In età imperiale gli Irenarchi erano a Roma dei pubblici ufficiali preposti alla custodia della privata e della pubblica pace.
Il loro stesso nome deriva appunto dal fatto che vegliavano alla quiete pubblica e privata e per questo venivano detti “pacis praefecti”[1].
In seguito in Inghilterra (1275) verranno detti Conservatori della Pace e di qui saranno i giudici di pace che si conoscono nei paesi anglosassoni.
Oltre a conciliare dovevano anche limitare la forza privata e prevenire i reati, raccogliere le prove dei reati.
I loro verbali, detti elogia o notoria, che possiamo considerare nella vecchia Europa i primi verbali di conciliazione quando di essa si occupavano, avevano forza probatoria.
Erano il principio, ma non il termine del processo istruttorio (commentarium inquisitionis). Il giudice inquisitore compiva l’edificio incominciato dai suddetti pubblici ufficiali con altri chiarimenti di fatto[2].
I Biocoliti, così detti a vi próhibenda, avevano lo stesso mandato in talune provincie dell’impero[3].
Gli elogia non potevano considerarsi destituiti d’ogni forza probante quanto alle dichiarazioni che ricomprendevano, anche se le parti non potevano o non sapevano firmare (all’epoca erano quasi tutti analfabeti).
Ed infatti, al giureconsulto Marciano che venne chiamato a definire il valore giuridico degli elogia[4]non venne in mente di porre nel nulla il già fatto da un’autorità competente[5], anche in assenza delle sottoscrizioni.
Il punto da sottolineare qui riguarda il fatto che se il verbale era di non seguita conciliazione, faceva piena prova delle circostanze in esso indicate, anche se non era sottoscritto.
L’attività degli Irenarchi viene ripresa nel 1865 dai delegati di pubblica sicurezza.
L’art. 9 della legge 20 marzo 1865 prevedeva che “Gli uffiziali di P. S. debbono eziandio prestare la loro opera alla composizione dei privati dissidi a richiesta delle parti: e distendere verbali della seguita conciliazione. Questi verbali firmati da loro, dalle parti e da due testimoni potranno esser prodotti e far fede in giudizio”.
Tale compito grava ancora oggi sugli ufficiali di P.S.
All’epoca ci si chiedeva dunque a quali condizioni il verbale di non seguita conciliazione non sottoscritto potesse far fede in giudizio.
La Cassazione[6] ritenne che il verbale avesse forza probante anche se non sottoscritto dalle parti qualora queste dichiarassero di non saper scrivere[7].
Il che in osservanza del principio dell’art. 49 C.p.c.: “Quando la legge imponga l’obbligo della sottoscrizione ad un atto, se chi deve sottoscrivere non possa o non voglia, n’è fatta menzione”.
E ciò in quanto si doveva prendere atto del fatto che nei borghi e nei villaggi la maggior parte delle persone era ancora analfabeta: l’importante è che ci fossero i testimoni.
In presenza di un verbale di conciliazione recante dichiarazioni delle parti e non sottoscritto, ma stilato in presenza di testimoni, il tribunale avrebbe potuto “ordinare altri chiarimenti ed anche la prova testimoniale, essendoci più di un principio di prova scritta in un verbale ricevuto da una pubblica autorità all’uopo delegata e del quale i convenuti fecero parte; art. 1347 C.c.)”.
L’art. 1348 C.c. permetteva poi in allora al creditore la prove testimoniale “ogni qual volta non è stato possibile al medesimo di procurarsi una prova scritta”.
La Cassazione al proposito rileva che l’impossibilità non sorge solamente dai rapporti fisici, ma anche dai morali e sociali.
Così se il fidanzato ha fatto dei doni nuziali alla fidanzata non chiede la ricevuta perché chi diffida non ama.
“In tali rapporti le ricevute scritte violerebbero ogni convenzione sociale fondata sulla consuetudine di tutti i secoli, genuina coscienza del genere umano…”.
Queste considerazioni erano assai rilevanti per gli uomini di allora: non a caso nel XIX secolo la maggior parte delle conciliazioni erano non scritte e a nessun sarebbe venuto in mente di non onorarle.
In oggi la massima “L’impossibilità di procurarsi una prova scritta, non solo sorge dai rapporti fisici, ma anche dai morali e sociali” dovrebbe essere di grande attualità: bisognerebbe a parere di chi scrive ricordarla a tutti quei giuristi che pretendono di rendere il verbale di mediazione un atto legalmente inattaccabile, con tutto danno in caso contrario per coloro che ne furono gli artefici.
[1] Più compiutamente erano detti “pacis prafecti, qui ad provinciarum tutelam quietis oc pacis per singula territoria faciunt stare concordiam”.
[2] Leg. 49 Cod. Theod. De decur. Leg. unic. Cod. De irenarchis. Leg. 6 ff. De custod. et exhib. reor. Leg. ult. Cod. Theod. De navicul. Leg. 6, § 3, ff. ad S. C. Turpill.
[3] Nov. 8, cap. 13.
[4] Invocò la novella “udizione, ex integro auditionem“.
[5] L. 6, ff. De cust. et exhib. reor.
[6] Cass. 25 maggio 1869. Presidente Spaccapietra, Relatore Lomonaco. In Giur. It. Vol. XXI sentenze 1869 col. 319-321.
[7] In primo grado il Tribunale di Napoli espresse principio contrario.