Dante Alighieri – Divina Commedia – Purgatorio – Canto V – Riassunto e commento


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Siamo nel secondo balzo dell’Antipurgatorio di cui il custode è Catone.

Il personaggi descritti nel canto che è drammatico mentre il precedente era, come abbiamo visto,  elegiaco sono: Jacopo del Cassero, Bonconte da Montefeltro, Pia dei Tolomei; ciascuna di queste anime narra la sua tragica morte, dovuta alla ferocia umana e all’anar­chia politica.

I poeti incontrano una terza schiera di peccatori: essa è costitui­ta dagli spiriti negligenti, che appunto morirono di morte violenta e si pentirono solo al momento di questo evento.

La pena è quella di girare affannosamente intorno al monte del Purgatorio cantando il Miserere; essa non è tuttavia determinata nel tempo perché forse varia secondo la natura più o meno grave dei peccati o secondo la minore o maggiore profondità del pentimento.

Il tema principale: la vanità e l’assurdità dell’odio e della vendetta.

I due poeti si sono allontanati dalla schiera dei negligenti, quando uno di questi si accorge che forse D. ha un corpo umano, e allora lo indica e avverte ad alta voce i compagni che D. non risplende come le anime del P.[1] e fa ombra a sinistra (i poeti danno ora le spalle ad oriente ed il sole li colpisce dalla parte destra, facendo ombra a sinistra). D. si gira a guardare, le anime si meravigliano (forse per il ricordo e per la speranza di tornare un poco alla loro vita mortale) (vv. 1-9).

  1. rallenta quindi il cammino. e V., per paura che possa verifi­carsi di nuovo un episodio come quello di Casella, lo rimprove­ra un po’ aspramen­te[2]: la sua mente non deve distrarsi, non deve importar­gli ciò che nel P. si dice e deve lasciar dire, deve stare saldo come una torre che non muove la cima per il vento; non deve accadere che un pensiero si sovrapponga ad un altro e ne indeboli­sca la forza: diversamente D. rischia di rimandare ad altro tempo il perseguimento dei suoi impegni e delle sue responsabilità (vv. 9-18).
  2. risponde che si affretta e arrossisce di vergogna per il rimprovero, di quel rossore che talvolta fa l’uomo degno di perdono (D. è cioè sinceramente pentito) (vv. 19-21).

I due poeti vedono avanzare lungo la costa del monte, di traverso, una schiera di anime che cantano il salmo della penitenza Miserere (Signore, abbi pietà di me: ciò aiuta la purificazione) un verso dopo l’altro; le anime si accorgono che D. non fa passare i raggi del sole e sostituiscono il salmo con una esclamazione di meraviglia lunga e rauca[3] (vv. 22-27).

Due anime in funzione di messaggeri corrono incontro ai due poeti e domandano di renderli edotti circa la loro condizione (forse queste due anime sono curiose perché hanno lasciato la terra da poco tempo).

  1. dice alle anime che possono tornare indietro e riferire che effettiva­mente D. è di carne; esse devono essere contente di questo fatto perché il poeta, se sarà accolto con cortesia, renderà loro la desiderata carità della preghiera (vv. 33-36).
  2. afferma che la velocità con cui le due anime tornarono a riferire verso l’alto alle altre è superiore sia a quella delle stelle cadenti, sia a quella dei lampi che attraver­sano le nubi d’agosto al tramonto[4]; con la stessa velocità le anime ricongiunte corrono sfrenatamente[5] verso i due poeti (vv. 37-42).
  3. invita D. ad ascoltare le preghiere delle anime ma a non rallentare il cammino, per evitare di perdere troppo tempo (vv. 42-45).

Le anime in coro si rivolgono al poeta (conformemente alla legge spirituale che è propria del Purgatorio), riconoscono che egli, ancor vivo, sta facendo un cammino di purificazione e gli chiedono di rallentare affinché possa eventualmente riconoscere qualcuno tra loro, per riportare notizie ai cari in terra; comprendono con dispiacere il fatto che D. non si fermi[6] e gli fanno presente di essere stati uccisi tutti violentemente e di essere stati peccatori fino all’ultimo momento[7], aggiungono poi però, ed è questo il messaggio principale non solo del canto ma di tutta la cantica, che nel momento della conversione hanno anche perdonato i loro uccisori e si sono pacificati con Dio[8] (vv. 46-57).

  1. risponde alle anime con estrema gentilezza: egli non ne riconosce alcuna ma, in nome di quella pace che egli sta cercando (ossia la pacificazione con sé stesso, con gli altri e con Dio), si dispone ad esaudire le richieste che le anime desiderano muovere (vv. 57-63).

Una delle anime, che poi si rivelerà Jacopo del Cassero[9], afferma di non avere bisogno di giuramenti per rassicurarsi circa la volontà di D. di pregare per le anime, perché la sola impossibilità potrà troncare una tale volontà.

Aggiunge poi di essere la prima a parlare tra le anime e supplica D., se mai si dovesse recare nella Marca anconeta­na, di pregare per lei in Fano, così che le persone in grazia di Dio possano accomunarsi a tale preghiera e Jacopo riesca così a purgarsi i suoi gravi peccati (vv. 64-72).

Jacopo afferma di essere originario di Fano ma di essersi procurato altrove le sue profonde ferite da cui sgorgò il sangue ove l’anima sua ha sede[10]; precisamente nel grembo di Anteno­re[11], cioè nel padovano, là dove Jacopo si credeva al sicuro dalle vendette del marchese Azzo VIII (vv. 73-76); là questi lo fece uccidere perché lo aveva in odio più di quanto al Cassero interes­sasse perseguire la giustizia, cioè oltre il limite del giusto[12] (vv. 77-78).

Jacopo aggiunge che se fosse fuggito verso Mira[13], quando fu raggiunto dai sicari ad Oriago, forse sarebbe ancora vivo; ma al contrario decise di correre verso la palude dove si impigliò nelle canne e nel sangue e cadde; e lì si vide cadere in una pozza di sangue[14](vv. 79-84).

Subito un altro personaggio augura a D. di poter raggiungere la cima del Purgatorio ed in cambio chiede la sua preghiera, dal momento che sua moglie Giovanna ed i suoi cari[15] non pregano per lui, ed è per questo che triste cammina tra le anime a testa bassa (v. 85-90). Si tratta di Buonconte di Montefeltro[16] a cui D. chiede immedia­ta­mente notizie circa la sua fine e la sua sepoltura, dal momento che nessuno ne conosce il luogo[17] (vv. 85-93).

L’anima risponde che giunse a piedi[18] e macchiando di sangue la pianura a causa di un foro in gola là dove il fiume Archiano[19],  affluente di sinistra, si confonde con l’Arno[20]; qui perse la parola e la vista ma spirò con il nome di Maria sulle labbra ed in quel luogo rimasero soltanto le sue spoglie mortali, il peso inerte della carne (vv. 94-102).

Subito si accese una disputa tra il demonio e l’angelo di Dio che prese l’anima di Buonconte; il demonio non potendo utilizzare gli stessi argomenti che aveva utilizzato con Guido di Montefeltro[21], ricorre all’ironia (che è una forma di protesta) affermando che un’anima non può salvarsi per una lacrimetta[22]. Ma perduta l’anima al demonio non rimane che infierire sul corpo (vv. 103-108)[23].

Buonconte che si affida alla sapienza di Dante gli ricorda, sintetizzando la teoria aristotelica della pioggia, che nell’aria si condensa in nubi quel vapore acqueo che appena sale nell’atmo­sfe­ra ed incontra le correnti di aria fredda, diventa acqua.

Aggiunge che è potere e fu volere del demonio muovere appunto le nubi per scatenare una tempesta[24]: sopraggiunta la notte infatti Satana coprì di nebbia la valle del Pratomagno e rese l’aria così satura di umidità che si trasformò in tanta acqua che la terra non riuscì ad assorbire; e appena tale acqua confluì nei torrenti arrivò così velocemente in Arno che nulla poté trattenerla (vv. 109-123).

Così l’Archiano trovò il corpo gelato di Buonconte sulla foce e lo sospinse in Arno con una violenza che sciolse la croce che il montefeltrino aveva formato sul suo petto quando lo vinse il dolore dei propri peccati; il povero corpo fu voltato e rivoltato sulle rive e sul fondo del fiume e alla fine coperto di detriti[25] (vv. 124-129).

A questo punto della narrazione si fa sentire la voce di una terza anima che chiede a D. di ricordarsi di lei quando ritornerà nel mondo; dice di chiamarsi Pia[26], di essere nata a Siena e di essere morta in Maremma, come sa bene[27] colui che prima di sposarla l’aveva inanellata con una gemma (Pia si è cioè fidanzata e sposata nella stessa cerimonia) (vv. 130-136)[28].

[1] Ciò ci è già stato detto da D. con riferimento a V. ai vv. 29-30 del III canto (<<di retro a quel condotto/ che speranza mi dava e facea lume>>) nel momento in cui i due stanno risalendo la montagna del  Purgatorio con grande difficoltà.

 [2] Alcuni commentatori, ad esempio il Tommaseo, hanno ritenuto sproporzionata la reazione di V. per un piccolo rallentamento (ma forse proprio i piccoli rallentamenti sono i più pericolosi e comunque la vicinanza dei pigri richiedeva un intervento alto e vibrante). Forse D. si riferisce in particolare a coloro che criticavano il suo atteggiamento politico e morale che gli aveva precluso il suo ritorno in Firenze. Non c’è dubbio che V. esorta il discepolo non soltanto a non distrarsi dal suo dovere religioso (la conquista del libero arbitrio) ma anche da quello terreno, morale-poitico: una volta presa una decisione, bisogna agire, checché ne dica la gente.

[3] D. infatti può portare notizie nel mondo ed incitare i mortali a pregare per loro.

[4] La similitudine delle stelle cadenti e delle nuvole trapassate dai lampi – ripresa poiché la scienza medievale (v. Brunetto Latini, Tresor III)  riferiva i due fenomeni ad una stessa causa, all’accensione dei vapori – indica il grande entusiasmo delle due anime, nell’impeto di un promettente colloquio.

[5] Sussiste un forte contrasto, certamente voluto, tra il comportamento dei pigri e queste anime, desiderose di ottenere suffragi.

[6] Nelle anime c’è un’ansia e un accoramento rappresentato con energia; sentono di avere diritti da difendere sulla loro memoria, ma più di tutto chiedono di non essere abbandonati alla loro pena.

[7] E’ questo un anticipio sulla narrazione dei casi partico­lari che avverrà in seguito.

[8] Le anime sono pacificate con Dio, e quindi anche con gli uomini e con sé stesse. Il male che gli altri ci fanno potremo veramente perdonarlo solo quando saremo consapevoli del male e che ci viene perdonato.

[9] Nato nel 1260 fu valente uomo d’arme e saggio politico: occupò molte cariche. Fu podestà di Bologna nel 1296 e, per la sua fama, fu chiamato podestà a Milano negli ultimi anni del Duecento.

Durante il periodo bolognese si inimicò il marchese Azzo VIII d’Este (che D. pone nell’Inferno come parricida: If XII 110-112) che, con odio irriducibile, mentre il Cassero si stava recando a Milano, passando dal territorio di Padova, lo fece assassinare da alcuni sicari ad Oriago sulle rive del Brenta. La sua salma venne riportata a Fano e seppellita nella chiesa di San Domenico. La sua notorietà come uomo di governo discendeva anche da Martino, l’avo giurecon­sul­to autore di numerose pubblica­zioni di diritto, professore all’Univer­sità di Bologna, e poi domenicano. D. conobbe  Jacopo in Toscana, allorché questi fu messo a capo delle truppe fanesi, intervenute a favore di Firenze nella battaglia di Campaldino contro gli Aretini, e il canto infatti, nel proseguimento dell’epi­sodio di Buonconte, s’intrattiene sui particolari della stessa battaglia.

[10] Per i contemporanei di D. l’anima aveva sede nel sangue; e ciò in base ad un versetto del Levitico (VIII, 14): <<Anima omnis carnis in sanguine est>>.

[11] Dal momento che Antenore è considerato il prototipo dei traditori politici non si può escludere che D. pensasse ad una possibile connivenza tra Estensi e Padovani.

[12] L’uccisione di Jacopo del Cassero fu uno degli scandali del secolo; le offese recate ad Azzo VIII sono nella Cronica di fra Salimbene.

[13] Un borgo tra Oriago e Padova.

[14] Le due visioni che D. ci presenta raccontano di uno Jacopo che ha orrore del proprio sangue; stesso discorso D. propone nel canto XXXIII dell’Inferno con la figura del conte Ugolino. Ma mentre il conte è disperato per l’ingiustizia patita dai suoi figli, Jacopo ritiene che i suoi peccati fossero gravi, gravi le offese recate e che quindi l’ira del marchese fosse giustificata; come Manfredi Jacopo ammette i suoi peccati, anche se la vendetta era stata sproporzionata. Jacopo non è risentito contro i suoi uccisori, è stato odiato e D. si compiace di vederlo salvo, di farlo persuasore di mitezza; anche se un po’ lo “usa” per condanna­re gli Estensi, come fa in altri luoghi della Commedia ed anche in altre opere.

[15] La figlia Manetessa ed il fratello Federico, podestà di Arezzo.

[16] Il tema della guerra non è interrotto; Buonconte comandò l’esercito di Arezzo contro Firenze, e tra Poppi e Bibbiena, l’11 giugno el 1289, avvenne la battaglia di Campaldino. Per D., Buonconte è un avversario. Ha sofferto rievocando Jacopo, alleato di Firenze ed ora passa nel campo nemico. Vincitori e vinti, trascorsa la fatalità del momento, tutti chiedono, in ragione del Cristianesimo e dei diritti umani, la pietà. Buonconte, ghibellino, figlio di Guido (cfr. Inf. XXVII, 19-132) morì durante la battaglia di Campaldino, in cui gli Aretini ebbero 1700 morti e duemila prigionieri; c’è chi, tra i critici, sostiene addirittura che fu ucciso da Dante stesso ed è per questo che D. lo pone tra i salvi, per una sorta quasi di rimorso; in realtà D. vuole soltanto correggere gli errati giudizi umani sul conto delle vittime, colpite oltre nel corpo, nella memoria; D. assicura che la misericordia divina non abbandona l’uomo. Ed infatti mentre Guido da Montefeltro viene portato nel girone dei frodatori dal demonio e San Francesco non può far niente, qui, come vedremo, l’Angelo di Dio strappa l’anima di Buonconte al male.

[17] La difficoltà di ritrovare il corpo di Buonconte dipese dal fatto che non fu ferito a Campaldino.

[18] E fece più di cinque chilometri!

[19] Che nasce anche da un torrente che scorre sopra l’eremo di Camaldoli.

[20] A Bibbiena dopo aver attraversato la pianura casentinese.

 [21] Assolvere non si può chi non si pente, né ci si può pentire e volere il peccato insieme (Inf. XXVII 118-120).

 [22] Come nell’episodio di Manfredi D. vuol sottolineare che l’ultima parola spetta nel giudizio a Dio: gli uomini – anche il Papa – e lo stesso diavolo nulla possono contro la sua giustizia severa e misericordiosa.

[23] Ed è inutile l’odio infernale, proprio come è inutile l’odio umano quando non sia strumento della giustizia divina; e sarà inutile oltreché assurda se ricongiunta allo scopo, anche la furia degli elementi naturali, nel proseguio. Complesso e inutile l’odio, semplici e sicure la bontà e la pietà.

[24] D. ricorda che dopo la battaglia di Campaldino ci fu un temporale ma accetta il parere che fu anche di San Tommaso, che i diavoli hanno il potere di suscitare la tempesta.

[25] Buonconte aveva sin qui sempre parlato come anima, distinguendo da sé il corpo; improvvisamente però con esso si identifica nel momento in cui dice “voltommi” e “mi coperse e mi cinse”; l’accoramento di Buonconte per la cieca e spropositata crudeltà degli uomini è in queste parole decisamente più esplicito.

[26] Pia della famiglia dei Tolomei di Siena, sarebbe andata sposa a Nello dei Pannocchieschi, podestà di Volterra e di Lucca, e poi sarebbe satata uccisa in circostanze misteriose: forse dallo stesso marito che la punì per l’infedeltà o che voleva risposarsi con Margherita degli Aldobrandeschi, a suo tempo sposa del conte Umberto di Santa Fiora.

[27] Se Pia non fu colpevole di essere uccisa questi versi potrebbero essere intesi nel senso che neppure ella sa la ragione della sua morte: la conosce solo il marito che le aveva dato la fede, simbolo e pegno dell’altra fede, a cui ella non è mai venuta meno.

[28] Pia ha partecipato al suo tragico dramma ma in lei non c’è alcun dissidio da colmare; per questo al “disfecemi” non fa seguito la narrazione la cronaca della fine; tre versi sono dedicati allo sposalizio e tre versi alla preghiera. Pia non ha rancore né biasimo per colui che l’ha uccisa, sente solo la malinconia di ricordare che colui che ha posto fine alla sua vita era suo marito. Lo ama ancora e le dispiace che sia stato malvagio. Ma forse si può dire anche di più: c’è in Pia un affetto che manca sia a Jacopo che a Buonconte che pure si erano dimostrati cortesi con D. (il primo non chiedendo giuramenti ed il secondo con l’augurio della purificazione); c’è quella sollecitudine tutta femminile, materna, per le piccole cose della vita, per la quale gli uomini restano sempre e a qualunque età, dei bambini per le donne che li amano (Pia chiede di essere ricordato dopo che D. si sarà riposato: “e riposato de la lunga via”). E si noti anche la sua discrezione nel chiedere suffragi: Pia come Buonconte è una “dimenticata”, non ha che D. per sperare in qualche preghiera, ma così come non accusa nessuno di averla uccisa non accusa nessuno (come fa Buonconte) di averla dimenticata.

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Autore: tieniinmanolaluce

Sono attualmente avvocato, mediatore civile e commerciale, formatore di mediatori e mediatore familiare socio Aimef. Per undici anni sono stato docente di letteratura italiana e storia antica al liceo classico. Sono accademico dell'Accademia Internazionale di Arte Moderna. Scrivo da sempre senza privilegiare un genere in particolare. Ho pubblicato diversi libri anche in materie tecniche. Tra quelli letterari ricordo da ultimo: Un giardino perfetto, Poesie 2012-2016, Carta e Penna Editore, novembre 2016. La condizione degli Ebrei dai Cesari ai Savoia, Carta e Penna Editore, aprile 2017 La confessione, Dramma in quattro atti, Carta e Penna Editore, aprile 2017 Ho iniziato questo blog nel febbraio del 2006 e mi ha dato grandi soddisfazioni. Spero continuino anche su questa piattaforma. Tutto ciò dipende fondamentalmente dalla interazione con tutti voi, cari lettori.

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