Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto XIII– Sintesi

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IN BREVE

(Ancora nel 7° cerchio) I poeti entrano nell’orri­da selva dei suicidi che non conservano aspetto umano ma sono rinchiusi nei tronchi degli alberi, le cui foglie sono straziate dalle arpie (vv. 1-22).

Dante sente dei gemiti senza capire da dove provengono e su consiglio di Virgilio spezza il ramoscello di un pruno, dal quale escono parole e sangue.

Chi parla è il cancelliere di Federico II, Pier delle Vigne, che esalta il suo signore, si difende dall’accusa di infedeltà, prega il poeta di riabilitarlo.

Spiega come le anime si chiudano nei tronchi e aggiunge che dopo il giudizio universale, i dannati riprenderanno il loro corpo che rimarrà appeso alle piante (vv. 22-108).

D. e V. vedono due cagne infernali che straziano due sperperatori delle loro sostanze: Lano da Siena e Jacopo da Sant’Andrea; quest’ultimo si appiatta dietro ad un cespuglio che  riveste l’anima di un anonimo suicida fiorentino (vv. 109-151).

*.*.*

Il tempo in cui si svolge l’azione è l’alba del 9 aprile 1300, sabato santo.

Il luogo è costituito dal cerchio VII, 2° girone: la selva dei suicidi.

È un bosco pauroso, fitto di alberi che non hanno fronde verdi, ma scure; tronchi e rami, di colore cupo, sono orribilmente contorti e irti di spine avvelenate. Il silenzio della selva è interrotto dai lamenti delle Arpie che fanno i loro nidi sugli alberi strani.

Le custodi del canto sono le Arpie.

I dannati puniti sono violenti contro se stessi: suicidi (nella persona) scialacquatori (nelle cose).

PENA E CONTRAPPASSO

I suicidi sono tramutati in piante secche, contorte e nodose.

Disprezzarono se stessi e il proprio corpo, straziandolo, ora sono relegati ad una forma di vita inferiore e sono straziati dalle Arpie.

Si perpetua in eterno la scissione avvenuta al momento del suicidio: l’ anima non potrà mai più riunirsi al corpo.

Gli scialacquatori sono inseguiti da cagne fameliche che azzannano e lacerano i loro corpi.

Come furono dilapidatori in vita, ora le loro membra vengono dilacerate e sparse dalle cagne; quindi si ricompongono per la ripresa eterna della caccia.

PERSONAGGI

Arpie. Figlie di Taumante e di Elettra, sono esseri mostruosi con volto di donna e corpo di uccello. Nell’Eneide (III, 209 sgg.) cacciarono i Troiani dalle Strofadi e predissero loro travagli e sventure.

Dante prende spunto da Virgilio, rappresentandole quali esseri lugubri, dalle ali larghe, il ventre ricoperto di piume, che si cibano delle piante selvatiche in cui sono trasformati i dannati, facendo così strazio di loro.

Pier della Vigna. Nato a Capua alla fine del XII secolo, da famiglia umile, fu giurista e letterato. Studiò non senza difficoltà a Bologna e entrato alla corte di Federico II di Svevia come notaio, si conquistò i favori dell’imperatore, fino a diventarne il più fido consigliere.

Sospettato di alto tradimento, ingiustamente secondo Dante, nel 1248 fu imprigionato e accecato.

Morì suicida nel 1249 a Pisa o forse nel castello di San Miniato.

Fu famoso anche per le sue epistole latine, considerate a lungo quale perfetto modello di arte rettorica; e per alcune canzoni e sonetti in volgare, secondo la maniera della scuola Siciliana (v. in letteratura italiana).

A Dante fu certamente simpatico per la lotta accanita che ebbe a combattere per il potere laico contro le pretese ecclesiastiche.

Lano da Siena. Forse Ercolano dei Maconi, fu grande scialacquatore e appartenne, secondo Boccaccio, alla brigata spendereccia di cui parla Dante nel XXIX dell’Inferno. Morì nella battaglia svoltasi tra Senesi e Aretini alla Pieve del Toppo nel 1287.

Giacomo da Sant’ Andrea, presso Padova. Figlio di Oderico da Monselice, fu al seguito di Federico II nel 1237.

Morì due anni dopo, ucciso forse da Ezzelino III. Aveva fama di grande scialacquatore.

Il suicida fiorentino. Non se ne conosce l’identità. Alcuni commentatori dicono che si tratti di Lotto degli Agli, altri lo identificano con Rocco dei Mozzi. Numerosi, comunque, secondo le cronache del tempo, furono i casi di suicidio in Firenze nella seconda metà del XIII secolo.

ELEMENTI PRINCIPALI

 

l ) La figura di Pier della Vigna. Protagonista del canto, Pier della Vigna è l’uomo di corte, ma anche il letterato e il poeta fedele al suo signore: Dante lo riabilita alla memoria dei contemporanei, cancellando in lui ogni sospetto di tradimento e presentandolo come personaggio con un alto senso della propria dignità e con una vigile coscienza della propria colpa.

Per quest’ultima caratteristica, per la coscienza di come il male può nascere e svilupparsi nell’anima fino a determinarne la dannazione, Piero può essere avvicinato a Francesca da Rimini (cfr. c. V).

2) Il mondo della corte. Traspare con viva evidenza dalle parole del ministro di Federico II quel mondo curiale che Dante aveva pure ammirato, per quei sentimenti di fedeltà, cortesia, dignità, che ispiravano l’uomo politico.

Ma qui Dante ne prende le distanze sottolineandone invece i confini mondani e i mali che lo caratterizzano: l’invidia, vizio della corte, gli inganni, le calunnie che distrussero Pier della Vigna e che lo portarono al peccato, accecandolo nell’eccessiva, limitata idolatria del proprio glorioso ufficio.

3) La selva dei suicidi. L’ambientazione suggestiva della selva con i suoi rami contorti e foschi – a rappresentare la contorta psicologia di quei dannati – e, di rimando, la sospensione e lo smarrimento che la stranezza del paesaggio provoca in Dante ben si accordano con la particolarità della condizione e del destino dei suicidi:

a) le loro anime sono imprigionate in una forma di vita inferiore: essi sono al contempo uomini e vegetali;

b) a differenza degli altri dannati dell’Inferno, dopo il giudizio universale non si riuniranno al corpo, che hanno disprezzato. Il corpo penzolerà dai rami; l’immagine è ancora più suggestiva, se si pensa che il suicida tipico è l’impiccato.

4) L’episodio degli scialacquatori. Le anime di Lano e di Giacomo braccate dalle cagne furiose irrompono all’improvviso in una scena statica: Dante sottolinea così la violenza della pena e della condanna che egli sancisce per gli scialacquatori.

Lo scempio che di loro si fa coinvolge anche gli altri dannati: è la prima volta che i peccatori si straziano così, fisicamente, tra di loro.

5) Il suicida fiorentino. L’anonimo suicida conterraneo di Dante rappresenta simbolicamente la città di Firenze, che perpetua il proprio suicidio nelle guerre civili di cui è teatro. È anche occasione per note di cronaca e per ricordare le leggendarie origini della città.

6) Il linguaggio del canto. Il linguaggio di tutto il canto è teso, stilisticamente ricercato, elaborato ad arte, prima per creare un clima di sospensione e inquietudine, poi per farsi linguaggio colto in un personaggio di corte, in un letterato, infine per esprimere la violenza di un’incursione.

Da notare, almeno:

a) la descrizione della selva che avviene tutta per antitesi [1](non fronda verde, ma di color fosco/, ecc.);

b) l’uso di vocaboli secchi, duri e aspri (tosco/fosco/bronchi/tronchi/schiante/scerpi, ecc.);

c) il v. 25: Cred’io ch’ei credette ch ‘io credessi, per cui si è parlato di barocco medievale, ma anche di una specie di <<correlativo oggettivo>> [2] della condizione di intricatezza e scissione dei suicidi nello stato d’animo di Dante personaggio, che, smarrito, non riesce più a comunicare direttamente col maestro Virgilio;

d) l’ esordio di Piero (vv. 55-57) in un linguaggio tutto erudito e retorico.

RIASSUNTO DEL TESTO

Il bosco dei suicidi. Le Arpie (vv. 1-21)

 

Il centauro Nesso non ha ancora attraversato il Flegetonte, che i due poeti si inoltrano in un bosco: le fronde degli alberi non sono verdi, ma di colore cupo, i rami non sono lisci e diritti, ma nodosi e contorti, non vi sono frutti, ma sterpi con spine velenose: le fiere selvagge, che evitano i luoghi coltivati tra Cecina e Corneto, nella Maremma toscana, non hanno come tane sterpaglie cosi folte e aspre.

In questo bosco infernale hanno i nidi le Arpie, che cacciarono i Troiani dalle isole Strofadi, profetizzando loro tristi sciagure.

Questi mostri hanno larghe ali, visi e colli umani, zampe con artigli, un gran ventre pennuto e dall’alto degli alberi emettono strani lamenti.

Virgilio spiega a Dante che si trovano nel secondo girone del VII cerchio e lo invita a guardarsi attorno attentamente: vedrà infatti cose incredibili a dirsi.

 

Il ramo spezzato (vv. 22-54)

 

Dante, sentendo levarsi da ogni parte tristi lamenti e non vedendo alcuna persona, si arresta smarrito.

Virgilio, pensando che egli creda che tali voci provengano da persone nascoste dietro gli alberi, lo invita a spezzare qualche ramo per rendersi conto di come stanno in realtà le cose.

Dante, allungando la mano, spezza un rametto da un grosso cespuglio spinoso, ma il tronco si macchia di sangue e, rimprovera il poeta di aver strappato, senza alcuna pietà, il ramo della pianta al cui interno è racchiusa l’anima di un dannato (“uomini fummo e ora siam fatti sterpi”).

Come un ramo verde quando viene bruciato da uno dei capi, lascia uscire gemendo gocce di umore e stride per l’aria che ne esce, cosi dal ramo spezzato, escono insieme gocce di sangue e parole, per cui Dante, spaventato, lo lascia cadere a terra.

Interviene a questo punto Virgilio in difesa del suo discepolo, dicendo all’anima che D. non avrebbe spezzato il ramo, se avesse saputo ciò che sarebbe successo e aggiunge di averlo spinto egli stesso a fare quel gesto, affinché potesse credere all’episodio di Polidoro.

Anzi, invita l’anima nascosta nel cespuglio a rivelarsi in modo che Dante, tornato nel mondo, possa far rivivere la sua memoria.

 

Pier della Vigna (vv. 55-78)

 

Il tronco, allettato da tale promessa, si rivela per colui che tenne le chiavi del cuore di Federico II: egli è infatti Pier della Vigna, segretario dell’imperatore.

Afferma, inoltre, di aver sempre tenuto fede al proprio incarico, fino a perdere per esso il sonno e la salute.

Ma l’invidia, rovina di tutti gli esseri umani, e in particolare delle corti, infiammò contro di lui gli animi di tutti i cortigiani che seppero mettergli contro l’imperatore Federico II.

In tal modo Pier della Vigna, sdegnato verso i calunniatori, credette col suicidio di sfuggire all’invidia e all’ira, compiendo un atto ingiusto verso sé stesso, innocente.

In nome delle radici del suo tronco, giura di non aver mai ingannato il suo signore, uomo degno di tanto amore e chiede a Dante, di riabilitare la sua memoria, quando tornerà nel mondo.

 

I suicidi: la loro pena e la loro sorte dopo il Giudizio Universale (vv. 79-108)

 

Virgilio invita Dante a porre qualche domanda a Pier della Vigna, ma il poeta è tanto commosso che non riesce a parlare e chiede al maestro di interrogarlo in sua vece.

Allora Virgilio domanda come facciano le anime dei suicidi a entrare nei rami nodosi e se mai alcuna ne sia uscita.

Pier della Vigna risponde in breve che, quando l’anima si stacca dal corpo, viene mandata da Minosse nel VII cerchio dove germoglia diventando prima un virgulto, poi una pianta silvestre, delle cui foglie si nutrono le Arpie, provocando ad essa grande sofferenza.

Il giorno del Giudizio Universale, come tutte le altre anime dei suicidi, esse andranno a riprendere il corpo, ma non potranno rivestirsene, poiché non è giusto riavere ciò che con violenza si è tolto a se stessi; i corpi saranno trascinati fino alla foresta e poi appesi all’albero in cui è racchiusa la loro anima.

 

Gli scialacquatori: Lano da Siena e Giacomo da S. Andrea (vv. 109-129)

 

I due poeti sono ancora rivolti al tronco, credendo che egli voglia ancora parlare, quando sono sorpresi da un rumore, simile a quello che si sente durante la caccia al cinghiale in un bosco.

Ecco che, dalla sinistra, giungono correndo due dannati nudi e graffiati, che nella fretta della fuga spezzano i grovigli dei rami.

Il primo dei due, Lano da Siena, invoca la morte di venirlo a salvare, mentre il secondo, Giacomo da S. Andrea, gli ricorda la battaglia della Pieve del Toppo, dove il primo morì, non essendo riuscito a correre così velocemente come ora, e si nasconde dietro un cespuglio.

Una moltitudine di nere cagne insegue i due fuggitivi, e si butta su quello che era nascosto e lo dilania, sbranandolo.

I1 suicida fiorentino (vv. 130-151)

Virgilio prende Dante per mano e lo porta vicino al cespuglio che piange a causa dei rami straziati per colpa di Giacomo da S. Andrea.

Il maestro gli domanda chi sia ed egli prega i due poeti di raccogliere ai piedi del tronco i rami spezzati e poi si palesa per un cittadino di Firenze, città che mutò il suo primo patrono Marte, con San Giovanni Battista, per cui Marte la perseguiterà sempre, e se non fosse che, sul ponte d’ Arno, rimane qualche segno di lui, i cittadini che ricostruirono la città dopo il passaggio di Attila[3], avrebbero fatto una fatica inutile.

Infine Lotto degli Agli (o forse Rocco dei Mozzi)[4] conferma ai due poeti di essersi impiccato in casa propria.

 


[1] Figura retorica che consiste nell’accostare parole o espressioni aventi significati contrari, perché dal loro contrasto risalti meglio ciò che si vuol dire.

[2] Fonemi correlativi sono quelli aventi in comune tutti i caratteri, tranne uno (p.e. la c dura e la g dura, che sono entrambe consonanti occlusive velari, ma l’una è sorda e l’altra è sonora). Per correlativo oggettivo si intende fenomeno correlativo che dà luogo a più proposizioni oggettive.

[3] Dante confonde Attila con il re longobardo Totila che durante la guerra greco-gotica (535-553) aveva assediato la città.

[4] Che si è impiccato perché come giudice aveva pronunciato una sentenza iniqua.

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