Dante Alighieri – Divina Commedia – Purgatorio – Canto I – Sintesi e commento

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CANTO I

BREVE RIASSUNTO

L’azione si svolge sulla spiaggia dell’Antipurgatorio di cui è custode Catone che è anche il personaggio descritto nel canto.

Il tema principale del canto: l’ansia di D. della Libertà morale (Catone è il custode di detta libertà).

COMMENTO

Questo primo canto è volutamente contrapposto al primo canto dell’Inferno perché la bellezza del paesaggio che tempera il primo incontro di D. con la fiera, svanisce poi nel secondo incontro; qui invece la serenità del paesaggio si mantiene.

Il paesaggio non è poi come nell’Inferno solo un simbolo, è reale; il canto ha un tono religioso, si compone di riti, ma, attraverso il paesaggio, ci vuol dare anche uno spaccato della nuova condizione psicologica di D. che ha lasciato la tenebra dell’Inferno.

Ma ecco che D. incontra Catone (l’ispirazione è virgiliana, ciceroniana, ma soprattutto lucana), illuminato dalle quattro stelle (virtù cardinali).

Ha raggiunto cioè il massimo di perfe­zio­ne morale conseguibile antecedente­mente alla rivelazione, anche se si è suicidato (in taluni casi Dio ispira il suicidio per essere di esempio agli uomini, diranno Tommaso e Agostino) perché lo ha fatto non per motivi egoistici e personali, seguendo la morale stoica[1].

Catone è un austero sacerdote della liturgica iniziazione di Dante al nuovo clima morale, ministro del primo rito ascetico: un che di mezzo, di non perfettamente saldato tra l’eroe repubblicano e il custode d’un regno cristiano, investito di compiti appena d’un poco inferiori a quelli che saranno assunti, nel corso del vero e proprio Purgatorio, dagli angeli: spia, dunque, prova di quel tentato e non completo sincretismo tra mondo classico e Cristianesimo che fu dell’età di Dante, e del nostro poeta in particolare; esemplare storico di altezza morale, di spregio della vita, di fedeltà inconcussa alla libertà, ma con significazioni spirituali che il personaggio reale, lo stoico, non può tutti contenere o esprimere, e anche con aporie sul piano storico se il custode dell’Antipurgatorio era stato l’avversario di Cesare, cioè di colui che fu per Dante il fondatore dell’Impero, anzi il primo degli imperatori.

Si può dedurre che la funzione di Catone si svolga tutta su di un piano morale, non storico-politico, in quanto primo avvertitore dell’imminenza della Rivelazione: per essersi rifiutato d’interrogare l’oracolo pagano, giacché l’unica voce che va ascoltata è quella della coscienza morale, ove è presente e opera il vero Dio.

L’austerità della scelta di Catone lo pone al di sopra d’ogni condanna, ma anche al di qua d’una vera e propria salvezza (quale sarà quella di Stazio, di Traiano, di Rifeo): egli non può varcare la soglia del Purgatorio, e anzi non può nemmeno muoversi dalle propinquità della spiaggia della montagna: accoglie, non guida; inizia, non reca a soluzione il processo catartico; simboleggia la magnanimità dell’uomo libero, non l’opposizione al compito provvidenziale dell’Impero; precede storicamente la costituzione dell’Impero, e quindi non può essere considerato uno strumento che ne ritarda la nascita e gli effetti voluti da Dio, e all’intelletto dell’esule e libero cittadino fiorentino Dante Alighieri rappresenta il cittadino dell’antica Roma che resta fedele sino all’ultimo al sentimento di patria e non agisce per la divisione degli animi, ma contro le lotte fratricide della guerra civile.

In analogia a quanto trova scritto nella Pharsalia (“Victrix causa deis placuit, sed victa Catoni“), Dante reinterpreta, reinventa il personaggio storico in forza d’un altissimo principio morale, che lo pone, nel dialogo con Virgilio (Purg., I, 40-108), in uno stato superiore anche al grande poeta di Roma, il quale gli si rivolge con reverenza, con ammirazione, persino con accattivante umiltà: segno che, nonostante la funzione di Virgilio nel viaggio di Dante sia superiore a quella di Catone, la collocazione di questi è superiore a quella d’un malinconico abitante del Limbo, d’uno che è sospeso, mentre Catone guida i primi passi dell’anima cristiana, è ministro d’un culto sacramentale.

Tuttavia (e il dialogo con Virgilio lo comprova) Catone vive in stato di perpetua solitudine: ammonisce, rimbrotta anzi aspramente, inizia la liturgia, ma non gode dei doni che pur elargisce con la sua parola eloquente, con i suoi atti sacerdotali.

Resta un magnanimo senza un futuro, almeno presumibile, il magnanimo, ha scritto il Paratore, “fra tutti i magnanimi della Commedia in una rappresentazione più nuda e più severa di ogni altra sua”, un ideale morale assoluto per Dante, non condannato perché la sua altezza di concezioni è tale che, se tutti i cittadini romani fossero stati come lui, l’umanità avrebbe da sola conquistata quella pace, acquisito quel senso della giustizia, mancando il quale si rese necessaria da parte di Dio l’istituzione della potestà imperiale.

Secondo alcuno rassomiglia anche un po’ a Farinata per la gravezza e la statuarie­tà, imperturba­bi­le e magnanimo come tutti gli stoici ma nello stesso tempo umile; ed è  un po’ patriarca biblico (assomiglia al San Bernardo del Paradiso; nel Convivio lo aveva già avvicinato a San Paolo).

La sua dirittura morale, che non lascia spazio al compromesso, si vedrà anche nel secondo canto ove C. rimprovererà D. e V. di essersi abbandonati alle lusinghe della musica di Casella.

C. rappresenta l’uomo che è destinato al soprannaturale e all’eterno: senza la libertà morale ch’egli ha ricercato con amore (vv. Monarchia e Convivio), cioè senza il pieno dominio di sè, non c’è per l’uomo possibili­tà di vita e di salvezza.

C. sa di non essere nato per sé stesso ma per il mondo e partecipa ad una guerra civile (per cui ha già indossato il lutto) senza speranza, per difendere libertà e giustizia (l’osse­quio alle leggi che Cesare aveva calpestato è la più grande forma di libertà).

Proemio al Purgatorio

D. enuncia l’indicazione dell’argomento (vv. 1-6; proposizione) ed invoca le Muse e in particolare Calliope perché accompagnino il suo canto con quel suono con cui vinsero le figlie di Pierio[2] (vv. 7-12).

D. contempla l’alba e le quattro stelle del polo antartico, simbolo delle virtù cardinali (Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza): uscito dalle tenebre infernali, gode della purezza dell’aria serena e guarda con piacere la volta illuminata dalle stelle; dopo aver guardato Venere che copre col suo splen­dore la costellazione dei pesci (nel 1300 V. era vespertina e non mattutina come D. pretende) è colpito dallo splendore di quattro stelle, che non furon viste mai se non da Adamo ed Eva, e com­piange il nostro emisfero perché privo della loro bellezza (vv. 13-27).

Colloquio tra Catone e Virgilio (vv. 28-84)

Catone, esaltato già da D. nel Convivio e nella Monarchia come il più santo degli eroi (il più degno di significare Iddio), è il custode (vv. anche Seneca nel proemio delle Controversiae) della montagna[3].

D. allontanato lo sguardo dalle quattro stelle vede un vecchio dall’aspetto venerando su cui si riflette la luce degli astri.

È Catone che si rivolge a D. e V. con tono sdegnato, credendoli dannati fuggiti dall’Inferno. Virgilio, fatto inginoc­chiare D., spiega a C. le ragioni del viaggio[4] e gli chiede, anche a nome della sua Marzia, il permesso di visitare il regno a lui sottoposto.

Il rito della purificazione (vv. 85-136)

Catone rievoca il suo amore per Marzia, acconsen­te al passaggio e indica il rito della purifica­zione: ordina a Virgilio di lavare il viso di D. per detergerlo dalle tracce dell’Inferno e di cingere i suoi fianchi con uno dei giunchi (che si piegano assecondando la “purificazione”) che nascono verso la spiaggia (vv. 85-108).

Virgilio e Dante, che solo adesso si alza in piedi, eseguono il comando, simbolo di purifica­zio­ne ed umiltà, lungo la spiaggia del Purgatorio: V. bagna il volto di D. e cinge i suoi fianchi con un giunco che appena strappato rinasce (simbolo della rinascita spirituale di D.) (vv.109-136).


[1] L’etica stoica si fonda sul principio che l’uomo è partecipe della ragione universale e portatore di una scintilla del fuoco eterno. La virtù consiste nel vivere con «coerenza» (homologia), scegliendo sempre ciò che è «conveniente» alla propria natura di essere razionale. Nello stato di assenza delle passioni (apatia) quello che poteva apparire come male e dolore si palesa come un punto positivo e necessario del disegno della provvidenza universale.

[2] In questi versi si esprime l’opera nefanda delle religioni errate, che distorsero la “melodia” della Divina Verità, che le muse, ovvero “le Sante”, nella loro vita terrena, portarono al mondo. Ed ecco il canto gracchiante delle “piche” le gazze, il canto della negazione, che condusse gli uomini a rinnegare, lungo i sentieri errati, la vera melodia del Verbo Divino: il “Divin Suono”.
Non è da escludere che, nel concetto dantesco, possa intendersi come espiazione di tale peccato anche quello di rinascere in corpo di gazze.

[3] Marco Porcio Catone (95-46 a.C.) è il simbolo della fedeltà alla libertà morale, mantenuta a costo della vita (Soprannominato l’Uticense, uomo politico romano, pronipote di Catone il Vecchio. Sostenitore di Cicerone contro Catilina, fu il più autorevole rappresentante dell’opposizione del senato al primo triumvirato. Allo scoppiare della guerra civile, si schierò a fianco di Pompeo, seguendolo in Oriente. Dopo Farsalo continuò la guerra in Africa, ma, assediato in Utica, si  uccise per non sopravvivere alla caduta della repubbli­ca); perciò è posto qui dove le anime, attraverso l’espiazione materiale e spirituale, si vanno conquistando la libertà dello spirito.

[4]  È necessario perché D., così vicino alla morte spiritua­le, riacquisti il corretto esercizio del libero arbitrio.

Dal mos maiorum al Rapporto ONU sullo sviluppo umano 2013

Pompei 118

Estratto dal volume in corso di pubblicazione: C.A. CALCAGNO, Il legale e la mediazione. I doveri e la pratica dell’avvocato mediatore e dell’accompagnatore alla procedura. Tutti i diritti sono riservati.

Nel 2012 l’Assemblea Generale dell’Onu ha richiesto al Segretario Generale di lanciare una consultazione per stabilire quali siano le migliori prassi per una mediazione efficace.

Nella Guida per una efficace mediazione che ne è derivata l’ONU tiene a precisare chel’indagine condotta si è basata sul passato e sul presente[1].

Chi scrive coltiva la medesima convinzione e ritiene di dover iniziare l’attuale disanima proprio dal nostro passato.

L’oggetto del presente contributo può trovare una chiave di lettura nel concetto che la deontologiaha rivestito nella storia.

La deontologia[2], il “dovere” nasce in origine dalla convinzione su base soggettiva che un mezzo giusto porti ad un fine giusto.

Agli albori della civiltà romana era il costume degli antenati (mos maiorum) ad essere considerato ilmezzo giusto.

Le norme etiche del tempo su cui è stata elaborata tutta la società romana, si affidavano allatradizione orale di coloro che erano anche i detentori del potere religioso e politico[3] e spesso siconfondevano con i precetti religiosi.

E quali erano questi princìpi, quali questi mezzi giusti[4]?

la pietas, il rispetto verso la patria, i genitori, gli dei, gli amici;

la fides, la lealtà verso la parola data;

la frugalitas, la sobrietà nello stile di vita;

la probitas, il disinteresse e la gratuità;

la gravitas, la condotta irreprensibile dai modi controllati e lontani dagli eccessi[5];

il pudor, il sentimento di vergogna per ogni mancato rispetto della norma;

la sapientia, la saggezza politica, indispensabile nella vita pubblica.

L’insieme di tutte queste qualità costituiva per i Romani la virtus, termine che etimologicamente rimanda a vir, poiché è proprio al vir che spetta esercitarla.

La virtus si raggiungeva in guerra, tramite la gloria, e nella vita civile, tramite l’honos, l’onore dal quale nascono la dignitas e l’auctoritas, il riconoscimento pubblico del proprio ruolo e delle proprie prerogative[6].

Come si può notare questi non sono altro che i princìpi su cui si basa il Codice deontologico degli avvocati[7].

Ed i princìpi che stanno alla base della civiltà non possono che valere ovviamente anche per il mediatore avvocato e per l’avvocato accompagnatore alla procedura (rappresentante o assistente)[8]che devono avere rispetto in primo luogo della società[9].

Possiamo aggiungere poi, d’altro canto, che le prime forme di ADR ovvero di “giuria di periti” – la prima forma di summary jury trials[10] o di early neutral evaluation che troviamo ad esempio nel diritto americano attuale – si possono appunto rinvenire nella Roma arcaica, nell’attività delcollegio ponteficale o del pontefice massimo che in quanto esperto del costume degli antichi (appunto del mos maiorum) veniva designato ogni anno per respondere ossia per valutare il caso concreto alla luce dell’etica, per fornire un parere sull’andamento del futuro processo[11].

Il consiglio pontificale insomma non era altro che la base, il parere di fondo, su cui i litiganti facevano le loro valutazioni: scegliere il giudizio o la composizione bonaria.

La molla che ha portato ad una redazione scritta dei mores maiorum – anche se non è stato rinvenuto un testo scritto vero e proprio da cui si possano evincere, ma possiamo solo affermare che ispirarono le XII tavole – ha coinciso con la necessità del mantenimento della stabilità politica ed economica, in una parola con una più accorta gestione del potere: così la sintesi dei princìpi etici prima visti è divenuta norma giuridica di conoscenza generale.

Le XII Tavole sono state scritte in altre parole per controbilanciare i poteri dei patrizi e concedere ai plebei un minimum di certezze sui loro diritti. Un’operazione simile è stata realizzata peraltro dalla Comunità Europea in materia di ADR: le norme dettate dagli anni ’90 in poi sono sostanzialmentenorme quadro sul rispetto di requisiti minimi che i consumatori devono veder garantiti.

Peraltro l’incorporazione del mos nelle XII tavole ha portato alla valorizzazione “dell’accordo per via” e della conciliazione inter parietes e dell’arbitrato per le questioni legate al mondo agricolo e dunque al riconoscimento della funzione sociale degli strumenti alternativi.

Ma non solo si sono trascritti i mores, si è anche fatto il percorso inverso: dalla norma scritta, dai frammenti scritti di ius civile, si è evinto il potere di  stabilire “i mezzi giusti” per raggiungere giusti fini[12].

La categoria dei giuristi è nata – così almeno ci racconta Cicerone[13] – proprio nel momento in cui si è sostenuto che per essere pontefice massimo bisognasse conoscere lo ius civile e si è dunque invertita quella tradizione per cui necessitava essere pontefice massimo per divenire giurista.

Nel momento poi in cui si è ritenuto – fraudolentemente o meno[14] qui ci interessa poco – che ci dovessero essere dei corpi intermedi tra l’imperatore ed i sudditi le norme deontologiche propriamente dette sono tornate in auge, o meglio è nata la deontologia professionale ossia uncodice etico (comportamentale) elaborato dagli ordini professionali  ed imposto mediante l’esercizio dei poteri disciplinari[15].

Questa è la tendenza espressa ancora da ultimo nella Carta dei principi fondamentali dell’avvocato europeo (2013)[16]viene invocata una forte autoregolamentazione[17]dell’avvocatura, perché sola può garantire l’indipendenza dell’avvocato dallo Stato e dagli altri poteri in esso operanti, indipendenza che è considerata necessaria, quanto l’imparzialità del giudice[18].

Abbiamo detto che la deontologia nasce nei tempi antichi come un convincimento soggettivo.

A partire dall’Età dei Lumi si sente però l’esigenza di dare un fondamento oggettivo allaconvinzione che dall’uso dei mezzi giusti discendano fini giusti[19].

Kant in particolare, in età preromantica, afferma che una legge morale non possa essere determinata dalla natura dell’uomo o dalle circostanze in cui l’uomo è chiamato a vivere, bensì “a priori” in concetti di pura razionalità[20].

Le prescrizioni che si fondano sulla mera esperienza possono, per il grande filosofo, dirsi regole pratiche, ma non leggi morali.

È necessario dunque dare una metafisica ai costumi anche perché “i costumi rimangono soggetti a ogni genere di corruzione”[21].

Quando si riferisce ai costumi Kant intende il comportamento libero in generale[22].

Con il termine metafisica Kant fa invece riferimento ad “una conoscenza razionale pura da ogni empiria” [23].

Come rinvenire tale metafisica? Bisognerebbe che in presenza di un comportamento da porre in essere l’uomo si domandasse se l’azione o la non azione possa costituire o meno oggetto di una legge universale che valga dunque per tutti e che lui stesso in definitiva sia contento  di rispettare[24].

Il porsi questa domanda deriva dal considerare l’umanità come scopo, e non come semplice mezzo. Postulato quest’ultimo che non trova la sua fonte in una particolare esperienza, ma che ha carattere universale.

Quel comportamento che si vorrebbe in una legge universale costituisce dunque il nostrodovere[25]: massima questa che è comprensibile per ogni uomo[26].

Ed una legge che sia basata su doveri di tal natura non può che essere degna di rispetto.

Kant trova dunque il fondamento oggettivo della morale nella pura ragione che porta l’uomo a considerare l’umanità come un fine: si tratta di uno scopo oggettivo di tutti gli uomini razionali.

Ogni uomo per il grande filosofo ha il dovere di determinare la correttezza delle proprie azioni, ossia di verificare l’incidenza delle sua azioni sugli altri, perché ciò risponde alla ragione. Se tutti gli uomini in sostanza non operassero tale valutazione, ma pensassero esclusivamente alla propria felicità e questo principio divenisse universale, alla fine nessuno uomo potrebbe contare su un altro simile[27].

E dunque il dovere di trovare un contemperamento tra la propria e l’altrui felicità ha per il filosofo unfondamento logico assoluto: tanto è che Kant lo definisce imperativo categorico o imperativo della moralità[28].

Ed il contemperamento si specifica nell’agire come se appunto il comportamento dovesse diventare massima universale[29]: per Kant ciò costituisce esplicazione della nostra libertà.

Su una linea simile di pensiero si è posto nel 1971 il filosofo statunitense John Rawls il quale ha sostenuto che se un gruppo di individui, privati di qualsiasi conoscenza circa il proprio ruolo nella società, i propri talenti, il proprio livello intellettuale e culturale, le proprie caratteristiche psicologiche e i propri valori, dovesse scegliere secondo quali principi di fondo deve essere gestita la società in cui vivono non avrebbero dubbi anche se fossero totalmente disinteressati gli uni rispetto alla sorte degli altri, perché sarebbero costretti dalla situazione a scegliere una società gestita secondo criteri equi.

Questi fondamentali principi si può tentare di calarli anche nel dibattito che verte sulla mediazione come atto volontario o come atto imposto: se consideriamo la partecipazione ad una mediazione/conciliazione ovvero più genericamente la ricerca di un accordo come una espressione del dovere di verificare l’incidenza del nostro comportamento sugli altri, questi comportamenti si appalesano razionali, sono uno strumento che adempie ad un dovere potremmo dire naturale: la ragione giustifica il fatto che la partecipazione sia sentita eticamente obbligatoria[30], prima ancora che si traduca in una legge, e nello stesso tempo la ragione conferisce valore etico alla legge che ne prevede la obbligatorietà.

Non è un caso che all’epoca di Kant la conciliazione fosse obbligatoria in diversi paesi europei e del Mondo[31].

E razionale sarebbe anche il mantenimento nella procedura di un atteggiamento cooperativo, anche perché coloro che mediano non possono conoscere quale sia il limite della loro libertà se non conoscono esattamente quale sia il limite della libertà altrui.

Agli occhi del filosofo tedesco il comportamento assertivo e competitivo che a priori si tiene e che nelle Università e negli studi professionali ci hanno insegnato a tenere nelle aule di giustizia (e talvolta anche in mediazione purtroppo) sarebbe stato probabilmente illogico e contrarioall’imperativo categorico.

Il che potrebbe condurci sulla strada della riflessione sull’abuso del dirittoAbuso dei diritto che oggi sembra contrapporsi al concetto di “giusto processo [32].

In base a questo ultimo concetto lo Stato deve garantire che i cittadini possano esplicarepienamente i propri diritti e non deve opporre limitazioni.

E dunque ci si chiede se una mediazione imposta dalla stesso Stato che deve garantire tale libera esplicazione dei diritti sia o meno contrastante con il “giusto processo”.

Ma la risposta non è per nulla scontata, perlomeno se andiamo a vedere quelli che sono stati i lavori preparatori in Assemblea Costituente[33].

Martedì, 14 aprile 1947 fu proposto dall’Onorevole e magistrato Codacci Pisanelli[34] un emendamento all’articolo 19 (che poi sarebbe diventato il nostro art. 24 della Costituzione) che dava questa veste al primo comma della norma: “Nessuno può esercitare il proprio diritto o potere, pubblico o privato, per fini diversi da quelli per cui gli è stato riconosciuto”.

E ciò in luogo del noto principio che poi prevarrà “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”.

Il richiamo kantiano pare qui davvero evidente.

L’onorevole non si presentò a patrocinare l’emendamento e così fu fatto proprio dall’onorevoleDominedò[35] che voleva fortemente e coraggiosamente che in Costituzione fosse inserito il concetto di abuso dei diritti.

Il membro della Costituente fu però apostrofato dal Presidente della prima sottocommissioneTupini[36] secondo cui la Costituzione non poteva occuparsi della patologia, ma solo dell’uso “normale del diritto” ed un giurista, quale era il promotore dell’emendamento, non poteva non saperlo.

La domanda che credo ci si dovrebbe porre è se oggi siamo ancora o meno in una fase di “uso normale del diritto”[37] o se al contrario siamo scivolati nella patologia che almeno due dei padri costituzionali volevano strenuamente evitare.

Se l’emendamento non fosse stato “ritirato” e fosse stato approvato, probabilmente la storia della conciliazione italiana e dei metodi ADR sarebbe cambiata[38] e sarebbe cambiata forse anche la storia della nostra civiltà.

Così come è successo in Francia, al nostro confine: in fondo i supremi principi mutano spesso da luogo a luogo. Il Codice di procedura civile francese (l’art. 32-1) vigente prevede, infatti, che “Colui che adisce la giustizia in modo dilatorio o abusivo può essere condannato a una multa civile fino a 3.000 euro, fatti salvi eventuali danni che potrebbero essere rivendicati”.

Siamo comunque ancora in tempo perlomeno per continuare nel processo di diversificazione delle tutele[39].

Ci sono comunque diverse nazioni che cercano un contemperamento tra giusto processo eabuso dei diritti: vorrei qui citare a mo’ di esempio la California[40].

Il Codice di rito californiano stima che per ogni giorno di giudizio la spesa ammonti a 3.943$ e che tale costo può essere sensibilmente ridotto attraverso mezzi di ADR preventivi[41].

Si considera inoltre che un programma giudiziario di ADR possa avere successo nel momento in cui vi è un risparmio annuale di almeno 250.000 $[42] e che tutti gli operatori devono contribuire al raggiungimento di questo obiettivo che permette alle Corti di avere programmi di ADR finanziati.

Non aveva dunque visto male il Governo italiano nel momento in cui aveva spinto sulla mediazione delegata, coinvolgendo l’apparato amministrativo della Giustizia, ma purtroppo, come sappiamo, la norma è stata soppressa[43] in sede di conversione con la legge  7 febbraio 2012, n. 10.

Tra l’abuso del diritto ed il giusto processo, si è trovata in California una conciliazione nel senso che il diritto al trial si manifesta nel momento in cui si è provato a risolvere in modo collaborativola disputa.

E dunque dal 1994 in California sino a 50.000 $[44], la Corte ordina che si provi ad andare in arbitrato ovvero in mediazione per tutte le materie, sia che si sia privati individui, sia che si sia Agenzia federale[45].

Ogni atto relativo agli ADR che debba essere eseguito dalle parti può essere eseguito anche dai loro difensori[46].

Entro 30 giorni dalla scelta dell’ADR deve essere nominato un mediatore dalle parti o dal giudice se le parti non procedono nei primi quindici giorni[47].

Gli arbitri ed i mediatori sono pagati allo stesso modo dalla Corte, ma il mediatore non può essere pagato prima della dichiarazione di non accordo ovvero della chiusura della procedura[48].

Tutto questo potremmo dire che è un’applicazione del principio kantiano, visto che la logica impone che si risparmi il denaro dei contribuenti, se si vuole non solo continuare a tutelarli, ma pure ampliare la tutela.

Ma se non parliamo di legge, ma di come funzionano i nostri neuroni cerebrali, non sembra di poter approdare a conclusioni diverse.

Se il neurone smette di convogliare informazioni nell’assone e le sinapsi non le rilasciano nellospazio intersinaptico perché un altro neurone le possa appunto ricevere, alla fine muoiono entrambi i neuroni; la comunicazione è cioè un fattore che determina o meno la sopravvivenzadelle nostre reti cerebrali.

Si contrappone alla concezione di Kant[49] quella di Schopenhauer per il quale non esistono doveri assoluti, ma solo doveri ipotetici o condizionati (che già Kant aveva identificato accanto all’imperativo categorico); in sintesi il dovere di valutare l’incidenza delle proprie azioni non è frutto della ragione, ma della possibilità di ottenere un premio o di evitare una minaccia[50].

La presa di coscienza delle esigenze altrui (perno della mediazione moderna) non è determinata dunque da una logica assoluta ed inderogabile, ma dalla convenienza o dalla paura.

Mi pare che questa ultima dottrina si annidi talvolta anche nelle nostre teste: a ben vedere è quella stessa teoria che ci ha portato a scrivere che la mediazione è necessaria perché deve essere conosciuta, ma che deve essere una cosa provvisoria.

Peraltro tale impostazione sembra in parte essere stata recepita anche dalla legge laddove il decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28 all’articolo 5 c. 1-bis prevede che la condizione di procedibilità èsperimentale (“ha efficacia per i quattro anni successivi alla data della sua entrata in vigore. Al termine di due anni dalla medesima data di entrata in vigore è attivato su iniziativa del Ministero della giustizia il monitoraggio sugli esiti di tale sperimentazione.”).

Se non si considera la mediazione come un dovere imposto dalla ragione, in effetti, potrebbe essere necessario trovare una giustificazione ed apporre dei termini che la rendano “digeribile”.

In questa concezione il dovere è dunque un elemento relativo; prima e durante la scelta:

  • se comporre un conflitto oppure no,
  • e conseguentemente di uno strumento piuttosto che di un altro,
  • e quindi di una strategia piuttosto che un’altra (collaborativa o competitiva),

dovremmo porci un paio di domande: Mi conviene?  evito una minaccia?

Ben prima di Kant e Schopenhauer peraltro c’era qualcuno che in materia di composizione delle controversie aveva sintetizzato i due approcci, quello del dovere come esigenza imposta dalla ragione e l’altro, ossia quello del dovere come risposta ad un premio o ad una minaccia.

Si tratta di un passo dell’Evangelista Luca: “Quando vai con il tuo avversario davanti al magistrato, lungo la strada cerca di trovare un accordo con lui, per evitare che ti trascini davanti al giudice e il giudice ti consegni all’esattore dei debiti e costui ti getti in prigione. Io ti dico non uscirai di là finché non avrai pagato l’ultimo spicciolo.”[51]

Non si tratta di un principio religioso, per quanto fornisca naturalmente una indicazione a coloro che nel Vangelo credono. Si descrive qui semplicemente e si approva la pratica romana dell’”accordo per via” di cui abbiamo accennato prima, accordo che i Romani solevano trovare a seguito dellavocatio in ius che consisteva nell’invito al debitore di recarsi seduta stante nel Foro per essere giudicato.  

Se il debitore fosse stato recalcitrante il creditore lo poteva trascinava materialmente nel Foro, dopo aver richiesto l’assistenza di due testimoni.

Nel tragitto le parti spesso si accordavano ed il pretore peraltro sanzionava, ossia dotava di esecutorietà l’accordo, come ci ricordano le XII tavole.

Ebbene l’Evangelista ci suggerisce due comportamenti:

1) è più razionale accordarsi, qualunque sia l’accordo, piuttosto che affidarsi ad una sentenza da cui discendono almeno per una parte conseguenze sfavorevoli (l’avvocato ha peraltro un obbligo deontologico di non aggravare la posizione dell’avversario del suo cliente[52]);

 2) in assenza di un tentativo di contemperamento delle esigenze altrui si incorre certamentein una sanzione che potrà essere certa e molto pesante.

L’Evangelista non lo dice, ma se vogliamo davvero deflazionare il contenzioso, si potrebbe pensare anche ad una terza via, che i Romani conoscevano bene, ossia alla sentenza del pretore che ratificasse l’accordo; è questa anche l’ultima frontiera della mediazione delegata attuale, ma bisogna coinvolgere i giudici in questa nuova prospettiva “notarile” che dovrebbe vedere come unico limite all’accordo il buon costume e l’ordine pubblico.

E già comunque potrebbe costituire un passo avanti riprendere le norme tedesche che oggiimpongono all’avvocato, in un regime di mediazione volontaria (in Germania la condizione di procedibilità riguarda soltanto il settore familiare e la conciliazione), di indicare negli atti processuali introduttivi se si sia provato a negoziare prima del deposito e quali siano le ragioni che impediscono una definizione bonaria[53].

Quale che sia l’opinione del lettore, favorevole o meno agli strumenti di negoziato obbligatori[54], vorrei qui aggiungere che L’ONU ha appena pubblicato il Rapporto sullo sviluppo umano 2013 nell’ambito dell’United Nations Development Programme (UNDP)[55].

L’Italia ha un indice di sviluppo umano[56] che ci pone al 25° posto su 186 stati totali, ma anche al 25°[57] posto tra i 47 paesi che hanno uno sviluppo umano molto alto.

Tra i 24 paesi che ci precedono 22 hanno strumenti di negoziazione obbligatoria e nei restanti 2 (Paesi Bassi e Hong Kong) stanno pensando ad inserire la mediazione obbligatoria[58].

Si può dunque concludere con una qualche sicurezza che il tentativo di ricercare la pace sia indice dello sviluppo umano di un popolo[59].


[1] The General Assembly also requested the Secretary-General, in consultation with Member States and other relevant actors, to develop guidance for more effective mediation, taking into account, inter alia, lessons learned from past and ongoing mediation processes. United Nations Guidance for Effective Mediation, p. 2.http://www.un.org/wcm/webdav/site/undpa/shared/undpa/pdf/UN%20Guidance%20for%20Effective%20Mediation.pdf

[2] Deriva dal greco “deon” che significa dovere.

[3] Così a Roma facevano parte dello ius pontificale.

[4] Per approfondire cfr: Leges delle XII Tavole; Nevio, Bellum Poenicum, 43 Morel; Accio, Diomedes, v. 263 W.;      Epinausimache, v. 301 W.; Catone, De re rustica II, 1-5; Nepote, Vita Attici 1; 6; 13; 16-17; Cicerone, De Repubblica VI, 13-16; Catullo, Carmi 101, 109; Terenzio, Andria V, vv. 871-903; Sallustio, De coniuratione Catilinae 14-15;Virgilio, Georgiche 1, 122-148; Eneide, IV 584-602; XII 919-952; Tibullo, Elegie I, 10 vv. 1-25; Ovidio, Ars amatoria I, 629-644; Lucano, Bellum civile II 372-391; Tacito, Annales XIV, 7-8 Agricola 46; Svetonio, De vita Caesarum, Nero 34; Giovenale, SatiraVI, 1-20; 85-113; S. Ambrogio, Inno 4; S. Agostino, Confessiones X, 27-38 Epistulae 155, 18.

[5] L’Onu da ultimo con riferimento alla competenza del mediatore suggerisce che il mediatore sia “The mediator needs a level of seniority and gravitas commensurate to the conflict context and must be acceptable to the parties”.

[6] La virtus non può esistere senza una rigida delimitazione delle situazioni della vita civile:religiones, culti a fondamento dello stato; negotia, gli affari privati; otium, il tempo libero individuale o, per gli aristocratici, quello vacante da impegni pubblici.

[7] Cfr. Ad esempio gli articoli  5 (Doveri di probità, dignità e decoro),  6 (Doveri di lealtà e correttezza), 7 (Dovere di fedeltà) e 8 (Dovere di diligenza) nell’ultima versione aggiornata al 16 dicembre 2011 in http://www.consiglionazionaleforense.it/site/home/area-avvocati/codice-deontologico-forense.html.

[8] In oggi sono ripetuti anche dalla nuova legge sull’Ordinamento professionale forense (art. 3 c. 2): ”La professione forense deve essere svolta con indipendenza, lealtà, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo sociale della difesa e rispettando i princìpi della corretta e leale concorrenza”. Il Consiglio Nazionale Forense con decisione 30 maggio 2007 ha stabilito che i doveri di lealtà e correttezza (art. 6 CDF) devono ispirare l’attività dell’avvocato anche al di fuori dello stretto ambito processuale. Cfr. G. ROMUALDI, Dall’abuso del processo all’abuso del sistema giustizia, Giappichelli Editore, Torino, 2013, p. 75.

[9] Così anche per la nuova legge sull’Ordinamento Forense. Cfr. G. ROMUALDI, Dall’abuso del processo all’abuso del sistema giustizia, op. cit., p. 90.

[10] Alla fine della discovery di formano finte giurie presiedute da un giudice che in un processo simulato a seguito di procedure abbreviate forniscono verdetti (pareri consultivi) che possono essere base per una negoziazione.

[11] In Atene svolgevano funzioni analoghe gli esegeti in numero di tre. C. CANTÙ, Appendice alla Storia Universale, vol. Unico Delle Legislazioni, Pomba & C., Torino, 1839, p. 166.

[12] “Dovere è la necessità di una azione che va compiuta per rispetto della legge”. Cfr. Immanuel Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, JF Hartknoch, Riga, 1797.

[13] Cicerone (Delle leggi, 2, 29,47) ci racconta che Quinto Mucio, figlio di Publio, afferma di aver udito il padre che non può essere buon pontefice colui che non abbia conoscenza dello ius civile(ossia delle giurisprudenza e della prassi giudiziaria). Sino ad allora era la pratica pontificale che fondava lo ius civile e non viceversa (v. amplius A. SCHIAVONE, Il giurista, in L’uomo romano a cura di Andrea Giardina, Laterza, 2001, p. 92 e ss.).

[14] Il tutto sarebbe nato da una interpolazione fraudolenta di una glossa che assumeva l’esatto contrario.

[15] Il Codice deontologico forense italiano riguarda in particolare i principi e la modalità di esercizio dell’Avvocatura, a partire dalla tutela dei diritti e degli interessi della persona, assicurando la conoscenza delle leggi e contribuendo pienamente all’attuazione dell’ordinamento per i fini della giustizia.

Bisogna altresì considerare dal 2008 il Codice deontologico degli avvocati europei (ultima versione 2013; si può trovare in http://www.consiglionazionaleforense.it/site/home/area-cittadino/codice-deontologico-forense.html) che è altresì vincolante per gli avvocati e che riguarda i rapporti professionali tra gli avvocati di Stati membri diversi, o l’attività dell’avvocato svolta in uno stato membro diverso a prescindere dalla sua presenza ivi.

Il commento al Codice precisa che l’ambito di applicazione attiene a: “rapporti all’interno dello stato A, anche su questioni di diritto interno, tra un avvocato dello Stato A e uno dello Stato B; – tutte le attività svolte da un avvocato dello Stato A nello Stato B, anche se solo sotto forma di comunicazioni inviate dallo Stato A allo Stato B. Sono esclusi invece i rapporti intercorrenti tra avvocati dello Stato A, all’interno di quest’ultimo, su questioni riguardanti lo Stato B, se nessuna delle loro attività professionali si svolge in tale ultimo Stato”.

Si applica agli avvocati di 44 nazioni: Albania, Armenia, Austria, Belgio, Bosnia Erzegovina, Bulgaria, Cipro, Croazia, Danimarca, Estonia; Finlandia, Francia, Georgia, Germania, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Lussemburgo, Malta, Moldavia, Montenegro, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Repubblica di Macedonia, Romania, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia, Ucraina, Ungheria.

Le norme del Codice deontologico forense sono “interpretate e applicate in conformità” a quelle del Codice deontologico degli avvocati europei (Canone 1.3.2.).

[16] Si tratta di un documento elaborato dal Consiglio degli Ordini Forensi Europei e riguarda dieci principi comuni all’avvocatura europea. Cfr. per la versione più recente in lingua inglesehttp://www.consiglionazionaleforense.it/site/home/area-cittadino/codice-deontologico-forense.html

[17] Canone (J).

[18] Cfr. Canone 2.1.1. Codice deontologico degli avvocati europei.

[19] “Poiché qui, propriamente, la mia intenzione si dirige sulla filosofia morale, io limito la questione in questi termini: se non si pensi che sia assolutamente necessario elaborare una volta per tutte una filosofia morale pura, completamente liberata da tutto ciò che sia comunque empirico e appartenente all’antropologia”. Cfr. Immanuel Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, op. cit.

[20] “…tutti i concetti etici hanno la loro sede e la loro origine interamente “a priori” nella ragione”… Ora, l’uomo trova effettivamente in sé una facoltà con cui si distingue da tutte le altre cose, anzi, anche da se stesso in quanto riceve impressioni dagli oggetti: e questa facoltà è la “ragione”. Cfr. Immanuel Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, op. cit.

[21] “Ciò che ha da essere moralmente buono, infatti, non basta che sia “conforme” alla legge morale: esso deve anche avvenire “per” la legge morale”. Cfr. Immanuel Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, op. cit.

[22] Cfr. Immanuel Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, op. cit.

[23] “Ciò che ha da essere moralmente buono, infatti, non basta che sia “conforme” alla legge morale: esso deve anche avvenire “per” la legge morale”. Cfr. Immanuel Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, op. cit.

[24] “…puoi tu anche volere che la tua massima divenga una legge universale? Se non è così, la tua massima va respinta, e non già per un danno che possa derivarne a te, o anche ad altri, bensì perché essa non può entrare come principio in una possibile legislazione universale, verso la quale la ragione mi impone immediatamente rispetto”… “La questione è, dunque, la seguente: è una legge necessaria “per tutti gli esseri razionali”, che essi giudichino sempre le loro azioni secondo massime tali di cui sia possibile volere che servano da leggi universali?… “agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche al tempo stesso come scopo, e mai come semplice mezzo””. Cfr. Immanuel Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, op. cit.

[25] La necessità oggettiva di un’azione obbligatoria si chiama “dovere”. Cfr. Immanuel Kant,Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, op. cit.

[26] Nessuno, neppure il peggior ribaldo, per poco che sia abituato a fare uso della ragione, quando gli si presentino esempi di onestà nelle intenzioni, di costanza nel seguire le massime buone, di partecipazione al bene comune (anche se connesse con grandi sacrifici di vantaggi e comodità), manca di auspicare di essere anche lui dotato di siffatte intenzioni. Ma, questo, egli non riesce a realizzarlo in sé, a causa dei suoi istinti e inclinazioni: non senza che egli desideri tuttavia, al tempo stesso, di esser libero da tali inclinazioni viziose. Cfr. Immanuel Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, op. cit.

[27] “Ancora: un quarto, a cui le cose vanno bene, ma che vede altri intorno a lui lottare contro grandi difficoltà (ed egli potrebbe facilmente aiutarli) pensa: che cosa me ne importa? Sia ognuno felice tanto quanto il cielo gli concede, o quanto riesce a rendersi tale da sé: io non gli porterò via nulla e non lo invidierò; ma non ho nessuna voglia di contribuire al suo benessere o ad assisterlo nelle sue necessità. Ora, senza dubbio, se questo modo di pensare divenisse una legge universale di natura, il genere umano potrebbe benissimo sussistere; e, senza dubbio, meglio che quando ciascuno chiacchiera di partecipazione e di benevolenza, e anche mostra zelo quando se ne presenta l’occasione, ma, per contro, non appena può, mente, si lascia corrompere o infrange in ogni modo i diritti altrui. Ma, sebbene sia possibile che sussista una legge universale di natura ispirata a quella massima, è tuttavia impossibile volere che un tal principio viga in ogni caso, come legge di natura. Infatti, una volontà che volesse questo contraddirebbe se stessa, potendosi ben presentare casi in cui essa ha bisogno dell’amore e della partecipazione altrui, e in cui una legge siffatta, uscita dalla sua stessa volontà, impedirebbe a lei stessa di sperare nell’aiuto desiderato…”In quarto luogo”, per quel che riguarda il dovere supererogatorio verso gli altri, lo scopo naturale, proprio di tutti gli uomini, è la loro felicità. Ora, l’umanità potrebbe, bensì, sussistere anche se nessuno contribuisse alla felicità degli altri senza tuttavia detrarre nulla ad essa intenzionalmente: se non che questo è un concordare solo negativo, e non positivo, con l’”umanità come fine in sé”, quando nessuno si sforzi di promuovere, per quanto può, anche i fini degli altri. Infatti, il soggetto fine a se stesso è un soggetto tale che i suoi scopi, se quella rappresentazione ha da avere presso di me “tutta” la sua efficacia, devono anche, per quanto possibile, essere scopi “miei”.”. Cfr. Immanuel Kant,Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, op. cit.

[28]“La rappresentazione di un principio oggettivo, in quanto necessario per una volontà, si chiama comando (della ragione), e la formula del comando si chiama imperativo… Ora, gli “imperativi” in genere comandano, o “ipoteticamente”, o “categoricamente”. I primi ci presentano la necessità pratica di un’azione possibile come mezzo per raggiungere un qualche scopo che si vuole (o che è possibile che si voglia). Imperativo categorico sarebbe, per contro, quello che presenta un’azione come oggettivamente necessaria per se stessa, indipendentemente dal rapporto con un altro scopo… Ora, se l’azione si presenta come buona solo “per altro”, in quanto mezzo, l’imperativo è “ipotetico”, mentre se è rappresentata come buona in “sé”, e pertanto come necessaria per una volontà di per sé conforme a ragione e come principio della volontà stessa, l’imperativo è “categorico”… Tale imperativo può dirsi imperativo della moralità… L’imperativo categorico è, dunque, uno solo, e precisamente il seguente: “agisci solo secondo quella massima che tu puoi volere, al tempo stesso, che divenga una legge universale”…. l’imperativo universale del dovere potrebbe anche suonare così: “agisci come se la massima della tua azione dovesse, per tua volontà, divenire una legge universale di natura”… e porre a base la formula generale dell’imperativo categorico: “agisci secondo una massima che possa farsi al tempo stesso legge universale”.”. Cfr. Immanuel Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, op. cit.

[29] “Così, per esempio, io devo cercar di promuovere la felicità altrui, non perché m’importi qualcosa il suo esistere (vuoi per una inclinazione immediata, vuoi, anche, per un compiacimento indiretto, mediato dalla ragione), bensì unicamente perché una massima che la escludesse non potrebbe essere compresa in una stessa volontà come legge universale”. Cfr. Immanuel Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, op. cit.

[30] “…dunque, una volontà libera e una volontà sottoposta alla legge morale sono la stessa cosa”. Cfr. Immanuel Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, op. cit.

[31] A tacere dei provvedimenti ordinari almeno sedici Costituzioni nel mondo hanno costituzionalizzato tra il secolo XVIII ed il XIX gli strumenti alternativi prevedendo espressamente la conciliazione obbligatoria: Regno di Napoli (1799 e 1812), Regno delle Due Sicilie (1822), Francia (1791 e 1795), Cantone di Zugo (1814), Costituzione della Repubblica Ligure (1797), Costituzione della Repubblica Cisalpina (1798), Costituzione del Cantone di Zurigo (1814),  Carta Costituzionale del Regno di Polonia (1815), Costituzione del Cantone di Unterwal Il Basso (1816), Costituzione politica della monarchia spagnola (1812), Costituzione del Portogallo (1826), Costituzione politica della Repubblica del Perù (1823), Costituzione del Cile (1823 e 1833),  Costituzione dell’Impero del Brasile (1824). Cfr. C.A. CALCAGNO, ADR e Costituzioni nei secoli XVIII e XIX, inhttp://mediaresenzaconfini.org/2013/02/01/adr-e-costituzioni-nei-secoli-xviii-e-xix/

[32] Cfr. sul punto l’esaustivo lavoro di G. ROMUALDI, Dall’abuso del processo all’abuso del sistema giustizia, Giappichelli Editore, op. cit.

[33] Il presidente Obama ha firmato il National Defense Authorization Act per l’anno fiscale 2012 al 31 dicembre 2011, che consente al governo degli Stati Uniti di detenere a tempo indeterminato degli americani (detenzione a tempo indeterminato senza processo: Sezione 1021) senza il diritto al giusto processo. Se vi è motivo di sospettare una persona sta collaborando con “… forze associate che sono impegnate nelle ostilità contro gli Stati Uniti o dei suoi partner della coalizione”, la legge prevede ora che il diritto al giusto processo è “congelato” e il sospetto di terrorismo può essere detenuto “senza processo, fino alla fine delle ostilità” in base all’Iraq Resolution del 2002.

[34] Libero docente in Diritto Amministrativomagistrato, pretore di Tricase, componente dell’Assemblea costituente, più volte deputato, ministro della difesa nell’8º gabinetto De Gasperi, rettore del Consorzio Universitario Salentino, presidente dell’Unione Interparlamentare, ministro per i rapporti con il Parlamento nei governi Fanfani e Leone, sindaco di Tricase, nel Salento, dal quale proviene la sua famiglia, dal 1962 al 1968 e rettore dell’Università del Salento. Fonte Wikipedia

[35] È stato Sottosegretario di Stato agli affari esteri nel VI Governo De Gasperi con delega per gli italiani all’estero, nel VII Governo De Gasperi con delega per l’emigrazione, e nel VIII Governo De Gasperi.

Ha ricoperto lo stesso incarico anche nel Governo Pella, nel I Governo Fanfani e nel Governo Scelba.

Con il III Governo Fanfani è stato nominato Sottosegretario di Stato alla Giustizia, e nel IV Governo Fanfani ha ricoperto l’incarico di Sottosegretario di Stato alla Marina mercantile, diventando Ministro dello stesso Dicastero con il I Governo Leone. Fonte Wikipedia.

[36] Ex Ministro alla Giustizia dei Governo Bonomi II e III (1944-45). Fonte Wikipedia. Vicepresidente della Costituente e Presidente della prima sottocommissione.

[37] L’Italia nella Doing Business Mondiale del 2013 redatta dalla Internacional Finance Corporatione dalla Banca Mondiale ci dice che:

1) l’indice di forza dei diritti legali è pari a 3 (la Malesia ha indice 10).

2) Il nostro sistema giudiziario in tema di commercio è al  160° posto mondiale su 183 paesi (enforcing contracts).

http://www.doingbusiness.org/~/media/giawb/doing%20business/documents/profiles/country/ITA.pdf

Il Doing Business del 2014 ci pone al 128 posto mondiale, a mediazione obbligatoria reintrodotta. Cfr.http://www.doingbusiness.org/~/media/GIAWB/Doing%20Business/Documents/Annual-Reports/English/DB14-Full-Report.pdf

[38] “Aggiungo che la proposta di menzionare in Costituzione l’abuso del diritto significa affermare il concetto che l’eccesso di potere è condannato: ciò avrebbe una larga possibilità diffusiva anche nei confronti del diritto privato…” DOMINEDO’.

[39] La giurisprudenza comunque dal 2007 sta cercando di dare una mano in questo senso: cfr. sul punto G. ROMUALDI, Dall’abuso del processo all’abuso del sistema giustizia, op. cit., p.p. 11-34. A seguito della riformulazione dell’art. 111 anche gli articoli 88, 89 e 96 C.p.c. potrebbero avere una funzione di argine contro condotte contrarie al corretto svolgimento del processo, ma a ben vedere gli articoli 88 e 89 C.p.c. reprimono l’abuso nel processo e non del processo. Solo l’art. 96 C.p.c. potrebbe reprimere l’abuso del processo, ma comunque tutte le norme indicate sanzionano la parte e non il difensore (se si eccettua l’art. 88 c. 2 C.p.c. che comporta la segnalazione al Consiglio dell’Ordine) che è invece l’artefice delle strategie processuali. Non vi è inoltre alcun ristoro in queste norme per l’amministrazione della giustizia e l’interesse più in generale dell’ordinamento (G. ROMUALDI, p. 36 ed in particolare pp. 55 e ss.). Ruolo chiave invece per perseguire l’abuso del processo sarebbe per l’autrice l’applicazione dell’art. 49 del Codice Deontologico (G. ROMUALDI, p. 81). In sostanza “solo riconoscendo al giudice il potere di sanzionare l’avvocato per la violazione delle norme deontologiche (v. Trib. Cagliari 19 giugno del 2008, n. 2247) queste ultime possono costituire un valido baluardo contro l’abuso del processo” (G. ROMUALDI,  p. 95).

[40] Noi peraltro lo avevamo già fatto nel Codice di procedura civile del regno delle Due Siciliee nel Codice di procedura civile del 1865, attraverso il criterio sistematico.

Il legislatore californiano trova e dichiara che:

(A) La risoluzione pacifica delle controversie in modo equo, tempestivo, in maniera appropriata e conveniente è una funzione essenziale del ramo giudiziario del governo dello Stato ai sensi dell’articolo VI della Costituzione della California.

(B) Nel caso di molte dispute, il litigo che si conclude con un processo è costoso, richiede tempo, ed è stressante per le parti coinvolte. Molte controversie possono essere risolte in un modo giusto ed equo attraverso processi meno formali.

(C) Processi alternativi della risoluzione delle controversie per la riduzione dei costi, del tempo e dello stress, come la mediazione, sono stati effettivamente utilizzati in California e altrove. Nei casi opportuni la mediazione fornisce alle parti una procedura semplificata ed economica per ottenere la risoluzione rapida ed equa delle loro controversie ed una maggiore possibilità di partecipare direttamente a risolvere le dispute.

La mediazione può anche aiutare a ridurre l’arretrato di cause che gravano sul sistema giudiziario. È nel pubblico interesse che la mediazione sia incoraggiata ed utilizzata, se del caso, da parte dei giudici.

(D) La mediazione e simili processi alternativi possono risultare di maggior beneficio per le parti in un procedimento civile, quando siano utilizzati al più presto, prima della discovery e che altre spese processuali siano sostenute. Dove appropriato, le parti di una controversia dovrebbero essere incoraggiate ad utilizzare la mediazione e altre alternative al processo per risolvere le loro differenze nelle prime fasi di una causa civile.

(E) Così come accade in un progetto pilota a Los Angeles County e in altre contee che scelgono di applicare questo titolo del Codice, i giudici dovrebbero essere in grado di attribuire le disputeprocessi appropriati di risoluzione delle controversie, come   l’arbitrato giudiziario e la mediazione, in qualità di alternative al processo, in coerenza con il diritto delle parti di ottenere un processo nel caso in cui la controversia non sia risolta attraverso un processo alternativo.

(F) L’obiettivo di questo titolo è quello di incoraggiare l’uso di metodi alternativi di risoluzione delle controversie connessi al processo, in generale, e della mediazione in particolare. Si stima che il costo medio per la Corte della trattazione di una causa civile  attraverso il giudizio è di  3.943 dollari(3.943 dollari) per ogni giorno, e che una parte sostanziale di questo costo può essere eliminato se questi casi sono risolti prima del processo.

Il Consiglio giudiziario, attraverso l’Ufficio Amministrativo della Corti, procede a un sondaggio per determinare il numero di casi risolti con la risoluzione alternativa delle controversie prevista dal presente titolo, e valuta i risparmi derivanti e realizzati dai tribunali e dalle parti. I risultati del sondaggio sono incluse nella relazione presentata ai sensi della Sezione 1.775,14. I programmi autorizzati dal presente titolo si considerano efficaci se provocano un risparmio stimato di almeno 250 mila dollari ($ 250.000) per i tribunali e un risparmio corrispondenti per le parti.

[41] Sezione 1775 punto F del Codice di Procedura civile della California: “It is estimated that the average cost to the court for processing a civil case of the kind described in Section 1775.3 through judgment is three thousand nine hundred forty-three dollars ($3,943) for each judge day, and that a substantial portion of this cost can be saved if these cases are resolved before trial”.

[42] Sezione 1775 punto F del Codice di Procedura civile della California, comma secondo.

[43] Il d.l. 22 dicembre 2011, n. 212 all’art. 12 c. 1 stabiliva che:

“1. Al decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28,  sono  apportate  le seguenti modificazioni:  

a) all’articolo 5, dopo il  comma  6,  è  aggiunto,  in  fine,  il seguente:   “6-bis.   Il   capo   dell’ufficio   giudiziario   vigila sull’applicazione di quanto previsto dal  comma  1  e  adotta,  anche nell’ambito dell’attività di pianificazione  prevista  dall’articolo 37, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito,  con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n.  111,  ogni  iniziativa necessaria a favorire l’espletamento della mediazione su  invito  del giudice ai sensi del comma 2, e ne riferisce, con frequenza  annuale, al Consiglio superiore  della  magistratura  ed  al  Ministero  della giustizia.”;

  b) all’articolo 8, comma 5, al secondo periodo  sono  anteposte  le seguenti parole: «Con ordinanza non impugnabile pronunciata d’ufficio alla prima udienza di comparizione delle  parti,  ovvero  all’udienza successiva di cui all’articolo 5, comma 1,».”

[44] Valore determinato dalla Corte ai soli fini dell’ADR.

[45] Sezione 1775 5

[46] Sezione 1775 1  punto B.

[47] Sezione 1775 6.

[48] Sezione 1775 8 e 9.

[49] “…non la paura, e neppure l’inclinazione, ma soltanto il rispetto per la legge sia un movente capace di dare all’azione un valore morale” Cfr. Immanuel Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, op. cit.

[50] Già il codice di Manù del VI secolo a. C. recitava nel VII libro al precetto 15:”Il timore del castigo dà a tutte le creature mobili ed immobili di godere quanto è loro proprio, e toglie loro lo scostarsi dai propri doveri”.

[51] Luca 12, 58-59.

[52] ART. 36. – Autonomia del rapporto.

(Omissis)

I – L’avvocato non deve consapevolmente consigliare azioni inutilmente gravose, né suggerire comportamenti, atti o negozi illeciti, fraudolenti o colpiti da nullità.

(Omissis)

Ma vedi anche l’art. 49 per cui l’avvocato non deve gravare con onerose e plurime iniziative giudiziali la situazione debitoria della controparte, se non vi sia un apprezzabile interesse della parte assistita. Cfr. sul punto G. ROMUALDI, Dall’abuso del processo all’abuso del sistema giustizia, op. cit., p. 81.

[53] Il § 253 comma (3) ZPO (il Codice di rito tedesco), è ad esempio riformulato come segue:

“(3) La domanda deve contenere:

1 una dichiarazione che indichi se, prima del deposito del ricorso, abbia avuto luogo una mediazione od altro processo di risoluzione dei conflitti extra-giudiziale, nonché una dichiarazione relativa al fatto che sussistano motivi che ostacolino una definizione bonaria;” (omissis).(§ 253 Absatz 3 wird wie folgt gefasst:

„(3) Die Klageschrift soll ferner enthalten:

1. die Angabe, ob der Klageerhebung der Versuch einer Mediation oder eines anderen Verfahrens der außergerichtlichen Konfliktbeilegung vorausgegangen ist, sowie eine Äußerung dazu, ob einem solchen Verfahren Gründe entgegenstehen;…).

[54] Hanno strumenti di negoziazione obbligatoria tra gli altri i seguenti stati del Mondo che costituiscono più di un quarto degli stati totali: Giappone, Afghanistan, Algeria, Bangladesh, Germania, Italia, Stati Uniti, Romania, Israele, Irlanda, Argentina, Colombia, Australia, Giappone, Taiwan, Repubblica delle Filippine, Nuova Zelanda, Canada, Dubai, Nigeria, Botswana, Ghana, Capo Verde, Egitto, Gambia, Guinea-Bissau, Malawi, Mauritius, Lesoto, Namibia, Ruanda, Sierra Leone, Sudafrica, Uganda, Zimbawe, Cina, Francia, Inghilterra, Belgio, Danimarca, Svezia, Estonia, Norvegia, Grecia, Slovenia, Repubblica Ceca, Finlandia, Cipro, Svizzera, Islanda, Slovenia, Spagna, Liechtenstein, Repubblica di Corea. Per ulteriori informazioni consultahttp://mediaresenzaconfini.org/2012/11/03/mediazione-obbligatoria/

[55] hdr.undp.org/sites/default/files/hdr2013_summary_italian.pdf‎

[56] L’indice di sviluppo umano è utilizzato dall’ONU così come gli Stati utilizzano il Prodotto interno lordo. Sono naturalmente diversi i parametri di riferimento nel senso che l’ONU verifica come un paese affronti e risolva determinate disuguaglianze e discriminazioni interne.

[57] I Paesi che hanno uno sviluppo umano superiore al nostro sono i seguenti: 1 Norvegia 2 Australia 3 Stati Uniti 4 Paesi Bassi 5 Germania 6 Nuova Zelanda 7 Irlanda 7 Svezia 9 Svizzera 10 Giappone 11 Canada 12 Corea, Repubblica di 13 Hong Kong, Cina (sAR) 13 Islanda 15 Danimarca 16 Israele 17 Belgio 18 Austria 18 Singapore 20 Francia 21 Finlandia 21 Slovenia 23 Spagna 24 Liechtenstein.

[58] Questa è la situazione in dettaglio:

1) Norvegia: ha il tentativo preventivo di conciliazione obbligatorio.

2) Australia: I tribunali degli stati che la compongono hanno il potere di ordinare alle parti, in considerazione delle circostanze concrete, di partecipare alle ADR, sia prima sia durante il processo.

3) Stati Uniti: hanno la mediazione obbligatoria e anche l’arbitrato (California)(seppure non vincolante).

4) Paesi Bassi: i legali olandesi vedevano la mediazione italiana obbligatoria (ante decreto del fare) come necessaria; ultimamente il Mediation Training Institute la sta invocando per le procedure di divorzio; il nuovo progetto olandese sulla mediazione richiede l’inserimento in citazione dei motivi per cui non si intende mediare e spinge verso la mediazione delegata.

5) Germania: ha la conciliazione obbligatoria in 16 dipartimenti; la mediazione familiare può essere in taluni casi obbligatoria.

6) Nuova Zelanda: ha progetti pilota di mediazione giudiziaria obbligatoria dal 2009.

7) Irlanda: ha la mediazione obbligatoria quando si tratti di sinistri che abbiano cagionato danni alle persone.

8) Svezia: ha la conciliazione obbligatoria in materia di locazione commerciale ed il tentativo giudiziale di conciliazione obbligatorio preventivo; è obbligatoria la mediazione familiare nel caso di divorzio.

9) Svizzera: ha il tentativo preventivo di conciliazione giudiziale obbligatorio (dal 1° gennaio 2011 può essere sostituito dalla mediazione).

10) Giappone: la mediazione è obbligatoria in materia di locazione e di famiglia; si fa luogo a mediazione preventiva obbligatoria in tre ipotesi: 1) quando i diritti e le obbligazioni delle parti sono chiari e necessita solo un aggiustamento nell’interesse della relazione, 2) non ci sono norme legislative o regolamentari relative alla fattispecie ovvero sussistono settori in cui il Governo è meglio che non entri; 3) in casi dettagliati e specifici che sono più adatti ad essere risolti con la mediazione.

11) Canada: L’Ontario ha la mediazione obbligatoria in alcuni casi specificati dalle giurisdizioni municipali. La mediazione in Canada per i servizi bancari e finanziari sarà obbligatoria dal 1° maggio 2014http://www.mondaq.com/canada/x/283292/Securities/OBSI+Mandatory+ADR+for+All+Canadian+Securities+Registrants+Coming+May+1+2014&email_access=on

12) Corea: ha la conciliazione preventiva obbligatoria.

13) Hong Kong: ha la mediazione dagli anni ’80; si sta pensando introdurre la mediazione giudiziaria obbligatoria sul modello australiano (cfr. Research Trends and Conclusions: Commercial Mediation 2013 in http://whoswholegal.com/news/analysis/article/30713/)

14) Islanda: ha la mediazione delegata obbligatoria.

15) Danimarca: La conciliazione è obbligatoria per le imprese nel settore del turismo in merito ai viaggi e all’alloggiamento e nel settore dei mutui ipotecari.

16) Israele: ha la mediazione obbligatoria preventiva

17) Belgio: la conciliazione è obbligatoria per le industrie in diversi settori (telecomunicazioni, assicurazioni, poste, diritti dell’infanzia, rapporti con il governo, rapporto con le istituzioni dell’Unione Europea, banche, energia, collocamento privato, pensioni, prodotti finanziari).

18) Austria: dal 2002 si tiene un tentativo preventivo ed obbligatorio se il bene è ubicato ove sussiste il servizio di conciliazione, per la locazione ed in tema di proprietà immobiliare anche pubblica.

19) Singapore: han la mediazione obbligatoria in materia di divorzio quando i figli hanno meno di 14 anni (http://www.mediate.com/SingaporeMediators/)

20) Francia: il giudice può in generale disporre sessioni informative obbligatorie di mediaizone/conciliazione; la mediazione familiare è obbligatoria preventivamente in materia di famiglia qualora si invochi la revisione delle modalità per l’esercizio della potestà dei genitori o del contributo al mantenimento e all’educazione del bambino

21) Finlandia: il tentativo di conciliazione è obbligatorio in materia di consumo. Dal 1993 è obbligatoria la conciliazione giudiziaria che il giudice può riproporre in qualsiasi momento del processo.

22) Slovenia: il giudice può ordinare la mediazione: le parti possono rifiutare, ma se il rifiuto è irragionevole pagano le spese.

23) Spagna: la mediazione/conciliazione è obbligatoria in materia di lavoro.

24) Liechtenstein: ha la mediazione preventiva obbligatoria.

[59] Non è un caso che in Brasile il progetto di legge sulla mediazione richieda che 1) il Ministero della Pubblica Istruzione debba incoraggiare gli istituti di istruzione superiore ad includere la disciplina della mediazione come materia di studio e 2) che il Consiglio federale brasiliano dell’Ordine degli Avvocati includa le questioni relative alla mediazione nelle prove d’esame per gli avvocati (Cfr.http://senado.jusbrasil.com.br/noticias/112215575/projeto-que-disciplina-a-mediacao-judicial-e-extrajudicial-e-aprovado-pela-ccj).

Il 4 dicembre 2013 i magistrati di GEMME (l’associazione europea dei giudici per la mediazione) hanno chiesto al Ministro della Giustizia spagnola di cambiare il modello di mediazione processuale e di introdurre la sessione informativa di mediazione obbligatoria.http://www.lawyerpress.com/news/2013_12/0412_13_001.html

Anche in Russia dal 28 dicembre 2011 (http://www.kremlin.ru/news/14088) si sta pensando di introdurre la mediazione obbligatoria. Il tutto doveva trovare attuazione entro il primo maggio 2012 ma il Ministero della Giustizia ci sta ancora lavorando su.

Inchiesta sulla mediazione (quarta parte): il primo incontro (di avv. Giorgio Pernigotti)

Inchiesta sulla mediazione (quarta parte): il primo incontro

di Avv. Pernigotti Giorgio – 20/01/2014

Come si svolge il primo incontro di mediazione? Intervista ad un mediatore, l’avv. Calcagno Carlo Alberto

Inchiesta sulla mediazione (quarta parte): il primo incontro

“IL PRIMO INCONTRO”

Dopo avere affrontato, negli articoli precedenti, alcuni temi più generali sulla mediazione, ho ritenuto interessante, sempre per fini culturali e divulgativi, ascoltare l’opinione di un formatore e mediatore su alcuni aspetti critici della mediazione civile italiana, alla luce della normativa vigente.

Ringrazio della disponibilità l’Avv. Carlo Alberto Calcagno, formatore e mediatore dell’Organismo di mediazione e formazione dell’Ordine degli Avvocati di Genova, che non ha esitato un istante ad accogliere l’invito.

Gratitudine che vuole andare oltre l’intervista che segue, avendo l’Avv. Calcagno accettato di collaborare, mettendo a disposizione la propria esperienza e professionalità, in futuro e liberamente, sulle pagine di questo sito. Un evento accolto come un dono e che apre nuovi orizzonti e prospettive su materia complessa, dove domina, come abbiamo avuto modo di dimostrare, una diffusa reticenza a parlare, a dialogare; fatte, ovviamente, le debite eccezioni invero già segnalate.

Benvenuto caro Carlo Alberto, a nome di tutto lo staff!

  1. Ci racconti, in termini semplici anche per non “addetti ai lavori”, come si svolge il primo incontro davanti al Mediatore: come inizia, i primi approcci e la fase conclusiva?

Un principio fondamentale che riguarda la procedura di mediazione è la riservatezza: nel procedimento giudiziario chiunque di norma può recarsi in udienza; alla mediazione possono invece partecipare solo le persone coinvolte dalla controversia e coloro che sono autorizzati da queste ultime.

Primaria cura dell’Organismo ed in mancanza del mediatore è dunque quella di verificare se le persone che si sono presentate in mediazione abbiano o meno titolo per discutere ed eventualmente decidere di comporre una data questione che li accomuna.

Tale valutazione si effettua di solito prima della data fissata per il primo incontro di mediazione, ma quando non si verifichi tale preventiva attività si provvede subito dopo che le persone si sono sedute al tavolo della mediazione.

Il mediatore dopo essersi presentato ed avere spiegato il suo ruolo di mero facilitatore della comunicazione (egli non prende nessuna decisione e non attribuisce torto o ragione), domanda ai partecipanti il loro nome e cognome e può chiedere di esibire le carte di identità, i tesserini dei consulenti; il mediatore verifica solitamente anche i poteri dei rappresentanti o assistenti.

In questa fase sorgono talvolta problemi delicati specie quando si presentano in mediazione i soli rappresentanti sprovvisti di idonea procura ovvero ad esempio delegati non avvocati privi di procura notarile; l’istituto della mediazione da noi ha solo tre anni e dunque non siamo abituati a considerare che in essa non valgano le stesse regole procedurali del processo, che i due istituti abbiano in buona sostanza di mira principi differenti; su questo i mediatori dovranno lavorare ancora molto.

Verificati dunque l’identità ed i poteri dei presenti il mediatore spiega la natura della mediazione (un dialogo continuo), i suoi vantaggi (economicità, esenzione da bollo e registro fino ad un certo ammontare, credito di imposta ecc.) e quali sono i principi che la informano: appunto la riservatezza di ogni partecipante, l’imparzialità, la neutralità e l’indipendenza del mediatore, la volontarietà, l’autodeterminazione (nessuno può essere costretto a fare o a dire alcunché) e la collaborazione delle parti.

Il mediatore precisa poi che la procedura potrebbe dividersi sostanzialmente in due parti: una a cui partecipano tutti coloro che siedono al tavolo, che si concreta nella manifestazione e chiarimento del punto di vista di ciascuno a beneficio della comprensione del mediatore e dell’avversario (sessioni congiunte) ed un’altra che invece viene affrontata dal mediatore con ciascun singolo partecipante accompagnato dal suo legale, ed in cui si vagliano le esigenze di ognuno ed i modi per soddisfarle (sessioni riservate).

Nelle sessioni riservate ciò che viene discusso non viene messo in comune: rimane in altre parole confidenziale; il mediatore potrà riferirne per qualche aspetto soltanto se a ciò autorizzato. Normalmente il mediatore si fa autorizzare per iscritto se ritiene che siano emersi profili la cui rivelazione può portare ad un avvicinamento delle parti nel senso di una comunicazione di migliore qualità.

Sono poi elencate almeno due regole di comportamento: non interrompersi e spegnere il telefono cellulare; il mediatore si occupa, abbiamo detto, di facilitare la comunicazione e sa bene che le interruzioni del dialogo e le telefonate sono acerrime nemiche della cooperazione.

Detto ciò, a seguito delle recenti modifiche legislative, si aprono due filoni di pensiero: ci sono mediatori che consentono l’esposizione delle parti in sessione congiunta (ed eventualmente conducono sessioni riservate) a cui segue l’invito alle parti e ai loro consulenti a pronunciarsi sulla continuazione a pagamento della procedura, e mediatori che invece ritengono di passare direttamente all’invito alle parti senza affrontare minimamente l’oggetto della controversia. Probabilmente ogni scelta può essere legittimata dal caso concreto: la mediazione è una procedura flessibile.

In ogni caso se le parti o una delle parti non vuole continuare la mediazione il mediatore ne prende atto e redige un verbale di chiusura della procedura in modo tale che chi lo ritiene possa rivolgersi al giudice.

Se invece le parti sono disposte a corrispondere quanto dovuto per procedere oltre ci sono due possibilità: le parti versano quanto dovuto alla segreteria dell’organismo (ci sono delle tariffe preventivamente conoscibili) e la mediazione continua senza soluzione di continuità, ovvero il mediatore dà atto che le parti si impegnano a saldare l’Organismo entro il termine fissato per altra data di riunione.

Il tutto avviene all’interno dei tre mesi stabiliti dalla legge: la deroga temporale sarà possibile solo su richiesta delle parti; uno sforamento del termine potrebbe, secondo alcuno, comportare una perdita dei benefici fiscali che accedono alla mediazione e dunque il mediatore non si accolla autonomamente delle responsabilità.

Se la procedura continua può concludersi con un mancato accordo (le parti possono abbandonare la trattativa in ogni momento) o con un accordo; nel primo caso il mediatore è tenuto a verbalizzare che le parti non si sono accordate e il verbale viene sottoscritto da tutti i partecipanti; in tal caso chi lo desidera può chiedere copia del verbale e rivolgersi al giudice. Se invece le parti si accordano il mediatore ne dà atto nel processo verbale che viene sempre sottoscritto dalle parti, ma il corpo dell’accordo viene inserito in altro documento che al verbale si allega, ma che resta ad esso estraneo e che viene semplicemente siglato dal mediatore a dimostrazione che si riferisce proprio a quella data mediazione.

Gli avvocati con la loro sottoscrizione dell’accordo attestano e certificano la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico.

E a questo punto se l’accordo non viene adempiuto si può provvedere all’esecuzione senza che sia apposta la formula esecutiva.

Qualora gli avvocati non ritengano di certificare ed attestare quanto sopra, le parti possono, secondo alcuno, sottoporre il loro accordo all’omologazione del Presidente del tribunale.

  1. Ho notato, tra i commenti di alcuni Mediatori, qualche criticità circa la verbalizzazione nel caso in cui le parti non intendano proseguire la mediazione; ci puoi esprimere il tuo pensiero?

Il nostro paese, come dicevamo, non ha ancora una grande esperienza in materia di mediazione ed anche i giudici stanno in oggi rischiando di particare pericolose derive processualistiche (ad esempio vedi l’invocata applicazione dell’art. 91 c.p.c.).

Del resto è anche vero che in altri paesi inizialmente si è posto il quesito se privilegiare le esigenze della riservatezza e dunque verbalizzare soltanto in merito alla comparsa o meno delle parti e circa l’esito (accordo o non accordo), ovvero se al contrario consentire alle parti di inserire a verbale la dissenting opinion rispetto alla chiusura anticipata della procedura, ovvero all’effettuazione di proposte delle parti che poi possono essere sottoposte al giudice ai fini del merito ovvero soltanto per l’attribuzione delle spese processuali.

Ma col tempo all’estero è sempre prevalsa la riservatezza ed anche nei paesi di common law ove sono normali le proposte tra le parti durante il processo (v. ad esempio l’istituto della offer to settle), non si registra sul verbale di mediazione (o sul form che viene inviato al giudice dal mediatore a seguito della mediazione nel corso del processo) che l’indicazione della comparsa o meno delle parti e dell’esito della procedura (accordo, mancato accordo, accordo parziale); ciò che invece rileva ai fini del processo anglofono è il rifiuto immotivato di sedersi al tavolo, ossia la mancata comparsa priva di qualsivoglia giustificazione.

Ritengo dunque che anche il nostro paese non possa che stigmatizzare il rifiuto immotivato di mediare, ma che debba imboccare per il resto la strada della assoluta riservatezza, pena la perdita di specificità dell’istituto.

Peraltro un comportamento difforme sarebbe contrario ad un principio, appunto quello di riservatezza (e se vogliamo anche quelli di autodeterminazione e di volontarietà) che si è imposto nell’Europa continentale a partire dal 1790, con la legge francese sulla conciliazione, e non è mai è venuto meno.

  1. Cosa pensi delle norme in tema di responsabilità delle parti nel successivo giudizio: disciplina delle spese, condanna al pagamento degli oneri e delle indennità?

In parte credo di aver già risposto. Dal mio punto di vista va perseguito soltanto l’immotivato rifiuto di mediare, così come peraltro accade da due secoli a questa parte con riferimento alla conciliazione. La disciplina dell’articolo 13 del decreto sulla mediazione che tu ben richiami (spese, condanna al pagamento degli oneri e delle indennità) è fuori contesto in Italia: è stata prelevata da ordinamenti che hanno approcci completamente difformi dal nostro. A titolo di esempio posso richiamare l’esperienza californiana nella quale l’istruzione della causa viene demandata ad un soggetto denominato refereeche è un avvocato con grandissima esperienza ovvero un giudice in pensione. È chiaro che se le parti chiedono al referee di arbitrare la controversia e poi impugnano il lodo, ci sono forti probabilità che il giudice della fase processuale possa adottare nella sentenza soluzione identica o analoga al lodo già emesso e che quindi la parte impugnante sia sanzionata per aver fatto celebrare un processo a vuoto. Ma da noi vi può essere difficilmente una perfetta coincidenza tra proposta del mediatore e sentenza (personalmente non sono edotto di alcun caso in cui ciò sia accaduto), perché il mediatore in primo luogo può non essere un giurista e perché le parti avvedute che richiedano una proposta fanno comunque sì che il mediatore si pronunci anche sulle loro esigenze che il giudice non prenderà mai in considerazione.

  1. Quali aspetti, secondo Te, andrebbero migliorati rispetto alla disciplina vigente?

L’attuale modello italiano di mediazione ha riscosso l’apprezzamento europeo: bisogna riconoscerlo. Tuttavia non riscuote il mio apprezzamento: la gratuità del primo incontro fa sì che quel che il mediatore spiega alle parti nel primo incontro non sia credibile.

Il mediatore è assimilato in altre parole ad un venditore (senza offesa per i venditori, ma fanno un lavoro diverso) che magnifica i suoi prodotti ai fini della vendita: in questo modo si vanifica ogni tentativo di diffondere la cultura della mediazione e si rende la procedura una mera formalità, così come affermano da alcuni anni (o meglio secoli se ci riferiamo alla conciliazione) i detrattori dell’istituto.

Bisognerebbe ritornare alla condizione di procedibilità effettiva estendendola ad altre materie (ad esempio a quella degli appalti) come accade in Argentina ove il rimando è quasi totale. Nel contempo sarebbe a mio giudizio utile eliminare dalla trattazione della mediazione civile e commerciale quegli aspetti squisitamente attinenti al regime della famiglia (ad esempio la materia della divisione familiare o la trattazione dei crediti alimentari da separazione/divorzio) che allo stato non possono che essere riservati ad un mediatore, quello familiare, che ha la necessaria competenza e formazione per affrontarli.

Sarebbe auspicabile inoltre normare il raccordo tra la disciplina della mediazione e quella civilistica degli incapaci: cosa che era ad esempio efficacemente prevista nel codice di rito del 1865.

Sarebbe infine importante, a mio parere, che quella del mediatore diventasse una professione riconosciuta con apposito albo e che l’attività di mediazione fosse condotta in esclusiva in presenza di avvocati accompagnatori alla procedura specializzati nell’attività di accompagnamento.

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Giorgio Pernigotti, “Inchiesta sulla mediazione (quarta parte): il primo incontro (quarta parte)”, in ProfessioneGiustizia.it, alla pagina

“http://www.professionegiustizia.it/notizie/notizia.asp?id=406” del 20/01/2014

Il Purgatorio, Dante e la Giustizia (di Giorgio Drei)

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L’interpretazione del Purgatorio di Le Goff, come affermazione della classe borghese è piuttosto, se rivista nella giusta prospettiva storica e funzionale dell’organizzazione sociale, il tentativo di intercettare e captare una fonte di approvvigionamento ed al contempo la necessità di imbrigliare e controllare un fattore di squilibrio sociale che la borghesia, apparentemente novella entità sociale, rappresentava.
Ma facciamo un passo indietro. I cambiamenti climatici che hanno fatto seguito alla fine dell’ultima glaciazione determinano un cambiamento sostanziale, seppur non radicale, nell’organizzazione sociale. Da una conduzione di vita nomade derivante dalla fruibilità di risorse quali caccia e raccolta si passa gradualmente e con alterne vicende ad una vita stanziale basata sull’agricoltura e l’allevamento.
Con la stanzialità nascono le specializzazioni e le distinzioni di ruolo portano alle distinzioni di caste. Cosa spingesse queste comunità al cambio dello stile di vita è ancora questione dibattuta. Come giustamente osservava Lewis Binford è un controsenso che qualcuno voglia passare da una vita rilassata e di socializzazione in cui bastano due ore al giorno per procurarsi il necessario per vivere ad una vita logorante come quella legata all’agricoltura.
La spiegazione è con tutta probabilità proprio nella errata chiave di lettura. Non fu un passaggio volontario ma una coercizione e chi operò tale cooptazione è facilmente identificabile mediante la logica del “cui prodest”. Da una agricoltura stagionale alternata a caccia e pastorizia si passa ad una forma stabile accompagnandosi con le prime forme di contabilità e gestione dei magazzini. Queste a loro volta portarono ad una transizione dalle “bullae” alle tabulae e con esse alla scrittura.
In parallelo si passa dalla pietra ai metalli ma come ben sappiamo, il vero strumento di potere, più che l’acciaio delle spade, è lo stilo dello scriba. Si distingue una casta sacerdotale da una casta di guerrieri. Ma si dimentica spesso e volentieri che le due caste non sono che l’espressione di una unica casta dominante, a volte divergente ed a volte coincidente. Come durante il medioevo europeo si incontrano vescovi e conti nonché vescovi-conti così già nelle prime comunità della mezzaluna fertile in epoca pre-sumerica si incontra la stessa configurazione sociale.
Il ruolo dei condottieri d’armi è non solo difensivo o di espansione territoriale ma anche di amministrazione ingegneristica del territorio. Competenza specifica dei re è la creazione e manutenzione dei canali irrigui, delle mura di cinta e dei palazzi della casta sacerdotale. La casta sacerdotale facendo tramite con le divinità protettrici della città eleggono, autorizzano e giustificano il potere di controllo e gestione del re. Le derrate raccolte vengono amministrate e distribuite alla classe produttrice dalla casta sacerdotale e così facendo l’anello si chiude in perfetta armonia. Si fa per dire.
Ma già allora esiste una casta che si dedica al commercio che si interdigita e sfugge al controllo di una sola città, gode di privilegi e di indulgenze, paga la protezione e mediante l’introduzione di bullae e lettere di credito termina con i metalli preziosi ad accumulare ricchezze potenzialmente in grado di sovrastare i beni materiali controllati dalla classe guerriera-ecclesiastica.
Esemplare è la vicenda di Sargon, che passò da semplice mescitore di vino del re a ciò che potrebbe essere definito il primo imperatore della storia. Figura emblematica quella di Sargon, che per certi versi ci richiama alla memoria quelle di altri uomini di svolta. Spodestato il regnante per diritto divino lancia una campagna di disinformazione con la quale giustifica se stesso e la sua progenie quale reale ed onesta emanazione del dio Enlil. L’accusa è di alto tradimento a carico dei suoi predecessori, rei di aver accumulato ricchezze in metalli preziosi. Sargon, giunto al governo lancia in parallelo una serie di riforme accompagnata da una indulgenza plenaria. Vi suona familiare?
Si tratta della prima commercializzazione delle indulgenze della storia, seguita da innumerevoli altre e tuttora commemorata ogni 50 anni a Roma. Indulgenza che fu nel XVI secolo causa di una scissione nella casta sacerdotale con notevoli ripercussione nei secoli anche sulle classi produttrici. Quando il sistema tripolare (clero-cavalieri-produttori) si sbilancia a causa di un fattore perturbante introdotto da un convogliatore di risorse quale la ricchezza fittizia catalizzata dal denaro (borghesia-banchieri) si registrano disperati tentativi di controllo da un lato e efficaci meccanismi di corruzione dall’altro.
Dante ci presenta nella sua Commedia un Purgatorio preceduto da un Ante-Purgatorio in cui si trovano personaggi morti in contumacia scomunicati dalla chiesa insieme a nobili troppo persi nella vanagloria per assolvere al loro ruolo di protettori della Chiesa. Il concetto di Purgatorio era appena stato ufficializzato dal Concilio di Trento e veniva incastonato nel più efficace opera di propaganda di quei tempi (e dei secoli a seguire). Ma col senno del poi possiamo dire che non ebbe l’efficacia sperata. La capacità del denaro di solleticare le debolezze umane è di gran lunga maggiore.

Giorgio Drei

Introduzione al Purgatorio

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L’idea di purgatorio è piuttosto recente nella storia del pensiero occidentale.

Infatti il mondo antico aveva immaginato un regno dei morti in cui i rei, relegati nel Tartaro, fossero distinti dai suicidi o dalle anime dei beati che, nei Campi Elisi, attendevano di reincarnarsi in una nuova vita, mentre le anime di coloro che non avessero avuto esequie, si raccoglievano nel vestibolo.

Il VI libro dell’Eneide virgiliana ci offre un quadro esauriente dell’oltremondo pagano.

L’idea di un focum purgatorium compare nei primi secoli dell’era cristiana: il filosofo Beda il Venerabile (672-735) per primo immagina un luogo di purgazione.

Il concetto si definisce dopo il XII secolo, grazie ai contributi di san Bernardo di Chiaravalle, Pier Lombardo (Sentenze, 1155-1157), papa Innocenzo III, Tommaso di Chobhan (Somma dei confessori, 1215 ca), il monaco cistercense H (Purgatorio di san Patrizio, XII sec.), Guglielmo d’Alvernia (1180-1249).

Nel XIII secolo grandi teologi come sant’Alberto Magno, san Tommaso d’Aquino, san Bonaventura da Bagnoregio sanciscono la credenza di un luogo dove le anime, non più vagabonde, possano purificarsi dei peccati e ascendere ai cieli perfettamente riconciliate con Dio.

Il Concilio di Lione del 1274 ne costituisce la registrazione ufficiale della Chiesa, mentre proprio il giubileo del 1300, indetto da papa Bonifacio VIII, diffonde presso tutta la comunità cristiana la conoscenza del valore dei suffragi.

Storicamente possiamo collegare la nascita dell’idea di purgatorio, come nota lo studioso Jacques Le Goff (La nascita del Purgatorio, Torino, 1982), all’affermazione della borghesia come classe sociale intermedia fra i potenti (chierici e cavalieri) e la massa dei contadini e della plebe: essa, infatti, introduce nella mentalità occidentale una nuova prospettiva che sfuma il divario fra nobili e plebe, mediando fra coloro che alla ricchezza assommano il potere e quanti si vedano negate entrambi.

Dante non pone il Purgatorio sotto terra come aveva fatto Virgilio ma lo descrive all’aria aperta, certamente per creare anche paesisti­camente la differenza con l’Inferno.

Immagina quindi un isola nell’oceano della sfera australe e su questa isola un monte altissimo (simmetrico alla voragine dell’Inferno) con la punta smussata.

La caduta di Lucifero ha infatti causato il ritrarsi delle terre che sono sbucate nell’emisfero australe, generando il monte dell’espiazione che sorge circondato dal mare.

Il purgatorio finirà con il giudizio universale, quando il mondo terreno, scomparendo, non genererà più peccatori.

Il monte è circondato da una spiaggia che corrisponde al   vestibolo infernale.

Dalle foci del Tevere l’Angelo nocchiero trasporta le anime che sono destinate all’espiazione e alla redenzione sino a detta spiaggia che, insieme alla prima parte del monte, costituisce l’Anti­purgatorio (sotto la sorveglianza di Catone Uticense, simbolo del desiderio umano di libertà dal peccato) dove stanno:

a)     coloro che si pentirono quando non avevano più la possibilità di continuare a peccare[1] e pertanto devono attendere un tempo più o meno lungo per essere ammessi ad espiare (invenzione dantesca);

b)    gli scomunicati;

c)    i principi giusti, ma negligenti nelle cure religiose.

La seconda parte del monte divisa in sette cornici (per ogni vizio capitale o peccato mortale) costituisce il vero e proprio Purgato­rio a cui si accede attraverso la porta del Purgatorio, custodita dall’Angelo confessore. Egli apre una pesante porta con due chiavi, secondo un rito che configura la confessione: tutto l’itinerario di Dante costellato infatti di riti, preghiere, gesti di espiazione che sottolineano i momenti più importanti della liturgia cristiana e il procedimento spirituale che conduce alla coscienza di sé.

Come i dannati sono divisi nelle tre categorie degli incontinenti, violenti e fraudolenti, così i peccati degli espianti sono originati da tre cause fondamentali, che corrispondono (vv. Pg XVII) alla mancanza di amore verso il prossimo (vizi di superbia[2] nella prima cornice, di invidia[3] nella seconda, iracondia[4] nella terza), alla mancanza di amore verso Dio (accidia[5] nella quarta cornice), al troppo amore per i beni terreni (avari e prodighi[6] nella quinta cornice, golosi[7] nella sesta, lussuriosi[8] nella settima).

Ogni cornice è custodita da uno o più angeli: essi impersonano la pace (XVII), la misericordia (XVII), la sollecitudine (XVIII-XIX), la giustizia (XIX-XX-XXI-XXII), l’astinenza (XXII-XXIII-XIV), la castità (XXV-XXVI-XVII), la carità (XXVII).

Ognuno angelo cancella una delle sette P, incise sulla fronte di Dante dall’angelo guardiano della porta del purgatorio.

Nell’ambito di ogni cornice, uno o più personaggi incontrano Dante e discorrono con lui.

Fra i molti troviamo un papa, Adriano V, e due re, Ugo Capeto e Manfredi. Ma ci sono maestri di poesia, il Guinizelli e Arnaldo Daniello; amici e poeti, da Casella a Bonaggiunta, da Belacqua a Forese Donati.

Ovunque Dante raccoglie preghiere, notizie, o profezie: ma per una terra distaccata, e a un tempo presente come ineliminabile oggetto di passioni, di riflessioni, di speranze.

Gli espianti, a differenza dei dannati che restano fissati per l’eternità al luogo in cui devono pagare la loro colpa, percorrono tutte le cornici purgatoriali, fermandosi in ciascuna a seconda dell’intensità delle colpe.

L’espiazione implica, oltre alla pena fisica che risponde alla legge del contrappasso, anche momenti di riflessione e di pentimento: perciò le anime sentono voci o vedono scene che ricordano episodi di virtù premiata o di colpa punita.

In particolare in ogni cornice sono offerti con diverse modalità (tramite recitazione e grida e canti, o tramite sculture,  visioni) esempi di virtù e vizi.

In cima al monte, in una pianura è situato il paradiso terre­stre, perfettamen­te antipode di Gerusalemme[9].

Il paradiso terrestre,  è una foresta spessa e viva: corrisponde all’Eden biblico.

Qui vissero Adamo ed Eva prima del peccato originale; qui sarebbero vissuti gli uomini nelle generazioni e nel tempo, se non fosse stato consumato il peccato originale.

Qui si svolge una grande processione allegorica, e qui Beatrice scende, rimprovera Dante, e infine lo conforta e conduce con sé.

Qui, dopo che si è allontanata l’ultima visione drammatica, quella della Chiesa schiava del re di Francia, Dante, già purificato dal fiume Lete, può essere immerso da Matelda nel fiume della virtuosa ricordanza, l’Eunoè; e qui trovarsi, alla fine, “puro e disposto a salire alle stelle”.

Guide di Dante nel Purgatorio sono: Virgilio e, dalla quinta cornice, Stazio, ma il primo dilegua all’apparire di Beatrice, sul Paradiso terrestre. Cosi la ragione umana cede alla Verità rivelata.

Il viaggio attraverso il P. dura tre giorni: dal 10 aprile 1300, notte inoltrata, al 13 aprile mercoledì.

*.*.*.*

Il Purgatorio si distingue dall’Inferno anche per come i peccati, non valutati solo astrattamente, vengono considerati: nel secondo la distinzione tra di essi è capillare e si rifà a testi aristo­te­lici e giuridici; nel primo D. si rifà ai testi della Chiesa, seppure filtrati dalla dottrina tomistica; i dannati scontano infatti specifiche responsabilità (<<attuali>>) di cui non si sono pentiti.

Le anime purganti invece hanno cancellato con il pentimento e l’assoluzione il loro peccato (che quindi non necessita di tante descrizioni) e scontano qui soltanto la loro inclinazione al peccato.

Mentre il dannato sconta poi nell’inferno la sua colpa più grave, i penitenti espiano  nelle varie cornici tutte le loro impurità.

Il Purgatorio è ancora il regno di D., dove il poeta sa di dover tornare; mentre le anime dell’Inferno sono troppo basse per lui e quelle del Paradiso troppo alte.

Nel Purgatorio, in altre parole, Dante è tra i suoi pari, vede sé stesso, peccatore avviato alla salvezza.

Salvezza che è una conquista personale, un superamento faticoso del peccato che abbisogna di tempo, del tempo umano.

Ecco perché c’è nel Purgatorio non l’eternità delle altre due cantiche ma il recupero della dimensione temporale: gli espianti oscillano cioè tra il rimorso delle colpe passate e la certezza della salvezza; vivono di speranza che non è riservata ai dannati, né per opposte ragioni ai beati: quindi c’è sicuramente meno drammaticità rispetto all’Infer­no e maggiore abbandono al sogno, alle visioni, agli smemoramenti.

Il poeta recupera nel P. anche il paesaggio terrestre, il ricordo della sua giovinezza in Firenze, degli amici, di Beatri­ce.

I suoi sentimenti nei confronti dei purganti (che sono meno numerosi dei dannati) sono soltanto di dolore e reverenza, addirittura talvolta non parla del loro peccato (ad es. di Casella nel II canto o di Sordello nel IV), o non lo considera tale (ad es. Stazio), oppure se ne dichiara partecipe (ad es. con Forese nei canti XXII e XXIV); le anime stesse sono mansuete perché sono state perdonate da Dio ed hanno a loro volta perdona­to i fratelli.

Quanto alla lingua la cifra stilistica del Purgatorio è una “medietà” che, senza implicare uniformità, accosta il linguaggio a quello d’uso quotidiano: in tal modo evidenzia la misura, il senso del limite, l’autocoscienza illuminata che sono fondamentali per un vero rinnovamento nelle anime espianti. Così, anche se non mancano spunti di registro comico o termini” forti” (assai più frequenti nell’Inferno) come il «bordello» italiano del Canto VI o la «femmina balba» del Canto XIX o la «puttana sciolta» del XXXII, per lo più le espressioni propendono per una misura vagamente impregnata di elegia o di nostalgia.

Solo in taluni punti di eccezionale solennità il registro elevato compare a sottolineare un’ardita metafora astronomica (Canto II) o a proporre quei “neologismi danteschi” che appariranno frequenti in Paradiso.


 [1] In Pg XI 89-90 Oderisi da Gubbio dice:<< Di tal superbia qui si paga il fio: e ancor non sarei qui, se non fosse che, possendo peccare, mi volsi a Dio>>; v. anche in Pg XXIII 79-84 quanto afferma Forese Donati.

[2] I superbi avanzano lentamente gravati da enormi e pesanti massi.

[3] Gli invidiosi  recano il cilicio e hanno gli occhi cuciti.

[4] Gi iracondi sono avvolti da un denso e acre fumo poiché il loro amore peccò per troppo di vigore.

[5] Gli accidiosi sono colpevoli di amore difettoso per mancanza di vigore e sono quindi  costretti a correre affannosamente in atto di ansiosa sollecitudine.

[6] Stanno bocconi per terra, in dimensione animale, con le mani e i piedi legati.

[7] I golosi sono ridotti ad estrema magrezza dall’insaziata fame e dall’insaziata sete.

[8]  Sono avvolti dalle fiamme, siano essi lussuriosi carnali, siano essi sodomiti.

[9] Il Purgatorio sarebbe così diviso in dieci zone: spiag­gia, Antipurgatorio, sette gironi e Paradiso terrestre; così come l’Inferno (vestibolo + nove cerchi) e il Paradiso (dieci cieli).

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canti XXXIV Sintesi

Canto XXXIV

Ci troviamo nel cerchio nono, nella quarta zona, alle sette e mezzo di sera del 9 aprile 1330, sabato santo; nell’emisfero australe corrispondono alle sette e mezzo del mattino del 10 aprile.

I traditori dei propri benefattori sono nella quarta zona, detta Giudecca, nome coniato da D. ma in uso allora, in alcune città italiane, per designare il Ghetto.

Battuti da un forte vento, provocato dalle ali di Lucifero, i dannati sono interamente confitti entro il ghiaccio, come pagliuzze attraverso il vetro, distesi o diritti o  stravolti.

D. scorge Lucifero che sta in una buca da cui si discende al centro della terra[1], ed è sospeso nel vuoto: è mostruoso, ha sei ali e tre facce, una rossa, una gialla ed una nera[2].

Con le sue ali da pipistrello, il diavolo crea il tremendo vento che gela il Cocito; dai suoi sei occhi gocciolano continuamente lacrime, che si mischiano alla bava e al sangue che sempre cola dalle tre bocche (vv. 16-54).

Nelle sue tre bocche, come spiega Virgilio, il diavolo maciulla Giuda[3], Bruto[4] e Cassio[5], traditori di Cristo e di Cesare, cioè delle maggiori autorità spirituali e temporali (vv. 55-69).

V. fattosi abbracciare al collo da D., si lascia calare giù lungo le coste vellose di Lucifero sino al centro della terra, lo attraversa e, capovolgendo­si risale lungo le gambe del mostro infernale.

I due poeti oltrepas­sano così il centro della terra e della gravità[6] e si incamminano per uno stretto e buio e malagevole ruscelletto sotterraneo; dopo aver camminato senza riposo giungono per un pertugio tondo all’emisfero antarti­co, e rivedono le stelle (vv. 70-139).


[1] E di qui si prosegue in una caverna naturale fino agli antipodi della sfera terrestre, nell’emisfero australe. Il principe dei diavoli, cadendo, ha provocato la voragine dell’inferno ed è andato a conficcarsi al centro della terra, ossia, secondo la cosmologia tolemaica, al centro dell’universo creato da Dio, quindi nel punto più lontano dall’Eterno. Dante ha qui raggiunto il fondo, dovrà infatti capovolgersi per intraprendere il tragitto, la salita lungo il cunicolo che lo porterà a rivedere il cielo e da lì risalire verso la divinità, meta ultima del viaggio.

[2] Simboli, per i commentatori antichi, rispettivamente dell’odio, dell’impotenza e dell’ignoranza in contrapposizione alle tre virtù espresse dalla Trinità (la potenza del Padre l’amore del Figlio e la sapienza dello Spirito); per i moderni della corruzione della volontà (rosso), dell’ira (il giallo) e della corruzione dell’intelletto (il nero).

[3] Nella bocca centrale. Essendo la sua colpa più grave non solo è sbranato ma anche graffiato da Lucifero.

[4] Nella bocca sinistra.

[5] Nella bocca destra.

[6] Nell’occasione ed in seguito alle pressanti domande di D. che non si capacita di dove si trovi né di quanto stia accadendo (cfr. vv. 88-105), Virgilio coglie l’occasione per spiegare l’origine dell’Inferno, questione strutturale e morale di primaria importanza nella religiosità del tempo. Quando gli angeli si ribellarono a Dio, Lucifero, loro capo, fu precipitato dall’Empireo nell’emisfero australe (meridionale) allora occupato anche da terre, che, alla sua vista e passaggio, si ritirarono inorridite sotto il velo delle acque e andarono ad occupare l’ emisfero boreale (settentrionale) dove ora si concentrano tutte le terre emerse. La terra che ora si erge sopra la distesa marina dell’emisfero meridionale e che forma la montagna del Purgatorio, è fuggita al contatto con Lucifero dal centro della terra, risalendo fino alla superficie delle acque e lasciando al suo posto la cavità che Dante e Virgilio hanno raggiunto, da cui parte la burella che attraversano per riuscire a riveder le stelle.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canti XXXI-XXXIII Sintesi

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XXXI Canto

 I poeti, percorrendo l’argine interno delle Malebolge lasciano la decima bolgia, e s’accosta­no al pozzo del Cocito (vv. 1-33), intorno al quale, simili a torri, stanno i giganti (vv. 91-111) colpevoli di avere sfidato la divinità[1]: Nembrot[2] (vv. 58-81), Efialte (vv. 91-111)[3], Anteo[4] (vv. 112-129).

Dante è attirato dal gigante più vicino; si tratta di Nembrot, che pronuncia parole aspre e incomprensibili, lui che causò, come Virgilio narra a D., con il suo folle progetto la confusione delle lingue.

Dante e Virgilio procedono poi sulla sinistra un breve tratto, fino ad incontrare un gigante ancora più grande e feroce, con le braccia imprigionate da una catena che gira tutto intorno al busto.

Si tratta di Efialte, responsabile di essere stato fra i più attivi ed aggressivi nella lotta dei giganti contro il loro signore Giove: per aver tanto agitato le braccia contro la somma divinità, ora le ha incatenate.

Dante chiede di poter vedere il gigante Briareo[5], ma Virgilio gli annuncia che presto vedrà Anteo, il quale può parlare e non è incatenato: Briareo invece è troppo discosto, e d’ altra parte è nelle stesse condizioni di Efialte, solo con aspetto più crudele.

In quel momento Efialte improvvisamente si scuote e dimena in modo tale da provocare in Dante il più grande terrore mai provato.

Giunti vicino ad Anteo, Virgilio gli si rivolge con cortesia ricordando le molte vittorie del gigante, e gli chiede di deporli sul fondo del pozzo infernale informandolo di come Dante, tornato sulla terra, potrà rinnovare la sua grande fama.

D. e V. sono quindi deposti da Anteo, su sollecitazione di V., nel fondo del pozzo, in una pianura gelata dove stanno i traditori.

XXXII Canto

Nel nono cerchio nella 1a e 2a zona del Cocito, tra le sedici e le diciotto del 9 aprile 1300, sabato santo.

Il cerchio nono è interamente occupato da un lago ghiacciato, il Cocito appunto, che scende verso il centro; la crosta di ghiaccio è cosi spessa e dura che neppure il crollo di un monte potrebbe minimamente scalfirla.

Il lago è diviso in quattro zone: Caina, Antenora, Tolomea, Giudecca; Dante e Virgilio attraversano in questo canto le prime due.

I dannati sono i traditori dei parenti, della patria, degli amici, dei benefattori, ossia i colpevoli di frode esercitata verso chi si fida; sono immersi più o meno profondamente, a seconda della loro colpa, nel lago ghiacciato diviso, appunto, in quattro zone concentriche: la Caina (traditori dei parenti), Antenora (tradito­ri della patria o della parte), Tolomea (traditori degli amici o degli ospiti), Giudecca (traditori dei benefattori).

I dannati sono confitti nel ghiaccio prodotto dal raggelarsi del fiume infernale per il vento freddo causato dalle ali di Lucifero.

Come in vita furono freddi, duri e spietati al punto da tradire persone legate da vincolo di parentcla o di elezione, e che di loro dunque si fidavano, ora sono sprofondati nel ghiaccio durissimo e gelido

Nella Caina e nella Antenora che prendono nome da Caino e da Antenore, leggendario traditore di Troia, i traditori hanno il capo fuori dal ghiaccio e il viso, quelli della Caina, rivolto all’ingiù, quelli dell’Antenora eretto[6].

Nella Caina (vv. 1-39) D. incontra i conti di Mangona[7] (vv. 40-51), che sono i più crudeli tra i traditori dei parenti puniti in questa zona del Cocito; ciò lo vengono a sapere per bocca di Camicione de Pazzi[8], che li informa anche della presenza di Mordret[9], figlio o nipote di re Artù, di Focaccia, cioè il pistoiese Vanni de’ Cancellieri[10], e del nobile fiorentino Sassolo Mascheroni[11]  e Carlino de Pazzi[12] (vv. 52-69).

Nella Antenora, verso il centro del lago, dove sono i traditori politici  o della patria D. incontra Bocca degli Abati, traditore dei Guelfi nella battaglia di Montaperti[13], a cui il poeta strappa i capelli per fargli dire chi sia e poi altri traditori [14](vv. 70-123).

D. poi scorge con racca­priccio due ghiacciati in una buca, l’uno dei quali rode bestial­mente il teschio dell’altro. D. chiede chi sia il “roditore” e quali siano le ragioni, se giuste, di tanto odio che D. promette di far conoscere al mondo (vv. 124-139).

Canto XXXIII

 Nel cerchio nono, nella seconda e nella terza zona (la Tolomea), l’unica zona in cui le anime possono cadere prima della morte fisica, sostituite sulla terra, nel corpo che vive ancora, da un demone.

I due ghiacciati (v. Canto XXXIV in fine) nella buca sono l’uno il conte Ugolino della Gherarde­sca[15], qui condannato per aver tradito prima la parte ghibellina e poi la parte guelfa, e l’altro l’arcivescovo Ruggieri[16], colpevole di aver tradito il conte fingendosigli politicamente amico.

Il conte Ugolino, indotto dalle parole di D., rivela piangendo la crudeltà della morte a cui, per causa dell’Arcivescovo Ruggeri, fu sottoposto insieme con quattro figli (propriamente, due figli, Gaddo e Uguccione, e due nipoti, Anselmuccio e Nino detto il Brigata).

 Rinchiusi nella torre della fame, in Pisa, nel 1289, una notte, dopo molti mesi, sono tutti atterriti dallo stesso sogno profetico: una fantastica caccia sul monte S. Giuliano, guidata dal Ruggieri e da altre famiglie pisane, contro i lupi e lupicini, raggiunti e straziati <<da cagne magre, studiose e conte>>.

 Il presagio della triste fine è confermato dal sentir inchiodare l’uscio di sotto della orribile torre, nell’ora in cui soleva esser portato il cibo; essi sono condannati a morire di fame.

La tragedia si svolge tutta nel silenzio e nell’ombra; l’impetrare, muto, del padre l’aspetto dei visi scarni e sofferenti, l’atto del conte di mordersi le mani per il dolore, interpretato come un tentativo di sfamarsi dai figli, che a lui offrono le loro misere carni, la morte di Gaddo, implorante aiuto, e poi degli altri tre a uno a uno tra il quinto giorno ed il sesto, il brancolare del padre già cieco sopra ciascuno e il chiamarli a lungo disperatamen­te per due giorni, infine la morte per fame del conte, tutto questo è rappresentato da D. con inuguagliabile potenza drammatica (vv. 1-78).

E tale è lo sdegno di D. contro Pisa, rea di aver fatto morire di tal morte anche gli innocenti figli del conte, che egli pronuncia contro di essa una tremenda invettiva, augurando che tutti i Pisani affoghino nelle acque dell’Arno (vv. 79-90).

I poeti passano poi nella terza zona, detta Tolomea[17], dove si trovano, come già detto, i traditori degli amici e degli ospiti. I dannati stanno supini col solo viso fuori dalla ghiaccia, volto in modo tale che le lacrime si ghiaccino nell’orbita degli occhi ed essi possano sentire più dolore: l’anima loro può piombare nell’inferno, come già accennato, appena compiuto il tradimento, mentre il corpo vive ancora sulla terra, occupato da un demonio, come spiega a D. il frate gaudente Alberigo[18] e come accade al genovese Branca d’Oria[19].

D. prorompe in una invettiva contro i Genovesi, tanto corrotti che uno di loro è già all’Inferno prima ancora che il suo corpo muoia.


[1]  Essi hanno la parte inferiore dell’im­menso corpo addossata alla parete del pozzo, e i piedi piantati sul fondo. Tentarono di elevarsi al cielo, usando la propria forza: ora sono sprofondati e incatenati, impotenti e inermi, alle pareti del pozzo.

[2] Nembrot. Primo re di Babilonia, rappresentato nella Bibbia come cacciatore,  qui reca un corno al collo. Nella tradizione medievale è raffigurato appunto come gigante, ideatore della torre di Babele, costruita per raggiungere il cielo. Dio lo punì con la confusione delle lingue.

[3] Fialte, o Efialte. Figlio di Nettuno e lfimedia. Tentò la scalata per raggiungere il cielo insieme al gemello Oto, sovrapponendo i monti Ossa e Pelio all’Olimpo.

[4] Anteo. Figlio di Nettuno e della Terra; non prese parte alla lotta contro gli dei, essendo nato più tardi. Abitava nel deserto libico; combatte contro Ercole che lo vinse e l’uccise.

[5] Briareo. Gigante centimane, alleato di Zeus, che partecipò alla lotta contro i Titani  (i sei figli di Urano e Gea: Oceano, Ceo, Iperione, Crio, Giapeto, Crono).

[6]  La Caina prende il nome da Caino, assassino del fratello Abele. È sede, come già accennato, dei traditori dei parenti: immersi fino al collo, tengono il viso piegato verso il basso perché le lacrime che sgorgano dagli occhi non gelino. L’Antenora prende il nome da Antenore, eroe troiano che consigliò di restituire Elena per rappacificarsi con i Greci; di qui derivò la leggenda secondo cui fu lui a consegnare la statua di Pallade ai nemici ed apri lo sportello del cavallo di legno. È  sede dei traditori della patria e del partito: immersi fino al capo, sono costretti a tenerea appunto la testa diritta.

[7] Alessandro e Napoleone degli Alberti. Vissuti nella seconda metà del 1200, figli del conte Alberto di Mangona, che lasciò loro una cospicua eredità di terre e possedimenti. Da questo testamento nacquero lotte violente, acuite dagli odi di partito, essendo Alessandro guelfo e Napoleone ghibellino. Rappacificati per opera del cardinale Latino, i fratelli ripresero le violente contese fino ad uccidersi a vicenda, intorno al 1285.

[8] Camicione de’ Pazzi Di Valdarno, uccise un suo parente per entrare in possesso dei suoi beni.

[9] Mordret. Personaggio del romanzo di Lancillotto, figlio o nipote di re Artù, avendo tentato di impossessarsi a tradimento del suo regno, fu trapassato con un colpo di lancia dal re.

[10] Vanni de’ Cancellieri. Detto Focaccia, pistoiese di parte bianca, avrebbe ucciso a tradimento il cugino Sassolo Mascheroni.

[11] Sassolo Mascheroni. Della famiglia dei Toschi da Firenze, uccise un cugino per impadronirsi dell’eredità.

[12]  Carlino de’ Pazzi. Di Valdarno, nel 1302 tradì i Bianchi, consegnando ai Neri il castello di Piantavigne dove erano rifugiati gli esuli politici, mentre egli otteneva in cambio il rimpatrio e un compenso in denaro. Deve ancora raggiungere la zona dei traditori, ma andrà più in basso, nell’Antenora, dove sono puniti i traditori politici .

[13] Bocca degli Abati. Fiorentino, si dice che avesse tradito i guelfi nella battaglia di Montaperti nel 1260, tagliando di netto la mano di colui che reggeva il vessillo del Comune di Firenze; in tal modo i guelfi, scoraggiati, furono sconfitti in breve tempo.

[14] Si tratta di:

1) Buoso da Duera. Signore di Cremona, avendo ricevuto da Manfredi l’incarico di organizzare la resistenza in Lombardia contro le truppe di Carlo d’ Angiò, si fece corrompere dai Francesi e li lasciò passare senza combattere.

2) Tesauro dei Beccaria. Pavese, abate di V allombrosa e legato pontificio in Toscana. Fu decapitato in Firenze per aver tradito i guelfi, favorendo il rientro in città dei ghibellini, cacciati nel 1258.

3) Gianni dei Soldanieri. Fiorentino di parte ghibellina; nella sommossa del 1266 tradi i suoi e, fattosi capopopolo, cercò di impadronirsi del governo della città a danno dei ghibellini.

4) Ganellone, o Gano di Maganza. Tipico traditore nei poemi cavallereschi; fu colui che, tradendo Orlando, provocò la rotta di Roncisvalle dell’ esercito cristiano.

5) Tebaldello de’ Zambrasi. Di Faenza, nel 1280 per vendicarsi contro i Lambertazzi, ghibellini bolognesi rifugiatisi a Faenza, consegnò la propria città ai Geremei, guelfi di Bologna. Mori nel 1282 nella battaglia di Forli.

[15] Ugolino della Gherardesca. Conte di Donoratico, nato nella prima metà del 1200 da antica e nobilissima famiglia, aveva vasti possedimenti intorno a Pisa, nel Maremmano e in Sardegna. Mentre Pisa, di parte ghibellina, era in lotta con Genova e con le vicine città toscane guelfe, Ugolino nel 1275 congiurò con il genero Giovanni Visconti per instaurare il partito guelfo in città. Il tentativo non riuscì ed egli fu esiliato con i suoi, ma, riammesso di lì a poco, acquistò presto potere e prestigio presso i concittadini. Condusse la battaglia della Meloria ( 1284) in cui i Pisani dovettero cedere ai Genovesi. Divenuto podestà di Pisa, per spezzare l’alleanza tra Genova, Firenze e Lucca, stretta a danno del proprio Comune, si diede a concedere terre e castelli ai nemici, isolandoli così tra loro. Appena Pisa fu fuori pericolo, associò a se il nipote Ugolino Visconti, trasformando il Comune in Signoria. Ma nel giugno 1288 i ghibellini, con l’aiuto delle potenti famiglie dei Gualandi, dei Lanfranchi e dei Sismondi e sotto la guida dell’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, gli tolsero il potere; Ugolino fu rinchiuso in una torre della città – detta poi « della Fame» – con i due figli Gaddo e Uccione e i due nipoti Nino e Anselmuccio. I cinque morirono d’inedia nel febbraio del 1289. Dante lo colloca tra i traditori politici per essere passato dai ghibellini ai guelfi, più che per l’ azione diplomatica intentata contro Lucca, Pisa e Firenze.

[16] Ruggieri degli Ubaldini. Arcidiacono di Bologna, nel 1271 divenne arcivescovo di Ravenna e nel 1278 di Pisa. Tradi il conte Ugolino di cui si era finto seguace e, avendolo fatto morire di fame, ora è divorato da lui.

    [17] Che prende il nome Tolomea. Prende il nome da Tolomeo, re d’Egitto che tradi l’amico Pompeo, oppure dal Tolomeo governatore di Gerico che uccise a tradimento il suocero Simone Maccabeo e i suoi figli durante un banchetto cui erano stati invitati.

[18] Alberigo dei Manfredi. Vissuto nella seconda metà del 1200, faentino, frate gaudente di parte guelfa. In lite con alcuni suoi parenti, nel maggio del 1285 li invitò a banchetto per rappacificarsi con loro, e al momento della frutta li fece uccidere. Dante si stupisce di vederlo già nell’lnferno, perche frate Alberigo era ancora vivo nel 1300.

[19] Branca d’Oria. Nobile genovese, coevo di Dante, vivo ancora quando il poeta immagina di incontrare la sua anima nella Tolomea. Per impadronirsi della signoria di Logudoro in Sardegna, uccise il suocero Michele Zanche (di cui Dante ha dato notizia tra i barattieri, cfr. XXll, 88), dopo averlo invitato a pranzo.

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