Le tre domande della mediazione

Le considerazioni che seguono discendono da una personale riflessione sulla Gestalt, indirizzo terapeutico che secondo me reca ottimi spunti anche per la mediazione.

Quando pensiamo alle persone che vengono in mediazione civile e commerciale si presentano già delle difficoltà perché non sappiamo come definirle: non sono clienti, non sono pazienti, le chiamiamo parti.
E’ dunque un mestiere difficilissimo quello di uno, il mediatore, che non sa come definire il suo interlocutore: di uno che ha a disposizione solo un nome ed un cognome.
Ma che cosa vuol dire essere parti? che perseguono un interesse di parte, ma pure che in questo perseguire il loro interesse sono lontane anche da noi, nella relazione con noi; così come sono lontane tra di loro.
Le difficoltà aumentano.
Aumentano esponenzialmente se poi pensiamo che non abbiamo un interesse comune: c’è un interesse di ogni parte e delle parti e del mediatore.
Al contrario noi spesso siamo portati a pensare, per pigrizia, rassegnazione od altro, che la mediazione stia tutta in una domanda: ma ogni parte che cosa vuole dal mediatore?
Vero o no, per capirlo bisogna ascoltarla, ma non dobbiamo avere già la testa piena di quello che la parte dovrebbe provare e che dovrebbe dirci.
Per avere la testa libera dobbiamo metterci nei suoi panni e vedere che cosa sente quando ci racconta cose che abbiamo già ascoltato.
Dobbiamo essere curiosi e pensare: “Vuoi portarmi qui e allora andiamo a vedere ciò che c’è”.
Sì perché quel che c’è è invisibile da fuori.
La relazione tra due persone non è la pura sommatoria di due persone, è qualche cosa di più.
Così noi cerchiamo di raggiungere l’intero dell’altro attraverso le domande.
Un’automobile non è solo un insieme di pezzi di ferro, ma è una cosa che si muove e quel che la muove, che è natura della sua funzione, la benzina, l’energia, è invisibile ad una prima occhiata.
Nella ricerca ci capita poi di incontrare i suoi comportamenti: ora un comportamento non può essere giusto o sbagliato, diversamente non sarebbe un comportamento, ossia il prodotto di una data emozione (emozione deriva da emovere). Per questo noi non giudichiamo la parte, ma la aiutiamo a capire se può essere per lei proficuo sostenere o meno davanti al mondo quel mondo invisibile che abbiamo scoperto, il suo interesse che muove il comportamento.
Non è però davvero corretto ritenere che in mediazione ci sia solo da soddisfare la domanda “ma ogni parte che cosa vuole dal mediatore?”.
Gli interrogativi sono tre: certo è importante chiedersi poi che cosa vogliono le parti insieme, ma prima, forse prima di tutto, dovremmo interrogarci su ciò che vogliamo come mediatori da coloro che si siedono al nostro tavolo.
Il mediatore che non vuole niente dalla parte le impedisce di fare progressi: la mediazione, così come del resto ogni forma di comunicazione, si svolge tra persone che hanno tutte delle intenzioni.
Se tu mediatore non vuoi nulla dalla parte (a parte che inizi la mediazione e paghi l’indennità di mediazione), la relazione rimane impersonale.
Bisogna che il mediatore scopra che cosa la parte può dargli, ossia l’interesse suo proprio (al di là di quello economico).
E perché un essere umano interessa ad un altro essere umano? interessa perché è diverso. Vuole delle cose diverse.
Il mediatore deve smetterla di pensare che la sa più lunga della parte, deve iniziare a pensare che la sa solo diversa.
E che lo soddisfa, gli dà piacere aiutare colui che è diverso da lui, a soddisfarsi.

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