le forme parebat, arabat ecc.; boves e semen sono forse  latinismi o piuttosto forme neolatine proprie dell’area friulana.

[1] Fenomeno questo che è proprio di tutte le lingue letterarie.
[2] Venir meno dell’autorità centrale, scambi commerciali, contatti o dominazioni straniere.
[3] E il termine sottolinea il ceppo originario; si tratta del portoghese, del ladino, del catalano, del castigliano, del provenzale, del francese d’oil, del sardo e dei volgari italici.
[4] Forse il primo esempio di convergenza tra ideale monastico e vocazione letteraria era stato Aurelio Cassiodoro, discendente di una famiglia dell’antica nobiltà romana colta, che dopo aver servito come ministro a Ravenna il goto Teodorico, aveva abbandona­to la sua carica per ritirarsi nella natia Calabria e dare vita alla comunità di preghiera e di studio del Vivarium; qui Cassiodoro scrisse, fra le altre cose, quelle Istituzioni che costituirono un vero ponte di collegamento tra la cultura classica e quella cristiana medievale, con la spiegazione delle cosiddette “arti liberali” del Trivio e del Quadrivio, fondamento per molti secoli dell’istruzione scolastica. Con Cassiodoro a Ravenna ritroviamo il grande filosofo Severino Boezio che ha scritto il De consolatione philosophiae, uno dei testi più famosi del Medio Evo.
[5] Questo popolo fu progressivamente conquistato da quella civiltà che aveva sopraffatto, accettando in parte la lingua ed il diritto dei latini. A Pavia, capitale del regno, fu addirittura fondata una scuola di grammatica latina, mentre furono stretti i collegamenti con il monastero di Bobbio: presso la Corte di Desiderio operò Paolo Diacono; anche Verona vide fiorire un importante scriptorium presso la sede episcopale.
[6] In ambito culturale Carlo Magno capì l’importanza dell’i­struzio­ne nonostante non fosse, come i suoi conti e funzionari del resto, nemmeno in grado di scrivere correttamente; favorì soprat­tutto la cultura dei religiosi, poiché voleva valersi del clero per incivili­re i popoli barbari dell’impero; negli scriptoria dei monasteri, protetti e arricchiti dall’imperatore, venivano riprodotti testi sacri e profani dell’an­tica Roma, miniati con grande maestria e trascritti nelle nitide lettere latine che si usano ancora oggi. Si tratta della limpida ed elegante scrittura carolina, in sostituzione della brutta ed illeggibile scrittura merovingia. Ma l’imperatore non disdegnò nemmeno l’acculturamento dei laici dal momento che aprì nella stessa sua corte una scuola, detta Accademia palatina, alla quale chiamò dotti da tutta Europa, come il monaco Alcuino, autore di notevoli opere teologiche e poetiche, che diresse l’Accademia predetta; lo storico longobardo Paolo Diacono; il tedesco Eginardo, biografo dell’impe­ratore e molti altri. Sul modello della Palatina sorsero altre scuole presso arcive­scovadi e monasteri, per l’istruzione degli ecclesia­stici e dei laici; l’insegnamento era ordinato nelle sette arti liberali del Trivio (grammatica, retorica, dialettica) e del Quadrivio (aritme­tica, geometria, musica e astronomia).
[7] Ma l’influenza araba attraverso i commerci e i traffici si estende comunque ben al di là dei territori conquistati.
[8] Con il concilio di Tours dell’813 si fa obbligo agli ecclesiastici di rivolgersi ai fedeli nella loro stessa lingua.

La letteratura della Francia romanza (Ultima parte)


Castello valdostano
 – S. Re-L. Simoni,  L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001

– Lingua francese,”Microsoft® Encarta® Enciclopedia Online 2009 http://it.encarta.msn.com © 1997-2009 Microsoft Corporation. Tutti i diritti riservati.

– R. Luperini – P. Cataldi – L. Marchiani – F. Marchese, La scrittura e l’interpretazione. Dalle origini al manierismo. Volume primo. Palumbo editore. Firenze. 2000.

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– S. Guglielmino – H. Grosser, Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994

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– A. Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento. Giuseppe Principato editore. Messina-Milano. 1937.

– M.L. Meneghetti, La nascita delle letterature romanze, in Storia della Letteratura italiana dalle Origini a Dante. Le origini, il Sole24, Milano, 2005.

 

            Al costituirsi di una poesia d’arte nell’Italia romanza giovò, probabilmente molto più dell’epica francese, la lirica provenzale, fiorita in Provenza ed in altre regioni del sud della Francia (Aquitania, Limosino, Alvernia)  fra i secoli XI e XIII.

 

            Nata nelle corti[1], la lirica occitanica ne rispecchiò gli ideali <<cortesi>>, ossia quel complesso di valori che l’alta società feudale compendiava nel termine cortesia: <<la lealtà, la liberali­tà, la misura o discrezione, il valore delle armi e, loro corona­mento, l’amore inteso come passione irresistibile, dedizione assoluta, che non conosce limiti nelle distinzioni sociali, né quelli della morale religiosa, che è anzi esso stesso fonte e supremo criterio di morale>> (Accame Bobbio).

             Si trattava di  un vero e proprio codice di comportamento che regolerà la relazione tra gli amanti nell’Europa occidentale durante tutto il Medioevo. Influenzato dagli ideali della cavalleria, l’amor cortese fu celebrato tra l’XI e il XIII secolo nelle canzoni dei Trobadours[2], che ne codificarono le norme principali.

            I trovatori appartengono a ceti diversi, ma la comunanza di vita nella corte e i riconoscimenti ottenuti grazie alla fama poetica finiscono col minimizzare le differenze dovute alla nascita, creando una specie di integrazione sociale.

            La produzione cortese è ricchissima, e non è esclusivamente maschile: si contano infatti almeno diciassette poetesse in lingua d’oc.

            In base al codice cortese la lirica che ha prevalentemente carattere amoroso[3] (pur senza escludere i temi dell’impegno politico e morale), trae modelli di comportamento e di linguaggio dall’ambiente feudale.

            Il poeta è un “vassallo” che si sottomette alla donna amata[4], la serve e attende da lei il beneficio[5]. I suoi ideali sono ancora la fedeltà, il coraggio, l’eroismo, ma altra diventa la loro destinazione: il poeta si consacra alla dama, la onora e le è devoto fino al sacrificio.

            Questo sentimento abbraccia ogni aspetto della sua personalità, lo coinvolge profondamente e si traduce in un continuo impegno a migliorare se stesso.

            In tal modo il poeta ingentilisce il suo animo e lo guida verso la conquista della perfezione morale.

            L’amore cortese, è anche inteso come insieme umano di passioni, desideri, sofferenze e frustrazioni. Attraverso la lirica il poeta impara a conoscere se stesso e ad analizzare la propria anima. All’eroe che la tradizione epica aveva innalzato, il trovatore insegna l’umiltà, la generosità, la devozione e il rispetto umano.

            I princìpi di questa concezione dell’amore sono tanto precisi che si trovano definiti in veri e propri trattati (come le trentuno tesi del “De Amore” del francese Andrea Cappellano[6]): l’amore può vivere solo in animi nobili, esenti da meschinità o vizi, e deve restare “segreto” (una volta che gli amanti si sono dichiarati); l’innamorato ha il dovere di nasconderlo, di “schermarlo”, così l’identità della donna viene celata con un nome fittizio (il cosiddetto senhal); il matrimonio è inconciliabile con l’amore[7], che si nutre di ostacoli e riceve maggior forza dall’impossibilità di possedere la donna amata.

            Su questi motivi di fondo si sviluppa una vastissima gamma di ramificazioni tematiche e formali.

            Alla lode della donna e alle riflessioni del poeta sui propri turbamenti amorosi si accompagna l’uso metaforico del linguaggio feudale, l’insistenza su allusioni oscure, che rivelano l’identità dell’amata solo a chi è in grado di decifrarle.

            Addirittura a volte questa poesia, per eccesso di sottigliezze intellettuali­stiche, si fa contorta ed oscura, configurando il trobar clus (=<<poetare chiuso, ermetico>>) in opposizione al trobar leu (“poetare chiaro, aperto”)[8].

            Per la mancanza di un autentico palpito umano la lirica amorosa dei provenzali dà quasi sempre la sensazione dell’artificio, e risulta monotona e fredda sia nelle stilizzazioni della donna e del paesaggio, sia nella resa degli stati d’animo dell’amante: del resto a livello di contenuto essa non ha mai uno sbocco concreto[9], perché la conquista della “domina” significherebbe un soverchiamento delle gerarchie feudali.

            Le va però riconosciuto il merito di aver fornito per prima all’Europa un esempio di poesia romanza costruita con propositi di alta raffinatezza formale, secondo il concetto dell’arte come operazione tanto più nobile quanto più sensibile agli strumenti di un ricco obrador (laboratorio) tecnico.

            Bisogna ancora rilevare che alcuni suoi rappresentanti (Bertrand De Ventadorn[10], Bertrand De Born[11], Arnaut Daniel[12], Guglielmo IX di Aquitania, Giraut De Bornelh, Jaufre Rudel[13]) talvolta riuscirono ad immettere nel convenzionale repertorio della scuola accenti di schietta poesia, che risuoneranno nella migliore lirica italiana, dagli stilnovisti a Petrarca.

            In altre parole, in quest’ultimi poeti (ricordati in parte anche da Dante), l’abilità formale giunge ad una straordinaria perfezione tecnica, grazie alla quale lo schematismo delle situazioni passa in secondo piano, e il riferimento al rituale di vassallaggio perde di concretezza e si trasforma in uno spunto per raffinate sperimentazioni di stile.

            La poesia occitanica fu presto conosciuta in Spagna, in Germania[14] e nelle corti del nord Italia attraverso l’opera dei trovatori tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII, dopo che sulla Provenza si fu abbattuta la crociata promossa da Innocenzo III contro gli Albigesi.

            I poeti italiani tuttavia non ottennero grandi risultati dall’imitazione, anche se alcuni anticipano temi e forme  di successive e più adulte esperienze.

            Si ricorda qui soprattutto Sordello da Goito[15]  ed il suo <<sirventese>> In morte di Ser Blacas, in cui risuonano vigorosi accenti polemici contro la cupidigia e la faziosità dei signori d’Italia.

 

Carlo Calcagno



[1] Addirittura si ritiene che il primo poeta cortese sia stato proprio un feudatario, Guglielmo IX, duca d’Aquitania (1071-1126 o 1127).

[2] <<Trovatori e trovieri>> detti dal verbo trobar, indicante la ricerca poetica e quindi equivalente al nostro <<poeta>>.

[3] Di fin’amor come si diceva in lingua provenzale. Nel sistema ideologico che sta alla base del romanzo l’amore non è invece elemento imprescindibile.

[4] Che viene chiamata midons la cui radice è da ritrovarsi nel latino dominus.

[5] Che quasi sempre si riduce ad uno sguardo o ad un sorriso.

[6] Chierico alla corte in Poitiers di Eleonora duchessa di Aquitania.

[7] In base a tale regola, l’amante di una donna sposata doveva dimostrare la propria devozione compiendo gesta eroiche e scrivendo componimenti amorosi, che venivano recapitati anonimamente all’amata.

Tale canone risale forse alla saison del 1174, presieduta da Maria di Champagne (figlia di Eleonora di Aquitania), ove si asserì che l’amore “tra marito e moglie è impossibile, poiché i coniugi hanno il dovere di prestarsi ai reciproci desideri e non rifiutarsi scambievolmente nulla, mentre gli amanti si concedono favori liberamente e non spinti da necessità legale”.

[8] Intorno al 1170 alcuni trovatori cominciano a prediligere una lingua difficile, fatta di espressioni complicate, spesso ellittiche e contrastanti, a volte fin nelle sonorità. Si tratta di una vera e propria forma di ermetismo che prende il nome di trobar clus, ovvero creazione “chiusa”, “oscura”. Emblematica, a questo proposito, la definizione che il trovatore Raimbaut d’Aurenga dà della propria attività poetica: “Cars, bruns et teinz motz entrebesc, / pensius pensanz” (Parole preziose, scure e cupe, io intreccio, pensosamente pensoso). Al trobar clus si contrappone lo stile più accessibile del trobar leu il cui massimo rappresentante è Guiraut de Bornelh. C’è poi, infine, il trobar ric, che si ispira al trobar clus e che predilige la sontuosità della lingua e il virtuosismo della versificazione; il rappresentante più significativo di questa tendenza è Arnaut Daniel. Tutti questi termini sono stati poi spesso utilizzati anche per parlare della lirica dei secoli successivi.

[9] Salvo che nei primi autori di alto lignaggio come ad esempio Guglielmo IX di Aquitania.

[10] Trovatore del sec. XII, attivo alla corte di Eleonora d’Aquitania. Ha lasciato una quarantina di componimenti poetici.

[11] Bertrand de Born è un famoso cavaliere trovatore che  istigherà il giovane re Enrico III contro il fratello Cuor di Leone che era entrato in gran pompa a Limoges e, per volere della madre Eleonora, vi aveva contratto matrimonio simbolico con la Santa protettrice Valeria, patrona di Aquitania: nella chiesa di Saint-Etiènne Riccardo, in segno di legame con i suoi vassalli, si mise al dito l’anello della Santa.

[12] Poeta provenzale nato in Dordogna (Francia), nel vescovado di Périgord, e fiorito tra il 1180 e il 1210. Fu tra i maggiori seguaci di quel genere di poesia ermetica e tecnicamente ardua (trobar clus) che ebbe in Marcabruno il proprio iniziatore. Considerato da Dante, nel De vulgari eloquentia (II 2, 9), come il trovatore più importante dopo Giraut de Bornelh e senz’altro il maggior compositore in lingua d’oc di poesie d’amore, Arnaut Daniel è celebrato in Purg. XXVI 115-26 come il principe non solo dei poeti (compreso lo stesso Giraut), ma anche dei prosatori volgari. I termini con i quali, per bocca di Guido Guinizzelli, viene espresso questo primato (“Versi d’amore e prose di romanzi / soverchiò tutti …”, Purg. XXVI 118-19) hanno indotto in passato alcuni studiosi a ritenere possibile che Arnaut abbia composto anche alcuni romanzi, andati poi perduti (ipotesi oggi completamente accantonata). Al virtuosismo metrico-stilistico della poesia arnaldiana Dante rende un esplicito omaggio anche in De vulgari eloquentia II ix-x, dove dichiara di aver derivato la tecnica compositiva della sua sestina Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra da quel tipo di stanza, usato da Arnaut in quasi tutte le sue canzoni, indivisa e priva di rime al suo interno (cobla dissoluta), nella quale ogni verso rima con il suo corrispettivo della strofa successiva (coblas unissonans).

[13] Trovatore provenzale, morto prima del 1164. Originario del Sanitonge e principe di Blaye, fu in relazione con Alfonso Giordano di Tolosa e Ugo Bruno VII di Lusignano. Secondo l’autore della sua Vida, Jaufre Rudel prese parte alla seconda crociata (1147) per raggiungere in Siria la contessa di Tripoli Melisenda, figlia del conte Raimondo I, della quale si era innamorato per fama, senza averla mai vista. Ammalatosi durante il viaggio, morì, appena arrivato, tra le braccia dell’amata. A questo episodio della biografia di Jaufre si riferisce la citazione di Petrarca in TC IV 52-53 “Giaufrè Rudel, ch’usò la vela e ‘l remo/a cercar la sua morte…”. Alla leggenda rudeliana dell‘amor de lonh Petrarca sembra alludere anche in RVF 53, 103 “se non come per fama uom s’innamora”.

[14] Qui si sviluppa il movimento definito Minnesang (da Minne, “amore ideale”, e Sang, “canto”), tra i cui rappresentanti si ricorda Walther von der Vogelweide (1170 ca-1230 ca), Raimon de Miraval (1191-1229).

[15] Poeta assai amato e stimato da Dante Alighieri che lo celebra con accenti altissimi nel canto VI del Purgatorio. Nato a Goito vicino a Mantova nei primi decenni del secolo XIII fu buon trovatore e raggiunse i suoi maggiori successi poetici intorno alla metà del secolo.

Visse presso numerose corti: a Ferrara presso Azzo d’Este, a Verona presso Riccardo di San Bonifacio; qui si invaghì della moglie di lui Cunizza, sorella di Ezzelino da Romano, con pericolose conse­guenze perché poi la rapì o ne agevolò la fuga.

Trovò cortese ospitalità presso la corte provenzale di Raimondo Berlinghieri IV, dove operò come poeta ma soprattutto come politico, dimostrando abilità ed energia.

Fu presso Carlo I d’Angiò, che accompagnò nella discesa in Italia, ottenendo alcuni castelli in Abruzzo.

Fu poi imprigionato dal re e liberato per la mediazione di Clemente VI. Morì nel 1269 o poco dopo. Nella sua permanenza in Provenza perfezionò la conoscenzadella lirica, egli aderiva alla scuola tolesana per quanto riguarda la poesia d’amore, scuola che considerava la donna come una necessaria guida all’elevazione dell’uomo.

Non abbiamo documenti della sua poesia in volgare. D. fu forse attratto dalla sua poesia politica dove si evidenziano fierezza di sentimenti e indipendenza di pensiero, con le quali egli polemizza contro la corruzione e l’ignavia di tanti potenti del tempo. In particolare D. conobbe un poemetto didascalico “Ensegnamen d’onor” (un trattato di cortesia ed etica cavalleresca che contiene fiere invettive contro i potenti che hanno perso le vere doti del signore) e specialmente il “Compianto in morte di Ser Blacas” in cui Sordello dà una rassegna politica dei signori d’Europa (Federico II, i re di Francia, di Navarra e di Spagna, i signori di Provenza) cui unisce sarcasmo per la loro codardia, invitandoli a cibarsi del cuore di Ser Blacas per acquistarne la virtù ed il coraggio. Non sappiamo perché D. lo ha inserito in questo canto, non è un pigro né un “morto per forza”; forse è semplicemente un tardi-pentito (solo nella maturità infatti abbandonerà la spregiudicatezza dell’avventuriero per dedicarsi all’austerità).

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