Da Mou-Ouang a Beccaria: la buona amministrazione della giustizia

pag. 4-5

952 anni prima di Cristo e dunque 200 anni prima della fondazione di Roma, un imperatore cinese della terza dinastia di nome Mou-Ouang fece pubblicare una legge giudiziaria, che è al contempo una sorta di testamento e che fornisce interessantissimi spunti di riflessione.

Basti pensare che anticipa ad esempio gli scritti di Beccaria sulla pena di morte di 1600 anni[1] e non è detto che lo stesso economista milanese non ne fosse a conoscenza; in fondo la traduzione italiana della legge cinese  fu pubblicata nel 1777 a Siena solo tredici anni dopo Dei Delitti e delle Pene ed è dunque possibile che fosse già in circolazione in Italia da un pezzo.

Si tenga conto inoltre che il traduttore di questa legge giudiziaria cinese la dedicò a Pietro Leopoldo, imperatore del Sacro Romano Impero e re d’Ungheria e Boemia; quello che in Toscana abolì la tortura e la pena di morte grazie al varo del nuovo codice penale del 1786. E che la Toscana fu il primo stato nel mondo ad adottare appunto i principi di Cesare Beccaria: così almeno si legge nei libri di storia e di letteratura, ma se fosse vero anche il contrario? Se in fondo Pietro Leopoldo, il traduttore e Cesare Beccaria fossero stati sodali di uno stesso cenacolo culturale?

Lasciamo l’interrogativo agli studiosi. Orbene questo antico testo cinese ci racconta di come veniva amministrata la giustizia più di tremila anni fa quando da noi in Occidente prendeva forma orale l’epopea omerica e non si distingueva ancora, ad esempio, tra intenzionalità e colpa in un delitto, il reo era presunto tale, non c’erano sentenze, né pubblici ministeri e la pena che non era scritta consisteva per lo più nella vendetta che veniva amministrata dai parenti della vittima.

Tra questo sistema che muterà parzialmente in Grecia soltanto nel IV-V secolo, ma che ritroviamo ad esempio presso i Longobardi ancora 1000 dopo e l’amministrazione della giustizia cinese c’è un abisso di civiltà e non stupisce dunque lo scrivente che i Cinesi sino ai tempi odierni abbiano sempre diffidato dalla produzione occidentale del diritto.

Riporterò alcuni stralci, per non appesantire la narrazione con nomi ed eventi troppo lontani da noi, assumendo come fonte appunto l’importante testo senese del 1777[2] con gli opportuni ammodernamenti legati al nostro gusto e alla nostra lingua.

“La sola necessità ha obbligato i Principi a servirsi dei supplizi […] Per due ragioni quelli che sono incaricati di punire i delitti soddisfano malamente a questa penosa funzione: talvolta temono il loro impiego e quindi si allontanano dalle obbligazioni che il medesimo ad essi impone; talvolta operano con eccessiva  autorità, ed immaginano di non fare mai abbastanza, allorché fanno anche troppo dimostrando in tal guisa che mancano di discernimento. Se riflettessero che stanno in luogo del Cielo saprebbero che non hanno un maggior potere di quello che il Cielo dà loro: che la vita e la morte dipendono unicamente da esso; e che comportarsi diversamente non è ricevere dal Cielo l’autorità, ma usurparla.

Governatori ed Ufficiali delle province, depositari della giustizia, il Cielo forse non vi alimenta per esercitarla in sua vece?[…] Voi tutti, chiunque voi siate, miei parenti, miei fratelli, miei figli, grandi e piccoli, udite attentamente ciò che vi dico; questo è un ordine di somma importanza. Non c’è giorno in cui non dobbiate lavorare per procurarvi la pace e la felicità; non farlo è esporsi ad un pentimento che diviene quasi sempre inutile. Il Tien[3] ha incaricato me solo di regolare il popolo; se commetto errori, ciò accade perché sono uomo. Questa è una ragione che deve impegnarvi anche maggiormente ad aiutarmi secondo gli ordini del Cielo.

Non dovete riportarvi ciecamente al mio consiglio. Se sono incline a punirvi non dovete essere dello stesso sentimento; se voglio perdonare non dovete subito abbracciare il partito della clemenza; ma dovete seguire rispettosamente ciò che insegnano le leggi sopra le cinque sorti dei castighi, e sopra le tre virtù, di rettitudine, di rigore e di dolcezza. Con quella savia condotta mi colmerete di gioia e procurerete una solida pace al mio popolo.

Chiunque voi siate io voglio insegnarvi una maniera giusta di punire[…]  se la cosa è chiara bisogna che la legge si esegua; ma se dopo un sufficiente esame il delitto non è certo, conviene allora o far uso delle cinque sorti delle pene pecuniarie ovvero rimandare i delinquenti assolti, secondo le cinque maniere stabilite dalle leggi.

I falsi giudizi dipendono ordinariamente da cinque sorgenti le quali impediscono che si scopra la verità. La prima è la eccessiva autorità di quelli che occupano gli impieghi; questa autorità riempie di timore gli accusati che non osano disputare contro i loro giudici. La seconda che gli stessi accusati temono di dire la verità per paura di tirarsi addosso qualche vendetta anche peggiore del male presente. La terza che si presta troppo facilmente orecchio alle donne e si ascoltano più che la ragione e la stessa giustizia. La quarta è che ci si lascia corrompere dal denaro. La quinta è finale è che mancano i lumi per distinguere il vero dal falso e non lo si vuole confessare.

Voi dovete sapere che sebbene queste cause differiscano l’una dall’altra il male che deriva da un ingiusto giudizio è sempre il medesimo; e dunque state in guardia a non pronunciare mai sentenza senza avere esaminata la causa.

Se il delitto è evidente bisogna punirlo; se dubbioso conviene essere favorevole al delinquente ed accordargli il perdono; se la maggiore probabilità è contro l’accusato conviene allora aver riguardo alle circostanze e pronunciare. Non ascoltate quel che non si riferisce all’affare; ed in qualunque cosa temete che il Cielo vi faccia provare la sua vendetta. Sebbene ho detto che bisogna perdonare al delinquente, quando il delitto è dubbioso, è necessario nondimeno avere riguardo alla qualità del delitto di cui si tratta. Per esempio a quelli che sono accusati di un delitto che esigesse il castigo di un marchio in volto, se le prove sono dubbiose, si può permutare la pena in un’ammenda pecuniaria di 600 once d’oro. A quelli che dovessero avere il naso tagliato, in un’ammenda di 200; a quelli a cui dovessero vedersi tagliare i piedi di 500; a quelli che dovessero essere mutilati di 600; a quelli che infine dovessero essere sentenziati di morte, conviene permutare la pena in 1000 once d’oro, e rimandarli assolti.

Queste permutazioni di pene erano in altri tempi alquanto diverse. È molto difficile dare sopra un tale articolo regole che siano certe. La saviezza e l’attenzione dei giudici devono supplirvi.

Qualora uno si sia reso colpevole d’un delitto del primo ordine, se egli non ha avuto malizia, e l’intenzione di commetterlo, conviene seguire la strada della dolcezza. Ma se il delitto deriva dalla volontà deliberata, bisogna fare uso del rigore delle leggi.

Il rigore o la dolcezza nell’esecuzione di queste leggi dipendono da quelli che occupano gli impieghi, i quali devono uniformarsi alle circostane attuali; e bilanciare se convenga o no usare indulgenza, o rigore; noi abbiamo le regole che dobbiamo seguire ed i precetti dai quali non è permesso allontanarci.

Ogni delinquente, sebbene non sia commesso un delitto capitale, si trova sempre in uno stato assai penoso ed infelice; non conviene dargli giudici che non sappiano terminare un affare se non usando parole artificiose; ma è necessario scegliere persone piene di rettitudine, che non cerchino se non la verità.

State attenti a quelli che rifiutano di confessare i delitti: sovente ciò che non si ottiene sul principio si ottiene con il tempo; il timore e la bontà siano i compagni dei vostri giudizi.

Fate conoscere a tutti che non vi distaccate dallo spirito delle Leggi scritte nei nostri libri ed allora non vi allontanerete dalle regole della vera giustizia. […]

O voi che mi ascoltate, imparate ad usare la più grande circospezione. Io per me, lo confesso, non parlo di questa materia, senza essere pieno di timore e penetrato di rispetto per la giustizia. Quella è fondata sulla virtù. Il Cielo per aiutare gli uomini ad abbracciarla ha stabilito alcune pene in modo da mantenerli nei loro doveri. Quando si sono allontanati gli artificiosi, fallaci e simulati discorsi, e si sceglie il giusto mezzo, che può essere solo procurare la pace al popolo, è facile amministrare la giustizia.

Convien guardarsi dal seguire la propria inclinazione che ci farebbe pendere piuttosto da una che da un’altra parte. Le ricchezze che derivano dall’amministrazione della giustizia non sono mai un tesoro; esse non servono che ad accumulare delitti sopra delitti ed a condurre alla fine all’ultima delle disgrazie. Non v’è cosa più terribile e da più temersi del rigore dei supplizi. Non è già che il  Cielo non sia infinitamente buono; ma  è l’uomo che merita tale severità opponendosi agli ordini del medesimo. Se il Cielo non usasse questo rigore, quanti mali si vedrebbero nel mondo e come si potrebbe sperare di governarlo!

Per voi che dovete succedermi il piano di condotta che dovete proporvi per il tempo avvenire è quello di far regnare la virtù in tutto l’impero. Ma non ne verrete a capo senza chiaramente distinguere il vero dal falso. I savi nostri predecessori si sono resi degni di infinite lodi per la premura che si sono data nell’amministrazione della giustizia; con ciò hanno essi anche meritato una felicità senza limiti. Governatori e Prìncipi dell’Impero ricevete queste istruzioni dal vostro padrone; e nel governo dei popoli a voi confidati abbiate sempre a cuore la buona amministrazione della giustizia”.


[1] Dei delitti e delle pene è stato pubblicato a Milano nel 1764.

[2]Joseph-Anne-Marie de Moyriac de Mailla, Jean-Baptiste Grosier, Michel Ange André Le Roux Deshauterayes, Storia generale della Cina: ovvero, Grandi annali cinesi, Volumi 3-4, Stamperia F. Rossi, Siena, 1777, pp. 234 e ss.; http://books.google.it/books?id=a9EpAAAAYAAJ&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false

[3] L’idea religiosa cinese di Dio o il Cielo.

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