1c) L’arte feneratizia e la caccia all’usuraio
Leone l’Iconoclasta costrinse infine gli Ebrei al battesimo e interdisse le eredità ai non ortodossi.
Quest’ultima interdizione fu cruciale ed indusse gli Ebrei a dedicarsi all’arte del prestito. Ma in quei tempi colui che gestiva il denaro e ne ricavava anche un lecito interesse era considerato reo di usura; sulla scorta della dottrina aristotelica si pensava, infatti, che la moneta dovesse mantenersi improduttiva e che solo la terra potesse fornire un reddito[1].
Si tenga conto che a livello pratico questa opinione sulla improduttività della moneta si scontrava contro una lunga ed antica prassi contraria: l’interesse mercantile fu stabilito sul tempo del trasporto e quindi non dell’anno, proprio dai Greci nel 20-30 per cento per i viaggi di andata e ritorno (peraltro in Grecia l’obbligo di pagare interessi al mutuante era considerato anche nel mutuo civile un elemento naturale del prestito in denaro).
Sin dalla Roma arcaica si distingueva tra usura lucratoria, punitoria e compensatoria.
La prima era assolutamente vietata e veniva definita come la volontà di ricevere oltre il capitale qualche guadagno temporale per causa di mutuo o prestito.
La punitoria, che consisteva nella pena per il ritardato pagamento, era quella pattuita nel contratto e l’interesse stava in luogo della pena; era considerata illecita se avesse avuto come funzione non quella di recuperare presto la sorte, ma di lucrare.
La compensatoria consisteva invece nel lucro perduto e nel danno sofferto ovvero nell’interesse che si esigeva per il pericolo di una determinata operazione ed era considerata lecita.
Vi era poi da considerare l’anatocismo che era illecito e che consisteva nella capitalizzazione della usura a fine anno in modo che si potesse produrre altra usura[2]. Si trattava dell’operazione più significativa che serviva appunto per violare il limite legale delle usure.
In particolare si distingueva il caso in cui gli interessi scaduti, se non pagati, producessero a loro volta interessi (anatocismo separatus) dalla capitalizzazione che si verificava quando gli interessi già maturati venissero integrati nel capitale da restituire e sul coacervo si facessero decorrere gli interessi (anatocismo coniunctus) [3].
Secondo Tacito il divieto di anatocismo in Roma risale circa al IV secolo a.C.
Le XII tavole già fissavano un tetto massimo per le usure (tasso unciarum)[4].
Nel 342 a. C. con il plebiscito Genucio si sarebbe proibito il prestito ad interesse.
Nel 72-70 a. C. viene varato dal Licino Luculio per la provincia d’Asia il divieto di anatocismo e di richiedere come interesse il doppio del capitale. Il proconsole fissa il tasso massimo di interessi nella misura della centesima (1% al mese, 12% all’anno) e stabilisce che i creditori possono appropriarsi al massimo di un quarto del patrimonio del debitore. Chi avesse posto in essere un anatocismo coniunctus poteva essere sanzionato con la perdita del credito.
Il divieto di anatocismo viene esteso poi a Roma forse con Cesare[5].
Nel 51 a. C. Cicerone, nella qualità di proconsole della Cilicia, vieta la contrazione di un prestito per onorarne uno precedente e stabilisce il tasso legale nella misura della centesima.
Tale intervento non ha grande fortuna pratica perché la classe senatoriale aveva timore che il proconsole volesse aprire la strada alla remissione dei debiti.
Per superare il problema comunque i Romani utilizzavano, tra gli altri strumenti, la stipulatio ossia una promessa astratta con cui ci si obbligava a pagare una certa somma, ma non si distingueva quanto fosse dovuto per capitale ed interessi[6].
Sotto l’Imperatore Severo si stabilisce che l’interesse non possa superare il capitale originariamente prestato e che fossero vietati gli interessi su interessi nei limiti appunto del doppio del capitale. Si vieta inoltre la stipulatio e si dispone la restituzione dell’interesse[7].
Diocleziano nel 260 commina la sanzione dell’infamia[8] per coloro che facessero prestiti ad interesse applicando tassi oltre il limite consentito e coloro che ricorrevano illecitamente all’anatocismo[9]; nel 294[10] lo stesso imperatore dispone che il secondo creditore di un debitore non può esigere l’anatocismo separatus.
Nel 313 si stabilisce che gli interessi superiori alla centesima vengano ridotti ope legis entro i predetti limiti.
Nel 529[11] Giustiniano vieta l’anatocismo sotto qualsiasi forma e quindi pone fuori legge le cosiddette usurae usurarum ossia gli interessi su interessi. Per i prestiti di frutti ed altre cose fungibili si considerava addirittura lecito l’interesse del 50 per cento[12].
[1] Nel I libro della Politica Aristotele specifica che la destinazione naturale di un bene è il suo uso e non il suo scambio. A. BISCARDI, Diritto greco antico, op. cit., p. 190.
[2] P. VERMIGLIOLI, Elementi ossiano Istituzioni civili di Giustiniano imperatore illustrate e commentate, volume secondo, edizione seconda, Tipografia di Francesco Baduel, 1830, p. 16.
[3] F. FASOLINO, Studi sulle usurae, Bruno Libri, 2006, p. 14.
[4] F. FASOLINO, Studi sulle usurae, op. cit. p. 25.
[5] Sedcondo Mommsen.
[6] F. FASOLINO, Studi sulle usurae, op. cit. p. 19.
[7] F. FASOLINO, Studi sulle usurae, op. cit. p. 43-45.
[8] Ciò comportava l’esclusione dalle cariche pubbliche, la perdita della facoltà di essere rappresentati o di rappresentare in giudizio; talvolta l’incapacità di prestare testimonianza
[9] F. FASOLINO, Studi sulle usurae, op. cit. p. 61.
[10] C. 1.8. 13. 22.
[11] C. 1. 4. 32. 28.
[12] C. CATTANEO, Ricerche economiche sulle interdizioni della legge civile agli Israeliti, op. cit., p. 45; v. A. BISCARDI, Diritto greco antico, op. cit., p. 155-156.