Convegno nazionale S.I.Me.F
Il mediatore di fronte alle complessità familiari
Firenze
4-5 ottobre 2013
Appunti di Carlo Alberto Calcagno
Dott.ssa Marina Lucardi (ex presidente S.I.Me.F)
La famiglia di fronte alle complessità della mediazione
C’è il rischio di perdere l’identità del mediatore familiare?
Non ci sono centomila forme di mediazione a secondo della complessità familiare.
In Italia si fa mediazione familiare da 25 anni e dunque sarebbe un peccato perdere l’identità.
La mediazione familiare possiede alcune caratteristiche specifiche: alcune riguardano il mediatore, altre l’oggetto.
Il mediatore familiare è diverso dalle altre figure perché il suo background è assai vario, ciò lo rende anche poco comprensibile; la sua è una identità secondaria e non primaria e ciò specie per i genitori che vengono in mediazione.
Spesso chiedono se siamo psicologi piuttosto che avvocati.
E il mediatore risponde che non è né l’uno né l’altro, che è solo un mediatore.
Ma non ha poi molto senso che il mediatore spieghi il suo ruolo, così probabilmente si perde una occasione.
Meglio sarebbe trasformare la richiesta in una domanda: “Che vorrebbe da me se fossi avvocato? Che vorrebbe da me se fossi psicologo?”
Sono le esigenze che le persone tirano fuori rispondendo a questa interrogazione che qualificano il mediatore; il mediatore non si definisce con le risposte e con le certezze che pure crediamo di avere, ma con le domande.
Il mediatore familiare intende poi il conflitto come fisiologico, per lui è naturale ma per coloro che vengono in mediazione questo non è un dato scontato perché magari provengono da luoghi ove il conflitto è controllato, prevenuto.
Per i Giordani ad esempio litigare è contro natura: il mediatore in tal caso non può rassicurare le parti che il conflitto è naturale perché farebbe il pedagogista e dunque perderebbe ancora una occasione.
Le connessioni sempre più strane tra le famiglie e l’unicità della mediazione familiare dovrebbero poi comportare un aumento di curiosità del mediatore e quindi portarlo a fare più domande.
Lo stesso pregiudizio che il mediatore si porta dentro con riferimento alle complessità familiari dovrebbe essere uno stimolo per chiedere se le cose stanno o meno in un certo modo.
Le diversità potrebbero diventare così un elemento di vicinanza piuttosto che di lontananza.
Lo sguardo sulle complessità familiari: voci a confronto
(avvocato, sociologo, terapeuta familiare)
partecipano: M. Blasi, D. Mazzei, C. Saraceno
Prof.ssa Chiara Saraceno (sociologa)
La complessità della famiglia ha due significati: 1) complessità interna, 2) complessità della percezione di sentirsi famiglia nel contesto.
Questa ultima complessità costituisce spesso una esplosione di differenze.
Le differenze si percepiscono anche nella complessità interna.
Il modello tradizionale di famiglia è esploso grazie all’invecchiamento delle parentele: ci sono più generazioni che convivono nello stesso spazio temporale, ma i membri di ogni generazione sono sempre meno.
Spesso si è costretti ad “inventare” le parentele: così lo zio può diventare cugino per un bimbo, quando cugini non ce ne sono.
L’essere figli e l’essere genitori non cessa mai, anche quando si diventa nonni.
Negli Stati Uniti sono sempre più i nonni che chiedono in tribunale il diritto di visita: si parla peraltro sempre del diritto degli adulti e mai di quello dei bambini.
L’occupazione materna della donna ha profondamente modificato il suo ruolo nella società.
Un bambino su quattro poi nasce in Italia al di fuori del matrimonio. E noi questo dato di fatto non lo accettiamo nei nostri modelli normativi.
Solo da ultimo abbiamo avuto una equiparazione tra figli naturali e figli legittimi.
Quasi tutti i matrimoni sono preceduti da una convivenza che è lunga, addirittura generazionale. Falso è dunque il pregiudizio che la convivenza non sia orientata nel futuro; la media delle convivenze è attualmente di un anno.
Aumenta anche l’instabilità coniugale: le separazioni hanno raggiunto ormai il 30% dei matrimoni.
Nel Sud le separazioni stanno crescendo maggiormente anche se si parte da più basse percentuali.
Aumenta anche la proporzione delle separazioni che sfociano in un divorzio.
Di conseguenza aumentano anche le famiglie ricomposte e le famiglie unico generative in cui ci possono essere fratrie parzialmente o totalmente differenti: figli di lui, figli di lei, figli comuni.
I confini di queste famiglie sono sempre più permeabili. Quindi si pone il problema della genitorialità intermittente (pendolare) e della genitorialità allargata (i genitori non sono più due ma possono essere tre o quattro).
Sono anche cambiati i modelli familiari: dal ’75 è possibile riconoscere i figli nati prima ed in costanza di matrimonio. Oggi è sempre più possibile avere figli non biologici, attraverso adozione o fecondazione assistita con donatore e donatrice.
Ciò rende precario il destino del bambino perché il genitore non biologico potrebbe non riconoscerlo.
Ci sono poi le famiglie messe in moto da coppie omosessuali che accedono a filiazione omosessuale.
La questione del riconoscimento della famiglia omosessuale nasce e si sviluppa da uno sviluppo interno alla famiglia eterosessuale dato che lo scopo della procreazione per la famiglia etero non è dirimente (non rileva l’incapacità a procreare, ma il suo rifiuto); in altre parole il matrimonio è indissolubile anche se non si può procreare.
Infine le tecniche di procreazione assistita hanno reso possibile anche la generazione biologica di almeno uno dei genitori.
Lo sguardo sulle complessità familiari: voci a confronto
(avvocato, sociologo, terapeuta familiare)
partecipano: M. Blasi, D. Mazzei, C. Saraceno
Dott. Dino Mazzei (psicologo e terapeuta, direttore della scuola di terapia familiare di Siena)
Trattare il tema della complessità nelle vesti di terapeuta ad una platea di mediatori familiari porta con sé tanti dubbi.
Il tema scelto riguarda le difficoltà che il terapeuta incontra di fronte alla complessità.
Cominciamo dal significato del termine “complessità”.
Il termine “semplice” ha due contrari: il vocabolo “complicato” ed il vocabolo “complesso”.
Questi ultimi però hanno un etimo differente: complesso deriva da cum + plecto ossia che abbraccia, che comprende, mentre il termine complicato deriva da cum + plico, piegare insieme arrotolare.
In terapia quando si parlava un tempo di complessità si pensava appunto ad un allargamento che dovesse includere anche il terapeuta che entrasse in contatto con una determinata realtà.
Il vocabolo complicato rimanda invece alla pratica dell’osservazione, della descrizione-spiegazione.
Oggi per complessità si intende invece una qualità intrinseca di un fenomeno che lo rende irriducibile ad una sola spiegazione (pluralità di punti vista, inclusione dell’osservatore nel sistema osservatore-oggetto osservato ecc.); attualmente non basta quindi pensare alla inclusione del solo osservatore, ma anche delle plurime generazioni che oggi compongono la famiglia.
Un esempio significativo di complessità è costituito dalle famiglie separate e ricomposte: le persone arrivano a questo secondo legame col desiderio di non commettere gli errori precedenti e di non soffrire nuovamente.
Questo assetto non è neutro per il terapeuta. Che cosa se ne fa il terapeuta?
Il rischio è che il terapista rassicuri e cerchi di normalizzare le richieste implicite. Ciò per affrontare la complessità e ridurla a semplicità.
Ciò accade quando si cerca di trasformare il dolore e la paura in senso evolutivo: ma ciò impedisce di conoscere il dolore e la paura delle persone.
Le persone si devono sentire riconosciute rispetto a dove stanno in quel dato momento e in quello che sono state.
Sempre più accade che i genitori non si diano un tempo per passare dalla situazione del passato a quella del presente.
Bisogna invece avere consapevolezza che l’operazione non è indolore né immediata. Non si può ad esempio separarsi e pretendere che i propri figli frequentino da subito le seconde compagne/i secondi compagni.
È necessario non frantumare il contatto con l’originaria rete parentale e amicale: molti figli interrompono il rapporto con i nonni o con gli amici perché la mamma o il papà ci soffrirebbero. Ciò non è corretto perché aumenta l’ansia, non si può dare per normale la mancanza di interazione. La normalizzazione passa per il procedimento opposto ossia dal riconoscimento.
Un altro ostacolo è quello della indifferenziazione: sotto la pressione del cambiamento non si coglie più la diversità. Non è la medesima cosa se il terapista convoca il figlio originario e non il nuovo figlio della coppia. Nel momento in cui si cercano nuove appartenenze è necessario sempre riconoscere le differenze.
Spesso il terapista lavora sui confini: che cosa significa il terzo genitore? Che cosa significa la nuova coppia?
Il confine è originariamente un solco sul terreno, un solco tirato dal un aratro. Il confine in questo senso limita.
Limen può però significare anche zona che definisce il territorio (apertura, soglio, passaggio) .
Il terapeuta deve tenere presente questa duplice distinzione: dove c’è un limite c’è sempre un’apertura.
Noi abbiamo dei modelli dentro di noi che agiscono pesantemente nell’inconscio: io non ho solo quei due genitori lì, ma ho anche delle rappresentazioni dentro di me che deformano. Quando parliamo di confini interni non possiamo ignorare che agiscano rappresentazioni del passato.
I terapeuti hanno un approccio trigenerazionale per comprendere e perché le generazioni sono delle risorse.
Si deve infine tener presente che il confine è traslucido: si vedono le forme, ma non i confini.
Lo sguardo sulle complessità familiari: voci a confronto”
(avvocato, sociologo, terapeuta familiare)
partecipano: M. Blasi, D. Mazzei, C. Saraceno
Marina Blasi (avvocato)
Negli stati africani il cambio del modello di famiglia è palpabile nelle decisioni dei tribunali.
Nel momento in cui in Italia c’è una coppia mista accade che il giudice italiano accetti l’ordinamento straniero applicandolo integralmente (salvo che per alcuni temi eccezionali): l’avvocato non può non tenere conto di tutto ciò e dunque deve avere conoscenza di quell’ordinamento.
Dagli anni ’70 l’Italia è passato da essere un paese di emigrazione ad un paese di immigrazione. Quindi in Italia ci sono delle comunità straniere stabili di seconda-terza generazione.
Una prima tendenza è quella di mantenere chiuse le comunità: ad esempio tra gli islamici ci si sposa solo tra i membri della comunità islamica. In altri casi si vede invece l’aumento delle coppie miste che subiscono inevitabilmente influenze reciproche.
Ripudio e poligamia sono risolte dalla legislazione attraverso la legge 218/95: queste situazioni sono ammesse da noi solo con riferimento alla tutela dei figli minori.
In Asia (si parla della Cina e delle Filippine perché sono le comunità più rappresentative) c’è una forte identificazione con i valori asiatici: hanno addirittura una carta dei diritti asiatici (LA CARTA DEI DIRITTI UMANI DELL’ASIA, dal 1998).
Nelle Filippine il divorzio non esiste, la separazione viene concessa solo per gravi motivi. Si ricorre allora alle invalidità del contratto di matrimonio.
In Cina la famiglia ha uno statuto ordinamentale e quindi prima del divorzio si deve ricorrere agli arbitri (comitati popolari) che cercano di dissuadere le coppie.
La casa viene comunque e sempre assegnata al marito perché essa può essere intestata solo a lui.
In Cina c’è pero un forte rispetto per gli anziani ed è vivo il riconoscimento per il nuovo genitore; il nuovo genitore deve rispettare i figli di primo letto e viceversa.
Nelle Filippine non sono riconosciute le coppie di fatto. Per quelle coniugate esiste solo il regime della comunione legale.
Essere omosessuale è reato in diversi paesi: ad esempio in Russia.
Il terzo ordinamento del mondo è quello di diritto islamico e quindi il mediatore non può non tenere in considerazione le sue caratteristiche.
Per l’Islam il matrimonio è un contratto che non ha nulla a che fare con la religione e che ha per oggetto delle prestazioni sinallagmatiche sperequate; il vincolo serve soltanto a legalizzare le prestazioni sessuali.
Il musulmano coniugato può avere rapporti con la moglie e con la schiava.
La donna in buona sostanza in cambio delle prestazioni sessuali ha diritto all’alloggio e alla protezione.
La donna deve sposarsi col tutore e non può sposare un uomo che sia di rango inferiore.
Gli Islamici hanno l’istituto della dote che però non ha nulla a che fare con la nostra: gli uomini pagano il prezzo della sposa che può finire alla sposa stessa o alla famiglia; la dote è tutto ciò che la moglie può possedere in esclusiva.
Il contratto di matrimonio islamico può avere delle condizioni aggiuntive: 1) clausola di monogamia, 2) clausola di rispetto dei figli di un precedente matrimonio, 3) clausola che concede l’uscita solitaria, 4) clausola contenente il divieto di essere picchiata, 4) clausola con cui si permette di viaggiare o di recarsi all’estero.
Queste clausole possono essere aggiunte solo dal notaio: c’è dunque sempre un controllo.
Il divorzio in un primo tempo era concesso soltanto all’uomo: noi lo conosciamo con il nome di ripudio. Il ripudio può essere temporaneo o definitivo (ci voglio però tre ripudi).
Un tempo il ripudio definitivo si faceva davanti a testimoni: lo sposo proferiva per tre volte la parola talāq. Oggi va fatto davanti ad arbitri (possono essere anche dei familiari) che devono convincere le parti a stare insieme.
l ripudio non richiede la presenza della moglie e può essere esercitato anche da terzi con apposito mandato. Si tratta di un atto unilaterale non ricettizio.
Solo di recente la moglie può “autoripudiarsi” e quindi inserire la clausola di autoripudio nel contratto di matrimonio.
L’affidamento dei figli è regolato in modo molto semplice: quando i figli sono piccoli spettano alla madre, quando crescono al padre.
Per il Corano si possono sposare quattro mogli a patto che si possano mantenere. Ma siccome non si può essere equi con tutte le mogli come vorrebbe un altro versetto del Corano, in alcuni Stati la poligamia è solo affermata a livello di principio.
La poligamia è molto diffusa tra i giovani che si sposano per forza con clausole di ripudio e di autoripudio.
La dote inizia da poco ad essere concordata e viene consegnata alla donna solo in caso di ripudio.
Nell’Islam l’adozione è vietata.
Il diritto di famiglia indù è ancora meno flessibile di quello islamico. Quello indù è un matrimonio sacamentale ma i riti sono otto: il rapporto sessuale imposto è uno di questi riti.
La conoscenza del rito celebrato è fondamentale per capire sei coniugi sono sposati o meno.
La Turchia ha da ultimo adottato il codice della famiglia svizzero, ma è allo stato inapplicato.
Per saperne di più v. Marina Blasi – Giulia Sarnari, I matrimoni e le convenzioni internazionali, G. Giappicchelli Editore, 2013
II parte (pomeriggio 4 ottobre)
Complessità familiare e separazioni
Dott. Francesco Canevelli
(Genitorialità senza coniugalità e separazione)
Spesso accade che non essendoci coniugalità si arrivi a pensare che tra quei due genitori non vi sia stata condivisione.
I genitori mai coniugi possono appartenere a diverse categorie. Come le guardiamo?
In realtà le situazioni che si posso presentare sono molto diverse tra di loro. Si è provato ad isolarne quattro tipi: 1) genitorialità come “agito” non elaborato, 2) genitorialità come legame assoluto (coniugalità perfetta in genitorialità senza coniugalità): non c’è stato patto esplicito, ma solo implicito; si tratta del caso in cui non ci si è mai scontrati con la violazione del patto di condivisione, 3) genitorialità come coniugalità perfetta: fecondazione artificiale, 4) genitorialità senza legami.
Il mediatore davanti a queste situazione deve affrontare alcuni pregiudizi: 1) la mancanza di patto esplicito come deficit di negoziazione, 2) la mancanza della esperienza di condivisione come genitoriale come limite nella rappresentazione del figlio: si parlano cioè linguaggi differenti, 3) la mancanza di riconoscimento dell’altro come partner può vedersi come blocco a riconoscere ogni altro riconoscimento (in particolare quello di genitore), 4) mancanza di una storia comune some elemento produttivo della non mediabilità.
La pratica della mediazione però ci dice il contrario, che in realtà è la coniugalità a costituire un grave ostacolo per la mediazione.
Se i dati della pratica sono veri coloro che non sono sposati dovrebbero essere i soggetti ideali dato che si muovono solo sul campo della genitorialità.
Dai pregiudizi precedentemente elencati però potrebbe e dovrebbe nascere anche la curiosità del mediatore che potrebbe dunque usare il pregiudizio come una risorsa.
1) Mancanza del patto esplicito= libertà di nuovi patti;
2) Mancanza della esperienza di condivisione = esaltazione delle differenze nella rappresentazione del figlio. Argomento importante è appunto quello delle cose su cui non si è d’accordo, le rappresentazioni diverse dello stesso figlio;
3) Mancanza del riconoscimento dell’altro come partner = maggiore possibilità di riconoscimento come genitore separato;
4) Mancanza di una storia comune = curiosità per l’altro.
Cominciamo dunque a rinunciare alle tipizzazioni: ciò va contro il movimento della curiosità. Più singolare è la storia e più dovrebbe incuriosirmi. Bisogna poi superare il giudizio di non mediabilità.
Il pregiudizio che dovrebbe sostituire tutti gli altri è quello della molteplicità genitoriale come dimensione particolarmente idonea a soddisfare i bisogni evolutivi dell’infanzia/adolescenza in questo inizio di millennio.
Dottoressa Paola Re (nuova presidente SIMEF)
Genitorialità adottiva e separazione
La separazione dei genitori adottivi rimanda immediatamente alla responsabilità genitoriale ed alla scelta di coppia.
Di solito i minori sono inferiori di undici quando i genitori adottivi decidono di separarsi.
Che cosa si può vedere nei genitori adottivi che chiedono una consultazione o una terapia?
Essi pensano che il figlio gli venga torlo e che venga affidato all’altro genitore considerato migliore oppure arrivano a pensare all’espulsione, all’allontanamento del figlio.
Poi è forte il senso di colpa: ”Il bambino ha già tanto sofferto ed ora gli proponiamo anche una separazione”.
Alcuni invece lamentano al disfunzionalità del figlio rispetto alla loro unione.
Hanno poi un forte senso di fallimento sociale, perché la società si aspetta che il rapporto coniugale tenga.
Questi elementi attengono a due grandi aree: una interna ed una esterna o sociale.
Il figlio fa diventare genitori e trasforma la coppia, introduce esso stesso delle dimensioni conflittuali.
La genitorialità adottiva è fortemente ancorata al sociale. Per essere genitori adottivi bisogna essere sposati; tra l’altro al coppia deve dichiarare di non essere separata nemmeno di fatto.
Che influenza ha questo fatto sulla coppia? Che fantasia introduce la norma in questa coppia?
La genitorialità adottiva nasce con una autorizzazione sociale; è tutto un percorso interno che viene portato all’esterno: la società ti ritiene idoneo come genitore.
Che movimenti interni determina questa autorizzazione esterna?
La genitorialità adottiva si confronta dunque con tanti terzi che introducono delle dimensioni interne che poi ci ritroviamo nella stanza di mediazione.
Tutti e due i genitori possono aver avuto esperienze di separazione e di lutto. La maggior parte dei genitori adottivi è infertile e quindi ha subito ferite e lutti perché loro non sono come i loro genitori.
Anche il figlio adottivo ha subito l’abbandono e molte fratture. Ciò inserisce una discontinuità.
Quando parliamo dei genitori non è difficile che si chieda “Che progetti avevate?”, ma ciò non accade con i genitori adottivi che certo non avevano il progetto di adottare, quanto quello di avere un figlio proprio. E dunque i genitori adottivi danno una famiglia ad un bambino che ha avuto degli altri genitori originari.
Il bambino ha delle fantasie sui genitori originari che poi si ritrovano nella stanza di mediazione. Le fantasie sono concorrenziali con quelle dei genitori adottivi.
La separazione può essere una risorsa nel momento in cui si pensa che il bambino l’ha già subita e quindi dovrebbe essere più flessibile al cambiamento: ma queste sono solo ipotesi.
Le coppie di genitori adottanti che si separano di solito si rivolgono a centri privati perché si vergognano, si sentono dei falliti a livello sociale. È anche un pregiudizio del mediatore? Che abbiano maggiore fragilità e dunque minore competenza e dunque minore capacità di negoziazione?
Prof. Ritagrazia Ardone (docente di psicologia sociale) , Milena Lombardi (psicologa)
(Genitorialità interculturale e separazione)
La differenza culturale non è una variabile causa-effetto. Nella stanza di mediazione c’è una moltiplicità di variabili. Non è nemmeno corretto eludere la interculturalità.
Il problema è che ci sono famiglie che non sanno affrontare l’interculturalità: la genitorialità per esse diventa dirompente dato che la mentalizzazione delle differenze non è stata elaborata.
Le unioni interculturali in Italia sono formate per il 75% da marito italiano e moglie straniera che è dunque doppiamente penalizzata, prima come donna e poi come straniera.
Tuttavia le unioni interculturali non godono di una salute peggiore delle unioni che non lo sono.
I principali problemi che incontrano e dunque le sfide che si trovano ad affrontare gravitano su tre punti: 1) disapprovazione del contesto sociale, 2) mancanza di sostegno di amici e familiari, 3) barriere linguistiche.
Le unioni interculturali d’altro canto mostrano maggiore impegno e pazienza rispetto alle unioni che interculturali non sono.
III Parte (mattina 5 ottobre 2013)
Il mediatore familiare e la genitorialità interculturale
Alessandra Bongiana
La mediazione familiare con le coppie miste e straniere: un’indagine esplorativa.
Le coppie miste vivono nelle differenze e coltivano le differenze.
Tre donne straniere su 4 sposano un italiano. Le donne italiane invece preferiscono invece accompagnarsi con africani.
I confini delle coppie miste non sono omogenei: nella cultura italiana che è individualistica si fa tutto per il proprio figlio, in quella collettivistica (ad esempio quella islamica) il figlio è a servizio della famiglia e si sposa per proseguirne il lignaggio.
La donna nella cultura collettivistica passa dalla proprietà del padre a quella del marito.
Quali sono le motivazioni che portano ad una coppia mista? 1) Convivenza, 2) facilitazione, 3) riparazione, 4) elezione (matrimonio d’amore), 5) matrimonio intellettuale (dettato da curiosità), 6) matrimonio per motivi culturali: le persone cercano di respingere la loro cultura d’origine.
Non può esistere un funzionamento mentale al di fuori della cultura. La cultura risponde a domande: chi sono io? Chi è la madre? Chi è il padre? La cultura fa sì che si “favoleggi” anche il paese d’origine.
Le donne delle coppie miste vengono primariamente dall’Europa dell’Est e dal Sudamerica.
In mediazione parlano soprattutto del ruolo genitoriale e e degli accordi di separazione.
Le coppie miste sono maggiormente conflittuali di quelle straniere.
Per un mediatore è importante conoscere il contesto, la diversa concezione del ruolo genitoriale, i diversi stili educativi, i diversi codici di comunicazione, e avere le competenze linguistiche.
La cultura è un contenitore, la pelle del psichismo umano.
Una donna musulmana non può sposarsi con un non musulmano. I musulmani maschi possono sposare donne della religione del Libro.
Bisogna stare attenti agli “incidenti critichi”: se ad esempio un mediatore entra in un bilocale di una famiglia musulmana noterà che un locale è destinato alla preghiera e che i bambini della famiglia non vi hanno accesso. Dovrà dunque resistere alla tentazione di spingere i genitori a dare al locale per la preghiera una destinazione promiscua.
Altro esempio: per un musulmano il benessere dell’adolescente è che stia col suo papà e dunque non potrà tentarsi di convincere il musulmano a sperimentare un altro tipo di affidamento.
Lia Mastropaolo (psicologa e mediatrice)
(Percorsi di mediazione nella multiculturalità)
Ho lavorato molti anni in un servizio pubblico dove ho istituito un centro di mediazione e di terapia. Successivamente ho lavorato nell’angiporto di Genova in un servizio di mediazione e terapia. Altra occasione per incontrare la multiculturalità è stato il master di mediazione familiare che ho condotto per molti anni a Barcellona e Relates una associazione che coinvolge in rete diversi specialisti del settore familiare dell’America Latina.
Lavorare con altre culture vuol dire non dare mai qualcosa per scontato.
I riferimenti, i miti, le premesse, i significati delle cose sono diversi.
I nativi di un posto non possono “vedere” la loro cultura sino a che non ne incontrino un’altra.
L’operato non può fare l’errore di considerare una cultura nel giusto e la propria nell’errore e viceversa. Il problema degli islamici non è certo di essere islamici, ma che alcuni sono integralisti.
Nel lavoro con diverse culture si devono tenere presenti tre fattori:1) multiculturalità, 2) multi interventi, 3) complessità: cambiamento sui modi di pensare.
Bisogna avere conoscenza delle culture, delle abitudini di vita, dei valori sociali e morali di un paese. Si deve offrire alla persona la possibilità di scegliere ciò che fa per lei e non di imporgli ciò che a noi sembra meglio che scelga.
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