Il mediatore dovrebbe sapere che quando la mediazione non procede per il meglio ciò potrebbe dipendere da uno stile comunicativo non appropriato alla personalità di coloro che mediano.
Non esiste, infatti, uno stile comunicativo che possa andar bene per tutti coloro che si siedono al tavolo della procedura.
Certo in sessione congiunta non si possono adottare stili cuciti proprio su misura delle parti perché si potrebbe essere tacciati di imparzialità.
Ciò rende il lavoro del mediatore molto complesso e talvolta più difficile ad esempio del terapeuta che ha dalla sua perlomeno il tempo.
Ma in sessione riservata si può lavorare su una comunicazione più adeguata. Al proposito si può ricordare che solo variando il tono di voce si può dar vita ad almeno cinque stili comunicativi differenti.
In realtà quando le cose non sembrano andare per il verso giusto stiamo lavorando su un versante che la persona ha già affrontato da sola infruttuosamente, per questo si sente infastidita dal nostro stile comunicativo (es. così accade ad esempio quando si chieda di passare al secondo incontro dopo cinque minuti di interazione… questa richiesta non può che determinare disagio, a meno che i partecipanti alla mediazione non avessero raggiunto un accordo prima della sessione).
Non c’è nulla in altre parole che possiamo fare in fretta e costruttivamente nell’area in cui la persona ha già provato e fallito.
Può essere opportuno ricordare che per raggiungere ognuno di noi in una interazione ci sono tre porte: si possono definire porta aperta, porta bersaglio e porta trappola (sequenza di Ware).
La porta aperta è quella che normalmente usano le persone per entrare in contatto con le altre e da cui vogliono essere contattate; quella bersaglio invece è una porta che è raggiungibile solo attraverso un certo lavoro (ad esempio del terapeuta, del mediatore ecc.) che peraltro ha degli effetti sulla porta trappola ossia su quella area di noi ove addensiamo più difese e dove un contatto troppo tempestivo porterebbe all’interruzione della comunicazione.
Semplificando, per quanto possibile, ognuno di noi è un insieme di comportamenti, pensieri ed emozioni.
Se il comportamento è la mia porta trappola, l’emozione la mia porta bersaglio e la porta aperta è il pensiero, io amerò essere contattato e contattare col pensiero, lavorare poi sull’emozione in modo da cambiare quel comportamento che ho cercato di affrontare in tutti i modi, ma che da solo non sono riuscito a modificare perché da esso dipende il mio copione di vita (tendo cioè a perpetuare quel comportamento in ogni situazione possibile; Freud parla al proposito di coazione a ripetere e Berne di appunto di copione di vita; in neuroscienza si potrebbe dire che c’è una amigdala che tempesta di richieste una corteccia orbitomediale).
E dunque il mediatore deve sapere che io preferisco essere contattato tramite il pensiero e che ho bisogno di lavorare sulle emozioni insite nel conflitto che mi ha portato da lui.
Per contattare il mio pensiero potrà usare uno stile direttivo ovvero esplorativo, ma quando si tratta di lavorare sulle emozioni può essere necessario che lo stile muti e diventi emotivo o affettivo. Inoltre il mediatore deve essere in grado di capire quando è il momento di cambiare stile, il che come si può immaginare, non si impara certo dall’oggi al domani.
L’Adulto del mediatore, in altre parole, deve saper scegliere quello che di volta in volta è lo stile comunicativo migliore per interagire con lo stato dell’IO che il mediante privilegia.
Così si potrà entrare in empatia o stabilire una buona alleanza, concetto quest’ultimo proprio invero della terapia, ma che mi piace anche in capo al mediatore, seppure qui l’alleanza debba essere perlomeno duplice (o quadruplice vista la presenza degli avvocati).