Chi di voi non ha presente la triste storia di Edipo?! Sì, Edipo, quello che risolse il celebre enigma della Sfinge e che si macchiò inconsapevolmente di parricidio e incesto. I Greci avevano ben presente le vicende connesse con la figura di Edipo e, in generale, con il mito tebano, dal momento che Eschilo dedicò ad esse la trilogia di cui ci è rimasta la tragedia I sette contro Tebe, Euripide scrisse sullo stesso argomento le Fenicie e Sofocle mise in scena Edipo re, Edipo a Colono e Antigone.
In realtà non si tratta solo di un banale interesse per le azioni compiute dal mitico re di Tebe, ma sia i tre grandi tragici che il pubblico ateniese avevano identificato nella figura di Edipo lo specchio della condizione dell’uomo e del suo beffardo destino.
Se seguiamo passo dopo passo le tappe della storia personale di Edipo, capiremo che l’uomo greco riusciva ben ad immedesimarsi con il protagonista del ciclo tebano e ad osservare in lui la tragica esperienza del pathos, del dolore che segna la vita mortale.
In particolare, l’Edipo re è una tragedia tutta incentrata sull’imperscrutabilità del volere divino, e non senza motivo Aristotele nelle sua Poetica l’aveva considerata la tragedia per antonomasia, così da addurla più volte come esempio per la gravità delle colpe commesse dal protagonista, per la condizione di inconsapevolezza con cui uccide il padre e sposa la madre, per il tragico riconoscimento di sé…tutto ciò non poteva lasciare indifferente la platea ateniese, ed Aristotele era certo che tutta la cavea non trovasse difficoltà a riconoscersi con la vittima di tale destino.
Del resto ognuno di noi, negli amari flutti della vita, si è chiesto il perché del dolore, dell’assenza o della cecità di Dio. E non è un caso che il Cristo sulla croce abbia gridato “Signore, Signore, perché mi hai abbandonato?” Proprio quando le tempeste della vita ci sbattono senza ritegno su scogli ove l’approdo sembra impossibile, proprio di fronte alle ingiustizie della sorte e all’irrazionalità della storia, la fede nella divinità si alimenta e prorompe prepotentemente nei miti antichi così come nei drammi moderni. L’uomo è da sempre uguale a sé stesso. E l’invito di Sofocle a tutti gli spettatori che lasciavano il teatro era proprio quello di conoscere sé stessi, il famoso gnòthi seantòn che secondo Pausania si leggeva sulle pareti del pronao nel tempio di Apollo.
La vicenda di Edipo ha visto dei veri e propri momenti di gloria. Pur essendo un bambino rifiutato e abbandonato dai genitori naturali in virtù dell’oracolo che prediceva un atroce destino, egli ha la fortuna di essere raccolto ancora in fasce da un pastore che lo affida ai sovrani di Corinto e così trascorre serenamente in questa polis la sua infanzia e giovinezza come rampollo regale, scioglie l’enigma della Sfinge e diventa re di Tebe, sposa la regina Giocasta e diventa padre di quattro figli… insomma, pare che Edipo non abbia nulla di cui lamentarsi…Ma c’è sempre un “però”, c’è sempre un ostacolo da superare in ogni favola che si rispetti ed ecco che a Tebe scoppia una terribile pestilenza e da questo momento inizia per il nostro eroe la ricerca di una verità che segnerà la fine di ogni fortuna: a testoni, passo dopo passo, egli scoprirà di essersi macchiato di parricidio e incesto, di aver ucciso suo padre Laio e sposato sua madre Giocasta e in seguito a ciò non potrà far altro che cavarsi gli occhi per la vergogna, per l’atrocità dei misfatti commessi e sarà dannato ad andare ramingo per la Grecia, ad assistere alla discordia dei figli che si protrarrà anche dopo la sua morte.
Di fronte a questi giochi del destino riaffiora nella memoria l’ultimo verso delle Trachinie: “Nulla in tutto ciò che non sia Zeus”[1]. In effetti per tutta la tragedia Sofocle pone dinanzi agli spettatori antichi e, perché no, anche ai moderni, la certezza che c’è qualcuno che regge le fila di eventi che sfuggono al controllo degli uomini. Questo “qualcuno”, non solo per il nostro tragediografo, ma per tutta la religione greca è Zeus. Ascoltiamo il grande Omero, che nel XXIV dell’Iliade[2] afferma:
Così gli dei hanno stabilito per i miseri mortali,
che vivano nel dolore, mentre essi sono senza affanno.
Due vasi sono nella casa di Zeus, con i doni
Che egli dà: uno dei mali e l’altro dei beni.
A chi Zeus fulminante ne dà, dopo averli mischiati,
incontra a volte un male, altre volte un bene;
ma se uno riceve solo dolori lo rende un miserabile,
e fame maligna lo spinge per la terra divina,
e va errando disprezzato dagli dei e dagli uomini.
Questi pochi versi sono già sufficienti per interpretare la vicenda di Edipo. Per spiegare l’origine del bene e del male Omero introduce questo singolare racconto, che sarà poi ripreso da Esiodo nelle Opere e i Giorni[3], quando il poeta narra il mito di Pandora, la prima donna, la nostra Eva, che giunge sulla terra guarda caso proprio con un vaso, colmo di mali che si diffondono rapidamente tra i mortali, cosicché da quel momento
infiniti dolori si aggirano tra gli uomini
e la terra è piena di mali, pieno ne è il mare:
e malattie tra gli uomini di giorno, altre di notte
da sole si aggirano, portando lutti ai mortali.
Anche la lirica greca arcaica non è priva di esempi a riguardo; solo per citare un autore, basterà ricordare Archiloco, che in un suo frammento[4] esalta l’onnipotenza degli dei:
Agli dei attribuisci ogni cosa. Molte volte dai mali
risollevano uomini prostrati sulla nera terra,
molte volte rovesciano nella polvere chi sta
ben saldo. A quelli allora molti mali accadono
e per necessità ognuno vaga, fuori di senno.
L’uomo, consapevole di questa situazione, non ha altra soluzione che mantenere un austero equilibrio e scegliere la via della forte rassegnazione. Ecco infatti come Archiloco esorta il suo cuore in un altro celebre frammento[5]:
Cuore, mio cuore…se vinci, non vantarti apertamente,
se sei vinto non abbatterti prostrato in casa tua.
Ma gioisci delle gioie e soffri dei dolori
non troppo: riconosci quale ritmo governa gli uomini.
La percezione della precarietà nella lirica arcaica è dunque indiscussa e certo la tragedia non poteva non trattare una tematica così profondamente sentita fin dai primordi dall’uomo greco.
Chi è in realtà Edipo? Non è solo il figlio di Laio e Giocasta, non è solo il re di Tebe, egli è il paradigma del conflitto tra essere e apparire, della contraddizione tra ciò che l’uomo crede di essere e ciò che invece è realmente. E’ colui che scioglie l’enigma della Sfinge, ma scopre di costituire per se stesso un enigma di cui indovinerà il senso solo scoprendosi il contrario di tutto ciò che credeva e sembrava essere anche agli occhi dei suoi sudditi, i quali in un primo tempo guardano a lui come ad un potente sovrano e in seguito non possono fare a meno di riconoscere in lui il contaminatore della città, un essere abominevole che il parricidio e l’incesto hanno spinto fuori dai confini dell’umano.
Edipo è eroe non tanto per aver risolto un indovinello, ma per la sua ostinata ricerca della verità ed egli doveva apparire agli antichi spettatori di un tempo un discendente di Ulisse, un eroe dell’intelligenza che da sola si pone come misura dell’interpretazione della realtà, pur con le sue sconfitte.
E straordinariamente, nonostante i crimini commessi, nessuno può detestare Edipo, poiché nella sua sorte ognuno di noi ancora può riconoscersi. Solo pietà potevano provare gli antichi dinanzi al suo destino, una immensa pietà che porta Sofocle a concludere il dramma con un’amara considerazione sulla fragilità della condizione umana: Guardate lo splendido Edipo che risolse l’enigma famoso e fu un uomo potente, in quali abissi di sciagura è precipitato!
E cala, piano, il sipario. Sulla sorte di Edipo. Sulla sorte di noi tutti mortali.
Per approfondire:
Bruno Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi 1963
Vernant, Vidal-Naquet, Saggi su mito e tragedia, Einaudi 1994
Umberto Albini, Nel nome di Dioniso, Garzanti 1999
Giulia Del Giudice
[1] Sofocle, Trachinie, v. 1278
[2] Omero, Iliade, libro XXIV, vv. 525-533
[3] Esiodo, Le Opere e i Giorni, vv. 100-103
[4] Archiloco, fr. 130 West
[5] Archiloco, fr. 128 West