Lezioni della storia 2

Un ex colonnello garibaldino nel 1868 si interroga sullo spread…

Non fu senza ragione che il debito pubblico italiano ebbe sempre tassato il proprio valore alla Borsa di Parigi. Il Governo francese tenne così meglio in mano l’Italia co’ suoi sensali di Borsa che non già l’Austria co’ suoi agenti di polizia. Il restauro delle finanze italiane non sarà mai compiuto, finché non giunga il Governo italiano a far sì che il valore della rendita pubblica, tassato in Italia, sia di norma anche presso le borse forestiere: è ben cosa strana che la Borsa di Parigi, mentre omai non vi è in Francia che una minima parte della rendita italiana, debba dettare legge nel corso dei nostri valori pubblici. Questo fatto costante tutt’ora dimostra che la indipendenza politica di Italia non è compiuta, e che il Governo francese può anche finanziariamente influire sui nostri destini, come gli garba. Tutti gli sforzi ed i sacrifizi per ristorare le finanze dell’Italia e porla quindi sempre più in istato di farsi rispettare sono lodevoli e ammirabili, ma i più fecondi sono certamente quelli che libereranno i suoi valori pubblici dall’arbitrio del commercio e dagli abusi della politica degli stranieri[1].

Il Primo ministro Bettino Ricasoli nel 1866 scrive ai prefetti…

L’Italia non può, non deve mendicare perpetuamente all’Europa le industrie, la cultura, il credito: essa ha obbligo di contribuire ormai alla prosperità universale con tutta la sua operosità, facendo fruttare le copiose forze che in lei mise Provvidenza, e che insino a noi sono state distrutte dalla misere condizioni della patria.
Il campo di questa necessaria operosità è aperto a tutti: dal padre di famiglia salendo per l’amministratore del Comune e della Provincia fino al ministro, tutti hanno debito di darvi mano, di assecondarsi reciprocamente secondo la loro sfera d’azione… Converrà dunque che ogni partito politico scenda nell’arena parlamentare con un programma di governo e di amministrazione compiuto, e che smesso ogni ossequio alla persona, dimenticati i rancori personali o municipali, si aggruppino i rappresentanti del paese secondo i principi e secondo i sistemi.
Per tal modo sinceramente esercitate, le funzioni parlamentari faranno prova di tutta la fecondità e di tutta la efficacia pel bene, di cui sono capaci; e i miglioramenti e le riforme prodotti da una schietta ed ampia discussione non seguiranno le forze instabili dei partiti frazionati all’infinito[2].

Circolare ai prefetti del 10 novembre 1866


[1] G. FRYGESI, L’Italia nel 1867: storia politica e militare corredata di molti documenti editi ed inediti e di notizie speciali, Volume 1, F. Bencini, 1868, p. 475.

[2] G. FRYGESI, L’Italia nel 1867: storia politica e militare corredata di molti documenti editi ed inediti e di notizie speciali, Volume 1, F. Bencini, 1868, pp. 529 e ss.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto XIII– Sintesi

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IN BREVE

(Ancora nel 7° cerchio) I poeti entrano nell’orri­da selva dei suicidi che non conservano aspetto umano ma sono rinchiusi nei tronchi degli alberi, le cui foglie sono straziate dalle arpie (vv. 1-22).

Dante sente dei gemiti senza capire da dove provengono e su consiglio di Virgilio spezza il ramoscello di un pruno, dal quale escono parole e sangue.

Chi parla è il cancelliere di Federico II, Pier delle Vigne, che esalta il suo signore, si difende dall’accusa di infedeltà, prega il poeta di riabilitarlo.

Spiega come le anime si chiudano nei tronchi e aggiunge che dopo il giudizio universale, i dannati riprenderanno il loro corpo che rimarrà appeso alle piante (vv. 22-108).

D. e V. vedono due cagne infernali che straziano due sperperatori delle loro sostanze: Lano da Siena e Jacopo da Sant’Andrea; quest’ultimo si appiatta dietro ad un cespuglio che  riveste l’anima di un anonimo suicida fiorentino (vv. 109-151).

*.*.*

Il tempo in cui si svolge l’azione è l’alba del 9 aprile 1300, sabato santo.

Il luogo è costituito dal cerchio VII, 2° girone: la selva dei suicidi.

È un bosco pauroso, fitto di alberi che non hanno fronde verdi, ma scure; tronchi e rami, di colore cupo, sono orribilmente contorti e irti di spine avvelenate. Il silenzio della selva è interrotto dai lamenti delle Arpie che fanno i loro nidi sugli alberi strani.

Le custodi del canto sono le Arpie.

I dannati puniti sono violenti contro se stessi: suicidi (nella persona) scialacquatori (nelle cose).

PENA E CONTRAPPASSO

I suicidi sono tramutati in piante secche, contorte e nodose.

Disprezzarono se stessi e il proprio corpo, straziandolo, ora sono relegati ad una forma di vita inferiore e sono straziati dalle Arpie.

Si perpetua in eterno la scissione avvenuta al momento del suicidio: l’ anima non potrà mai più riunirsi al corpo.

Gli scialacquatori sono inseguiti da cagne fameliche che azzannano e lacerano i loro corpi.

Come furono dilapidatori in vita, ora le loro membra vengono dilacerate e sparse dalle cagne; quindi si ricompongono per la ripresa eterna della caccia.

PERSONAGGI

Arpie. Figlie di Taumante e di Elettra, sono esseri mostruosi con volto di donna e corpo di uccello. Nell’Eneide (III, 209 sgg.) cacciarono i Troiani dalle Strofadi e predissero loro travagli e sventure.

Dante prende spunto da Virgilio, rappresentandole quali esseri lugubri, dalle ali larghe, il ventre ricoperto di piume, che si cibano delle piante selvatiche in cui sono trasformati i dannati, facendo così strazio di loro.

Pier della Vigna. Nato a Capua alla fine del XII secolo, da famiglia umile, fu giurista e letterato. Studiò non senza difficoltà a Bologna e entrato alla corte di Federico II di Svevia come notaio, si conquistò i favori dell’imperatore, fino a diventarne il più fido consigliere.

Sospettato di alto tradimento, ingiustamente secondo Dante, nel 1248 fu imprigionato e accecato.

Morì suicida nel 1249 a Pisa o forse nel castello di San Miniato.

Fu famoso anche per le sue epistole latine, considerate a lungo quale perfetto modello di arte rettorica; e per alcune canzoni e sonetti in volgare, secondo la maniera della scuola Siciliana (v. in letteratura italiana).

A Dante fu certamente simpatico per la lotta accanita che ebbe a combattere per il potere laico contro le pretese ecclesiastiche.

Lano da Siena. Forse Ercolano dei Maconi, fu grande scialacquatore e appartenne, secondo Boccaccio, alla brigata spendereccia di cui parla Dante nel XXIX dell’Inferno. Morì nella battaglia svoltasi tra Senesi e Aretini alla Pieve del Toppo nel 1287.

Giacomo da Sant’ Andrea, presso Padova. Figlio di Oderico da Monselice, fu al seguito di Federico II nel 1237.

Morì due anni dopo, ucciso forse da Ezzelino III. Aveva fama di grande scialacquatore.

Il suicida fiorentino. Non se ne conosce l’identità. Alcuni commentatori dicono che si tratti di Lotto degli Agli, altri lo identificano con Rocco dei Mozzi. Numerosi, comunque, secondo le cronache del tempo, furono i casi di suicidio in Firenze nella seconda metà del XIII secolo.

ELEMENTI PRINCIPALI

 

l ) La figura di Pier della Vigna. Protagonista del canto, Pier della Vigna è l’uomo di corte, ma anche il letterato e il poeta fedele al suo signore: Dante lo riabilita alla memoria dei contemporanei, cancellando in lui ogni sospetto di tradimento e presentandolo come personaggio con un alto senso della propria dignità e con una vigile coscienza della propria colpa.

Per quest’ultima caratteristica, per la coscienza di come il male può nascere e svilupparsi nell’anima fino a determinarne la dannazione, Piero può essere avvicinato a Francesca da Rimini (cfr. c. V).

2) Il mondo della corte. Traspare con viva evidenza dalle parole del ministro di Federico II quel mondo curiale che Dante aveva pure ammirato, per quei sentimenti di fedeltà, cortesia, dignità, che ispiravano l’uomo politico.

Ma qui Dante ne prende le distanze sottolineandone invece i confini mondani e i mali che lo caratterizzano: l’invidia, vizio della corte, gli inganni, le calunnie che distrussero Pier della Vigna e che lo portarono al peccato, accecandolo nell’eccessiva, limitata idolatria del proprio glorioso ufficio.

3) La selva dei suicidi. L’ambientazione suggestiva della selva con i suoi rami contorti e foschi – a rappresentare la contorta psicologia di quei dannati – e, di rimando, la sospensione e lo smarrimento che la stranezza del paesaggio provoca in Dante ben si accordano con la particolarità della condizione e del destino dei suicidi:

a) le loro anime sono imprigionate in una forma di vita inferiore: essi sono al contempo uomini e vegetali;

b) a differenza degli altri dannati dell’Inferno, dopo il giudizio universale non si riuniranno al corpo, che hanno disprezzato. Il corpo penzolerà dai rami; l’immagine è ancora più suggestiva, se si pensa che il suicida tipico è l’impiccato.

4) L’episodio degli scialacquatori. Le anime di Lano e di Giacomo braccate dalle cagne furiose irrompono all’improvviso in una scena statica: Dante sottolinea così la violenza della pena e della condanna che egli sancisce per gli scialacquatori.

Lo scempio che di loro si fa coinvolge anche gli altri dannati: è la prima volta che i peccatori si straziano così, fisicamente, tra di loro.

5) Il suicida fiorentino. L’anonimo suicida conterraneo di Dante rappresenta simbolicamente la città di Firenze, che perpetua il proprio suicidio nelle guerre civili di cui è teatro. È anche occasione per note di cronaca e per ricordare le leggendarie origini della città.

6) Il linguaggio del canto. Il linguaggio di tutto il canto è teso, stilisticamente ricercato, elaborato ad arte, prima per creare un clima di sospensione e inquietudine, poi per farsi linguaggio colto in un personaggio di corte, in un letterato, infine per esprimere la violenza di un’incursione.

Da notare, almeno:

a) la descrizione della selva che avviene tutta per antitesi [1](non fronda verde, ma di color fosco/, ecc.);

b) l’uso di vocaboli secchi, duri e aspri (tosco/fosco/bronchi/tronchi/schiante/scerpi, ecc.);

c) il v. 25: Cred’io ch’ei credette ch ‘io credessi, per cui si è parlato di barocco medievale, ma anche di una specie di <<correlativo oggettivo>> [2] della condizione di intricatezza e scissione dei suicidi nello stato d’animo di Dante personaggio, che, smarrito, non riesce più a comunicare direttamente col maestro Virgilio;

d) l’ esordio di Piero (vv. 55-57) in un linguaggio tutto erudito e retorico.

RIASSUNTO DEL TESTO

Il bosco dei suicidi. Le Arpie (vv. 1-21)

 

Il centauro Nesso non ha ancora attraversato il Flegetonte, che i due poeti si inoltrano in un bosco: le fronde degli alberi non sono verdi, ma di colore cupo, i rami non sono lisci e diritti, ma nodosi e contorti, non vi sono frutti, ma sterpi con spine velenose: le fiere selvagge, che evitano i luoghi coltivati tra Cecina e Corneto, nella Maremma toscana, non hanno come tane sterpaglie cosi folte e aspre.

In questo bosco infernale hanno i nidi le Arpie, che cacciarono i Troiani dalle isole Strofadi, profetizzando loro tristi sciagure.

Questi mostri hanno larghe ali, visi e colli umani, zampe con artigli, un gran ventre pennuto e dall’alto degli alberi emettono strani lamenti.

Virgilio spiega a Dante che si trovano nel secondo girone del VII cerchio e lo invita a guardarsi attorno attentamente: vedrà infatti cose incredibili a dirsi.

 

Il ramo spezzato (vv. 22-54)

 

Dante, sentendo levarsi da ogni parte tristi lamenti e non vedendo alcuna persona, si arresta smarrito.

Virgilio, pensando che egli creda che tali voci provengano da persone nascoste dietro gli alberi, lo invita a spezzare qualche ramo per rendersi conto di come stanno in realtà le cose.

Dante, allungando la mano, spezza un rametto da un grosso cespuglio spinoso, ma il tronco si macchia di sangue e, rimprovera il poeta di aver strappato, senza alcuna pietà, il ramo della pianta al cui interno è racchiusa l’anima di un dannato (“uomini fummo e ora siam fatti sterpi”).

Come un ramo verde quando viene bruciato da uno dei capi, lascia uscire gemendo gocce di umore e stride per l’aria che ne esce, cosi dal ramo spezzato, escono insieme gocce di sangue e parole, per cui Dante, spaventato, lo lascia cadere a terra.

Interviene a questo punto Virgilio in difesa del suo discepolo, dicendo all’anima che D. non avrebbe spezzato il ramo, se avesse saputo ciò che sarebbe successo e aggiunge di averlo spinto egli stesso a fare quel gesto, affinché potesse credere all’episodio di Polidoro.

Anzi, invita l’anima nascosta nel cespuglio a rivelarsi in modo che Dante, tornato nel mondo, possa far rivivere la sua memoria.

 

Pier della Vigna (vv. 55-78)

 

Il tronco, allettato da tale promessa, si rivela per colui che tenne le chiavi del cuore di Federico II: egli è infatti Pier della Vigna, segretario dell’imperatore.

Afferma, inoltre, di aver sempre tenuto fede al proprio incarico, fino a perdere per esso il sonno e la salute.

Ma l’invidia, rovina di tutti gli esseri umani, e in particolare delle corti, infiammò contro di lui gli animi di tutti i cortigiani che seppero mettergli contro l’imperatore Federico II.

In tal modo Pier della Vigna, sdegnato verso i calunniatori, credette col suicidio di sfuggire all’invidia e all’ira, compiendo un atto ingiusto verso sé stesso, innocente.

In nome delle radici del suo tronco, giura di non aver mai ingannato il suo signore, uomo degno di tanto amore e chiede a Dante, di riabilitare la sua memoria, quando tornerà nel mondo.

 

I suicidi: la loro pena e la loro sorte dopo il Giudizio Universale (vv. 79-108)

 

Virgilio invita Dante a porre qualche domanda a Pier della Vigna, ma il poeta è tanto commosso che non riesce a parlare e chiede al maestro di interrogarlo in sua vece.

Allora Virgilio domanda come facciano le anime dei suicidi a entrare nei rami nodosi e se mai alcuna ne sia uscita.

Pier della Vigna risponde in breve che, quando l’anima si stacca dal corpo, viene mandata da Minosse nel VII cerchio dove germoglia diventando prima un virgulto, poi una pianta silvestre, delle cui foglie si nutrono le Arpie, provocando ad essa grande sofferenza.

Il giorno del Giudizio Universale, come tutte le altre anime dei suicidi, esse andranno a riprendere il corpo, ma non potranno rivestirsene, poiché non è giusto riavere ciò che con violenza si è tolto a se stessi; i corpi saranno trascinati fino alla foresta e poi appesi all’albero in cui è racchiusa la loro anima.

 

Gli scialacquatori: Lano da Siena e Giacomo da S. Andrea (vv. 109-129)

 

I due poeti sono ancora rivolti al tronco, credendo che egli voglia ancora parlare, quando sono sorpresi da un rumore, simile a quello che si sente durante la caccia al cinghiale in un bosco.

Ecco che, dalla sinistra, giungono correndo due dannati nudi e graffiati, che nella fretta della fuga spezzano i grovigli dei rami.

Il primo dei due, Lano da Siena, invoca la morte di venirlo a salvare, mentre il secondo, Giacomo da S. Andrea, gli ricorda la battaglia della Pieve del Toppo, dove il primo morì, non essendo riuscito a correre così velocemente come ora, e si nasconde dietro un cespuglio.

Una moltitudine di nere cagne insegue i due fuggitivi, e si butta su quello che era nascosto e lo dilania, sbranandolo.

I1 suicida fiorentino (vv. 130-151)

Virgilio prende Dante per mano e lo porta vicino al cespuglio che piange a causa dei rami straziati per colpa di Giacomo da S. Andrea.

Il maestro gli domanda chi sia ed egli prega i due poeti di raccogliere ai piedi del tronco i rami spezzati e poi si palesa per un cittadino di Firenze, città che mutò il suo primo patrono Marte, con San Giovanni Battista, per cui Marte la perseguiterà sempre, e se non fosse che, sul ponte d’ Arno, rimane qualche segno di lui, i cittadini che ricostruirono la città dopo il passaggio di Attila[3], avrebbero fatto una fatica inutile.

Infine Lotto degli Agli (o forse Rocco dei Mozzi)[4] conferma ai due poeti di essersi impiccato in casa propria.

 


[1] Figura retorica che consiste nell’accostare parole o espressioni aventi significati contrari, perché dal loro contrasto risalti meglio ciò che si vuol dire.

[2] Fonemi correlativi sono quelli aventi in comune tutti i caratteri, tranne uno (p.e. la c dura e la g dura, che sono entrambe consonanti occlusive velari, ma l’una è sorda e l’altra è sonora). Per correlativo oggettivo si intende fenomeno correlativo che dà luogo a più proposizioni oggettive.

[3] Dante confonde Attila con il re longobardo Totila che durante la guerra greco-gotica (535-553) aveva assediato la città.

[4] Che si è impiccato perché come giudice aveva pronunciato una sentenza iniqua.

Dell’idea del buon governo

Idea del buon governo

Quale sia il miglior governo, il rigoroso o il soave (estratto)

 

Tutto il mondo si accorda in questo, che il governare uomini è la più difficile cosa che si ritrovi tra gli affari del mondo.

E a dire il vero quanti sono gli uomini, altrettanti sono i piccoli mondi; ed è forse più malagevole governare il mondo piccolo che non il grande.

Il corso del maggior mondo è tanto uniforme e uguale, che si può dire, che chiunque fosse capace di governarlo bene per un anno, potrebbe quasi governarlo eternamente senza fastidio.

Ma il minore ad ogni momento si cambia, ed è un banderuola battuta da tutti i venti, e quanti uomini avete da governare, son quasi altrettanti mondi uno differente dall’altro.

Uno è tutto impeto; l’altro è freddo e pesante come fosse di piombo, e così poco maneggevole, che come una zolla di rozza terra se niente niente lo premete dà in dispersione e si rompe; quegli è leggiero ed instabile come argento vivo, né mai quel Mercurio si può fissare; e questi è ombroso, e mezzo ipocondriaco, che ogni cosa prende di traverso, e non sa far altro che lamentarsi e poi crede che non vi sia al mondo cosa più candida ed innocente di lui.

Un altro è tutto glorioso, pare che in questo mondo non si possa né si debba pensare ad altri che a lui.

Questo vuol essere adulato e quello, se mostrate di lisciarlo, s’insospettisce e non si fida di voi.

Qual capacità dunque, o per dir meglio, quale benedizione del Cielo sarà necessaria per governare tanta diversità d’umori felicemente o con qualche sorta di soddisfazione?

Ora se nei soggetti che hanno da essere governati si trova della diversità non c’è niente di meno in quelli che hanno l’ufficio di governare.

Dato che alcuni sono del parere che il governo debba essere nervoso, vigoroso ed efficace, vengane quel che mai ne deve venire; altri credono esser meglio che il governo sia dolce, cordiale, e pieno di paterna benignità.

I più sensati dicono che bisogna temperare l’uno con l’altro, e maritar la rosa con le spine e avere una certa maniera di reggere dolcemente efficace.

Il paggio è che ciascuno si adula e crede per certo che tale è il suo modo di governare e che egli ha tanto di dolcezza quanto bisogna; e niente meno dell’efficacia e insomma pensa di aver trovato una perfetta modalità di soave rigore.

Che se alcuno di loro li contraddice affermano di non esser così: e si danno a credere che in verità tutto il mondo in ciò si inganna, fuori che loro, e che ogni persona di buon gusto quando sia bene informata, troverà, che il suo buon governo è molto temperato, e che ha del dolce, e dell’agro quanto bisogna, e non più.

Il male è che non c’è chi lo creda se non i miserabili, e qualche adulatorello, che fa finta di crederlo.

Se uno pensasse che una perfezione così rara si potesse conseguire in pochi mesi, o con un poco di buona intenzione, e con un tantino di studio che la persona vi ha posto, questo sarebbe il segno infallibile, che quello che egli crede così fermamente, non altro è che quello che crede solo lui.

E ciò perché ordinariamente quelli che hanno questo così prezioso talento, sogliono ingenuamente confessare di non averlo, quantunque essi continuamente studino per acquistarlo, e riconoscendo la loro debolezza, fuggono quanto possono, dentro i termini dell’ubbidienza, la croce del governo, e di maneggiare il timone di una nave battuta continuamente e combattuta da tanti turbini e da tanti venti contrari.

Lo stimarsi dunque veramente incapace di saper governare e di preferire ogni altro a sé, non già per un vano complimento e per cerimonia, ma per buon senno e come nel cospetto di Dio e dei suoi Angeli, questo per verità è il vero segno di un uomo degno di governare.

 

Étienne Binet, Idea del buon governo, descritta da Renato Francese predicatore del Re, presso Giò Giacomo Hertz, Venezia, 1674, p. 10 e ss.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto XI e XII – Sintesi

Inf. 11 Baccio Baldini, Dante e Virgilio sedut...
Inf. 11 Baccio Baldini, Dante e Virgilio seduti presso la tomba di Anastasio (Photo credit: Wikipedia)

Canto XI

Siamo sempre nel VI cerchio in cui vengono puniti gli eretici ed in particolare i monofisiti (coloro che riconoscono in Cristo la sola natura umana).

Virgilio e Dante giungono sull’estremità di un’alta riva posta al di sopra del VII cerchio, costituita da un’enorme quantità di grosse pietre e qui, a causa dell’orrendo fetore che sale dal “profondo abisso”, sono costretti a ripararsi dietro al coperchio di una grossa tomba sulla cui superficie è scritto che all’interno giace papa Anasta­sio II (498-496)[1] (ritenuto eretico per errore della tradizione) distolto dalla retta via e quindi dal diacono orientale Fotino[2].

Virgilio comprende che D. deve abituarsi gradatamente all’odore e allora fa una sosta.

Dante chiede allora al Maestro di trovare qualche argomento in modo che il tempo dell’attesa non trascorra inutilmente: perciò Virgilio si accinge a spiegare l’ordinamento del profondo inferno (che segue la tripartizione aristotelica: incon­ti­nenza, violenza o matta bestialità, malizia).

All’interno della riva costituita dai grossi sassi vi sono tre cerchi più piccoli di quelli precedenti, abitati da altri spiriti dannati.

Tali spiriti sono sistemati nei diversi cerchi secondo un certo ordine dovuto alle colpe commesse.

In generale, il fine d’ogni peccato è un'”ingiuria”, cioè un’ingiustizia, portata a compimento con la forza o con l’inganno a danno altrui, ma poiché l’inganno è proprio esclusivamente dell’essere umano, offende Dio in modo ancor più grande ed è per questo motivo che i fraudolenti sono condannati nei cerchi più bassi.

Il primo dei tre cerchi è occupato dai violenti, ma poiché la violenza può essere attuata in tre modi diversi, tale cerchio è diviso in tre gironi infatti si può commettere violenza verso Dio, verso se stessi e verso il prossimo sia nella persona sia nelle cose.

Nel primo girone sono dunque condannati i violenti verso il prossimo nella persona, cioè gli omicidi e i feritori, e i violenti verso il prossimo nelle cose, cioè i

guastatori e i predoni.

Nel secondo girone sono condannati i violenti verso se stessi nella persona (suicidi e scialacquatori: violenti verso se stessi nelle cose).

Nel terzo girone sono condannati i violenti verso Dio nella persona che negano la sua natura o la sua bontà (bestemmiatori) i violenti verso Dio nelle cose (usurai, sodomiti).

Virgilio espone poi le forme di malizia (o frode): contro chi non si fida (ipocrisia e lusinga), contro chi si fida (tradimento).

La prima forma di frode è meno grave poiché rompe soltanto quel vincolo d’amore che la natura ha stabilito tra gli uomini: e quindi i dannati (ipocriti, adulatori, maghi, falsari, simoniaci, ruffiani, barattieri ecc.) occupano il secondo cerchio (le malebolge).

I dannati della seconda forma che rompono oltre al vincolo d’amore anche quello di fiducia sono puniti nel terzo cerchio (cocito), dove è situato il punto ove Lucifero è conficcato e dove sono puniti per l’eterno tutti i traditori (vv. 1-66)

Dante vuol saper perché gli altri dannati (incontinenti) incontrati si trovano fuori dalla città di Dite: Vitgilio replica che secondo Aristotele (trattato VII dell’Etica[3]) l’incontinenza offende Dio in modo minore ed è quindi meno biasimevole.

Pur soddisfatto della risposta Dante chiede a Virgilio perché l’usura offende Dio: Virgilio risponde che la filosofia aristotelica spiega come la natura abbia la sua origine dall’intelletto divino e dall’operare di tale intelletto e che, secondo la Fisica di Aristotele, l’arte dell’uomo segue, per quanto è possibile, la natura, come il discepolo segue il maestro, in modo tale che l’arte dell’uomo è, si può dire, nipote di Dio.

Dalla natura e dall’arte, come dice il libro della Genesi, conviene che il genere umano prenda i mezzi per vivere e avanzare progredendo e, dato che l’usuraio segue un’altra via, cioè vive e si arricchisce col denaro dato in prestito, disprezza l’arte e la natura offendendo in tal modo Dio.

Quindi Virgilio esorta Dante a seguirlo, poiché i pesci guizzano per l’orizzonte, cioè si avvicina l’alba e l’altra riva si può discendere in un punto più lontano (vv. 67-115).

XII Canto

Virgilio e  Dante discendono a causa di una frana, custodita dal Minotauro e causata dal terremoto seguito alla morte di Cristo, nel 7° cerchio dei violenti diviso, come abbiamo accennato, in tre gironi: il primo è costituito dal Flegetonte, fiume di sangue bollente in cui sono immersi i violenti contro la vita e le sostanze del prossimo tra cui i tiranni: Alessandro Magno[4] (per altri Alessan­dro di Fere), Dionisio, Attila, Ezzelino da Romano, ed altri; inoltre si fa cenno a due predoni (Rinieri da Corneto e Rinieri Pazzo).

Stanno a guardia il Minotauro ed i Centauri che saettano i dannati qualora escano più del dovuto dal sangue (vv. 1-99); Chirone[5], su richiesta di Virgilio, affida ai due poeti come guida Nesso (traghettatore che aveva tentato di violentare la moglie di Ercole, Deianira) che parla di alcuni dannati e li trasporta in groppa al di là del Flegetonte nel 2° girone (vv. 100-139) dove sono puniti i violen­ti contro se stessi ed i propri averi.


[1] Anastasio II invece che condannare la dottrina monofisita preferì il dialogo e la conciliazione e gli ambienti romani non lo perdonarono.

[2] Fotino di Tessalonica fu accolto benevolmente dal Papa e questo atteggiamento gli portò la condanna della Curia.

[3] È dedicato alle debolezze morali.

[4] Alessandro, succedendo al padre, aveva fatto strage dei parenti e dei numerosi fratellastri che avrebbero potuto contendergli il trono, se questi omicidi avevano almeno una spiegazione politica, altre efferatezze nacquero solo da arroganza e da ira incontrollata: nel 328 a.C. ad es. uccise l’amico fraterno Clito (che nella battaglia di Granico gli aveva salvata la vita), solo perché questi, durante un banchetto, insisteva nel dichiararlo meno glorioso di Filippo II.

[5] Il più saggio e capo dei Centauri; era immortale: fu precettore in vita di Achille, Giasone, Asclepio ecc.; si scambiò con Prometeo per morire.

Affidare la vita ad un click?

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La comunicazione elettronica è mutata grandemente negli ultimi anni.

È una forma di energia in fondo e può accadere che l’energia da una qualità superiore degradi col tempo verso una inferiore[1].

Negli anni ’80 e ’90 l’esigenza degli utenti della rete appariva quella di scambiare informazioni. Oggi sembra che la sua soddisfazione comporti troppa fatica o che non ci sia il tempo necessario per soddisfarla.

Siamo sostanzialmente diventati dei “rapinatori” di informazioni, il più delle volte solo visive, ma questa operazioni può rivelarsi a doppio taglio.

Quando ad esempio si frequenta un social network, può accadere di non andare più in là del cliccare su “mi piace”.

Chi guarda il “mi piace” sa che esso è associato ad un nome e ad una foto che conduce alla pagina di chi  ha espresso la preferenza.

In questa pagina c’è spesso qualche indizio sulla vita personale, di solito altre foto.

Le foto suscitano in noi determinati commenti ed emozioni, ma il più delle volte non ci sarà alcun altro rapporto con la persona ritratta.

Insomma concentriamo buona parte della nostra vita su di una serie di immagini, immagini di persone per lo più  ignare della nostra presenza, della nostra stessa esistenza.

Qualsiasi manuale sulla comunicazione ci spiega che gli uomini comunicano tra di loro col linguaggio del corpo, con la parola, col tono della voce, col contesto della comunicazione ed in ultimo col silenzio.

Si può imparare che il linguaggio del corpo serve a difendersi o a mettere in guardia ed in ultima analisi a sopravvivere e che la parola nasce invece dall’esigenza di essere riconosciuti ed accettati[2], che di fronte ad una richiesta di riconoscimento noi possiamo reagire sostanzialmente in tre modi: con una a) conferma: riconosciamo l’altro; con una b) disconferma: ci comportiamo cioè come se non esistesse, oppure con il c) rifiuto.

E la disconferma è considerata giustamente dall’esperto di comunicazione un grande pericolo.

Si studia inoltre che la comunicazione ha molti nemici tra cui quelle frasi che gli studiosi definiscono “killer” e che minano anche il processo di creatività; posso citarne alcune: “Ci sono cose più importanti, non c’è tempo, i tempi non sono ancora maturi, le vie del Signore sono imperscrutabili, il nostro successo ci dà ragione, non l’abbiamo mai fatto, qualsiasi persona di buon senso sa che, so come andrà a finire  ecc…”[3].

Gli studiosi ci insegnano che esistono modi anche sottili per squalificare la comunicazione[4]: contraddirsi, cambiare argomento o sfiorarlo, dire frasi incoerenti o incomplete, ricorrere a uno stile oscuro o usare manierismi, fraintendere, dare interpretazioni letterali delle metafore ed interpretazioni metaforiche della lettera; e ci avvertono che tutto ciò porta verso una disconferma del nostro interlocutore.

In pratica tutte le volte che intercaliamo un  “uhm, voglio dire, ah poi…, non direi, mah…, dal mio punto di vista” comunichiamo a chi ci sta davanti che non vogliamo avere a che fare con lui, sino nei casi più gravi in cui agiamo come se non ci fosse.

In rete questi concetti vanno perlomeno rivisti.

Nella comunicazione telematica non esiste linguaggio del corpo e siccome siamo animali  ne sentiamo l’esigenza: spesso dunque usiamo le faccine, gli emoticon anonimi che indicano gli stati d’animo.

Non sappiamo però, quando li riceviamo, se questi emoticon corrispondano effettivamente all’emozione del nostro interlocutore; spesso gli emoticon quasi sostituiscono le parole come se ci fosse un tentativo di tornare ai pittogrammi, agli ideogrammi, di ripescare in fondo un minimo di autenticità, dato che la parola è spesso una mera convenzione che va colorata della relazione per avere un senso compiuto.

Ma quando gli emoticon sono prevalenti, può accadere che il messaggio da decodificare sia un insieme di emozioni contraddittorie e talvolta fasulle.

Nella comunicazione telematica non esiste poi di solito il paraverbale, cioè non si percepisce il tono e le altri attribuzioni della voce de nostro interlocutore.

Il tono di voce può apparire inutile orpello ad un internauta, ma chi comunica in rete rinuncia sostanzialmente al 93% del suo messaggio[5], perché si affida solo alla parola (e all’emoticon) che in una interazione vale appunto il 7%[6], esattamente quanto il silenzio.

Nella comunicazione su social network sempre più spesso non abbiamo un interlocutore determinato, non sappiamo nemmeno se ci sarà e quando ci sarà un interlocutore.

Non sappiamo dunque a chi chiediamo di essere “confermati”, basta l’idea di una possibile conferma a dare un senso alle nostre ore attaccate al pc, alla nostra giornata.

Buona parte delle volte veniamo “disconfermati” dato che nessuno clicca “mi piace” e dunque è come se una collettività indeterminata dicesse “tu non vali, tu non esisti”; e nella nostra vita quotidiana si creano decine di micro traumi al giorno, inferti non si sa da chi, forse semplicemente dal destino che quel giorno non ha voluto che un nostro messaggio venisse letto ed apprezzato.

Affidiamo in fondo alle onde del mare elettronico un messaggio in una bottiglia: non possiamo pretendere che la nostra mente ed il nostro fisico non ne risenta; il problema è che non ce ne rendiamo conto ed attribuiamo il nostro malessere a tutto fuorché al nostro rapporto con al rete.

 Quando un interlocutore si fa vivo poi il più delle volte non sappiamo nulla di lui, e nonostante ciò ci limitiamo per lo più ad osservare una piccola immagine che può essere vera o falsa.

Il fatto è che al nostro cervello antico[7] non importa assolutamente lo stabilire se ciò che sta vivendo sia vero o falso.

Più propriamente il nostro cervello antico, a cui i messaggi elettronici primariamente si indirizzano, non ha la capacità di distinguere la realtà dalla finzione; esso comunica a livello inconscio e nell’inconscio non esistono categorie, né esiste il tempo.

Trovo stupefacente che i media riescano ad impressionare il cervello antico, perché il cervello antico non utilizza lo stesso linguaggio che è proprio del cervello nuovo[8] e proprio per questo, persino all’interno della nostra calotta cranica, ci sono di base problemi di comunicazione.

Quel che voglio dire è che il cervello nuovo, ossia la corteccia cerebrale, dovrebbe controllare ciò che fanno il cervello medio, forziere delle emozioni, e il cervello antico, sede degli impulsi automatici.

Ma il controllo è spesso inefficace, perché le decisioni più importanti della nostra vita le prende il cervello antico ed per questo che i media lo corteggiano.

Accade poi di frequente che anche il cervello antico sia messo fuori gioco; possiamo pensare ad esempio al caso in cui ci si innamora, magari proprio su un social network, di qualcuno che appunto non conosciamo.

Il cervello nuovo suggerisce che la cosa non è ragionevole, il cervello antico che dovremmo fuggire, ma il cervello medio “non ascolta” alcuno dei due, giunge addirittura a disattivare il cervello antico che fa sopravvivere il nostro organismo e dunque la persona coinvolta può arrivare a non sentire più nemmeno più gli impulsi della fame e a perdere il sonno.

Tutto questo per dire che la rete riesce assai efficacemente a mettersi in comunicazione con la nostra parte inconscia, ma  ciò può anche provocare dei seri danni.

Ora le piccole immagini dell’avatar o quelle presenti nei siti personali sono considerate reali, a prescindere dal fatto che appartengano o meno alla persona che ci conferma con un clic o che clicchiamo.

Ciò dipende probabilmente dal nostro patrimonio genetico.

L’uomo primitivo quando incontrava una donna desiderava possederla ed il più delle volte era quello che faceva, perché in lui l’istinto di procreazione era dominante.

Questo istinto è stato per così dire “inglobato” nel cervello antico di ciascuno di noi, tanto che non il tronco encefalico non sa distinguere tra l’immagine della donna e la donna reale.

L’immagine della donna rappresenta in altre parole una fonte di fertilità irresistibile. In altre parole, se i seni della ritratta sono grandi, il cervello antico li interpreta nel senso che la donna potrebbe avere molti figli e dunque desidera grandemente possederla[9].

Il cervello nuovo interviene sull’errore del cervello antico, sempre in un secondo momento: ”Guarda che quella è un’immagine, non una donna reale”[10].

Ma la società delle immagini si gioca tutto proprio sulla intempestività.

Il cervello vecchio non è poi molto interessato agli eventi ordinari, vuole essere sorpreso.

Siccome per una questione di sicurezza è addetto al controllo dell’organismo, si può catturare la sua attenzione solo con elementi insoliti che non richiedono interventi automatici.

Il principio viene utilizzato anche nella vita reale, per esempio in mediazione: il cervello rettiliano è abituato a difendersi e ad attaccare ma può essere spiazzato dal mediatore se questi in sessione congiunta richieda ai medianti di partire dal presupposto che  entrambi abbiano ragione.

Ecco perché nella pubblicità su internet non si trova “puoi vincere”, ma piuttosto “hai vinto!”.

Ed era proprio necessaria la parolina “spam” sulla nostra posta elettronica per aiutarci a “disattivare” il cervello antico.

Ecco perché nelle campagne elettorali vince chi la spara più grossa, chi sorprende il “cervello antico” che in definitiva decide e decide sempre in base alla propria immediata convenienza.

Ecco perché votare online, affidare la democrazia alla rete,  è come affidarci ciecamente ad una immagine; non c’è soltanto un banale problema di controllo del voto che le tecnologie potrebbero certamente risolvere.

Il cervello antico agisce sempre per la propria sopravvivenza, seguendo il carpe diem, non ha a cuore il benessere della comunità, e spesso fa gravi errori di valutazione.

Il cervello antico è essenzialmente egocentrismo: ecco perché un partito politico che usualmente illustra un programma di governo, riceve meno consensi di un movimento che fa proporre online al cervello antico di ogni soggetto quello che in fondo gli sta più a cuore e lo fidelizza con un  “mi piace” : per un cervello egocentrico non c’è più grande godimento.

Quando si riceve un “mi piace” su internet spesso si rilegge il proprio messaggio e ci si rallegra per il suo contenuto, quasi che non fosse stato scritto da noi: ”Non pensavo di essere così arguto… che bello, vediamo se riesco a superare me stesso”.

Il che ci getta in un circolo vizioso, ci fa diventare in fondo degli automi che ripetono un mantra che in un certo senso è stato originato da noi stessi.

Il cervello antico ama le cose concrete, le cose che si vedono: un “mi piace” è una cosa che si vede.

Non vincono i contenuti imposti dagli altri, a meno che non abbiano un immediato ed evidente ritorno; più facile che risultino vincenti quelli che noi riteniamo di aver imposto .

Ecco perché qualcuno in questi giorni ha esternato la  massima convinzione nel ritenere che in caso di nuove elezioni sarebbero aumentati i consensi.

A voglia a contrastare questi meccanismi nella vita reale, ed il messaggio può risultare ancor meno efficace se lo si affida a figure come il cerchio, ma qui il discorso si complica e ci porterebbe troppo lontano.

Non è un caso che quel movimento abbia nel proprio programma di portare a tutti l’accesso gratuito alla rete: qualcun altro aveva pensato in passato a qualcosa di simile e con i medesimi effetti.

La comunicazione via internet si nutre infine proprio delle frasi killer, della comunicazione tramite disqualificazione.

C’è chi addirittura la usa ad arte e lancia messaggi vaghi o  privi di qualsiasi senso; al contrario della vita reale, in rete essi alimentano la creatività, la fantasia.

Non è raro trovare conversazioni iniziate con un “boh” oppure “Oggi mi sembra proprio…”, “Chi lo sa perché…”.

E sotto a questi “capolavori” della interazione per un incredibile miracolo il nostro cervello vecchio trova innumerevoli “mi piace” o frasi di chi crede di aver capito il messaggio e si arrabbia pure se qualcuno prova a contraddirlo: il cervello antico ama alla follia il contrasto.

E tutto ciò perché si mette in moto? Perché è la foto quella che veicola la nostra risposta.

Se lo stesso soggetto provasse ad iniziare la conversazione con le medesime parole, ma senza avatar o con un avatar anonimo, probabilmente non otterrebbe gli stessi risultati.

Possiamo stupirci della cosa e pure condannarla, ma il cervello vecchio è legato alle immagini: la parte più reattiva del cervello antico è quella visiva;  si parla tra gli studiosi[11] di effetto alone, che si ha quando una singola caratteristica di una persona domina la percezione che gli altri hanno di lei, anche riguardo ad altri aspetti.

Così alle persone di bella presenza si attribuiscono automaticamente altre caratteristiche come il talento, la gentilezza, l’onestà e l’intelligenza e ciò a prescindere da quello che dicono. E ciò accade anche online a prescindere da quello che digitano.

Vogliamo davvero che la nostra vita e le scelta del nostro futuro siano legate ad un “mi piace” cliccato sulla rete?


[1] E. BONCINELLI, Il cervello, la mente e l’anima, Le straordinarie scoperte sulla intelligenza umana, Oscar Mondadori, 2011, p. 9.

[2] “È uno solo il principio su cui si basa la vita associata degli uomini, anche se sono due le forme in cui si manifesta: il desiderio che ogni uomo ha che gli altri lo confermino per quello che è, o magari per quello che può divenire; e la capacità (che è innata nell’uomo) di poter confermare i suoi simili come essi desiderano” (MARTIN BUBER).

[3] Cfr per altri esempi Le frasi killer in  http://d.repubblica.it/argomenti/2012/09/04/video/video_psicologo_funny-1147032/1/

[4] P. WATZLAWICK – J. HELMICH BEAVIN – D. D. JACKSON, Pragmatica della comunicazione umana, Studio dei modelli interattivi delle patologie e dei paradossi, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1971.

[5] Il 55% della comunicazione è legata al linguaggio del corpo ed il 38% al tono della voce.

[6]  Il concetto è di Albert Mehrabian, uno psicologo statunitense di origine armena, attualmente docente presso la UCLA, è famoso per le sue pubblicazioni sull’importanza degli elementi non verbali nella comunicazione faccia a faccia. Lo studio che è molto famoso si trova in A. MEHRABIAN – M. WIENER, DECODING OF INCONSISTENT COMMUNICATIONS, in Journal of Personality and Social Psychology, Vol 6(1), May 1967, 109-114. Bisogna però aggiungere che secondo diversi studiosi di PNL, il verbale sarebbe da Mehrabian sottostimato.

[7] Dal punto di vista evolutivo siamo connessi con i rettili e coi mammiferi inferiori (strutture primitive del c.)

Il cervello è come se fosse formato da tre cervelli l’uno dentro l’altro (MACLEAN) e quindi si sviluppa in modo concentrico:

a)  rettiliano o cervello antico (tronco encefalico) (cervello automatico)

b)  paleomammaliano o cervello medio (sistema limbico) (cervello emozionale)

c) neomammaliano  o cervello nuovo (corteccia) (cervello razionale).

[8] I cervelli seppure collegati comunicano tra di loro con difficoltà perché solo il neomammaliano è capace di coscienza e di comunicazione verbale. Cfr. L. COZOLINO, Il Cervello Sociale. Neuroscienze delle relazioni umane, Raffaello Cortina Edizioni, 2008.

[9] Anche nella vita reale del resto gli studiosi hanno stabilito che un uomo ci mette 8,2 secondi ad innamorarsi di I una donna. Cfr. M. PACORI, Il linguaggio del corpo in amore, Sperling & Kupfer, 2011, p. 249.

[10] Cfr. Amplius M. ROBINSON – G. WILSON, Is There a Problem with Porn?, 26 august 2007, inhttp://www.reuniting.info/taxonomy/term/173

[11] Cfr. P. RENVOISE – C. MORIN, Neuromarketing. Il nervo della vendita – Vendere all’Old Brain per un successo istantaneo, Lettere Edizioni, 2007.

Lezioni della storia

P1120093

Nel 1861 il nostro paese approvò il seguente bilancio:

Passivo
627.645.514 lire
Attivo
360.260.585 lire
Disavanzo
267.385.128 lire

Ora per avere un termine di raffronto nel 1861 lo stipendio più alto era quello Presidente della Cassazione che ammontava a 18.000 lire all’anno.

Rispetto al 1860 il disavanzo era quadruplicato.

Il Ministro del bilancio di quel tempo (BASTOGI) si scusò perché la guerra aveva alterato l’economia della Lombardia, Emilia e Toscana, non era stato possibile rinvenire il Bilancio del 1860 di Umbria e Marche e l’anomalia più grande era da riscontrarsi nell’unione delle provincie napoletane e della Sicilia al regno d’Italia che aveva comportato il pagamento di 168 milioni di spese militari.

Il Ministro BASTOGI conclude con parole che appaiono al contempo di una sconvolgente e profetica miopia:

“Conforta però il pensiero che una assai rilevante parte del notato disavanzo non potrà rinnovarsi per gli anni avvenire, come quella che riscontrasi nella parte straordinaria del bilancio. Egualmente ci può essere di conforto l’idea di vedere sensibilmente ridotte le spese ordinarie, allorquando l’intrapresa unificazione del pubblico servizio nelle varie parti del regno sarà un fatto compiuto, e sarannosi inoltre attuate, in quanto alla pubblica amministrazione, quelle riforme in cui stassi in ora alacramente studiando.
Ma, siccome al disavanzo, che ciò non ostante sussisterà pur sempre, quantunque in più ristrette proporzioni, converrà provvedere dando opera a che siano accresciute le risorse della pubblica finanza, così il ministro si riserva di presentarvi a tal fine appositi progetti.
Intanto però è indispensabile che al presente stato di cose si provveda con mezzi straordinari, sui quali siete pregati di emettere il vostro giudicio”.

A me ricorda qualcosa, non so a voi.

Il 21 febbraio 1861 il Ministro di agricoltura, industria e commercio (CORSI) presentò un progetto di legge recante Istituzione delle Camere di Commercio.
A tenore della norma le Camere di Commercio avrebbero avuto compiti amministrativi meramente consultivi , ma l’art. 2 del progetto si intitolava “Delle attribuzioni delle Camere arbitrali come tribunali di conciliazione”.
La cosa interessante era che si affidavano alla conciliazione delle camere le “questioni che potessero sorgere tra i proprietari di fabbriche e lavorazione di ogni genere ed i loro operai”.
La conciliazione era in progetto obbligatoria come la nostra del 410 C.p.c. tra il 1998 ed il 2010 e funzionava dunque come condizione di procedibilità per poter adire i tribunali.
Al principio di ciascun anno le camere avrebbero dovuto nominare “dal loro seno” tre membri e formare una “lista composta di direttori di fabbriche e capi di operai”.
Nel momento in cui nasceva una questione l’operaio o gli operai avrebbero scelto sulla lista formata come sopra tre individui, “i quali uniti ai tre eletti dalla camera costituiranno un tribunale di conciliazione, dinanzi il quale le parti esporranno senz’alcuna formalità le rispettive pretese. I componenti di esso si adopreranno a conciliarle. Non riuscendo nell’intento, le parti saranno rinviate a provvedersi dinanzi il tribunale.
Il processo verbale di conciliazione sarà esecutivo” .
Questo testo che ricorda un poco la norma fondativa del tribunale di pace di Norimberga del 1773, non andò in porto, ma è assai interessante, perché un progetto simile verrà ripreso nel 1893 e diverrà legge col collegio dei probiviri che reggerà, come sappiamo, le sorti del mondo del lavoro sino al 1928.

Ora dico.. c’era bisogno di aspettare 130 anni per riparlare di conciliazione camerale nel nostro paese?

Il progetto di Ordinamento giudiziario pel regno d’Italia venne presentato al Parlamento il 9 febbraio 1862 dal Ministro della Giustizia Vincenzo Marino MIGLIETTI.

Fu il primo Ministro di Grazia e Giustizia e Affari ecclesiastici del Regno d’Italia nel Governo Ricasoli I ed a lui dobbiamo grande riconoscenza non solo perché stabilì che ci fosse un’unica Corte di Cassazione, ma perché volle fortissimamente l’istituzione dei Tribunali di Commercio e soprattutto del Conciliatore. Così presentò all’aula l’istituzione del Giudice conciliatore:”I Giudici conciliatori hanno fatto ottima prova nelle provincie del Mezzogiorno: destinati a sopire senza osservanza di rito giudiziario le minori vertenze, esercitano in ciascun comune un ufficio benefico di conciliazione e di concordia, e mentre provvedono al bisogno di una giustizia facile, non dispendiosa ed essenzialmente locale, contribuiscono altresì a mantenere le buone relazioni e a stringere sempre più i rapporti di amichevole vicinato tra i singoli comunisti. Come istituzione eminentemente proficua ho creduto utile dovessero i giudici conciliatori estendersi a tutte le provincie del regno, ed è per questo che li ho posti al primo gradino nella scala delle autorità giudiziarie fissandone la missione,le condizioni d’idoneità, di nomina, d’esercizio, l’indole e la durata delle funzioni e le norme delle relative supplenze”.

Mi pare che il Ministro avesse le idee molto chiare…

Sarebbe bello che il nuovo Governo leggesse questa pagina e si rendesse conto che la conciliazione/mediazione fa parte del nostro DNA, perché serve a ricucire i rapporti tra la gente[1].


[1] Ognuna di queste notizie è ricavata dal testo: ATTI DEL PARLAMENTO ITALIANO, SESSIONE DEL 1861, VIII legislatura, vol. II Tipografia Eredi Botta, Torino 1862.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto X – Sintesi

Painting by Andrea del Castagno depicting Fari...
Painting by Andrea del Castagno depicting Farinata degli Uberti. Villa Carducci, Florence. (Photo credit: Wikipedia)

L’azione si svolge circa alle due antelucane del 9 aprile 1300, sabato santo.

Siamo nel cerchio VI: una valle di campagna buia, illuminata da tombe scoperchiate e incandescenti per le fiamme che le circondano.

I dannati puniti in questo canto sono gli eresiarchi. Sono coloro che seguirono dottrine diverse da quelle della Chiesa cattolica romana.

In questo scorcio del cerchio, Dante incontra gli epicurei, eretici che negavano l’immortalità dell’anima[1].

PENA E CONTRAPPASSO

Gli eresiarchi giacciono dentro tombe infuocate, col coperchio sollevato; sono raggruppati secondo il tipo di eresia, ogni capo con i propri seguaci, e le tombe sono più o meno arroventate secondo la gravità della colpa.

Come in vita furono abbagliati da una luce fallace, ora sono costretti nelle tombe di fuoco.

Da notare il riferimento realistico: nel Medioevo, infatti, gli eretici erano puniti con il rogo.

PERSONAGGI

1) Farinata, Manente degli Uberti. Farinata è appunto appellativo di Manente degli Uberti, di antica famiglia fiorentina di parte ghibellina, che Ciacco, come già sappiamo, cita fra gli uomini degni del tempo passato (Inf. VI, 79), i Fiorentini “ch’a ben far puoser li ‘ngegni“.

Farinata visse a Firenze nei primi decenni del XIII secolo, mentre la città era tormentata da continue discordie.

Già nel 1239 era a capo della sua consorteria di parte ghibellina, e svolse una parte di primo piano nella cacciata dei guelfi nel 1248.

Quando, in seguito alla morte di Federico II, i guelfi rientrarono in città, si riaccesero i contrasti, e questa volta furono i ghibellini ad essere costretti all’esilio.

Farinata si stabilì a Siena e, riconosciuto come il più autorevole capo di parte ghibellina, riorganizzò le forze della sua parte.

Con l’appoggio degli armati di Manfredi, figlio di Federico II, Farinata fu uno dei principali artefici della vittoria di Montaperti, il 4 settembre 1260 e, nello stesso tempo, riuscì a salvare Firenze dalla distruzione decretata dai Ghibellini.

Nel congresso di Empoli, seguito subito alla battaglia, infatti fu l’unico tra i vincitori ad opporsi al progetto di distruggere Firenze.

A Firenze Farinata morì nel 1264, due anni prima della battaglia di Benevento che segnò, insieme, il tramonto della potenza sveva in Italia ed il definitivo rientro dei guelfi a Firenze.

Gli Uberti furono nuovamente esiliati, ma la vendetta non risparmiò neppure i morti.

Nel 1283 Farinata e sua moglie Adaleta furono accusati di eresia: le loro ossa, sepolte nella chiesa di S. Reparata, furono riesumate ed i loro beni furono confiscati agli eredi: l’impressione su Dante, appena diciottenne, dovette essere fortissima ed incancellabile anche a causa della grande personalità di Farinata.

Gli studiosi sono discordi nel valutare la fondatezza dell’accusa di eresia. Certo è che gli eretici contestavano la supremazia religiosa della chiesa di Roma, mentre i Ghibellini ne contestavano l’ingerenza politica: la convergenza di finalità causò spesso una certa confusione, sicuramente alimentata dalla propaganda guelfa.

2) Cavalcante de’ Cavalcanti. Gentiluomo fiorentino del XIII secolo, padre del celebre poeta Guido Cavalcanti, amico di Dante.

Cavalcante fu di parte guelfa e quindi avversario politico di Farinata, accanto al quale Dante lo destina a rimanere per l’eternità.

Al secondo, definitivo, ritorno dei Bianchi in Firenze, nel 1267, per rendere più stabile la pace in città si strinsero legami di parentela fra le famiglie di opposte fazioni: il figlio di Cavalcante, fu così fidanzato alla figlia di Farinata, Beatrice.

Cavalcante era un epicureo, e ciò, fra il 1200 e il 1300, significava che non credeva nell’immortalità dell’anima e quindi nel magistero della chiesa: era, in sostanza, un pensatore laico.

3) Federico II. L’ultimo degli imperatori Svevi (1194-1250), re di Napoli e di Sicilia. Ammirato da Dante, protettore delle arti e della poesia. Fu accusato di eresia. Salimbene ci riferisce che fosse epicureo e che quindi cercasse e facesse cercare dai suoi dotti, nelle Sacre Scritture, ciò che potesse dimostrare che non vi è altra vita dopo la morte.

<<Il Cardinale>>. Ottaviano degli Ubaldini, vescovo di Bologna e poi cardinale dal 1245. Pur combattendo contro Manfredi e Federico II, a favore del pontefice fu fautore dei ghibellini, morì nel 1273. È considerato un epicureo perché i commentatori antichi riferiscono di lui un caratteristico motto: <<Io posso dire, se è anima, che l’ho perduta per parte ghibellina>>.

ELEMENTI PRINCIPALI

1) La figura di Farinata. Farinata degli Uberti è il personaggio che domina il canto e non solo metaforicamente: già la sua rappresentazione fisica, con quell’ergersi dalla cintola in su e l’espressione accigliata e sdegnosa, dicono di lui come di figura importante e degna.

Benché ghibellino irriducibile, avversario fiero di Dante, questi non può fare a meno di rilevarne la statura morale e politica, che espresse nell’amor patrio e nell’atteggiamento magnanimo, e che culminò nella difesa strenua di Firenze al convegno di Empoli.

Ma Farinata non è solo l’appassionato politico, è anche l’uomo che ha meditato gravemente sui destini suoi e della sua città, che è colpito da quanto Dante gli va raccontando, che mormora quasi a giustificarsi che quanto ha fatto a Montaperti non è stato senza una causa.

Farinata rappresenta insomma la figura dell’uomo politico integro, fedele ad una causa da generazioni, la cui azione e comunque dettata da necessità, e che opera in direzione del bene e della grandezza della propria patria.

2) La profezia di Farinata. «Non passeranno cinquanta mesi, che tu saprai quanto è difficile ritornare in patria»: così dice Farinata a Dante (cfr. vv. 79-81). La profezia si riferisce all’esilio di Dante; nel momento del dialogo con Farinata siamo nell’aprile del 1300, Dante sarà esiliato nel 1302 e fino al 1304 parteciperà ai tentativi dei Bianchi per tornare in Firenze: si tratta per l’appunto di quattro anni e due mesi.

Le parole di Farinata colpiscono profondamente Dante, più di quanto avessero fatto quelle di Ciacco (cfr. c. VI), per la gravità oggettiva delle sventure che preannunciano.

Altre profezie sul suo destino egli sentirà da altri dannati e anime salve, fino al definitivo svelamento del suo futuro, cui già allude qui Virgilio, nel momento del suo incontro con l’avo Cacciaguida in Paradiso.

3) Tema politico. Il canto ripercorre le tappe della storia politica di Firenze, così fortemente legata alla storia delle lotte tra fazioni guelfe e ghibelline, tra Bianchi e Neri, cui appartenevano le grandi famiglie come gli Uberti.

L’antagonismo tra Farinata e Dante e dunque un antagonismo di casato: si manifesta fin dalla cacciata dei guelfi da Firenze nel 1248, e nella successiva vittoria dei Ghibellini a Montaperti nel 1260 (“per due fiate dispersi”), quando Dante non era neppure nato.

E se la famiglia degli Alighieri non aveva in realtà il peso politico che rivestivano gli Uberti, poco importa: Dante è qui partecipe, nella finzione poetica, di quelle vicende che lo vedranno protagonista appassionato e poi, nell’esilio, sempre più staccato e amareggiato osservatore.

4) II dolore paterno di Cavalcante. Cavalcante Cavalcanti si stacca decisamente e volutamente dal personaggio Farinata, per il modo tutto personale di patire la stessa pena.

Personaggio minore, si solleva solo fino al mento, in ginocchio, mentre l’altro si erge con tutto il busto, imponente, vive come raffigurazione dell’amore paterno, angosciato per la sorte del figlio, al punto da equivocare le parole di Dante e crederlo morto.

Il suo episodio, inserito con taglio cinematografico all’interno del dialogo tra Dante e Farinata, illumina per contrasto anche l’altra scena.

Farinata interpella Dante avendone riconosciuto la parlata toscana, chiedendogli chi furono i suoi avi; Cavalcante lo riconosce subito ed e preso unicamente dalla preoccupazione di non vedere accanto a lui l’amato figlio, grande poeta e grande amico di Dante.

Farinata, del resto, riprende il dialogo come se non l’avesse neppure sentito, intento a riflettere su quanto Dante gli ha appena detto. L’angoscia è di entrambi, diverso e il modo di sentirla.

5) La preveggenza dei dannati. Il colloquio con Cavalcanti è funzionale anche a innescare la questione dottrinaria sulla preveggenza dei dannati, che viene poi trattata da Farinata.

Egli rivela a Dante che tale preveggenza è simile alla vista dei presbiti, che vedono bene da lontano, ma non da vicino.

Sanno cioè, i dannati, riconoscere bene gli avvenimenti nel futuro, ma quando quelli si avvicinano non li conoscono più, fino ad essere come ciechi rispetto al presente (ed infatti Cavalcante non sa se suo figlio sia vivo o meno).

Tale conoscenza del futuro durerà fino al giudizio universale, quando, non esistendo più il mondo, non vi saranno più categorie temporali, così che il chiudersi delle tombe sugli eretici coinciderà con la loro totale e definitiva cecità.

RIASSUNTO

1-21 Dante e Virgilio proseguono il viaggio per un angusto sentiero posto tra le mura della città di Dite e le tombe arroventate in cui sono puniti gli eretici.

Il discepolo chiede di potersi intrattenere con le anime che giacciono nei sepolcri incustoditi e dal coperchio sollevato.

Virgilio, intuendo l’inespresso desiderio del poeta – che sarà presto soddisfatto – di poter conferire con Farinata, ricorda a Dante che le tombe in cui sono puniti i negatori dell’immortalità dell’anima (epicurei) saranno serrate il giorno del giudizio universale.

22-51 Un dannato interrompe il dialogo tra i due pellegrini: il linguaggio usato da Dante gli rende manifesta la presenza di un concittadino. Il poeta, intimorito, si volge a Virgilio, ma questi lo rassicura, invitandolo a parlare degnamente: il peccatore è Farinata degli Uberti che chiede a Dante da quale casata discenda; il poeta replica di appartenere alla famiglia degli Alaghieri.

Farinata afferma di averli cacciati da Firenze due volte (1248-1260) e D. replica che essi sono tornati (1251-1266[2]) mentre gli Uberti sono rimasti esuli (dal 1258)[3].

52-72 Un’ombra si leva ginocchioni da un sepolcro: è Cavalcante Cavalcanti che cerca inutilmente con lo sguardo il figlio Guido, degno, secondo il padre, di affiancare Dante per altezza d’ingegno; il poeta ne spiega l’assenza perché il viaggio è dovuto alla Grazia divina, sdegnata da Guido, non a meriti poetici.

D. si lascia sfuggire “Guido vostro ebbe” per cui Cavalcante fraintende le parole di Dante deducendone la morte del figlio e si lascia ricadere supino per sempre nell’arca.

73-120 Farinata, impassibile, riprende il filo del discorso interrotto da Cavalcante dolendosi dell’esilio imposto ai suoi e afferma che prima di 50 giorni anche Dante saprà che cosa vuol dire l’esilio.

Chiede poi perché i Fiorenti­ni non facciano tornare in patria gli Uberti e Dante spiega che il motivo è da ritrovarsi nel perdurare del ricordo della batta­glia di Montaperti (1260), dove Farinata ed i Ghibellini avevano trionfato.

Farinata replica che non solo gli Uberti hanno parte­cipato a quella battaglia e che comunque fu proprio lui che nel Concilio di Empoli si oppose alla decisione dei Ghibellini di radere al suolo Firenze (la proposta venne dal senese ghibellino Provenzan Salvani che D. incontrerà nella prima cornice del purgatorio: v. canto XI).

Un ultimo dubbio assilla Dante: quale sia la condizione dei dannati che paiono prevedere il futuro ma non conoscere il presente. Tale condizione, spiega Farinata, analoga a quella dei presbiti (vedono le cose lontane ma non le vicine)[4], cesserà nel giorno del giudizio finale, quando la luce di Dio non illuminerà più il futuro, ma tutto sara presente, oscuro e morto.

Dante comprende allora perché Cavalcante sia rientra­to nella tomba[5] e prega Farinata di far presente al Cavalcanti che suo figlio è ancora in vita (morirà quattro mesi dopo).

Già richiamato da Virgilio, il poeta viene a sapere della presenza tra gli epicurei, di Federico II e del cardinale Ottaviano degli Ubaldini.

121-136 Farinata è ormai ricaduto nel sepolcro, ma la sua profezia ha sconvolto Dante, che viene rincuorato dal maestro: la verità sul futuro della sua vita gli sarà svelata da Beatrice, in Paradiso (sarà invece Cacciaguida nel XVII canto del Paradiso a narrare a D. il viaggio della sua vita). Quindi entrambi s’incamminano per un sentiero che conduce ad una valle dal puzzo orribile.


[1]  Epicuro pensò un’anima costituita da atomi sottili e corporea. La dissoluzione del corpo con la morte conduce alla dissoluzione dell’anima, che non può esistere indipendentemente dal corpo: la vita nell’aldilà non è dunque possibile. Poiché la morte significa estinzione totale, essa non ha significato per i vivi o i morti, giacché: “Se ci siamo, non c’è la morte; e quando c’è la morte, non ci siamo più noi“.

[2] Dopo la battaglia di Benevento.

[3] Nell’incontro con Farinata emergono soprattutto due temi, cari alla meditazione dantesca: 1. La disputa politica e la conseguente accusa di eresia 2. Il tema della famiglia: la pena per i propri discendenti esiliati, il dilemma se le colpe dei padri debbano ricadere sui figli. E’ lo stesso dilemma di Dante nelle varie occasioni in cui avrebbe potuto far ritorno a Firenze e liberare così dall’esilio i suoi figli maschi.

[4] Questa norma applicata qui per la prima volta come contrap­passo della colpa di questi peccatori, sarà estesa in seguito a tutti i dannati, diventando norma generale.

[5]  Fino a questo punto aveva creduto che i dannati cono­scesse­ro oltre al futuro anche il presente: v. il dialogo con Ciacco.

Istruzioni ai padri di famiglia per la condotta dei loro affari

Mediazione

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Una lite è sempre una disgrazia, ed un padre di famiglia non deve indursi ad intraprenderla se non quando vi sia costretto dalla necessità. La via che deve sempre tentare, prima di lasciarsi trarre a tale estremo, è quella degli accordi. Egli non deve mai trascurarla né fuori del giudizio, né quando la controversia è già portata davanti al giudice; appena che i termini della transazione siano equi, egli deve accettarla senza esitanza. Tale partito è utile in ogni caso; è tanto più utile poi, quando l’importo del diritto controverso non superi la somma di alcune centinaja di lire.

Qui si noti che intendiamo parlare di pretese controversie, di tali pretese, cioè, di cui non si abbia già la prova legale irrecusabilmente stabilita, ma che bisogni correrne sulle tracce con lunghe indagini o con difficili ragionamenti legali.

Egli è ben vero che nel nostro paese il povero ha diritto di essere assistito gratuitamente in un giudizio da un avvocato, e che non gli è forza di incontrare spese per tasse e bolli; ma s’egli fa esattamente i suoi calcoli, troverà che la lite gli porta sempre danni reali. Perdita di tempo per procurarsi il certificato di miserabilità, necessario per ottenere un patrocinatore gratuito; perdita di tempo per rintracciare il patrocinatore che gli viene nominato, per informarlo dello stato della controversia, per raccogliere documenti e testimonj: e la perdita del tempo deve al certo entrare nel calcolo per chi vive delle giornaliere fatiche. Si devono aggiungere alcune spese che sono indispensabili, come sarebbero: indennizzazioni ai testimonj, spese di perizie, tasse d’intimazioni, – spese che toccano pure anche il povero – perdite, certe che devono entrare nel computo di chi vuole intraprendere una lite, e devono deciderlo ad accettare una transazione di una causa dubbiosa nell’esito, accontentandosi di una parte, per non arrischiare il tutto. E non si dimentichi che questo è l’unico mezzo per prevenire l’amaro disgusto che deve restare nei buoni dalle contese forensi, le quali disviano la mente dalle ordinarie occupazioni e fanno correre ai meno integri il pericolo di acquistare la trista abitudine al litigio.

Il nipote del Vesta-Verde, strenna popolare per l’anno bisestile 1848, Vallardi, Milano, 1848, p. 142-143.

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