Sun Tzu, Harvard e Manù

Cina

Nel 1972, durante uno scavo in Cina[1], all’imbocco del Fiume Azzurro, venne alla luce il testo integrale su listelli di bambù di un manuale di strategia militare del IV secolo a.C. [2].

Quest’opera era già parzialmente conosciuta nel mondo occidentale[3] con il titolo de “L’arte della Guerra” (Bingfa)[4].

Secondo la tradizione la scrisse un generale di umili origini chiamato Sun Tzu[5]; egli desiderava ingraziarsi il suo signore in modo che gli affidasse il comando delle armate, cosa che secondo la tradizione si verificò.

Nel 1975 questo testo venne rielaborato all’università di Harvard ed alcuni studiosi diedero alla stampe il celeberrimo volume “L’arte del negoziato”[6].

Ma ci sono anche altre opere in materia di management e marketing che si ispirano al testo di Sun Tzu[7]. I manager americani hanno in particolare cercato nella formazione classica[8] spunti d’immediata utilizzazione: se nel mondo antico sono esistiti tanti eroi e l’eroe è stato evidentemente un uomo di successo, quale deve essere un manager, ci si poteva allora ispirare all’eroe omerico greco, o al politico romano o al comandante di armate cinese.

Così il leader che sa gestire i conflitti in azienda è divenuto “colui che trova il modo di far parlare tutte le parti interessate, che sa capire le loro differenti prospettive, e riesce infine a trovare un ideale comune che tutti siano disposti a sottoscrivere. Costui fa affiorare il conflitto, riconosce i sentimenti e i punti di vista di tutti e poi reindirizza l’energia verso un ideale comune[9].

Gli studiosi americani[10] cercarono di sviluppare un modello di negoziazione, ispirandosi alle tattiche e ai modelli strategici utilizzati per porre fine al combattimento campale.

Ne è esempio illuminante il suggerimento di una tecnica detta di “jujitsu negoziale” da utilizzare quando l’avversario in una disputa si dimostri completamente sordo alle nostre richieste e completamente arroccato sulle proprie; tecnica che consiste nello schivare e piegare la sua forza ai nostri fini[11].

Le regole della negoziazione estrapolate da un manuale, lo si ripete, di arte militare, hanno fornito la base per la conciliazione e per la mediazione.

I principi ricavati dalla Bingfa sono oggi riconosciuti in mediazione. Ne vediamo alcuni.

Il mediatore devono possedere delle abilità, ma alcune sono innate.

Quindi vale il detto: uno può sapere come vincere senza però, essere in grado di farlo[12].

Il mediatore deve pianificare il setting per tempo e con attenzione.

Il generale vincitore, prima che venga combattuta una battaglia, fa molte riflessioni nella sua tenda[13].

“Chi prende posizioni sul campo per primo ed attende la venuta del nemico, sarà fresco per lo scontro. Chi giunge secondo sul campo e deve affrettarsi alla battaglia arriverà esausto[14].

Il mediatore è flessibile.

 “Uno dovrebbe modificare i propri piani secondo che le circostanze siano favorevoli o meno[15].

 “Perciò come l’acqua modella il suo corso secondo la natura del terreno su cui scorre così il generale trova la vittoria in relazione al nemico che ha di fronte”[16].

“Colui che può modificare le proprie tattiche in relazione al nemico e, pertanto, ottenere la vittoria può essere definito un condottiero divino[17].

Il generale che ha piena consapevolezza dei vantaggi che derivano dalle variazioni tattiche sa come guidare le truppe[18].

Il mediatore sa dominarsi ed è riservato.

Spetta al generale essere calmo e perciò assicurare il riserbo…[19].

Il mediatore non può essere autoritario, ma deve essere considerato autorevole.

Maltrattare gli uomini e poi temerne le reazioni indica una suprema mancanza di intelligenza[20].

Ora, quando le tue armi saranno spuntate, il tuo ardore caduto, la tua forza esaurita ed il tuo tesoro speso… nessun uomo sarà capace di evitare l’inevitabile[21].

Il mediatore ha però bisogno di far rispettare a coloro che negoziano alcune regole di comportamento.

Quando gli alti ufficiali sono incolleriti ed insubordinati, ed all’incontro con il nemico danno battaglia di loro iniziativa per una sorta di risentimento e, comunque prima che il comandante in capo dica se è, o meno, in grado di combattere, il rischio è la rovina[22].

“Quando un generale, incapace di stimare la forza del nemico, permette che una forza inferiore si scontri con una superiore… il risultato sarà la rotta”[23].

Il mediatore resta fedele ai principi etici e alle regole dell’arte.

Il perfetto comandante coltiva la Legge Morale e resta fedele al Metodo ed alla Disciplina; per questo è in suo potere il controllo del successo[24].

Ci sono tuttavia precetti più antichi di quelli della Bingfa che agli studiosi di ADR potrebbero risultare assai familiari.

Un paio di secoli prima dell’Arte della Guerra sempre nel mondo orientale ed in particolare in India veniva steso per iscritto il Manava-Dharmasastra (मानव धरमसस्त्र)[25] detto Codice di Manù, un manuale di vita pratica per gli esseri umani e anche di strategia militare[26], i cui principi risalgono con tutta probabilità al XII secolo a. C.[27].

Fu pubblicato per la prima volta in Francia nel 1830 e poi tradotto in francese nel 1833[28]: alcuni suoi principi furono sicuramente ripresi dal naturalismo, e tra i suoi estimatori troviamo anche importanti intellettuali italiani dell’Ottocento[29].

Manù è un demiurgo a cui fu affidata la creazione del mondo e dunque è personaggio di invenzione: probabilmente il testo è frutto dell’elaborazione secolare dei sacerdoti.

I precetti che vengono consigliati al sovrano sono fondamenti della negoziazione più avanzata, specie per quella esercitata durante le relazioni sindacali.

“169 Quando il re valuta che dopo la sua superiorità sarà certa,  e che nel presente non deve soffrire che un lieve danno, ricorra ai negoziati pacifici”[30].

“199 Siccome non si prevede mai in modo certo da qual parte uscirà la vittoria, il re deve, per quanto può fuggire dal venire alle mani”[31].

“206 Il vincitore può concludere alla fine una pace con il perdente, e prenderlo come alleato con calore,  considerando che i tre frutti di una spedizione sono l’amicizia, l’oro, e l’accrescimento del territorio[32].

Il Codice di Manù ci spiega poi mirabilmente quali devono essere le caratteristiche di un ambasciatore.

L’ambasciatore è stato presso tutti i popoli il primo negoziatore/mediatore della storia; per garantirgli lo svolgimento del suo compito era considerato presso tutti i popoli sacro ed inviolabile. In Grecia veniva detto Araldo, in Magna Grecia Irenofeciale (portatore di pace) e a Roma Feciale.

 “63 (Il re) Scelga ambasciatore chi ha cognizione di tutti i Sastra, che sappia interpretare i segni, il contegno ed i gesti, puro nei costumi, incorruttibile, abile e di illustre nascita”[33].

 “64 Viene lodato l’ambasciatore di un re , quando affabile, puro, destro, di buona memoria, pratico dei luoghi e dei tempi, di bella presenza, intrepido ed eloquente”[34].

 65 Dal capitano dipende l’esercito, dalla giusta applicazione delle pene il buon ordine, il tesoro ed il paese dal re, la guerra e la pace dall’ambasciatore” [35].

66 L’ambasciatore ricongiunge i nemici, divide gli alleati, perché tratta gli affari determinanti rottura e buona armonia[36].

“67 Nei negoziati con re straniero, l’ambasciatore indovini le intenzioni di questo re da certi segni, dal contegno e dai gesti di lui, e per i segni e gesti dei suoi emissari segreti…”[37].

Le caratteristiche che vengono qui descritte stanno alla base del mediatore così come è stato delineato ancora nel 2012 dall’ONU[38].

Il mediatore deve conoscere le regole (Sastra)[39]: si tratta delle norme di legge ma anche di quelle deontologiche, delle regole dell’arte, degli usi ecc… Gli Anglosassoni aggiungono opportunamente anche le regole del rapporto commerciale tra le parti.

Deve essere un esperto del linguaggio del corpo: su questo requisito dovremmo riflettere a lungo, specie noi formatori di mediatori.

La purezza e l’incorruttibilità dell’ambasciatore, e più in generale del cittadino romano, si ritrovano anche nei Mores maiorum romani che sono richiamate oggi dall’ONU: si fa diretto riferimento alla gravitas[40], ossia al contegno irreprensibile.

Il mediatore deve possedere delle abilità[41], deve essere affabile[42], scaltro[43], di buona presenza[44], coraggioso[45] ed in grado di utilizzare la parola[46].

Quale è il suo compito primario? Facilitare la comunicazione ossia ripristinare ciò che è stato rotto dagli affari, proprio la buona armonia del rapporto.

Nei corsi di mediazione che io ho frequentato viene spiegato agli studenti che nel proporre un’alternativa per la composizione del conflitto colui che media dovrebbe individuare una soluzione che non dipenda per il suo avveramento dall’altro mediante.

Tale impostazione viene chiaramente individuata con riferimento al Bramino, nel Codice di Manù.

“159 Fugga ogni atto dipendente dall’altrui soccorso; s’applichi invece a tutto quello che dipende da lui stesso”.( Libro III Codice di Manù).

Il testo sacro ci reca anche la motivazione di una tale impostazione.

160 Ciò che dipende da sé reca piacere; ciò che da altri, noia; sappia che questa è in somma la ragione del piacere e del dolore”.

Altro suggerimento che viene dato in tutti i corsi riguarda il lavoro del mediatore che deve sforzarsi di eliminare gli agganci emotivi, di non esprimere giudizi e di “depurare” le narrazioni dei medianti degli elementi negativi che le connotano.

“161 Non mostrare cattivo umore nemmeno nell’afflizione; né nuocere altrui, neppure col pensiero; né proferire parola da cui alcuno possa essere trafitto, la quale chiuderebbe l’accesso al Cielo” (Libro II Codice di Manù).

Degni di massimo rilievo sono i principi dedicati al giudice.

“23 Il re o il giudice da lui eletto cominci l’esame delle cause collocandosi sulla sedia nella quale deve rendere giustizia, decentemente vestito, e raccogliendo tutta l’attenzione…;

24 Esamini le ragioni delle parti per ordini di classi, considerando quel che è utile o dannoso, e principalmente quel che è legale o no” (Libro VIII Codice di Manù).

Il mediatore ha oggi come ordinario scrupolo quello di chiedersi durante tutto il corso della procedura se l’opzione negoziale che le parti scelgono sia utile o meno rispetto alla migliore alternativa che esse hanno all’accordo ed in seconda battuta se l’opzione utile rispetti la legalità.

Ma i principi più straordinari sono quelli espressi qui di seguito sempre come doveri del giudice.

“25. Scopra la mente degli uomini per mezzo dei segni esterni, del suono di loro voce, del colore del volto, del contegno, del portamento del corpo, degli sguardi e dei gesti.

26. Dal contegno, dal portamento, dai gesti, dalle parole, dai moti degli occhi o del volto si indovina l’intero pensiero”[47].

Di questi due precetti sarebbe superfluo il commento, se non fosse che risalgono a tremila anni fa. La cosa che più mi stupisce è che si riferiscano al giudice, anche se in precedenza hanno riguardato già l’ambasciatore.

Allora si potrebbe dire, non è solo il verbale, non è solo il documento che porta verso la verità processuale, specie se ci sono altri mezzi che possono portarla a coincidere con quella sostanziale.

Per un mediatore e più in generale per un esperto di comunicazione lo studio del linguaggio analogico costituisce una tappa ineludibile: ci potrebbero raccontare a lungo che quei due precetti riassumono l’essenza del loro lavoro.

Uno psicanalista sa bene che Es si sfoga attraverso gli arti e che il movimento è lo specchio del pensiero, un neuro scienziato potrebbe al proposito raccontarci cose mirabili dei percorsi della percezione nel cervello medio.

Ma l’uomo antico aveva fatto ben di più: aveva  messo tutto ciò in una legge e quella legge doveva essere osservata dal giudice, dall’ambasciatore e da tutti gli altri uomini.

L’uomo antico ci racconta ancora che il sovrano istruito antepone i negoziati alla corruzione, al seminare discordia e alla guerra. La migliore forma per vincere e dunque per soddisfare i propri interessi è quella di negoziare perché tutti, potremmo aggiungere noi, ci trovino il loro tornaconto. Il giudizio è ed era in antichità davvero l’ultima ratio.

107 Così disposto a far conquiste, sottoponga gli opponenti alla propria autorità col negoziare, e coi tre altri mezzi che sono: spandere doni, seminare discordia, e usar le armi;

108 Se non riesce coi primi tre mezzi, gli assalga a forza aperta, e li costringa successivamente a sottomettersi;

109 Fra questi quattro mezzi d’esito, incominciando dai trattati, gli uomini istruiti antepongono sempre i negoziati pacifici alla guerra per l’utile dei regni”;[48].

“198 Faccia ogni sforzo per diminuire i suoi nemici con negoziati, con doni, fomentando discordie; adoperi i suoi mezzi insieme o separati, senza ricorrere alla pugna;” [49].

In mediazione però ciò che conta è la cooperazione tra le parti e col mediatore.

55. Una cosa facilissima diventa difficile per un uomo solo; con più forte ragione il governare un regno senza essere assistito;” [50].

Ed il mediatore deve essere neutrale: su cosa sia la neutralità si sono scritti fiumi di parole; quanto al re il Codice di Manù reca bellissimi principi che sono anche patrimonio di ogni mediatore.

 “211. La bontà,  l’arte di conoscere gli uomini, il valore della compassione, un’inesauribile liberalità, formano l’ornamento di un principe neutrale”[51]

La liberalità del mediatore attiene soprattutto al tempo e alla pazienza che sono per lui inesauribili.

Il Codice di Manù detta infine una regola preziosa per l’esito della negoziazione.

“215 Concentrandosi nell’esame dei tre soggetti che sono: chi dirige l’affare, l’oggetto che si propone ed i mezzi di riuscita, si sforzi di raggiungere almeno la metà dei suoi desideri;[52]”.

In conclusione di questo piccolo excursus si può ragionevolmente pensare che i tempi antichi ci diano copiose indicazioni su come imbastire e mantenere i nostri rapporti cogli altri; sta solo a noi farne uso nel modo più proficuo.


[1] Nella provincia di Shantung venne scoperta una tomba della dinastia Han.

[2] In realtà sembrerebbe che i fatti narrati appartengono anche a periodi successivi (tra il 400 ed il 320 a. C.): all’epoca dell’autore, ad esempio, la cavalleria non veniva utilizzata in battaglia come risulta dal testo. V. amplius M. CONTI, Introduzione a “L’arte della Guerra”, RL Gruppo Editoriale S.r.l., Santarcangelo di Romagna (Rn), 2009.

[3] J. J. M. AMIOT, Art Militaire des Chinois, Paris, 1772.

[4] Troviamo peraltro le stesse argomentazione in Tucidide, Tito Livio e Bartolo da Sassoferrato.

Quest’ultimo ad esempio nel De Tyrannis si sofferma  sull’importanza di istituire  un regolare servizio di spionaggio interno (q. VIII, 605-610) <ut corrigant delicta et alia quae iniuste fiunt in civitate>, spionaggio che, anche se ad altri fini, come ci rivela il capitolo XII dell’Arte della Guerra, è uno dei capisaldi addirittura delle dinastie: “Sii sagace! Sii acuto! Ed usa le tue spie per ogni genere di affare… Anticamente la fondazione della dinastia Yin fu dovuta a  Y Zhi che avva servito sotto gli Xia…”).

Anche in Machiavelli che scrive peraltro un’opera celeberrima dall’identico titolo, possiamo ritrovare concetti molto simili.

[5] Per lui si ripropone peraltro la vexata quaestio  filologica sull’identità di Omero: c’è chi nega che sia mai esistito. Probabilmente il volume venne composto nel periodo successivo alla predicazione di Confucio in un momento in cui in Cina vi erano diversi Stati combattenti.

[6]  Di R. FISHER – W. URY – B. PATTON, Getting to Yes: Negotiating Agreement Without Giving In. Houghton Mifflin Company, 1981.  È opera fondamentale non solo per la negoziazione, ma anche per le strategie di management. In Italia si può trovare in una traduzione del 2008 di A. GIOBBIO per l’editore Corbaccio, Cles (TN).

[7] Cito ad esempio M. McNEILLY, Sun Tzu and the Art of Business: Six strategic, Principles for Managers, New York, Oxford University Press, 1996.

[8] Non solo aprendosi al mondo orientale, ma anche quello greco e romano.

[9] D. GOLEMAN-R. E. BOYATZIZ-A. MCKEE, Essere leader, R.C.S. Libri, Milano, 2002, 308.

[10]  Dell‘Harvard Negotiation Project, in particolare R. FISCHER e W. URY.

[11] Quando la controparte asserisce la propria posizione non è utile né accettarla, né respingerla, ma trattarla come una opzione possibile. Invece di difendere la propria idea è più fruttuoso chiedere agli altri di criticarla per capire ciò che in essa non va e migliorarla. Se la controparte ci attacca personalmente non bisogna opporsi, ma lasciare che si sfoghi e riciclare alla fine il suo attacco verso il problema. È più utile utilizzare domande e non affermazioni che creano resistenze e restare in silenzio ad attendere la risposta.  V. amplius R. FISCHER-V. URY-B. PATTON, L’arte del negoziato, Corbaccio, Milano, 2005, pp. 148 e ss.

[12] Sun Tzu, Bingfa, IV, 4.

[13] Sun Tzu, Bingfa, I,25. La traduzione dei passi è tratta da M. CONTI, Introduzione a “L’arte della Guerra”, RL Gruppo Editoriale S.r.l., Santarcangelo di Romagna (Rn), 2009.

[14] Sun Tzu, Bingfa, VI, 1.

[15] Sun Tzu, Bingfa, I, 16.

[16] Sun Tzu, Bingfa, V, 32.

[17] Sun Tzu, Bingfa, V, 33.

[18] Sun Tzu, Bingfa, VIII, 4.

[19] Sun Tzu, Bingfa, XI, 35.

[20] Sun Tzu, Bingfa, IX, 37.

[21] Sun Tzu, Bingfa, II, 4.

[22] Sun Tzu, Bingfa, X, 17.

[23] Sun Tzu, Bingfa, X, 19.

[24] Sun Tzu, Bingfa, IV, 16.

[25] Il termine dovrebbe significare “Leggi fondamentali dell’uomo”.

[26] Si veda in particolare il libro VII che ha diverse affinità con l’Arte della Guerra.

[27] Cfr. C. CANTÙ, Storia universale, Volume I,  Cugini Pomba e C. Editori, Torino, 1838, p. 300 e ss.  Questo testo sacro non tiene conto degli insegnamenti del Budda che tremila anni fa aveva protestato contro l’ortodossia braminica.

[28] L’edizione italiana è di Cesare Cantù (v. C. CANTÙ, Documenti alla Storia Universale, Tomo II, Guerra, Religione, Legislazione, Filosofia, Cugini Pomba e C. Editori, Torino, 1851, p. 363 e ss.).

[29] Romagnosi, Cantù, Mazzoleni, De Giorgi, Puccinotti, Montanari, Troya, Brunetti.

[30] Codice di Manù, Libro VII.

[31] Codice di Manù, Libro VII.

[32] Codice di Manù, Libro VII.

[33] Codice di Manù, Libro VII.

[34] Codice di Manù, Libro VII.

[35] Codice di Manù, Libro VII.

[36] Codice di Manù, Libro VII.

[37] Codice di Manù, Libro VII.

[38] Cfr. United Nations Guidance for Effective Mediation.

[39] Per l’Onu anche quelle internazionali.

[40]The mediator needs a level of seniority and gravitas commensurate to the conflict context and must be acceptable to the parties”.

[41] Da ultimo espresse nelle rules Californiane:

  • saper comunicare chiaramente,
  • saper ascoltare in modo efficace,
  • saper facilitare la comunicazione tra tutti i partecipanti,
  • saper proporre l’esplorazione di opzioni di accordo che trovino il consenso di tutte le parti,
  • ed in ultimo saper condurre se stessi in modo neutrale.

[42] Noi parliamo di assertività, di capacità di usare in sincronia lo sguardo ed il sorriso.

[43] Nel senso di conoscitore della psicologia umana.

[44] Anche in mediazione la prima impressione è quella che conta.

[45] Sappiamo che il mediatore può fare domande inusuali e che non ha paura ed anzi tende a sollecitare le persone a sfogare le proprie emozioni.

[46] Un mediatore che non è in grado di formulare domande non può fare adeguatamente il suo mestiere.

[47] Codice di Manù, Libro VIII.

[48] Codice di Manù, Libro VII.

[49] Codice di Manù, Libro VII.

[50] Codice di Manù, Libro VII.

[51] Codice di Manù, Libro VII.

[52] Codice di Manù, Libro VII.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto VI – Sintesi

Inf. 16 Baccio Baldini, Dante e Virgilio a col...
Inf. 16 Baccio Baldini, Dante e Virgilio a colloquio con Jacopo Rusticucci, Guido Guerra e Tegghiaio Aldobrandi, (Photo credit: Wikipedia)

Il canto si apre nella serata dell’8 aprile 1300, venerdì santo nel cerchio III,  battuto da una  pioggia fredda, scura, incessante, mista a grandine e neve.

Il custode del cerchio è Cerbero.

I dannati puniti in questo cerchio sono  i golosi, coloro che eccedettero nell’amore per il cibo e le bevande.

PENA E CONTRAPPASSO

I golosi giacciono a terra, immersi nel fango; sono tormentati dalla pioggia putrida e dai latrati feroci di Cerbero e dilaniati dalle sue zanne.

Come in vita amarono cibi e bevande raffinate, sono ora costretti a mangiare il fango, immersi nel limo nauseabondo e preda dell’avidità di Cerbero.

PERSONAGGI

Cerbero. Personaggio mitologico, figlio del gigante Tifeo e di Echidna. Nella mitologia greca, cane con tre teste e coda di drago che faceva la guardia all’ingresso dell’Ade, il mondo sotterraneo.

Il mostro consentiva a tutti gli spiriti di varcare la soglia, ma non avrebbe permesso a nessuno di andarsene. Soltanto alcuni eroi riuscirono a eluderne la sorveglianza: il poeta e musicista Orfeo incantò l’animale con il suono della sua lira, e l’eroe greco Eracle lo catturò con la sola forza delle braccia e lo portò per breve tempo nel mondo terreno.

Nella mitologia romana la bellissima giovane Psiche[1] e il principe troiano Enea riuscirono a distrarre Cerbero gettandogli un dolce al miele per poter continuare il viaggio attraverso gli Inferi. Talvolta Cerbero è raffigurato con un gran numero di serpenti sul dorso e cinquanta o cento teste.

Secondo alcuni autori classici, è un cane a tre fauci con coda e crini di serpente (cfr. Virgilio, Eneide VI,417-423; Georgiche I V, 483; Ovidio, Metamorfosi IV, 448-453).

Dante lo raffigura come un cane con tre teste, dagli occhi sanguigni, la barba unta e nera, il ventre largo e le zanne unghiate, mescolando elementi umani ed elementi bestiali, in una rappresentazione personale che evidenzia particolari di una crudezza realistica e grottesca, estranea ai modelli.

Ciacco. Non si sa chi sia: «ciacco» significa «porco» in toscano, ma Dante non ha accenti particolarmente spregiativi nei suoi confronti: Ciacco e anche nome proprio (da Giacomo o Jacopo). l’Ottimo e l’Anonimo lo identificano genericamente come uomo di corte e parassita, di buoni costumi, dedito ai banchetti e ai piaceri della gola. Per altri si tratta di Ciacco dell’Anguillaia, banchiere e rimatore fiorentino del XIII secolo.

PERSONAGGI CITATI

Farinata degli Uberti (cfr. c. X); Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari (cfr. c. XVI); Iacopo Rusticucci (cfr. c. XVI); Arrigo, forse dei Fifanti (cfr. G. Villani, Cronica V, 38); Mosca, dei Lamberti (cfr. c. XXVIII).

ELEMENTI PRINCIPALI

1) Tema politico. Il sesto canto e unanimemente considerato il canto politico dell’Inferno, in parallelo a quelli corrispondenti delle altre due cantiche. Qui Dante affida ad un fiorentino[2], tutto preso dall’amor patrio, il compito di esprimere quello che e il proprio personale giudizio sulle vicende politiche di Firenze, giudizio compendiato nei tre attributi che marchiano la città (cfr. vv. 74-75): la superbia del dominio, l’invidia tra i potenti, l’avarizia e l’avidità mercantile, vizi che saranno la causa della sua rovina.

2) La profezia di Ciacco. È la prima, importante profezia sul destino di Firenze e, implicitamente, su quello di Dante. Ciacco parla di lunghe contese tra le parti che sfoceranno negli scontri scoppiati il 1° maggio de1 1300, in occasione di una festa in piazza di Santa Trinità, tra alcuni giovani della famiglia Donati, di parte nera, e altri della famiglia dei Cerchi, di parte bianca.

L’episodio dà origine ad una serie di violenze ed odi cittadini e i Bianchi, che già avevano in mano la citta, cacciano l’altra fazione capeggiata dai Donati.

Ma a proteggere i Neri interviene allora papa Bonifacio VIII (“tal che teste piaggia”): interessato a impadronirsi di Firenze e della Toscana tutta, appoggia la parte più debole perché piu facilmente ricattabile.

Così nel 1301,  Bonifacio invia Carlo di Valois[3] a Firenze, apparentemente per pacificare le parti nella citta: in realtà Carlo entra in Firenze a fianco dei Neri per rovesciare il dominio dei Bianchi.

Nel 1302 i Neri, padroni del Comune, condannano e bandiscono da Firenze centinaia di Bianchi, tra cui Dante stesso. Cosi inizierà l’esilio del poeta, che sarà oggetto di tante altre profezie e passi del poema.

3) Tema teologico. Allontanandosi da Ciacco, Dante vuole sapere quale sarà il destino delle anime dopo il giudizio universale, se esse soffriranno di meno o se la pena rimarrà uguale.

Si tratta di una breve digressione dottrinaria a chiusura del canto, indice di quell’interesse tutto medievale per l’effettiva condizione dell’uomo dopo la morte, che il poeta continuerà a circostanziare lungo tutto il poema. Virgilio, rifacendosi alla teologia scolastica, ricorda che la perfezione, nel bene e nel male, fa «sentire» di più: il ricongiungimento dell’anima al corpo provocherà quindi una pena maggiore per i dannati, e una maggiore beatitudine per le anime del Paradiso.

RIASSUNTO

1-33 Dante riprende i sensi ed ai suoi occhi si presentano nuovi peccatori e nuove sofferenze: si e giunti infatti al terzo cerchio in cui vengono puniti i golosi.

Una pioggia fredda e nera mista a grandine e neve cade incessantemente sulle anime dei dannati prostrati nel fango, rintronati dagli assordanti latrati e scuoiati dalle unghiate di Cerbero, mostro con tre fauci dagli occhi vermigli, la barba ispida ed unta, il ventre largo: il demonio custode del girone. Alla vista dei due poeti la fiera smania e strepita, colta da violento furore, ma Virgilio l’acquieta gettandole manciate di terra tra le fauci.

34-75 Tutte le anime giacciono nel fango, ma tra esse una si leva a sedere al passaggio dei due pellegrini: è il fiorentino Ciacco, sfigurato dai patimenti, che, fattosi riconoscere da Dante, ne soddisfa il desiderio di conoscenza circa l’esito delle discordie a Firenze, l’esistenza di qualcuno che si mantenga al di sopra delle parti, l’origine delle contese nella città.

Le risposte del dannato sono dolorose per il poeta: dapprima lo scontro sara vinto dalla parte se1vaggia, i Bianchi, ma prima che siano passati tre anni i Neri riusciranno a prevalere con 1’aiuto di Bonifacio imponendo un giogo pesantissimo alla parte avversa; due sono i giusti, ed inascoltati; l’origine delle discordie è dovuta alla superbia, all’avarizia ed all’invidia.

76-93  Ciacco si interrompe e D. lo prega di fargli ancora conoscere la sorte di Farinata[4], del Tegghiaio[5], di Iacopo Rusticucci[6], di Arrigo[7] e di Mosca[8], tutti cittadini distintisi nell’impegno civile a Firenze[9]: ma per nessuno di costoro i meriti politici sono valsi a salvarli, tutti giacciono all’Inferno.

Prima di tacere per sempre Ciacco prega il poeta di ricordarlo al dolce mondo; poi, dopo aver distorto gli occhi da D., ricade nel fango con gli altri dannati.

94-115 Virgilio ricorda a Dante che l’anima del suo concittadino si ridesterà nel giorno del giudizio universale, quando tutti i dannati rivestiranno le propri spoglie mortali ed udranno la sentenza di condanna alla dannazione eterna.

Ragionando sulla vita d’oltretomba il poeta latino risponde alla domanda del discepolo circa la condizione delle anime quando saranno riunite al corpo: il supplizio sarà maggiore e perfetto, come insegna la dottrina scolastica[10]. Quindi giungono al luogo in cui si può discendere al girone successivo, custodito da Pluto (Pluto,  dio della ricchezza, o forse Plutone).


[1] Psiche, in gr. Psyche, protagonista, insieme con Amore, del mito tramandatoci da Apuleio attraverso la favola inserita tra la fine del quarto e il principio del sesto libro delle Metamorfosi (L’asino d’oro). È la minore di tre figlie di un re ed è tanto bella da suscitare la gelosia di Venere. Poiché tutti l’ammirano, rendendole anche onori divini, ma nessuno la chiede in sposa, i genitori interrogano sulla sua sorte l’oracolo di Mileto, il quale ordina che la fanciulla, vestita a nozze, sia condotta su di un’alta rupe e quivi abbandonata, in attesa che giunga il mostro a lei destinato come sposo. Ma Zefiro la rapisce e la porta su di un praticello fiorito, dove ella si addormenta. Quando si risveglia, entra in un palazzo bellissimo e quivi ogni notte riceve la visita di Amore, invisibile amante. Perché l’incantesimo duri è necessario però che accetti il patto di non guardarlo in viso. Per istigazione delle sorelle, invidiose della sua fortuna, e cedendo alla curiosità, Psiche disobbedisce all’ammonimento e illumina con una lucerna le fattezze del notturno visitatore. Questi le appare nella sua divina bellezza, ma subito fugge via in volo. Disperata, Psiche lo va cercando per ogni dove e, sottoposta alla vendetta di Venere gelosa e indignata contro di lei, è costretta ad affrontare dure e umilianti prove. Alfine Amore stesso, mosso a compassione, le viene in aiuto e, ottenutale da Giove l’immortalità, la sposa. Dalle loro nozze nasce una figlia, Voluttà.

[2] Nel VI canto del purgatorio D. utilizzerà un trovatore, Sordello da Goito, mentre nel paradiso l’argomento politico verrà affidato a Giustiniano.

[3] Principe capetingio (1270-1325), fratello di Filippo IV il Bello, conte di Valois e di Chartres (1284-1325), d’Alençon e del Perche (1293-1325), d’Angiò e del Maine (Carlo III) [1290-1325] in seguito al matrimonio con Margherita di Sicilia. Imperatore latino d’Oriente (1301-1308) in seguito al matrimonio con Caterina di Courtenay, del trono d’Oriente, non poté mai prender possesso. Fu il capostipite della casa capetingia dei Valois.

[4] Farinata: appellativo di Manente degli Uberti, famoso capo ghibellino che Dante incontrerà ncl cerchio degli eretici (canto X).

[5] Tegghiaio: Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari, podestà di S. Gimignano nel 1238 e di Arezzo nel 1256, << cavaliere savio e prode in armi>> come lo defìnirà il Villani, verrà incontrato dal poeta nel cerchio dei sodomiti (canto XVI).

[6] Jacopo Rusticucci: mediatore con Tegghiaio Aldobrandi della pace tra Volterra e S. Gimignano, procuratore speciale del Comune fiorentino nel 1254 per trattare con altri Comuni toscani tregue e alleanze, è condannato col Tegghiaio, nello stesso cerchio (canto XVI).

[7] Arrigo: non si sa esattamente chi sia, né lo troviamo più menzionato nel poema. Alcuni antichi commentatori lo ritengono, perche qui ricordato accanto al Mosca, della famiglia dei Fifanti e uno degli uccisori di Buondelmonte; altri dei Giandonati, altri tacciono del tutto. I1 Santini ritiene sia Arrigo di Cascia, perche costui fu, col Rusticucci e, con l’Aldobrandi, mediatore della pace volterrana e qui ricordato con quei due.

[8] Mosca: della famiglia dei Lamberti, fu nel 1242 podestà di Reggio, ove morì; aveva consigliato di vendicare l’offesa fatta da Buondelmonte alla famiglia degli Amidei (nel 1215 Buondelmonte dei Buondelmonti, rotto il fidanza­men­to con una figlia di Lambertuccio Amidei, viene ucciso il giorno di Pasqua mentre attraversa il ponte Vecchio sull’Arno. Autori dell’omicidio sono gli Amidei alleatisi per l’occasione con gli Uberti. In seguito a tale omicidio la città di Firenze si divide in due fazioni: i Guelfi che facevano capo alla famiglia Buondelmonti e i Ghibellini he invece parteggiavano per gli Amidei e gli Uberti). Lo ritroveremo tra i seminatori di scandalo e di scisma nella nona bolgia dell’ VIII cerchio (canto XXV, 111).

[9] Tali personaggi furono veramente benemeriti della loro città. Naturalmente quelle benemerenze vanno intese in senso strettamente civile, non in senso morale: infatti Dante stesso desidera sapere se costoro son dannati o beati, distinguendo subito e differenziando l’ azione politico-civile dalle responsabilità etico-religiose: differenza che verrà confermata dalla netta risposta di Ciacco.

[10] Esattamente il commento di S. Tommaso al De anima di Aristotele.

I principi di Zaleuco

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Riporto qui alcuni principi attribuiti a Zaleuco di Locri (VII sec. a. C.) che ispirarono da ultimo i compilatori della codificazione napoleonica[1].

La coerenza di Zaleuco fu proverbiale: si racconta che suo figlio aveva commesso un adulterio e si era dunque reso colpevole di accecamento secondo la legge del padre; ebbene salvò la vista, perché lo stesso padre si fece cavare un occhio a suo posto.

Un’altra legge di Zaleuco stabiliva che non si potesse portare armi in un’adunanza pubblica. Lo stesso legislatore dimentico di deporre la spada e per ottemperare ai suoi precetti si uccise sul posto.

Interessante notare che Zaleuco, discepolo secondo la leggenda di Pitagora, traduca sostanzialmente la filosofia pitagorica in leggi.

In tale spirito prevedette il tentativo obbligatorio di conciliazione.

Ma ecco a voi i principi.

Coloro che abitano una città devono credere sopra ogni cosa che esistano gli Dei. Quindi devono rivolgere le loro menti ed animi alla contemplazione del Cielo, e alla meravigliosa struttura del mondo, considerandone la bellezza e la grandezza, al fine di concludere che questa macchina non può essere governata dal caso, ma dai soli Dei, dai quali gli uomini ricevono la virtù, le ricchezze  e tutti i beni che godono in questa terra.

Gli Dei devono essere equi e gli uomini puri, perché gli  Immortali non accettano sacrifici dagli uomini colpevoli e viziosi.

L’onore va sempre accompagnato con le buone azioni, l’infamia con le cattive che portano con sé la vendetta divina.

Chi abbandona la patria per andare a vivere in un paese straniero commette un’impresa funesta.

Il male è un tiranno nemico molto crudele con la nostra pace e con la nostra felicità in questa vita.

I figli devono amare i padri.

I cittadini devono rispettare la legge ed i magistrati.

I giudici non devono tenere un portamento che dimostri insolenza od orgoglio.

I giudici devono andare a rendere giustizia nei villaggi, in modo che i contadini non siano costretti ad abbandonare i loro campi.

I giudici non giudicano a loro discrezione, ma applicano pene certe.

I cittadini non devono offendere con i loro discorsi gli altri cittadini o la repubblica.

Chi nella collera non ascolta la ragione non può rivestire cariche pubbliche

È ordinato che i cittadini non possano essere chiamati in giudizio se prima non si siano tentati tutti i mezzi della riconciliazione, in modo che nessuno possa tenere verso un altro un’implacabile discordia che nuocerebbe alla sua reputazione.


[1] Cfr. D. MANCINI, Archeologia greca, tomo IV, Tipografia della società filomatica, Napoli, 1820, p. 410 e ss.; C. CANTÙ, Documenti sulla storia universale, tomo II, p. 589 e ss.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto V – Sintesi

Francesca de Rimini Paolo Malatesta
Francesca de Rimini Paolo Malatesta (Photo credit: Wikipedia)

Il canto si apre con le ultime ore dell’8 aprile 1300, venerdì santo.

I poeti si trovano nel cerchio II.

È più stretto del primo, e qui inizia l’Inferno vero e proprio.

Il luogo è tenebroso, d’ogni luce muto, battuto dai venti di un’incessante bufera.

Il Custode del cerchio è: Minosse.

I dannati puniti sono i lussuriosi, coloro che cercarono la soddisfazione dei sensi contro ogni regola e misura, tanto da sottomettere la ragione all’istinto.

La pena ed il contrappasso:  sono tormentati da un vento furioso, da una tempesta incessante che li sospinge rovinosamente per tutto il girone.

Come in vita furono trascinati dal turbine della passione, ora li trascina la bufera eterna.

La loro ragione, quando peccarono, fu ottenebrata; cosi ora sono immersi nel buio infernale.

Le anime di Paolo Malatesta[1] e Francesca da Polenta[2] sono le protagoniste del canto: sono unite nella pena come lo furono nel peccato[3].

I personaggi principali del canto sono:

Minosse

Figlio di Zeus e di Europa, mitico re di Creta, celebre per avere dato ai Cretesi le prime costituzioni e per la severità con cui amministrava la giustizia.

Ci viene presentato già da Virgilio e da Omero come giudice dell’oltretomba, insieme al fratello Radamanto.

In Dante, è custode e giudice di tutto l’Inferno: le anime dei dannati si confessano dinanzi a lui, ed egli, valutatone il tipo di peccato, le destina al cerchio che compete loro, avvolgendo la coda intorno al suo corpo tante volte quanti sono i gradi che l’anima deve scendere. È il rappresentante della giustizia divina nell’Inferno.

Semiramide.

Leggendaria regina degli Assiri che Secondo la tradizione greca, riportata da Diodoro Siculo, nacque dalla dea Derceto (divinità siriaca) e, dopo varie vicende, sposò il mitico Nino, fondatore dell’impero assiro, alla morte del quale tenne il regno per quarantadue anni, ampliandone i territori e fondando la stessa Babilonia, che ornò degli splendidi giardini pensili.

I costumi di questa regina erano talmente dissoluti che si innamorò del figlio che poi la uccise.

Didone

Figlia di Belo, re di  Sidone, e regina di Cartagine. Rimasta vedova di Sicheo, giurò di rimanere fedele alla memoria del marito, ma si innamorò di Enea e, quando questi la abbandonò, per la disperazione si uccise.

Cleopatra[4]

Figlia di Tolomeo Aulete e regina d’Egitto. Amante prima di Cesare, poi di Antonio, di cui causò la sconfitta nella battaglia di Azio (31 a.C.).

Si uccise per non cadere nelle mani di Ottaviano.

Elena

Moglie di Menelao, una delle principali eroine dell’Iliade e dei poemi ciclici.

Nata da un uovo deposto da Leda, che si era congiunta con Zeus, fu rapita da Teseo e da lui portata in Attica; fu liberata dai fratelli gemelli Castore e Polluce e ricondotta a Sparta, ove fu chiesta in sposa da tutti gli eroi della Grecia.

Tindaro (marito di Leda e padre di Castore e Clitennestra) fece giurare a questi ultimi che si sarebbero uniti contro chiunque avesse voluto contendere la donna allo sposo da lei prescelto.

Menelao fu l’eroe eletto come marito, ma mentre egli era lontano, Paride, figlio di Priamo, re di Troia, ospitato a Sparta, rapì Elena ed il tesoro reale.

Al suo ritorno Menelao ingiunse ai suoi antichi rivali di mantenere il loro giuramento: ebbe così inizio la guerra di Troia.

Elena rimase sempre per i Greci la personificazione della bellezza.

Achille

Leggendario eroe tessalico, re dei Mirmidoni, figlio di Teti e di Peleo.

Per renderlo invulnerabile la madre lo immerse fanciullo nello Stige tenendolo sospeso per un tallone che restò vulnerabile.

Fu allevato da ottimi maestri, Fenice e Chirone, che gli insegnarono a tirar d’arco, a curare le ferite, a combattere valorosamente. Dopo che Calcante ebbe predetto la sua morte sotto le mura di Troia, Teti lo nascose presso il re di Sciro; ma i Greci, consci del suo valore, lo fecero cercare da Ulisse e lo ritrovarono.

Achille non esitò ad abbandonare il suo rifugio, benché innamorato di Deidamia, figlia del suo ospite, e combatté con ardore fino a quando Agamennone non gli sottrasse senza ragione la diletta schiava Briseide: si ritirò allora nella sua tenda e lasciò che i Troiani riportassero numerose vittorie sui Greci.

Nel tentativo di arrestare l’offensiva troiana scese in campo l’amico prediletto di Achille, Patroclo, munito delle armi dell’eroe, ma fu ucciso da Ettore.

Per vendicare la sua morte, Achille riprese la lotta, rivestito dello scudo meraviglioso che Teti gli aveva fatto foggiare e decorare da Efesto, uccise Ettore in duello e ne trascinò il corpo sotto le mura di Troia, abbandonandosi in tal modo, nell’ebbrezza della vittoria, a un’empia ferocia che Apollo non gli perdonò.

Commosso dalle preghiere del vecchio Priamo, Achille rese poi il corpo di Ettore, ma cadde a sua volta, trafitto al tallone da una freccia scoccata da Paride e guidata da Apollo.

Paride

Eroe troiano figlio di Priamo e di Ecuba, famoso per la sua bellezza, detto anche Alessandro.

Poiché gli indovini avevano predetto che egli avrebbe causato la rovina di Troia, alla sua nascita fu esposto sull’Ida, dove fu allattato da un’orsa e infine raccolto da un pastore che lo allevò con i suoi figli.

Scelto da Zeus come giudice tra Era, Atena e Afrodite, che si disputavano la mela d’oro destinata da Eris[5] alla più bella, assegnò la vittoria ad Afrodite (che gli aveva promesso in cambio l’amore di Elena), attirandosi così l’odio implacabile di Era e di Atena.

In seguito ritornò a Troia, dove fu riconosciuto dai genitori e accolto con gioia.

Recatosi quindi a Sparta e ricevuto con grandi onori da Menelao, ne convinse, come detto più sopra, la moglie Elena a fuggire con lui, provocando così la guerra contro Troia. Durante l’assedio, con l’aiuto di Apollo uccise Achille. A sua volta ferito da Filottete, Paride morì sull’Ida.

Tristano

È un personaggio tratto da una leggenda medievale[6], forse di origine celtica, presente in numerose letterature occidentali. Tristano, nipote di re Marco di Cornovaglia, si innnamora di Isotta la Bionda, sorella di Moroldo d’Irlanda (ucciso da Tristano in un duello) e richiesta in sposa da re Marco.

ELEMENTI PRINCIPALI DEL CANTO

1) La figura di Francesca da Rimini.

L’incontro con Francesca, unita indissolubilmente a Paolo, è uno degli episodi centrali non solo del canto, ma dell’Inferno tutto.

Tra i due, Dante dà voce alla donna, e crea un personaggio ricco di dolorosi sentimenti.

Francesca non riferisce i particolari della sua triste vicenda, vi accenna solo per ricondurli alla dimensione di struggente dolore, senza rimedio, di cui è protagonista.

La sua delicatezza, i modi gentili, l’istinto che, insieme a Paolo, la spinge quasi con trepidante desiderio al colloquio con D., sono elementi che costituiscono necessariamente il personaggio, la sua <<umanità>>, non scevra da colpa, la <<cortesia>> che è propria degli innamorati, ma che non giustifica il loro peccato.

La figura di Francesca è da collegare  con due altre figure femminili: Pia dei Tolomei  (Pg. V)[7] e Piccarda Donati[8] (Pd. III) che D. pone in apertura delle due successive cantiche[9].

2) 22La pietà di Dante.

Al racconto di Francesca Dante, preso da forte commozione, cade a terra svenuto.

La pietà che lo investe è da un lato, emozione dell’uomo che partecipa della sventura e non regge alle lacrime dei due amanti, dall’altro, frutto della perplessità e della riflessione problematica dell’uomo di fede che non può perdonare la colpa di Paolo e Francesca, e tuttavia conosce bene i sentimenti di Amore e le debolezze che in nome dell’amore trascinano al peccato.

In sintesi: la pietà di Dante nasce dall’incontro tra un’anima vinta dal peccato e un’altra anima, la propria, che vuole vincere il peccato e le condizioni che lo determinano.

3) La forza di Amore e i dettami dello Stil Novo.

Tre volte Francesca nomina la parola amore, in inizio di tre terzine successive, in cui sintetizza la sua vicenda e qualifica in termini generali gli effetti di tale sentimento:

  • Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende (amore che si accende subito in un cuore nobile), verso ispirato ad uno dei manifesto della poesia stilnovista – Al cor gentile rempaira sempre amore (al cuore nobile amore torna sempre come alla sua propria dimora[10]) – di Guido Guinizzelli (v. 100);
  • Amor, ch’a nullo amato amar perdona  (amore che non permette a nessuna persona amata di non riamare): altro concetto questo fondamentale per la poesia stilnovistica (v. 103);
  • Amor condusse noi ad una morte (v. 106): non è solo la morte fisica ma anche la morte dell’anima e da qui nasce lo sgomento di Dante.

Così ella denuncia la forza del sentimento che trascina e non permette resistenza, e nello stesso tempo trasferisce su un piano generale la propria vicenda personale.

Questi versi sono giustamente famosi, anche perché, come detto, condensano i principi della dottrina d’amore esposta nei poeti dello Stil Novo.

4) L’occasione della dannazione di Paolo e Francesca.

La saldatura fra la vicenda drammatica dei due amanti e lo sfondo della cultura letteraria romanza si compie nei versi in cui Francesca espone la prima radice (Cfr. v. 124), l’occasione in cui si è manifestato l’amore che l’ha dannata, visto che Dante, sembra tanto desideroso di conoscerla (ma s’a conoscer la prima radice/del nostro amor tu hai cotanto affetto, vv. 124-125).

L’occasione è la lettura di un grande romanzo medievale in prosa francese, il Lancelot che si suole intitolare anche Lancelot propre, “Lancelot propriamente detto”, per distinguerlo entro una compilazione narrativa molto più vasta, detta Lancelot-Graal o anche Vulgata, al cui centro è la vicenda dell’amore di Lancillotto e Ginevra, la moglie di re Artù.

L’episodio che i due amanti stanno leggendo è quello del primo bacio.

Galeotto (Galehaut), potentissimo re delle Lontane Isole, ha mosso guerra a re Artù, ma vi pone fine perché affascinato dalle imprese di Lancillotto, cui si lega con un’amicizia intensa e velatamente morbosa che lo porterà alla morte.

Subito dopo la fine della guerra, egli procura all’amico l’incontro con la regina, nel quale Lancillotto giunge a rivelarle il suo amore, e la regina lo bacia.

Paolo e Francesca, narra quest’ultima, si sono identificati nella lettura (per più fiate li occhi ci sospinse/ quella lettura, e scolorocci il viso, vv 130-131), tanto che ora, raccontando, lei inverte le parti, come se fosse stato Lancillotto a baciare la regina: ma è stato Paolo a baciare lei tutto tremante, assumendo la parte di quell’amante esemplare che fa vibrare i cuori dei suoi lettori (cotanto amante, v. 134).

Perciò il libro, conclude Francesca, ha fatto per loro la parte che Galeotto ha fatto con Lancillotto e Ginevra, portandoli a manifestare l’amore reciproco e a baciarsi.

Già la seconda parte del Lancelot sviluppava la storia portando sempre più in primo piano il senso del peccato[11]: e la funzione assolta dal libro al posto di Galeotto con i due amanti è stata quella di portarli alla dannazione.

Così giudica Dante chiaramente, ma altrettanto chiaramente aderisce con la sua compassione (pietade, v 140) al loro dramma, espresso alla fine sinteticamente nel pianto che è la sola espressione di Paolo.

I due sentimenti si collocano su due piani diversi, senza che la compassione metta in dubbio il giudizio, ne il giudizio possa sminuire la compassione; ma Dante sceglie di esprimere il suo dramma, di persona che ha pur condiviso una concezione dell’amore che deve ora condannare, nel modo più semplice e al tempo drastico e poeticamente efficace, facendo sopraffare il suo personaggio dalla piena dei sentimenti fino allo svenimento (come corpo morto cade) con cui il canto si conclude.

5) La figura di Minosse. Minosse è la seconda figura, derivata dalla tradizione classica e trasformata in demone custode dell’intero regno infernale, che Dante ci rappresenta. a metà tra uomo e bestia, ringhioso con la coda che implacabile condanna.

Anche con lui Virgilio usa la formula che esprime la volontà divina per superarne l’ostacolo a proseguire:<<Non impedir lo suo fatal andare: vuolsi così colà dove si puote>>.

RIASSUNTO

Dante e Virgilio scendono nel secondo cerchio: alla sua guardia è posto Minosse, orribile e ringhiante, con il compito di stabilire il luogo della pena eterna destinato a ciascun dannato che al suo cospetto, confessa i propri peccati.

Il  giudice infernale ammonisce Dante a non fidarsi dell’ampiezza della strada che si accinge a percorrere e neppure della guida di Virgilio, ma quest’ultimo lo zittisce con parole di sapore rituale che indicano come il viaggio di D. sia volontà di Dio (vv. 1-24).

Nel secondo cerchio, buio  e mugghiante come il mare in tempesta, percorso da un vento assordante e violento, sono puniti i lussuriosi, che hanno sottomesso la ragione alle insane passioni d’amore; essi sono trascinati incessantemente dalla bufera infernale senza speranza di tregua.

Quando gli spiriti giungono di fronte alla “ruina”, cioè allo scoscendimento della roccia prodotto dal terremoto che seguì alla morte di Gesù Cristo[12], gridano, piangono, si lamentano e bestemmiano la virtù divina.

Dante capisce di trovarsi dinnanzi alle anime dei lussuriosi, peccatori carnali che sottomisero la ragione alle loro voglie: secondo la legge del contrappasso essi, senza alcuna speranza di sostare, sono trascinati di qua e di là dalla bufera, così come gli stornelli sono portati dalle ali nella fredda stagione invernale; e come le gru, volando in fila, vanno emettendo i loro versi lamentosi, così molte ombre, trascinate dal vento verso i due poeti, emettono i loro lamenti.

Virgilio, su richiesta di D., elenca alcuni di questi lussuriosi, protagonisti della storia e della letteratura, morti in modo violento: Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena, Achille[13],  Paride[14], Tristano[15] e mille altre anime vittime della passione d’amore.

Dante udendo nominare tanti famosi cavalieri e donne antiche è preso da pietà e sta per svenire. (v. 25-72)

Dante scorge due anime che procedono unite e sembrano più leggere al movimento vorticoso della bufera:  egli domanda al maestro di potersi intrattenere con loro, esprimendo poi direttamente tale desiderio ai due infelici amanti, che accorrono  prontamente come colombe trascinate dall’istinto (v. 73-87).

È  Francesca che parla al poeta, rammentando la sua città  natale, Ravenna, ed accennando (con formule tratte dallo stilnovo) all’innamoramento per  Paolo seguito dalla tragica morte per mano del marito Gianciotto, fratello di Paolo, che secondo Francesca è punito nella Caina, la zona dell’inferno destinata ai traditori dei parenti (vv. 88-107).

Dante, profondamente turbato, chiede alla donna di narrare in che modo nacque e si manifestò la passione d’amore tra i due peccatori;  mentre Francesca ricorda la lettura della storia di Lancillotto che sospinse i due amanti l’uno tra le braccia dell’altra, Paolo piange disperato ed il poeta sovrastato da questa perdizione senza scampo, perde i sensi (108-142).


[1] Fu capitano del popolo a Firenze tra il 1282 ed il 1283.

[2] Figlia di Guido da Polenta il vecchio, signore di Ravenna, aveva sposato tra il 1275 e il 1282 il fratello di Paolo, Gian Ciotto Malatesta, signore di Rimini.

[3] Morirono uccisi insieme tra il 1283 ed il 1286.

[4] 69-30 a.C.

[5] Nella mitologia greca è la dea della discordia.

[6] La trama è in sostanza la seguente: il giovane principe di Leonois, Tristano, nipote di Marco re di Cornovaglia (che è deturpato nella sua figura umana da mostruose orecchie equine) abbatte il terribile Morholt d’Irlanda, un mostro che affligge l’Irlanda stessa, cui la Cornovaglia deve annualmente il tributo di giovani vite; ma nella terribile lotta resta ferito da una spada avvelenata: e la ferita è incurabile.

Tristano lascia allora la corte dello zio; e da una nave senza vela, senza remi, senza timone, è portato sulle coste d’Irlanda; ed è curato e guarito dalla sorella del vinto Moroldo, esperta di arti magiche e mediche. Torna presso lo zio, che lo incarica di andare a chiedere per lui in isposa la fanciulla cui appartiene il capello biondo che una rondinella ha lasciato cadere ai suoi piedi.

La fanciulla è la sorella di Moroldo, figlia del re d’Irlanda, colei che ha guarito Tristano, Isotta la bionda. Dopo varie vicende, Tristano ottiene di scortare sino in Cornovaglia la dolce fanciulla, e al momento dell’imbarco la regina gli confida un meraviglioso filtro, che Isotta dovrà bere col suo sposo re Marco, che assicurerà per l’eternità un amore intenso e profondo fra i due coniugi.

Ma per un errore dell’ancella Brengania, Isotta beve durante la navigazione il filtro con Tristano. e i due giovani ardono l’un per l’altro di una irresistibile passione.

Re Marco, nonostante le precauzioni dei due amanti, li sorprende un giorno e li scaccia; e i due si riducono a vivere solitari nella foresta di Morrois.

Vi capita un giorno il re, durante una caccia; e coglie i due amanti nel sonno, ma divisi da una spada, collocata fra loro. Commosso da questo che gli appare un segno di innocenza, Marco riconduce con se Isotta la bionda e bandisce dalla corte Tristano, che va nell’Armorica, dove sposa Isotta dalle bianche mani, figlia del duca; la quale, nei tratti e nel nome, gli richiama la dolce sua amica perduta.

Ma il ricordo dell’amica opprime, invincibile, l’eroe, che si sente sempre più distaccato e remoto dalla sposa. Resta un giorno gravemente ferito e nessuno sa curarlo.

Occorre l’intervento di Isotta la bionda, che sola conosce i segreti dell’arte medica.

Una nave è inviata a cercarla. Se Isotta vorrà venire al letto dell’amico infermo, la nave, al ritorno, alzerà la vela bianca; vela nera, invece, se Isotta si rifiuterà. Passano i giorni e Tristano languisce; e solo per la dolce speranza di un ritorno della sua donna trattiene la vita che gli sfugge.

Finalmente la nave è in vista e alza vela bianca. Ma Isotta dalle bianche mani, spinta dalla gelosia che la tormenta, annuncia che la vela è nera; Tristano, che ha ancora solo un soffio di vita, disperato lo lascia sfuggire e spira.

Così Isotta la bionda trova, allo sbarco, la città immersa nel lutto; e accorre al letto del morto amico e cade morta di dolore al suo fianco.

[7] Pia della famiglia dei Tolomei di Siena, sarebbe andata sposa a Nello dei Pannocchieschi, podestà di Volterra e di Lucca, e poi sarebbe stata uccisa in circostanze misteriose: forse dallo stesso marito che la punì per l’infedeltà o che voleva risposarsi con Margherita degli Aldobrandeschi, a suo tempo sposa del conte Umberto di Santa Fiora.

[8] Sorella di Forese Donati, amico di Dante (posto nel Purgatorio Canto XXIV), e di Corso Donati, il più irriducibile nemico dell’Alighieri. Entrata nel convento delle Clarisse ne era stata tratta fuori con la violenza dal fratello Corso che l’aveva costretta a sposare uno dei più facinorosi dei suoi compagni, Rossellino. Piccarda morì poco dopo il rapimento: secondo una leggenda ottenne da Dio il dono di mantenere comunque la verginità.

[9] La ritroviamo nel Canto V del Purgatorio.

[10] Foco d’amore in gentil cor s’apprende/come vertute in petra preziosa.

[11] Che nell’ultimo romanzo del ciclo, la Morte di Artù, è presentato come la causa della rovina del mondo arturiano.

[12] In Inf. XII, 37-45 (cerchio VII dei violenti) si spiega che si tratta di una frana dell’orlo dei vari cerchi il cui ricordo fa sentire alle anime dannate più esasperata la loro condanna.

[13] Fu ucciso dal fratello di Polissena.

[14] Fu ucciso da Filottete

[15] Morì, come già detto, con Isotta a causa del loro amore infelice.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto IV – Sintesi

Dante  risvegliato da un tuono, si ritrova nel I cerchio[1] o Limbo[2] ove stan­no i bambini non battezzati e coloro che non peccarono ma che morirono senza la fede (lo stesso Virgilio).

In questo cerchio i dannati non soffrono tormenti mate­riali ma soltanto quelli spirituali.

Il regno della dannazione come Dante lo ha concepito, si stende verso il centro della terra, sotto Gerusalemme, in nove cerchi concentrici che vanno restringendosi dall’alto in basso, a forma di imbuto, e in essi i dannati sono distribuiti in modo che le pene, in relazione alle colpe, sono tanto più gravi tanto più si scende.

Questa progressione di gravità corrisponde alla teoria aristotelica – esposta da Virgilio nel canto XI dell’Inferno – sulla quale è basata la struttura morale dell’Inferno dantesco che consiste in una triplice ripartizione dei peccati, per incontinen­za, violenza o matta bestialità, malizia.

Il primo genere di peccati è meno grave perché la passione durante la loro commissione ha soverchiato la ragione; il secondo ed il terzo tipo di peccati sono più gravi perché c’è il concorso della volontà e della ragione.

I peccatori del primo tipo si ritrovano nel 2°,3°,4°,5°ce­rchio; al secondo tipo di peccato appartengono i dannati del 7° cerchio, mentre dei peccatori de 3° tipo si parlerà nell’8° e 9° cerchio.

A parte vanno considerati appunto i peccatori del 1° e del 6° cerchio.

I peccatori del 1° cerchio  hanno come pena il desiderio eternamente insoddisfatto di vedere Dio.

D. apprende come si salvarono i credenti nel Cristo venturo: i Patriarchi dell’Antico Testamento, furono trasportati in paradiso da Cristo, quando discese agli inferi dopo la Passione (vv. 1-66).

D. si trova poi di fronte un nobile castello al centro del cerchio (Elisio), dove vivono i grandi dell’antichità: il poeta  ha la possibilità di incontrare Omero, Orazio, Ovidio, Lucano, i grandi eroi di Troia e di Roma, i grandi filosofi e scienziati (Platone, Socrate, Averroe) che sono raccolti in un luogo luminoso. Attraversato il limbo, D. giunge in un luogo totalmente oscuro (vv. 67-151).

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto III – Sintesi

Sistina, Giudizio Universale di Michelangelo – Immagine dettaglio Caronte.

COMMENTO

Il canto si apre alla sera dell’8 aprile 1300, venerdì santo; i due poeti dopo aver attraversato la porta dell’Inferno giungono nell’Antinferno o vestibolo: uno spazio cupo, su cui incombe un’aria “senza stelle e senza tempo tinta”; tale spazio confina con le rive del fiume Acheronte dalle acque nere; il custode del luogo è Caronte; i dannati che i due poeti incontrano sono gli ignavi, cioè coloro che non fecero né scelsero mai, per viltà, né il bene né il male; essi corrono nudi dietro un’insegna e sono punti da vespe e mosconi. Il sangue che riga il loro volto, mischiato alle lacrime, viene raccolto a terra da vermi ripugnanti, cui fa cibo.

Il contrappasso consiste in questo: in vita queste anime non seppero sceglie­re, evitarono gli stimoli di ogni genere, furono avari di passione (sangue e lacrime); ora sono invece costretti ad inseguire un vessillo (a fare una scelta) e sono appunto pungolati da insetti fastidiosi.

I personaggi del canto sono:

1) Colui che fece il gran rifiuto. Probabilmente Pietro da Morrone, eremita; diventando papa con il nome di Celestino V[1] nel 1294, abdicò dopo pochi mesi, aprendo la strada al pontificato di Bonifacio VIII, principale responsabile, secondo Dante, della rovina di Firenze e sua personale. Secondo altri potrebbe trattarsi di Ponzio Pilato, o di Esaù[2], o di Giano della Bella[3], tutti personaggi che vennero meno a precise responsa­bilità pubbliche.

2) Caronte: personaggio mitologi­co[4], demonizzato da Dante: è il traghettatore infernale, colui che trasporta le anime dannate dalla riva del vestibolo all’Inferno vero e proprio attraverso l’Acheronte. La sua figura si ispira a quella virgiliana del IV canto dell’Eneide.

ELEMENTI PRINCIPALI DEL CANTO

1) Tema estetico-morale: la descrizione del luogo e della pena dei dannati – cupo, senza tempo e risonante di grida e lamenti l’uno, ripugnante e carica d’angoscia l’altra – si collega immediatamente al giudizio morale di Dante che Dante ha degli ignavi: disprezzati perché non si schierarono con nessuno, uomini vili agli occhi del poeta, confinati in quel luogo scuro ed opaco perché dimenticati sia da Dio, sia dai diavoli, non meritano nemmeno l’attenzione dei visitatori.

Dante non ne cita per nome nemmeno uno, e Virgilio conclude la sua spiegazione con uno sdegnoso “non ragioniam di loro, ma guarda e passa“.

2) Caronte. la figura di Caronte è da Dante ricalcata sulle orme di quella virgiliana; il nocchiero infernale è un vecchio canuto, bianco per antico pelo, con gli occhi di fuoco, che avanza sulle acque dell’Acheronte minacciando le anime che viene a raccogliere.

Caronte è la prima delle figure mitologiche <<reinventate>> da Dante quali demoni e custodi dei luoghi infernali, con una tecnica che, partendo dagli esempi classici, le trasfigura con particolari esteriori e con caratteristiche morali del tutto originali.

Nel disegno generale dell’opera Caronte corrisponde a Catone, custode del Purgatorio, e a S. Bernardo, intermediario nell’Empire­o, tra D. e Dio (cfr. Pd. XXXI e ss.), sia nella rappresentazione simbolica sia in quella fisica.

3) Tema figurativo-teologico. La Porta dell’Inferno reca un’iscri­zione terribile nella sua inesorabile condanna: <<Attraverso di me si entra nel dolore della città infernale tra le anime perdute per sempre alla Grazia. La Giustizia  divina mi ha creato, quel Dio uno che crea per l’eternità, e io duro in eterno. Lasciate perciò ogni speranza di salvezza, voi che entrate>>. Sono parole oscure, perché scritte in caratteri neri e perché cariche di minacce tremende che incutono paura e sgomento.

Poste ex abrupto all’inizio del canto, creano uno stacco con l’atmosfera lirica del precedente passo, e la ripresa di una forte suggestione drammatica.

4) la formula virgiliana. A Caronte, restio a trasportare i due visitatori, Virgilio risponde con una formula che ripeterà di fronte a Minosse e a Pluto: “Vuolsi così colà dove si puote/ ciò che si vuole”.

Il viaggio di Dante è voluto da Dio e verrà portato a termine, qualunque siano gli ostacoli ed il volere altrui.

Alla volontà divina si uniforma così la volontà dei dannati e di qualunque altro personaggio infernale, come evidenzia anche il comportamento di coloro che, giunti sulle rive dell’Acheronte, corrono incontro alla loro dannazione.

La formula virgiliana sintetizza così, perentoriamente, il dominio della legge divina, e mette a tacere qualunque opposizione.

5) Le similitudini.

I) vv. 28-30: Il rumore di mani battute, mescolato alle alte grida e ai suoni disumani dei dannati, provoca un tumulto simile a quello della sabbia sollevata a mulinello dalla furia del turbine.

II) vv. 112-116. Le anime radunate sulla riva dell’Acheronte rispondono alla fretta di Caronte gettandosi una dietro l’altra sulla barca, come fanno le foglie[5] cadendo d’autunno fino a che i rami sono completamente spogli.

6) La profezia di Caronte. Nelle parole che Caronte rivolge a D. si legge il primo accenno profetico al destino del poeta. Egli infatti seguirà la via delle anime destinate alla salvezza, quelle che si raccolgono alla foce del Tevere per essere trasportate dal vasello snelletto e leggero (cfr. Pg. II, 41), la lieve imbarcazione guidata dall’angelo nocchiero fino all’isola del Purgatorio.

RIASSUNTO

I poeti sono davanti alle porte dell’Inferno su cui sono scritte le parole di eterna condanna. D. è preso da sgomento nel leggerle; Virgilio lo esorta ad abbandonare qualsiasi esitazione e ad armarsi di coraggio. Quindi, presolo per mano, lo introduce in quel regno sconosciuto ai vivi (vv. 1-21).

Un gran tumulto di grida, pianti e lamenti disumani, imprecazioni e gesti di disperazione colpisce subito Dante, muovendolo alle lacrime (vv. 22-24).

Preso dall’orrore, egli chiede  al suo maestro chi è quella gente che par nel suo duol sì vinta: si tratta degli ignavi, coloro che vissero senza infamia e senza lode (vv. 25-36).

Insieme agli angeli rimasti neutrali nello scontro tra Dio e Lucifero, sono cacciati sia dal Paradiso, sia dall’Inferno, relegati nell’Antinferno, in una condizione così spregevole, da invidiare ogni altra sorte, persino quella dei dannati (vv. 37-48).

Il mondo non vuole ricordarli, i cieli li ignorano: quindi Virgilio stesso invita Dante a non prenderli in considerazione (vv. 49-51).

Dante li vede correre in gran moltitudine dietro un’insegna, nudi e punti da vespe e mosconi; il loro sangue mescolato alle lacrime, viene raccolto a terra da vermi schifosi. Dante ne riconosce uno tra tutti: colui che fece il gran rifiuto (vv. 52-69).

Guardando più avanti, D. scorge altri dannati sulla riva di un fiume e chiede a Virgilio chi siano quelle anime, che sembrano così pronte a essere traghettate (vv. 70-75).

Ma il maestro gli consiglia di attendere: quando saranno sulla riva dell’Acheronte, vedrà da sé (vv. 76-81).

Raggiunto il fiume, ecco venire, remando sulle acque un vecchio minaccioso: è Caronte, che urla in direzione delle anime l’immedia­ta partenza per il regno delle tenebre (vv. 82-87).

Alla vista di D. ancora in vita, gli grida di allontanarsi di lì, perché altri lo traghetterà; Virgilio lo acqueta, dicendogli che quel viaggio è voluto da Dio (vv. 88-96).

Alle crude minacce di Caronte, le anime dei dannati si lasciano andare alla paura e alla disperazione; bestemmiando si radunano tutte alla riva, e ad una ad una si gettano nella barca, spronate dal remo del nocchiero infernale (vv. 97-111).

Quindi vengono trasportate sull’altra sponda, mentre nuovi dannati si ammassano su questa riva. Virgilio rincuora D.: quelle anime morte nel peccato, convergono sull’Acheronte da ogni luogo, sospinte dalla giustizia divina che le rende timorose e al tempo stesso desiderose della condanna; se dunque Caronte non l’ha voluto nella sua barca, le sue parole sono una involontaria profezia di salvezza (vv. 112-129).

A questo punto un terremoto accompagnato da un fulmine accecante, fa tremare la terra così violentemente che D. ne è terrorizzato e, persi i sensi, cade a terra, come l’uomo quando è vinto dal sonno; è il momento di varcare il fiume infernale (vv. 130-136).


[1] Divenne monaco benedettino all’età di 17 anni. Preferendo la vita solitaria, si ritirò sulle montagne abruzzesi, dove attirò parecchi fedeli che formarono il primo nucleo del suo ordine eremitico, poi soprannominato dei celestini, un ramo dei benedettini che in Francia venne abolito per ordine di papa Pio VI, ma in Italia sopravvisse fino all’inizio del XIX secolo. Celestino viveva come un eremita quando fu eletto papa il 5 luglio 1294, favorito dalla sua fama di santità; fu una scelta di compromesso dopo due anni di inutili votazioni per i cardinali che dovevano scegliere il successore di Niccolò IV. Ingenuo e inesperto dell’amministrazione, Celestino permise a Carlo II di Napoli di manovrare la politica della Chiesa, e, consapevole della propria inadeguatezza a governare, si dimise volontariamente dall’incarico il 13 dicembre dello stesso anno. Per evitare lo scisma di quanti erano favorevoli a Celestino, Bonifacio VIII, suo successore, lo imprigionò nel castello di Fumone fino alla morte. Venne canonizzato nel 1313.

[2] Esaù (In ebraico, “peloso”), nel libro della Genesi dell’Antico Testamento, figlio di Isacco e Rebecca e fratello maggiore di Giacobbe. In quanto figlio maggiore, Esaù aveva diritto di primogenitura su Giacobbe, ma la vendette al fratello per un piatto di minestra di lenticchie o di stufato (Genesi 25:21-34). Nonostante ciò, tentò di ottenere la benedizione patriarcale dell’ormai morente Isacco, ma Giacobbe lo ingannò ed Esaù ottenne solo una benedizione secondaria; quindi, furioso, decise di uccidere il fratello, che fuggì. Al suo ritorno, i due fratelli si riconciliarono. La figura di Esaù in questo episodio rappresenta il simbolo della nazione di Edom, come indicato in Genesi 36:8.

[3] Giano della Bella (Seconda metà del secolo XIII), politico fiorentino di famiglia aristocratica. Nella lotta politica all’interno del Comune di Firenze, si schierò con la fazione popolare. Ottenuta la carica pubblica di “priore” fu, secondo le cronache del tempo, tra gli estensori della riforma istituzionale detta Ordinamenti di giustizia (1293), che escluse i magnati dalle cariche governative. Poco più tardi, però, la classe dei magnati strinse un’alleanza con il cosiddetto “popolo grasso” e Giano, trovatosi privo di sostegno, fu costretto a lasciare la città; nel 1295 si ritirò in esilio in Francia, dove morì.

[4] Nella mitologia greca, Caronte era figlio della Notte e di Erebo, quest’ultimo personificazione delle tenebre sotterranee attraversate dalle anime dei defunti per raggiungere la dimora di Ade, dio dell’oltretomba. Caronte era il vecchio barcaiolo che trasportava le anime dei morti sullo Stige fino ai cancelli degli Inferi (anche presso gli Etruschi). Accettava sulla sua barca soltanto le anime di coloro che avevano ricevuto la sepoltura e che gli pagavano un obolo consistente in una moneta che veniva posta sotto la lingua del cadavere al momento del rito funebre. Gli altri erano condannati ad attendere un secolo al di là dello Stige.

[5] La foglia nella antichità poteva indicare una cosa di nessun valore (ad es. in Apuleio, Metamorfosi, 1,8; 2,23), o una situazione di grande precarietà (come in Palladio, Historia Lausiaca, 27,2, dove coloro che sono senza governo cadono come le foglie). Non si può a questo proposito trascurare l’ampio e famoso topos per cui l’uomo è come la foglia: se infatti la sua prima attestazione (Omero, Iliade, 6,145 ss.) confronta semplicemente il cadere delle foglie con l’avvicendarsi delle generazioni e se la maggior parte delle riprese successive (tra cui Virgilio, Eneide, 6,309) accostano due moltitudini, in altri passi l’uomo è paragonato alle foglie per la sua natura caduca ed effimera (in particolare in Mimnermo, fr. 2 G.-P., in un carme elegiaco attribuito a Simonide [85 Bergk4], in una parodia aristofanea [Uccelli, 685 ss.] e nella citazione omerica di Marco Aurelio, Pensieri, 10,34 [cf. G. Cortassa, Il filosofo, i libri, la memoria, Torino 1989, 10-14]).

Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – Canto II – Sintesi

Gustave Doré's illustration to Dante's Inferno...
Gustave Doré’s illustration to Dante’s Inferno. Plate VII: Canto II: “Beatrice am I, who do bid thee go” (Longfellow’s translation) (Photo credit: Wikipedia)

Dopo il proemio generale all’opera, costituito dal primo canto, con l’annuncio e l’impostazione narrativa del viaggio, questo canto costituisce una sorta di secondo proemio, riservato a spiegare il significato particolare e personale del viaggio di Dante.

Si tratta di un’esperienza eccezionale, che preannuncia pertanto un epilogo altrettanto eccezionale: egli sarà il terzo uomo a penetrare i misteri dell’oltretomba, dopo personalità tanto alte quali Enea e S. Paolo; a determinare infatti il suo cammino di salvezza si è mossa la volontà divina, attraverso l’intercessione della Vergine e l’intervento diretto di Santa Lucia[1] e Beatrice, anime somme tra i beati.

In questo canto prevalgono ancora la filosofia e la teologia ma alcuni spunti come ad es. l’apparire di Beatrice ci rivelano che D. ha già compiuto un gran passo verso la chiara espressione della propria umanità.

Il canto è strutturato sostanzialmente e schematicamente su quattro momenti:

1) Invocazione alle muse: anche se limitata ad un’unica terzina (vv. 7-9), è da rilevare che D. segue i canoni del tradizionale poema epico; sarà da tener presente in parallelo al proemio delle altre due cantiche, la progressione di impegno che D. profonde a seconda dell’elevazione della materia[2].

2) Esitazione e timore di D. ad intraprendere il viaggio nell’ol­tretomba.

3) Virgilio rivela la volontà divina che ispira il viaggio.

4) I due poeti intraprendono il cammino nella selva oscura.

Il canto si apre al tramonto[3] del l’8 aprile 1300, venerdì santo, al limitare della selva oscura, in cui D. e V. si inoltrano alla fine del canto.

Il personaggio di questo canto è certamente Beatrice, giovane donna fiorentina (1266-1290), figlia di Folco Portinari[4], moglie di Simone de Bardi.

È la donna amata da D. che a lei dedicò le rime della Vita Nuova[5]; è un personaggio storico che assunse per il poeta il sommo valore della Grazia e della Teologia.

Scende la sera[6] quindi e Dante si prepara ad affrontare, solo tra i viventi, come una guerra[7] il faticoso[8] viaggio nel regno degli Inferi (vv. 1-6); per sostenersi nell’alta impresa di poeta e di pellegrino, egli invoca le Muse e fa appello al proprio ingegno alla propria memoria (vv. 7-9) [9].

Quindi D. espone a Virgilio i dubbi ed i timori che lo assalgono e in particolare gli chiede di considerare il suo valore di uomo prima di avviarlo all’alto compito (v. 9-12): prima di lui, si recò in quei luoghi soltanto Enea[10] – come afferma V. – vivo e materialmente[11], per una volontà divina che è agevole comprendere se si pensa che fu il futuro padre di Roma, destinata ad essere la sede dell’Impe­ro e della Chiesa: egli doveva scendere agli inferi per vincere poi nel Lazio e porre le basi per Roma e per la dignità pontificia (vv. 13-24); in seguito andò nel regno immortale[12] S. Paolo[13] che salì al terzo cielo per trarne conforto nel suo apostola­to[14] (vv. 25-30).

Ben più degni personaggi, dunque – e giustificati da fini religiosi e politici altissimi – di quanto non sia D. stesso; perciò egli si sgomenta di non avere meriti e forze suffi­cienti per affrontare l’arduo viaggio, pensa di essere un folle[15] se ad esso si abbandona, ed è tentato di rinunciarvi così come colui che non vuole più ciò che prima voleva per il sopraggiungere di nuove considerazioni (vv. 31-42).

Virgilio allora riscuote D., facendogli notare e nello stesso tempo rimprove­randolo con dolcezza ma anche severità per il fatto che il suo animo è indeboli­to dalla poca coscienza delle proprie forze e dalla viltà; ciò impedisce spesso l’uomo nell’operare il bene così come una bestia si spaventa ed indietreggia per un ombra (vv. 43-48).

Per rincuorar­lo e per sciogliere ogni dubbio V. gli dirà la ragione della sua venuta e gli racconterà ciò che avvenne la prima volta che egli provò dolore per Dante (vv. 49-51).

 Mentre era nel Limbo, tra quelli che stanno sospesi, si presentò a Virgilio e lo chiamò una donna <<beata e bella>> tanto che V. non poté fare a meno di chiederle di comandare quel che desiderava (vv. 52-54).

I suoi occhi lucevano più delle stelle[16] ed ella cominciò dolcemen­te e chiaramente (<<soave e piana[17]>>) e con voce angelica a lodarlo affermando che la fama della sua anima cortese dura e durerà nei secoli, per poi aggiungere che colui che l’amò di un amore disinteressato[18] era smarrito nella selva deserta e così impedito nel passo da volgersi indietro, tanto che ella temeva che lo smarrimento fosse arrivato a tal punto da vanificare ogni intervento (vv. 55-66).

Ella prega dunque V. di aiutare D., con la saggezza e l’arte per cui andava famoso, rivelando di essere Beatrice, scesa dall’Empireo in virtù di Amore (o della carità) che la fa parlare (vv. 67-72); quando tornerà in Cielo dal creatore Beatrice promette di lodare Virgilio[19] ed infine tace (vv. 73-75).

Pronto ad obbedirle e felice per essere stato scelto quale strumento del volere divino, Virgilio dopo averla lodata come l’unica che permette agli uomini di superare le cose della terra[20], si dimostra disponibilissimo ad esaudirla in fretta, anche se le chiede come mai non abbia temuto di scendere dall’Empi­reo, dove desidera ardentemente ritornare, nell’In­ferno (vv. 76-84).

Dal momento che V. vuol conoscere più a fondo la verità Beatrice gli spiega brevemente come solo le cose che possono fare male devono essere temute, e come, essendo lei beata (<<fatta da Dio>>), non avrebbe potuto essere toccata né dalle fiamme, né dalla miseria dei dannati (vv. 85-93).

Inoltre, una “Donna gentil”[21] che si doleva così tanto della situazione di D. decise di spezzare il giudizio di Dio, affidò la salvezza di D. a Santa Lucia[22], e questa, nemica di ogni crudeltà, si mosse per chiedere a Beatrice, vera lode di Dio (che si trovava accanto a Rachele[23]), di soccorre­re il suo amico poeta, che tanto l’aveva amata e che per lei si era elevato dalla mediocrità spirituale ed artistica, perché il male lo stava travolgendo in quel punto del fiume che è superato dalla potenza superiore del mare. (vv. 94-114).

Beatrice aggiunge che le parole di Santa Lucia l’hanno resa il più sollecita possibile ed è per esse che ella ha lasciato il Paradiso per recarsi da Virgilio; e successivamente si commuove volgendo altrove i suoi occhi pieni di lacrime, cosa che rende a sua volta, Virgilio ancora più sollecito (vv. 115-117).

Terminato il racconto intorno all’incontro con Beatrice, Virgilio sprona D.[24] ad abbandonare ogni titubanza ed ogni viltà, dal momento che, a prova che il suo viaggio è voluto da Dio, tre donne sante (Vergine, Beatrice, S. Lucia) lo proteggono su nei cieli e le stesse parole del poeta mantovano sono così incoraggianti (vv. 118-126).

Come i fiori chiusi dal gelo si drizzano e si riaprono ai primi raggi del sole[25], così D. si rianima (dalla <<stanca virtude>>), prende coraggio e, benedicen­do Beatrice (come <<pietosa>>) e Virgilio (come <<cortese>>), si conferma nella decisione di intraprende­re il cammino; quindi Dante moralmen­te confortato, riprende il suo cammino insieme a V.[26] ed i due poeti, legati da <<un sol volere>> si addentra­no nella selva, per una via ardua e selvaggia, che conduce alla porta dell’Inferno (vv. 127-142).


[1] Martire siracusana (Siracusa 283 ca. – 303 ca.). Secondo notizie incerte – dato il carattere leggendario dei testi che narrano la sua vita – si tratterebbe di una giovane di Siracusa martirizzata il 13 dicembre, data fissata per la sua memoria, di un anno imprecisato, comunque durante il mandato di Diocleziano. Il suo culto e le relative espressioni folcloriche hanno conosciuto una straordinaria diffusione (soprattutto nei paesi dell’Europa settentrionale) probabilmente a motivo dell’interpretazione etimologica del nome di Lucia. Ella sarebbe cioè la “santa della luce”, che, accecatasi per sfuggire a un suo pretendente, diffonderebbe dal giorno della sua festa – secondo il calendario giuliano il giorno più corto dell’anno – lo splendore dei suoi occhi sulle notti del lungo inverno. Perciò Lucia viene invocata come protettrice della vista.

[2] Nel Purgatorio D. enuncia l’indicazione dell’argomen­to (vv. 1-6; proposi­zione) ed invoca le Muse e in particolare a Calliope (<<dalla bella voce>> in quanto D. deve descrivere un regno di  mitezze serene e di dolci speranze) perché accompagnino il suo canto con quel suono con cui vinsero le figlie di Pierio (le Pieridi, nove giovani che rivaleggiarono con le muse e nel canto e furono da esse sconfitte e tramutate in gazze) (vv. 7-12). Nel Paradiso (1-36), dichiarato l’argomento del suo canto, D. invoca Apollo: se il dio della poesia lo aiuterà nel suo compito, egli potrà sperare nella corona d’alloro, il cui solo desiderio sarà al nume tanto più gradito quanto più raro è sulla terra, per colpa e vergogna dei desideri umani.

[3] Col morire del giorno D. si avvia verso l’Inferno, dove l’anima è morta; col sorgere del giorno invece inizia il suo viaggio nel Purgatorio, il luogo della speranza dove l’anima risorge a Grazia; nel Paradiso, dove l’anima è pienamente beata, salirà quando il sole sfolgora in tutto il suo fulgore.

[4] Secondo quanto ci riferisce il figlio di Dante Pietro nel suo commento ed il Boccaccio nella Vita di Dante.

[5] Si tratta della prima opera importante di Dante, fu scritta poco dopo la morte di Beatrice ed è composta di canzoni e sonetti legati da commenti in prosa entro un esile intreccio narrativo: la storia dell’amore di Dante per Beatrice, la premonizione della sua morte avuta in un sogno, la morte di Beatrice e la risoluzione finale del poeta a scrivere un’opera che dicesse di lei “quello che mai non fue detto d’alcuna“. La Vita nuova mostra la chiara influenza della poesia d’amore dei trovatori provenzali e rappresenta probabilmente l’opera più importante del dolce stil novo fiorentino, che superò la tradizione provenzale sublimando l’amore del poeta non solo in termini di elevato idealismo, ma anche in senso mistico-religioso.

[6] Nei primi sei versi (protasi del proemio) del canto D. ci propone l’immagine lirica del mondo pacificamente addormentato nella notte, su cui risalta la sua veglia, essendo egli in procinto di affrontare i grandi pericoli del viaggio tra le anime infernali. Si tratta di un topos letterario, ereditato direttamente da Virgilio (Aen. IV, 522-532: il poeta mantovano contrappone la tranquillità della notte alla inquietudine della regina Didone) e che dopo D. (che mette in rilievo la sua solitudine ma anche la lotta tra corpo ed anima: v. 4-6) ritornerà in tanti altri autori.

[7] Per liberarsi dalle passioni.

[8] Per la durezza del cammino e per la pietà, cioè per la vista del male morale che potrebbe distogliere D. dal giudizio morale e quindi trasformarsi in un’indulgenza che potrebbe rivelarsi una pericolosa nemica.

[9] È forse l’unico caso in tutta la letteratura quello di un poeta che invoca il suo ingegno e memoria, ma non è questa presunzione, piuttosto consapevolezza dell’eccezionalità del viaggio, del fatto che esso è voluto da Dio.

[10] D. non ricorda gli altri viaggi pagani come quello di Ercole e di Teseo oppure quelli Cristiani di S. Patrizio, S. Brandano, Tungdalo, perché solo il viaggio di Enea ha importanza dal punto di vista politico, così come ha importanza quello di S. Paolo dal punto di vista religioso.

[11] Il parente di Silvio, il figlio che Enea ebbe da Lavinia.

[12] Non nell’Inferno ma nel Paradiso.

[13] Il vaso di elezione, ricettacolo privilegiato della grazia:  Atti degli Ap. IX, 15.

[14] Fu rapito come egli stesso ci attesta (nella Seconda Lettera ai Corinzi, XII, 2-4) con il corpo o senza (egli non lo sa con precisione) per essere trasportato in Paradiso, per trovare incitamento e conforto al fine di rafferma­re i cristiani in quella fede fuori dalla quale è impossi­bile la salvazione dell’ani­ma.

[15] Qui si introduce uno dei temi fondamentali dell’opera: l’uomo per essere veramente tale deve elevarsi moralmente ed intellettualmente, ma deve essere consapevole del fatto che può avanzare solo fino al punto che Dio permette, se non vuol cadere nel peccato dei peccati, quello di Lucifero e di Adamo. Il tema troverà poi la sua maggiore esposizione nell’episodio di Ulisse: bisogna elevarsi ma bisogna allo stesso tempo essere umili se non si vuole perire; S. Bernardo (Pd. XXXII) dirà alla fine del poema che per potere penetrare Dio occorre la grazia: chi pensasse di poterlo fare, muovendosi con le sue sole forze, arretrerebbe credendo di avanzare.

[16] Immagine questa cara agli stilnovisti: a Cavalcanti, al Guinizelli e allo stesso D. delle Rime.

[17] Termine usato in un sonetto di D. ed in un altro del Cavalcanti.

[18] È questo l’amore stilnovistico: un amore che tende a “spogliarsi” della passione e a divenire puro slancio dell’anima verso il bene, cioè amore-virtù. Beatrice nel poema impersona sì la Teologia, ma è anche e sempre questo Amore, che spinge a conquista­re la propria superiore umanità.

[19] Questa promessa secondo i critici contiene un’arcana promessa.

 [20] Beatrice, piena di virtù, rappresenta la sublimazione della natura umana, cosicché soltanto per essa gli uomini vincono d’eccellenza le creature contenute nel cielo della luna (secondo il sistema tolemaico, seguito da D., la terra è al centro dell’univer­so, e, intorno ad essa, si aggirano i nove cieli, fra i quali il primo e più vicino alla terra è quello della Luna), ovvero – secondo altri – soltanto per essa gli uomini si elevano al di sopra delle cose terrene.

[21] La Vergine Maria che simboleggia la grazia preveniente (cioè la Grazia che previene il desiderio) o la misericordia o la carità e che per una questione di riverenza non viene mai nominata nell’Inferno.

[22] Secondo alcuni è simbolo della grazia illuminante o della speranza o ancora della giustizia perché nel Purgatorio Lucia è messa in relazione con l’aquila che trasporta D. dall’Anti­purgato­rio al Purgatorio vero e proprio; e poiché l’aquila, come appren­diamo dal canto XVIII del Paradiso è messa a sua volta in relazione con la giustizia (Spiriti giudicanti), ne consegue che Lucia può significare questa virtù.

[23] Figlia di Labano e moglie di Giacobbe e simbolo della vita contemplativa, mentre Lia, sua sorella, simboleggia la vita attiva.

[24] Forse non comprendendo che il poeta è soltanto, a sua volta, commosso e stupito per il racconto.

[25] È questa forse una delle immagini più delicate e soavi di tutto il poema.

[26] Che viene definito <<duca>> rispetto al cammino, <<segno­re>> rispetto al comando, <<maestro>> rispetto alla scienza.

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