L’XI libro dell’Odissea vede la discesa di Ulisse nell’Ade.
Tutto il viaggio è preparato dagli dei e alla partenza Ulisse piange e desidera morire, perché è spaventato all’idea di essere il primo uomo che compie un simile viaggio. Un viaggio, peraltro, velocissimo. In poche ore la nave di Odisseo entra nell’Oceano (questo immenso fiume che ha in sé la virtù della vita e della fecondità eterna: ad ogni tramonto il sole vi si tuffa per riemergerne ogni mattina!) e a sera, dopo aver circumnavigato la parte settentrionale del globo, giunge all’Ade, luogo della sterilità e della morte irrimediabile.
Al crepuscolo la nave tocca le sponde della terra dei Cimmerii, sempre grigia e avvolta dalle nubi, e nessuna luce illumina l’eroe quando arriva nell’Ade, ma egli viene avvolto dall’odore acre della morte.
Nei boschi di Persefone scorge pioppi e salici, alberi infecondi, pianta che la medicina classica utilizzava per procurare la fine del desiderio erotico e l’aborto.
Tutto intorno uno scorrere di fiumi, ai quali il testo omerico mai allude, ma il lettore deve sapere di quale fragore l’intera scena è impregnata: Acheronte, Pirifligetonte, Cocito, Stige, “il fiume del dolore”, “il fiume brillante come il fuoco”, “il fiume del lamento”, “il fiume dell’odio e del brivido”, che si intrecciano, mescolano le loro acque l’uno nell’altro…l’acqua…ciò di cui le anime sono prive.
Anime secche, aride, dopo il rogo. Anime asciutte, sterili, volteggiano come spettri, sono pietrificate nella morte.
Sono èidola, fantasmi, immagini riflesse allo specchio, sono simili ai sogni, inafferrabili. Ulisse vorrebbe abbracciarle ma esse fuggono via, come fumo scivolano dalle mani dei vivi. E rimpiangono quel regno dei vivi al quale sono appartenute. Come lo rimpiangono! Con quale nostalgia si gettano sulle offerte dei vivi, latte, miele, vino, acqua e sangue, questo “sangue che scorre come nube fosca”, per ritornare semivivi, per riprendere la loro coscienza, la loro memoria, almeno per pochi minuti.
Giulia Del Giudice