Psicoterapia della violenza tra figli e genitori – Tra segreto e vergogna

Psicoterapia della violenza tra figli e genitori – Tra segreto e vergogna

Dottor Roberto Pereira, psichiatra e psicoterapeuta

Convegno internazionale della Scuola Genovese Sistemica

27 settembre 2014

 

I nostri ragazzi amano il lusso, ridono dell’autorità, non si alzano in piedi davanti ad un anziano…”

SOCRATE

 

Una delle forma di violenza di cui si parla meno è quella filo parentale, ossia quella che esercitano i figli nei confronti dei genitori.

Il fenomeno violento assume il significato di una presa di distanza da un determinato modello.

In Spagna sino al 2005 il fenomeno era praticamente ignorato e si applicava semplicemente la legge sulla violenza domestica sia che ci si riferisse ad un adulto o ad un minore.

E quindi si provvedeva ad allontanare il minore violento dai genitori per un certo periodo che poteva andare da sei mesi ad un anno; il problema era che non c’erano centri per minori, ma solo per adulti violenti con le conseguenze che si possono immaginare.

E dunque gli psichiatri e psicoterapeuti hanno fondato dei centri per minori ove durante il periodo di allontanamento portano avanti delle mediazioni di tipo sistemico, ossia con tutte le famiglie.

Per violenza si intende qualsiasi azione od omissione intenzionale che, diretta ad una persona, tende a causarle un danno fisico, psicologico, sessuale, economico.

E dunque non c’è violenza ove non ci sia intenzionalità: spesso anche da noi si dimentica questo particolare.

La violenza non ha confine, si esplica nelle comunità, in politica, nel sociale, neri luoghi di lavoro ed a noi interessa soprattutto quella intrafamiliare.

La violenza può consistere in maltrattamenti fisici, psicologici che lasciano più segni, oppure semplicemente nella trascuratezza, in un abuso sessuale, economico o in forme di vandalismo.

La violenza fisica non è accettata in molti paesi europei; nel Regno Unito è invece ammessa quando non lascia segni fisici. In Spagna ed in Italia non è mai ammessa.

In Spagna accade spesso che un minore citi in giudizio i suoi genitori perché non gli danno la “paghetta” o per vedere ampliato l’orario di rientro. la novità è che prima il fenomeno rimaneva nel privato, oggi il giudice si pronuncia e può accogliere o rigettare le pretese. Accade altresì spesso che i genitori denuncino i loro figli magari dopo svariati maltrattamenti: dal 2000 al 2010 le denunce sono aumentate del 40%. Di norma si considera che sussista violenza laddove vi siano almeno sei manifestazioni di violenza fisica o psichica in un anno.

La connotazione violenta dipende molto dal contesto in cui il comportamento viene espletato: se ad esempio in una partita di rugby i giocatori se le danno di santa ragione il comportamento violento è irrilevante, se invece un’ora dopo la partita scoppia una rissa tra tifosi in un bar allora siamo in presenza di una violenza effettiva. Possiamo vedere poi famiglie in cui la punizione fisica non solo è consentita, ma costituisce una forma di educazione nel loro paese; da noi in Italia o in Spagna non è permesso e dunque queste famiglie non comprendono i nostri usi e si sentono disorientate.

La violenza può avere un basso grado di minaccia quando si traduce in un episodio singolo che porta ad una semplice dissonanza cognitiva, quando ci porta all’attacco o alla fuga, ma può avere un’alto grado di minaccia quando veniamo inondati, paralizzati dalla paura. A livello sociale diventa pericolosa quando è ripetuta, e porta ad un lavaggio del cervello, all’ottundimento e alla sottomissione.

Ci sono donne in Spagna che prendono cognizione di essere state aggredite soltanto quando qualcuno glielo fa notare e dunque sono in condizione di ottundimento permanente.

La violenza è vissuta in altre parole come un modo di convivenza e non come una aggressione.

Di fronte a questa situazione occorre far comprendere che: 1) la violenza va affrontata legalmente 2) va compresa tecnicamente, ossia bisogna far intendere il suo carattere circolare: nella interazione i ruoli di vittima e carnefice si alternano.

In mediazione gli argomenti che spesso sono trattati con figli violenti sono la paghetta e l’orario di rientro in casa.

Spesso si assiste ad una vera e propria tirannia dei figli che è senza legittimazione.

I figli non hanno diritto di esercitare poteri legittimamente in famiglia e allora ricorrono alla violenza che è l’unico modo per esercitare un potere illegittimo.

E’ stato condotto uno studio che è durato quattro anni su un campione di 2700 minori tra i 13 ed i 18 anni e si è scoperto che il 10,8% dei ragazzi fanno violenza psicologica sul padre ed il 12,1% sulla madre; la violenza fisica è esercitata dall’8,3% dei ragazzi sulla madre, e del 6,7% sul padre.

Le ragazze hanno maggiore propensione alla violenza psicologica, i ragazzi a quella fisica.

Quali sono le cause di tutto questo?

L’uso di stupefacenti per quanto diffuso in Spagna per il 58,6% dei giovani è solo una concausa.

Il motivi principali sono i seguenti.

Si è passati da un modulo educativo autoritario ad uno assai permissivo, sia a scuola sia a casa.

Si è prodotta inoltre una grande distanza tra casa e scuola: si è passati da un’alleanza dei genitori con gli insegnanti contro i figli ad una alleanza dei genitori con il figlio contro il professore.

In Spagna ultimamente ci sono stati due casi emblematici: un madre ha picchiato la maestra perché il bambino andava male a scuola ed in un altro caso il padre è venuto a scuola con l’avvocato per chiedere al professore perché limitava l’intervallo del figlio.

I genitori sono convinti che la scuola abbia funzione di educazione e la famiglia di allevamento. Ciò porta a grandi distorsioni dei ruoli.

Viviamo in un società che fa meno figli e dunque il figlio assume un valore superiore che appunto gli dà “il diritto” di essere violento.

La nostra società è più permissiva nei confronti della violenza dei figli rispetto a quella dei padri.

I genitori non hanno compreso che l’educazione è una fenomeno progressivo che non dà necessariamente effetti immediati; il non voler attendere porta a comportamenti violenti che sono ricambiati dai figli.

I genitori sono spesso amici dei figli; in Spagna c’è un detto: “Se sei amico di tuo figlio lo lasci orfano”.

Non bisogna poi dimenticare che all’origine della violenza filiale c’è una sorta di innamoramento del genitore maltrattato; è più facile che sia maltrattato il genitore innamorato rispetto a quello che non lo è.

Favorisce inoltra la violenza l’atteggiamento di alcuni genitori che vorrebbero che i figli facessero quello che desiderano.

La violenza scatta inoltre nei confronti di genitori iperprotettivi.

Il disaccordo o la debolezza dei genitori nella educazione dei figli è portatrice di violenza filiale.

Così lo è la violenza arbitraria del genitore che punisce in un caso e nell’altro no.

Ancora porta alla violenza l’eccessiva intransigenza o l’esagerato atteggiamento critico.

C’è poi un problema di gerarchia: si sviluppa violenza quando i genitori rinunciano al loro ruolo o rifiutano di stabilirne uno o ancora si rifiutano di imporre norme.

Ancora il conflitto intenso tra i genitori e le ripetute squalifiche tra i genitori generano inevitabilmente la triangolazione.

La relazione “passionale” con un figlio genera violenza.

Si è ancora rilevato che i genitori maltrattati di solito a) possiedono una solida formazione culturale (avvocati, medici, ingegneri ecc.) b) in virtù di questa formazione hanno deciso di dare al proprio figlio una educazione “democratica”.

Gli adolescenti maltrattanti in genere non hanno subito una separazione dei genitori.

Infine i genitori maltrattanti che hanno dei genitori che li maltrattavano e che hanno voluto dare ai loro figli una educazione non autoritaria, sono spesso vittime di violenza filiale.

Un quadro di partenza sulla negoziazione assistita

In Francia il cammino della negoziazione assistita (procédure participative) inizia nel 2008 con il rapporto “L’ambition raisonnée d’une justice apaisée” di Serge Guinchard, Presidente della Commissione per la ripartizione del contenzioso.

La proposta di detta Commissione fu ispirata dal diritto collaborativo nordamericano (cfr. da pag. 168 in poi)[1].

L’esperienza nordamericana impedisce ai legali provvisoriamente di rivolgersi al giudice.
E così in Francia la legge ha previsto questa procedura per le controversie che non sono state mai sottoposte ad arbitrato o giudizio.

Di questo fondamentale  presupposto non c’è invece traccia nella legislazione italiana.

I sostenitori della procedura partecipativa (Francia) /negoziazione assistita (Italia) nella UE sono attualmente due.

In Francia Jean-Marie Burguburu presidente del CNB (Conseil national des barreaux).

In Italia Guido Alpa presidente del CNF (Consiglio Nazionale Forense).

In Francia c’è in atto un braccio di ferro tra il Ministro della Giustizia e il CNB perché il Ministro vuole introdurre la mediazione obbligatoria in materia di divorzio.

Nel paese transalpino esiste già la mediazione obbligatoria in sede sperimentale e sino al dicembre 2014 qualora si invochi la revisione delle modalità per l’esercizio della potestà dei genitori o del contributo al mantenimento e all’educazione del bambino. Evidentemente il Ministro vuole estendere la mediazione familiare obbligatoria avendo dato la stessa buoni frutti.

Contrariamente al Ministro Jean-Marie Burguburu desidera che la mediazione obbligatoria in materia di divorzio non venga istituita e che si affermi al contrario la procedura partecipativa obbligatoria; il presidente del CNB vuole che la procedura partecipativa riguardi tutte le materie[2].

Le sue posizioni non vengono ascoltate anche perché sono noti i risultati fallimentari del 2013 della procedura partecipativa (solo sette omologazioni)[3].

La Francia non prevede la mediazione come condizione di procedibilità in materia civile e commerciale, ma un principio stabilisce che procedura partecipativa e mediazione stiano sullo stesso piano: il cittadino può scegliere a sua discrezione.

Quanto alla materia della famiglia la procedura partecipativa è regolata come segue.
Una convenzione di procedura partecipativa può essere raggiunta dai coniugi che siano in cerca di una soluzione consensuale di divorzio o di separazione.

Ma non si può chiedere l’omologazione al giudice, né si può pensare di andare esenti dal tentativo di conciliazione in caso di mancato accordo.

La domanda di divorzio o separazione legale presentata a seguito di una convenzione di procedura partecipativa è formata e giudicata secondo le norme contenute nel titolo VI del libro I della legge sul divorzio ossia si va davanti al giudice.

E’ invece possibile omologare davanti al giudice un accordo che attenga all’esercizio dell’autorità parentale.

A Jean-Marie Burguburu evidentemente questa disciplina sta stretta.

In Italia è stato emanato il decreto legge 12 settembre 2014, n. 132 che è in vigore da ieri 13 settembre 2014 e non va a toccare il campo della mediazione come condizione di procedibilità.

La negoziazione assistita come condizione di procedibilità è prevista in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti e per richiedere il pagamento di somme di denaro sino 50.000 € fuori dalle materie per cui la mediazione è condizione di procedibilità (si può pensare ad esempio all’appalto). E’ stata invece stralciata la materia del consumo.

Da noi la mediazione familiare non è invece obbligatoria e dunque purtroppo nessuno si è posto il problema della concorrenza.

Al contrario si prevede che la negoziazione assistita possa trovare spazio anche in materia di diritto di famiglia quando non ci sono figli minori, figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero figli non economicamente autosufficienti.

Vedremo che cosa dirà del decreto legge 12 settembre 2014, n. 132 il presidente del Consiglio Nazionale Forense e dunque l’Avvocatura.

[1] http://www.ladocumentationfrancaise.fr/var/storage/rapports-publics/084000392/0000.pdf

[2] Cfr. http://www.leparisien.fr/espace-premium/actu/les-avocats-doivent-proposer-des-forfaits-11-02-2014-3578877.php#xtref=https%3A%2F%2Fwww.google.it%2F

[3] Cfr. http://www.senat.fr/basile/visio.do?id=r878456_6&idtable=r878456_6|r879392_3&_c=%22proc%E9dure+participative%22&rch=gs&de=20130914&au=20140914&dp=1+an&radio=dp&aff=sep&tri=p&off=0&afd=ppr&afd=ppl&afd=pjl&afd=cvn&isFirst=true

Breve storia dell’avvocatura francese sino al 1845

Una interessante distinzione nell’antica Roma era quello tra foro e forum.

Il foro era l’insieme degli organi che amministravano la giustizia, ad esclusione del popolo.

Il foro indicava anche il luogo fisico ove si amministrava la giustizia che era costituito da una serie di portici che davano su una piazza ove si riunivano le tribù romane.

Il popolo era legislatore e giudice e veniva chiamato forum. In linea di principio tutte le cariche dello Stato erano soggette al forum, ma da Giulio Cesare in poi  la maggior parte delle questioni approdavano in Senato che era un organo asservito ai principi.

Il foro indicherà in seguito  l’ordine degli avvocati che in francese viene detto barreau dalle barre di legno dietro a cui in ad un certo punto staranno gli avvocati.

Ma originariamente le persone che a Roma o in Grecia ambivano alle cariche pubbliche non diventavano avvocati, ma retori.

I retori che ad un certo punto diventarono in qualche caso anche avvocati prestavano la loro opera gratuitamente. Stiamo parlando di Pericle, Demostene, Nicia, Ortensio, Cicerone e la lista potrebbe proseguire.

Queste figure di retori-avvocati a Roma diventavano spesso tribuni ed ebbero un largo seguito di tutti i ceti sino a quando il loro servizio venne prestato senza corrispettivo.

La cosa cambiò quando si iniziò a pretendere denaro. Si fecero leggi per frenare la rapacità degli avvocati (ad esempio legge Cinzia o munerale del 204 a.C. a cui Augusto aggiunse pene afflittive) e l’imperatore Claudio stabilì che non potessero guadagnare più di 10 sesterzi grandi a causa (1800 franchi del 1845).

Ma fu tutto inutile e l’arte oratoria degenerò in mestiere. Venne l’abitudine di fare grandi scarpe per piccoli piedi. Aristofane, Cicerone e Quintiliano si lamentarono invano di quel che succedeva.

Quindi il foro romano si divise in due categorie: i giureconsulti (patroni de iure respondentes) e gli avvocati discutenti (causidici).

I giureconsulti (Papiniano, Ulpiano, Paolo ecc.) formavano una sorta di magistratura privata che fiorì sotto gli imperatori.

I causidici o avvocati venivano al contrario presi in giro da Giovenale perché per distinguersi avevano alle dita delle mani anelli tempestati da pietre preziose e quando andavano in tribunale (basilica) si circondavano di un corteggio quasi regale.

In tempi imperiali gli avvocati che erano per lo più di nazionalità gallica, greca e latina decisero per lo più di mettersi a servizio di imperatori come Tiberio e Domiziano, ossia dei despoti. Di solito venivano utilizzati come spie, così almeno ci riferisce Tacito.

Quando i Franchi arrivarono in Francia trattarono i vinti con una certa moderazione e ciò si può dire anche con riferimento agli avvocati.

I Franchi conservarono le discussioni nel foro, ma vi aggiunsero qualcosa di proprio.

Dopo aver discusso davanti al giudice e quindi di aver tentato la conciliazione se la contestazione era ancora difficile da sciogliere, i due avversari si ritrovavano in campo chiuso e al giudizio di Dio si combattevano ad oltranza.

Il giudizio di Dio invenzione dei Ripuarii non escludeva discussioni precedenti, almeno quando si trattasse di sudditi Gallo-romani.

Tutto ciò risale a VI secolo dopo Cristo e la legge che ne ebbe il merito si chiamava Gombelta (501).

In pratica se le parti non si accordavano amichevolmente e si rifiutavano di giurare gli veniva deferito il duello.

I difensori delle parti venivano chiamati clamatores da clam che significava azione (plaidours in francese).

A fronte di una paga si incaricavano di sostenere le difese; in ogni tribunale erano eletti gli uomini probi e i più istruiti alla presenza del duca o del conte. Erano un corpo di persone revocabili come quello dei magistrati.

Il loro lusso era così sfrenato che Carlo Magno con un capitolare vietò loro di andare in udienza con più di 30 cavalli.

Vi erano poi dei laici nobili che si proclamavano difensori e rappresentanti delle chiese, delle comunità, dei monasteri, delle province e delle città; essi venivano detti advocati, defensores, causidici (in fancese uvoueries). Questi nobili laici vennero presto eretti come feudatari oppure come vassalli dei loro clienti.

I capitolari estesero in tutto il sacro romano impero l’uso del combattimento giudiziario che sostituì così le prove della croce, dell’acqua fredda e dell’acqua bollente a cui era legato soprattutto il clero.

Il combattimento giudiziario coinvolgeva tutti gli attori del processo. Se il giudice citava qualcuno e questo non si presentava in giudizio il magistrato combatteva con la parte e la parte con il testimonio; la parte non contenta del giudizio si appellava e combatteva contro il suo giudice. I servi combattevano a piedi col bastone ed i nobili a cavallo.

Siccome vennero a mancare i giudici si introdusse l’appello per errore di diritto che non contemplava duello.

La giustizia romana scomparve e ai giureconsulti ed avvocati furono sostituiti da campioni che assomigliavano a gladiatori e che appunto a fronte di una retribuzione si incaricavano di difendere una causa qualunque.

Con Carlo il Calvo (860) la Francia si coperse di giurisdizioni; re, nobili e clero avevano i loro tribunali canonico particolari. Quelli del re si chiamava parlamento e si occupava di questioni pubbliche e private ed era formato da baroni, ecclesiastici, teologi e giuristi.

I giuristi furono chiamati perché a quel tempo vigevano quattro diritti: feudale, canonico, civile e statutario e chi non era giurista non sapeva districarsi; la procedura era poi qualcosa di impossibile.

Il diritto romano era conosciuto assai vagamente dai giuristi.

Ma due secoli dopo successe un fatto che cambiò tutto. Nel saccheggio di Amalfi (1133) un soldato trovò un manoscritto legato con oro e con la copertina di diversi colori. Lo portò a Lotario II che era imperatore di Germania.

Si trattava dei 50 volumi delle Pandette di Giustiniano.

Lotario lo donò alla città di Pisa e si fece solo delle copie. Italia, Francia e Germania adottarono subito la nuova legislazione; il manoscritto fu deificato ed ottenne un culto particolare.

Tutta la giurisprudenza passata fu messa da parte. La Santa sede si inquietò sia per la deificazione sia per l’abbandono della vecchia giurisprudenza.

Un concilio di Tours (1180) vietò ai religiosi di fuggire dai chiostri per studiare il diritto romano.

Nel 1225 Onorio vietò con un decretale lo studio del diritto romano ai chierici ed ordinò che i contravventori venissero cancellati dall’albo degli avvocati e pure scomunicati.

Queste proibizioni fecero sì che da questo momento in poi fossero i giuristi laici ad occuparsi di diritto romano. Il Digesto venne visto dal re come il rivestimento del nuovo Cesare, ma ci vollero secoli per affermare le nuove regole perché i re di Francia non volevano inimicarsi la Chiesa.

Sta di fatto che nelle decisioni più importanti dei re dal 1200 in poi c’è sempre stato lo zampino dell’avvocatura.

Un nome per tutti: Robespierre faceva l’avvocato.

In altre parole sino al 1790 l’avvocatura svolse un ruolo politico.

Ed ebbe in cambio dignità e ricchezza.

Si pensi che erano anche esenti dalle imposte.

A Parigi nel 1790 c’era un quartiere dedicato a loro residenza (St.-Jacques) ed erano in numero di 600. Nel 1845 furono sostituiti dagli studenti e dai tipografi: per chi non la conosce sembra di parlare dell’attuale Via Balbi a Genova.

I più abili erano avvocati del parlamento, poi c’erano gli avvocati detti UTILI che si occupavano delle controversie nei tribunali e che dipendevano dall’arbitrio dei procuratori; altri si dedicavano come oggi solo alla redazione delle memorie ed altri ancora erano segretari di magistrati e ricevevano le lagnanze (insomma erano dei cancellieri).

Fra di loro erano molto corretti e si scambiavano tutti gli atti e produzioni senza ricevuta od elenco: già all’epoca dunque esisteva la discovery e veniva chiamata comunicazione dei sacchi.

Ogni sabato dalle 12 alle 19 davano consulti gratuiti (consulti di carità) a tutti i poveri che si presentavano, come facevano del resto già i giuristi dell’antica Roma.

Le cose cambiarono con la Rivoluzione francese perché l’avvocatura si schierò coerentemente per il re e i rivoluzionari non la perdonarono.

L’ordine fu cancellato: quello che non tutti sanno è che gli stessi legali, percepito che cambiava il vento, votarono segretamente per l’abolizione; in cambio 183 di loro entrarono nell’Assemblea Costituente.

Il nome avvocato venne cancellato dal dizionario ed al suo posto si parlò di uomo di legge e di difensore officioso.

Nonostante ciò furono gli artefici più convinti del periodo del Terrore. Tanto che il Direttorio fu chiamato il regno degli avvocati; solo non si macchiarono di corruzione e di concussione.

L’ordine non ricomparve che con la Monarchia. Fu Napoleone a restaurarlo nel 1810.

Napoleone non amava gli avvocati; un avvocato era per lui la personificazione di tutto ciò che vi era di ciarliero, di debole, di inutile e di oppressivo; egli considerava la loro influenza politica come il più pericoloso dissolvente di ogni governo. Così col decreto del 1810 li pone comunque sotto la dipendenza del pubblico ministero e dunque cercò di stroncarne comunque le ambizioni politiche.

Nel 1812 gli avvocati erano solo 300 e nel 1838 solo 800 ed avevano per lo più rinunciato alla professione UTILE. Così facevano i soldati, gli agenti immobiliari e svolgevano ruoli commerciali proibiti dal regolamento, altri semplicemente scrivevano sul biglietto da visita che erano avvocati alla corte reale, ma qui nulla facevano.

Nel 1845 per arginare la crisi dell’avvocatura il consiglio dell’ordine faceva un’assicurazione che copriva il danno se i clienti non pagavano o pagavano male. Una pensione di 400 franchi era destinata agli orfani, agli invalidi e alle vedove.

 

Cfr. Dizionario delle date, dei fatti, luoghi ed uomini storici o repertorio alfabetico di cronologia universale contenente … pubblicato a Parigi da una Società di dotti e letterati sotto la direzione di A.-L. d’Harmonville, Volume 3,1845

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