Lasciati amare

La mediazione ed il mediatore non possono essere frutto di un sillogismo

In questa nota intendo soffermarmi su un passaggio della famosa ordinanza[1] del 12 aprile 2011 resa dalla sezione I del Tar Lazio[2] in materia di mediazione civile e commerciale (clicca qui Ordinanza Tar Lazio).

I promotori[3] dei ricorsi[4] chiedono al Tar Lazio che sia annullato il decreto ministeriale 18 ottobre 2010 n. 180[5] di attuazione del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 e agiscono altresì per la dichiarazione della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 16 del d. lgs. n. 28 del 2010, in riferimento agli artt. 24[6], 76[7] e 77[8] Cost.

In estrema sintesi possiamo dire che viene contestata la costituzionalità della mediazione obbligatoria e come condizione di procedibilità del giudizio e si assume la inadeguatezza dei requisiti che la legge/regolamento richiedono per organizzare ed erogare il servizio di mediazione.

È noto che con il provvedimento del 12 aprile 2011 il Tar Lazio ha investito la Consulta la quale dovrebbe[9] il 23 ottobre 2012  affrontare diverse questioni di costituzionalità relative all’art. 5 c. 1 e all’art. 16 del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28[10].

Peraltro segnalo, anche se non ce ne sarebbe bisogno, che il 23 ottobre 2012 sul ruolo della Corte Costituzionale dovrebbe andare in trattazione anche l’ordinanza 18 novembre 2011 del Tribunale di Genova (clicca qui ordinanza-Trib.-GE-del-18.11.11 ) che solleva problemi solo in parte comuni a quelli dell’ordinanza del Tar Lazio, questioni di certo non meno rilevanti, specie dal punto di vista pratico, in merito alla mediazione civile commerciale.

Si va dall’individuazione dell’oggetto delle materie indicate dall’art. 5 alla vessata questione di una mediazione che sia al contempo onerosa ed obbligatoria, dalla possibilità di non aderire al procedimento di mediazione e di non pagare le “spese di mediazione”, alla possibilità di trascrivere la domanda ed il verbale di mediazione con efficacia “prenotativa” della prima anche rispetto al provvedimento giurisdizionale conclusivo del procedimento giudiziario,  quando oggetto della procedura sia un diritto reale.

Non entro qui nel merito di quel che potrebbe decidere la Corte Costituzionale[11], né mi interrogo sulle ragioni che sarebbe comunque interessante indagare, per cui la maggior parte dei 40.000 mediatori italiani e degli Organismi sono rimasti silenti nel giudizio amministrativo.

Vorrei piuttosto soffermarmi a commentare un passo dell’ordinanza citata: “In particolare, le disposizioni di cui sopra  – ossia gli art. 5 e 16 del decreto 4 marzo 2010, n. 28 –  risultano in contrasto con l’art. 24 Cost. nella misura in cui determinano, nelle considerate materie, una incisiva influenza da parte di situazioni preliminari e pregiudiziali sull’azionabilità in giudizio di diritti soggettivi e sulla successiva funzione giurisdizionale statuale, su cui lo svolgimento della mediazione variamente influisce. Ciò in quanto esse non garantiscono, mediante un’adeguata conformazione della figura del mediatore, che i privati non subiscano irreversibili pregiudizi derivanti dalla non coincidenza degli elementi loro offerti in valutazione per assentire o rifiutare l’accordo conciliativo, rispetto a quelli suscettibili, nel prosieguo, di essere evocati in giudizio”.

Come mediatore non posso che pormi alcune domande sia sul mio ruolo sia sulla natura della procedura che ho avuto sino ad ora il privilegio di condurre. E ciò perché, lo anticipo, non mi ritrovo nella costruzione delineata dal Tar Lazio e in verità non vorrei nemmeno ritrovarmici.

Del resto lo stesso Tar Lazio, qualche pagina innanzi del citato passaggio, si pone “l’interrogativo di quale sia il ruolo che l’ordinamento giuridico nazionale intende effettivamente affidare alla mediazione”. Dal ruolo che la mediazione riveste deriverebbero – secondo il Consigliere – i requisiti che “è legittimo richiedere al mediatore ovvero da cui è legittimamente consentito prescindere”.

a) Quale funzione della mediazione aveva dunque in testa il Giudice?

In sintesi la risposta che mi sono dato scorrendo tutta l’ordinanza è la seguente.

Il legislatore delegato ha attribuito alla mediazione obbligatoria una funzione deflativa e dunque la procedura costituisce una fase processuale; da ciò consegue che vi deve essere una coincidenza tra l’oggetto della procedura e quello del successivo processo; se così non fosse si correrebbe il rischio di pregiudicare i diritti da evocare giudizialmente. Ergo la figura del mediatore deve essere “adeguatamente” conformata per fare sì che venga assicurata detta coincidenza in modo che non vengano pregiudicati i diritti. E ciò anche perché il verbale di conciliazione può divenire titolo esecutivo e dunque è equiparato dalla legge alla sentenza.

L’argomentare del Giudice è logico e pregevole: se le cose stanno esattamente in questi termini, il decreto legislativo 28/10 ha creato probabilmente un’inutile bizzarria di cui io, a questo punto, come mediatore sono figlio.

L’operazione descritta dal Giudice appare però, ai miei occhi di giurista, sostanzialmente quella che usualmente pongono in essere gli avvocati quando curano una transazione per conto dei propri clienti: valutati i diritti evocabili in giudizio essi fanno sì che i loro clienti rinuncino consapevolmente ad una parte della loro pretesa, in virtù appunto dei diritti che sono in gioco e/o delle loro convenienze.

b) Se la mediazione è una fase processuale “sui diritti” ha senso che la legge richieda al mediatore (che può non essere giurista) di svolgere le stesse operazioni effettuate che gli avvocati compiono in una transazione?

Non ha effettivamente alcun senso. L’opinione del Giudice è dunque condivisibile.

Sarebbe stato più coerente per il legislatore,  se proprio voleva deflazionare il contenzioso, dotare di esecutività la transazione tra avvocati come accade in Francia ed in Germania; correttamente poi ed in questa prospettiva la legge francese ci dice che se gli avvocati non ce la fanno a comporre la controversia, le parti sono libere di rivolgersi al Tribunale[12].

Se la mediazione è in Italia una mera fase processuale su “diritti” non si comprende però e francamente perché si sia pensato di introdurre due domande e si paghi peraltro due volte: una per introdurre la mediazione, l’altra per introdurre il processo.

Anche il Governo dunque ha qualche responsabilità in merito.

Più coerente è ad esempio un sistema come quello statunitense nel quale in presenza di una controversia si compila un solo form e si paga tendenzialmente una volta sola[13].

Tuttavia le cose non pare che stiano esattamente così, la mediazione civile e commerciale che ha in mente il Giudice amministrativo a me pare un mero sillogismo.

La mediazione intanto non ha come scopo principale quello di far raggiungere un accordo, ma di portare coloro che mediano a dialogare tra di loro; in questa prospettiva che vi sia o meno un collegamento con i diritti evocabili in giudizio appare, perlomeno al mediatore, di rilevanza secondaria.

Il mediatore può aiutare le persone a parlare degli argomenti che sono stati indicati, ma sono le parti a decidere se interagire su di essi o se discorrere d’altro; il mediatore non può certo “garantire simmetrie” al giudice, spettando ad altri autodeterminarsi sulla controversia.

Illumina sul punto la legge spagnola:”… la mediación se organizará del modo que las partes tengan por conveniente[14].

Considerazioni in parte diverse potrebbero essere fatte ovviamente qualora la richiesta di mediazione provenga da un provvedimento dell’autorità giudiziaria: in tal caso la preoccupazione di un raccordo processuale può essere dettata dalle ragioni più svariate.

Il mediatore non ha in ogni caso come compito quelle di svolgere le funzioni dell’avvocato, ossia di assistere e difendere un cliente, non offre inoltre elementi alle parti in sede di accordo, né tantomeno può garantire per quel che ho detto sopra che gli elementi contenuti dell’accordo coincidano con quelli evocabili in giudizio in modo che l’accordo non sia pregiudizievole per i diritti soggettivi.

Il mediatore, lo ribadisco con forza, si limita a porre delle domande e a facilitare la comunicazione tra coloro che vogliono interagire.

In  Francia e negli Stati Uniti, così come del resto in tutti paesi del mondo, i mediatori non fanno i consulenti delle parti, nemmeno se possiedono la qualifica per farlo.

Anzi negli Stati Uniti, ove rimarco che la mediazione fa parte del processo, la consulenza legale del mediatore in mediazione va esercitata con grande cautela, perché potrebbe considerarsi illecito deontologico (in generale ciò vale per tutta la consulenza “tecnica”) .

La preoccupazione del mediatore è quella poi di domandare alle parti quali siano al momento dell’incontro (non un minuto prima, né un minuto dopo) le conseguenze di un mancato accordo, ossia se vi sia un’alternativa all’accordo: il processo è peraltro una delle diverse alternative possibili che le parti possono utilizzare per comporre la controversia.

Rinvenuta l’alternativa all’accordo che ogni parte possiede (ma potrebbe anche non possederne alcuna), il mediatore si preoccupa di verificare con le parti che il potenziale ed eventuale accordo che le parti intendono raggiungere sia più o meno conveniente.

Per valutare la convenienza tuttavia non viene fatto un bilancio tra i diritti evocabili dai due nel processo ed il contenuto ipotizzabile dell’accordo, quanto piuttosto tra detto eventuale contenuto e le esigenze manifestate dalle parti, esigenze in base alle quali il conflitto è stato riformulato durante la procedura.

Per esemplificare, se la domanda originariamente avanzata in mediazione fosse: “Mi hai danneggiato l’auto, risarciscimi”, e il domandante manifestasse in seguito (come accade assai di frequente) l’esigenza di ottenere in tempi brevissimi il denaro per riparare l’automobile, il compito del mediatore non sarebbe tanto quello di verificare che l’accordo tenga conto del diritto al risarcimento che può evocarsi in giudizio (ciò è compito dell’avvocato), ma piuttosto di accertare, sempre e solo ponendo delle domande, se il giudizio, se i tempi processuali, possa o meno soddisfare meglio di un accordo, l’esigenza sottesa alla domanda, ossia quella di ottenere un risarcimento a tempi brevi.

Di conseguenza i diritti evocabili nel processo ed evocati nell’istanza di mediazione rimangono spesso sullo sfondo ed addirittura il processo può apparire ed appare spesso, in verità, disfunzionale alle esigenze manifestate da coloro che mediano.

Non so se questa è la deflazione che aveva in mente il Governo, ma è comunque quella che sogno io per i mio paese e per i suoi cittadini.

E dunque la mediazione non può essere fenomeno assoggettabile a sillogismi giuridici.

In presenza di un servizio qualitativamente differente e non certo alternativo rispetto a quello dell’avvocato, è legittimo dunque che si faccia una apposita domanda di mediazione e che vi siano costi da sostenere (ricordiamoci che lo Stato non assegna alcun contributo agli Organismi), peraltro non ingenti.

Ma è anche saggio che questo percorso sia obbligatorio perlomeno sino a che l’istituto non venga conosciuto e si sia diffusa una cultura della mediazione: la conoscenza dell’istituto comporta, infatti, che le parti possano consapevolmente scegliere la via più opportuna per soddisfare le proprie esigenze; l’effetto naturale che ne discende è una consapevole e drastica deflazione del contenzioso.

Così ci insegnano i risultati della conciliazione obbligatoria danese del 1795 e senza andare così lontani i risultati conseguiti negli Stati Uniti ove solo il 5% delle controversie sono sottoposte oggi a giudizio; per raggiungere l’intento deflativo però la mediazione è da almeno due decenni tendenzialmente obbligatoria.

Il processo non è stato breve, nessuno ha una bacchetta magica: la conciliazione obbligatoria è stata costituzionalizzata[15] tra il 1846 ed il 1851 in diversi Stati: New York, Wisconsin, California, Michigan, Ohio e Indiana[16] ed ha accolto tiepidi favori nella cultura del tempo: veniva considerata accettabile solo per gli schiavi del Sud appena liberati[17];  nel 1921 lo Stato del North Dakota ha provato ad inserirla come condizione di procedibilità[18] del giudizio sotto i 200 dollari[19], ma il successo è stato scarso complice anche la crisi economica (di cui anche noi oggi dobbiamo tenere conto).

Dagli anni ’80-90 tuttavia la mediazione obbligatoria è tendenzialmente il modello di riferimento per la maggior parte delle controversie. E i motivi sostanziali che si sono stabilizzati negli anni a favore della mediazione (e degli altri metodi ADR) sono sostanzialmente i seguenti:

a) la mediazione è un’esperienza salva tempo, salva denaro, che attribuisce un grande ruolo alla persona perché la mette in grado di raccontare la sua storia e di trovare soluzioni creative che il processo non consente, che preserva la relazione, che a differenza del processo permette di co-vincere, che incrementa il rapporto tra avvocato e cliente perché il cliente si sente più felice[20];

b) ogni giorno di giudizio costa alla comunità migliaia di dollari[21].

Attualmente gli Americani sono dunque abbastanza lontani dalle nostre baruffe giuridiche. Quando due legali si incrociano in una controversia non chiedono la soddisfazione dei diritti che i loro clienti possono evocare in giudizio, ma piuttosto quale strumento di ADR sia da preferirsi per appianare le loro differenze; e se i legali per caso non si mettono d’accordo è il giudice che prende una decisione in merito allo strumento più adeguato.

Tutti i componenti dell’amministrazione della giustizia, giudici, avvocati e mediatori, cooperano in questo processo.

Sono certo che gli avvocati californiani non domanderebbero “l’annullamento in parte qua” del decreto ministeriale 180/10 “ritenendolo lesivo degli interessi della categoria forense[22].

c) c) Ma se anche la mediazione potesse essere concepita come una mera fase processuale su “diritti”, con identico oggetto del processo, ne discenderebbe – come assume il Tar Lazio – che la legge/regolamento devono approntare una “particolare conformazione” in capo al mediatore che garantisca contro i pregiudizi dei diritti che potrebbero derivare da un accordo?

Dallo studio della legislazione straniera non mi è parso onestamente di poter ricavare questa conclusione.

Nella maggiorparte dei paesi del mondo, a prescindere da come la mediazione venga intesa, si è e si è stati assai restii a definire con legge o regolamento “un’adeguata conformazione” del mediatore.

Vediamo da ultimo con riferimento all’esperienza legislativa tedesca e spagnola che il cammino di recepimento della direttiva 52/08 è stato seriamente ostacolato proprio da un mancato accordo sullo status del mediatore.

In Spagna dopo ben due anni di progetti sconfessati, la legge impone oggi agli Organismi di: a) garantire la trasparenza della designazione, b) di pubblicizzare  “la identidad de los mediadores que actúen dentro de su ámbito, informando, al menos, de su formación, especialidad y experiencia en el ámbito de la mediación a la que se dediquen[23]; sta invece al Ministero della Giustizia e alle autorità pubbliche competenti vegliare affinché gli Organismi osservino e i mediatori applichino correttamente la legge sulla mediazione[24], in base peraltro a norme regolamentari che non hanno ancora visto la luce.

Allo stato non vi è alcuna norma che indirizzi sulla formazione del mediatore, anche perché in Spagna la legge statale non può travalicare le competenze in materia delle 17 Comunità autonome: così allo stato impazzano i corsi on line per mediatori civili e commerciali.

Nonostante tale pericolosa deriva, sono abbastanza sicuro che la questione riposta nelle mani della Consulta italiana sulla “conformazione del mediatore” garante dei diritti, non approderà mai davanti a quella spagnola, perché in Spagna la legge sulla mediazione è stata fortemente sponsorizzata da una sentenza del Tribunal Supremo del Reino de España del 20 maggio 2010[25]. E dunque non ci sarà la “caccia alle streghe”, ma si darà al Governo il tempo necessario per uniformare i criteri formativi.

In Germania sono i mediatori che sotto la propria responsabilità garantiscono di avere conoscenze teoriche ed esperienza pratica[26].Le materie[27] oggetto di studio per conseguire un’adeguata formazione sono peraltro analoghe a quelle che sono previste dal decreto ministeriale 180/10 che ricalca del resto le scelte operate dalla maggior parte dei paesi: ciò che cambia in estrema sostanza da paese a paese sono le ore di tenuta del corso e quindi un maggiore o minore approfondimento delle tematiche.

Né in Spagna né in Germania si è scelta poi la via “giuridica” che sembra sponsorizzare il Giudice amministrativo.

Solo un giurista, infatti, può in generale garantire “che i privati non subiscano irreversibili pregiudizi derivanti dalla non coincidenza degli elementi loro offerti in valutazione per assentire o rifiutare l’accordo conciliativo, rispetto a quelli suscettibili, nel prosieguo, di essere evocati in giudizio”.

Ma questa non è la finalità del mediatore, ma quella del consulente.

Ci sono Paesi ove, ben inteso, si è fatta la scelta di affidare la mediazione ad un avvocato : è il caso dell’Argentina, della Grecia e della Danimarca, dell’Irlanda limitatamente alla

mediazione delegata inerente al risarcimento del danno alla persona.

Ma nella maggiorparte dei paesi dal mondo da Oriente ad Occidente la professione del mediatore non si identifica con quella dell’avvocato.

Mi limito qui a richiamare i principi generali che vigono negli Stati Uniti sulla figura del mediatore.

Per l’UMA[28] con il termine “mediatore” si intende una persona che conduce una mediazione[29]: non si fanno dunque specificazioni in merito alla formazione o alla professione del terzo facilitatore. Il concetto è ripetuto ancora più chiaramente dalla Section 9 F dell’UMA per cui “ Questa [legge] non richiede che un mediatore abbia una qualifica speciale per background o professione”.

Sulla stessa  linea si pone l’ADRA[30] per cui “il tribunale distrettuale può utilizzare, tra gli altri, i giudici magistrato[31] che sono stati addestrati per servire come neutri nei processi di risoluzione alternativa delle controversie, neutri professionisti provenienti dal settore privato e le persone che sono stati addestrate per servire come neutri nei processi di risoluzione alternativa delle controversie”.

Anche la direttiva 52/08 non fa una scelta di campo sulla professione del mediatore: “per «mediatore» si intende qualunque terzo cui è chiesto di condurre la mediazione in modo efficace, imparziale e competente, indipendentemente dalla denominazione o dalla professione di questo terzo nello Stato membro interessato e dalle modalità con cui è stato nominato o invitato a condurre la mediazione[32].

Norma invocata in verità nel giudizio amministrativo del Tar Lazio per giustificare una particolare “conformazione” del mediatore è quella per cui “Gli Stati membri incoraggiano la formazione iniziale e successiva dei mediatori allo scopo di garantire che la mediazione sia gestita in maniera efficace, imparziale e competente in relazione alle parti[33].

Pare allo scrivente che nell’interpretazione si dimentichi l’inciso finale ossia “in relazione alle parti”.

Appare difficile ritenere che si possa essere competenti in relazione a tutte le parti che si possano teoricamente incontrare, ovvero che si possa pianificare un corso per raggiungere tale obiettivo, a meno che non si abbia il dono della divinazione.

Eppure l’inciso “in relazione alle parti” è, a mio modesto avviso, il perno della norma, il perno che può giustificare una formazione di 30 ore come quella che abbiamo ad esempio in Scozia.

A ben vedere quello che conta davvero in mediazione è che il mediatore si faccia continuamente delle domande sul suo ruolo: gli insegnamenti che dunque possono metterlo in grado di continuare a porsi delle domande sono fondamentalmente quelli di deontologia.

La deontologia in quanto opportunamente introiettata consente in altre parole di essere competenti rispetto a tutte le parti che si possono potenzialmente incontrare, ossia di continuare a valutare se si sia in grado di condurre o di proseguire una mediazione.

In generale dunque le leggi sulla mediazione civile e commerciale non approntano programmi che conformino il mediatore in modo che i diritti evocabili in giudizio non subiscano pregiudizio.

Forse perché la mediazione non è una fase processuale, o non lo è soltanto o seppure lo sia non ha lo stesso oggetto del processo.

Forse perché il mediatore non è un giudice, né un arbitro, né tantomeno un consulente.

Ci pensi il Consigliere estensore dell’ordinanza, ci pensi la Consulta.

Richiedere alla legge/regolamento di “conformare il mediatore” in modo da garantire i diritti evocabili nel processo è come chiedere ad un astronomo che voglia contare le stelle di utilizzare un microscopio.


[1] Sul ruolo della Corte riporta il numero 268/2011.

[2]http/www.giustizia-amministrativa.it/DocumentiGA/Roma/Sezione%201/2010/201010937/Provvedimenti/201103202_08.XML

[3] UNCC, OUA, sei COA che appartengono a tre regioni: Molise, Basilicata e Campania; poi ci sono da considerare 21 avvocati ricorrenti.

[4] Sono due, il  10937 del 2010 e  il 11235 del 2010 che sono stati riuniti.

[5] Decreto del Ministro della giustizia adottato di concerto con il Ministro per lo sviluppo economico n. 180 del 18 ottobre 2010, pubblicato nella G.U. n. 258 del 4 novembre 2010, avente ad oggetto “Regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione delle indennità spettanti agli organismi, ai sensi dell’art. 16 del decreto legislativo n. 28 del 2010”.

[6] Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.

La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.

Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione.

La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.

[7] L’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principî e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti.

[8] Il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria.

Quando, in casi straordinari di necessità e d’urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni.

I decreti perdono efficacia sin dall’inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione.

Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti.

[9] Il condizionale è d’obbligo vista l’astensione degli avvocati del 23 ottobre 2012  indetta proprio dall’OUA il 5 ottobre 2012.

[10] Il Tar del Lazio ha, infatti, dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 24 e 77 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d. lgs. n. 28 del 2010, comma 1, primo periodo (che introduce a carico di chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa alle controversie nelle materie espressamente elencate l’obbligo del previo esperimento del procedimento di mediazione), secondo periodo (che prevede che l’esperimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale), terzo periodo (che dispone che l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto o rilevata d’ufficio dal giudice); e ha altresì dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 24 e 77 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16 del d. lgs. n. 28 del 2010, comma 1, laddove dispone che abilitati a costituire organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di mediazione sono gli enti pubblici e privati, che diano garanzie di serietà ed efficienza.

[11] Per quanto mi continui a girare in testa l’idea che la Corte potrebbe restituire gli atti al Tar Lazio in base allo ius superveniens.

[12] Si tratta della “convenzione di procedura partecipativa” prevista dalla legge n. 2010-1609 del 22 dicembre 2010. Sulla scorta della normativa francese anche in Italia è stato presentato dall’AIAF, dall’UNCC e dall’unione Triveneta dei Consigli dell’ordine degli avvocati un disegno di legge in data 10 maggio 2011. Cfr. http://www.ordineavvocatibelluno.com/pdf/Proposta.legge.pdf

[13] Accanto allo spiegamento della domanda e dell’oggetto si esprimono le proprie preferenze o dinieghi per un metodo alternativo; poi è lo stesso Giudice che tira le file, invitando od obbligando (a seconda dei luoghi, casi e regole adottate dalle Corti) le parti ad utilizzare l’ADR.

L’ingranaggio peraltro dipende da programmi Statali che possono o meno mettere delle risorse e che comunque richiedono che il servizio di ADR sia gestito in maniera imprenditoriale dalle Corti.

Un sistema come quello descritto, ove la fase di ADR è già processo, ha come inevitabile corollario che il mediatore (il neutro come lo chiamano gli Americani)  viene scelto dal Tribunale che paga la mediazione e dunque che possiede i requisiti che il Tribunale richiede.

Di solito si tratta di un avvocato o di un giudice in pensione, oppure di un soggetto che ha una conoscenza delle prassi giudiziarie.

Le parti possono naturalmente anche scegliere un mediatore privato che non rientra nel panel giudiziario, ma in questo caso si fanno carico degli oneri finanziari.

[14] Art. 10 c. 1 Ley 5/2012, de 6 de julio, de mediación en asuntos civiles y mercantiles.

[15] La risoluzione pacifica delle controversie in modo equo, tempestivo, opportuno e conveniente è considerata del resto anche oggi funzione essenziale del potere giudiziario californiano, ai sensi dell’art. VI della Costituzione.

[16] Cfr. R. HEBER SMITH – J. SAEGER BRADWAY – W. HOWARD TAFT, Growth of legal aid work in the United States: a study of our administration of justice primarily as it affects the wage earner and of the agencies designed to improve his position before the law, Government Print Office, Washington, 1926, p. 32.

[17] Cfr. THE NORTH AMERICAN REVIEW, Courts conciliation, vol. CII, Ticknor and Fields, Boston, 1866.

[18] Cfr. R. HEBER SMITH – J. SAEGER BRADWAY – W. HOWARD TAFT, Growth of legal aid work in the United States op. cit. p. 32.

[19] La paga di un salariato nel 1921 era di circa 6 dollari al giorno e dunque 200 dollari corrispondevano al salario di poco più di un mese di lavoro. Cfr. H.A. BOARDMAN, Apostolical succession, William S. Martien, Philadelpia, 1844, p. 19.

[20] Cfr. ad esempio http://www.monterey.courts.ca.gov/Documents/Forms/Court%20Packets/ADR.pdf

Advantages of ADR

Here are some potential advantages of using ADR:

 Save Time: A dispute often can be settled or decided much sooner with ADR; often in a matter of months, even weeks, while bringing a lawsuit to trial can take a year or more.

 Save Money: When cases are resolved earlier through ADR, the parties may save some of the money they would have spent on attorney fees, court costs, and expert’s fees.

 Increase Control over the Process and the Outcome: In ADR, parties typically play a greater role in shaping both the process and its outcome.  In most ADR processes, parties have more opportunity to tell their side of the story than they do at trial.  Some ADR processes, such as mediation, allow the parties to fashion creative resolutions that are not available in a trial.  Other ADR processes, such as arbitration, allow the parties to choose an expert in a particular field to decide the dispute.

 Preserve Relationships: ADR can be a less adversarial and hostile way to resolve a dispute.

For example, an experienced mediator can help the parties effectively communicate their needs and point of view to the other side.  This can be an important advantage where the parties have a relationship to preserve.

 Increase Satisfaction: In a trial, there is typically a winner and a loser.  The loser is not likely to be happy, and even the winner may not be completely satisfied with the outcome.  ADR can help the parties find win-win solutions and achieve their real goals.  This, along with all of ADR’s other potential advantages, may increase the parties’ overall satisfaction with both the dispute resolution process and the outcome.

 Improve Attorney-Client Relationships: Attorneys may also benefit from ADR by being seen as problem-solvers rather than combatants. Quick, cost-effective, and satisfying resolutions are likely to produce happier clients and thus generate repeat business from clients and referrals of their friends and associates.

Because of these potential advantages, it is worth considering using ADR early in a lawsuit or even before you file a lawsuit.

[21] Sezione 1775 punto F del Codice di Procedura civile della California: “It is estimated that the average cost to the court for processing a civil case of the kind described in Section 1775.3 through judgment is three thousand nine hundred forty-three dollars ($3,943) for each judge day, and that a substantial portion of this cost can be saved if these cases are resolved before trial”. (Si stima che il costo medio al tribunale per l’elaborazione di una causa civile del tipo descritto nella Sezione 1775,3 attraverso il giudizio è 3.943 dollari (3.943 dollari) per ogni giorno di giudizio, e che una parte sostanziale di questo costo può essere eliminato se questi casi sono risolti prima del processo).

[22] Cfr. L’inizio dell’ordinanza del 12 aprile 2011 resa dalla sezione I del Tar Lazio qui commentata.

[23] Art. 5 c. 1 Ley 5/2012, de 6 de julio, de mediación en asuntos civiles y mercantiles.

[24] Art. 5 u.c. Ley 5/2012, de 6 de julio, de mediación en asuntos civiles y mercantiles.

[25]Sin embargo, no es baldío recordar aquí lo que ya las sentencias de esta sala de 2 de julio de 2007, 3 de julio de 2007, 5 de marzo de 2010  , sobre la mediación. Este caso, propio de una sucesión mortis causa, no sólo refleja un problema de atribuciones patrimoniales, sino un enfrentamiento familiar, que se vislumbra claramente en los escritos obrantes en autos, que podría haberse evitado yendo a la solución alternativa de la mediación, si las partes hubieran querido o la ley lo hubiera previsto, que no la hay, pero aparece cada vez más una corriente favorable a la misma, que ha tenido reflejo legal en la Directiva 2008/52  / CE del Parlamento Europeo y del Consejo, de 21 de mayo de 2008  , sobre ciertos aspectos de la mediación en asuntos civiles y mercantiles, en la Ley 15/2009, de 22 de julio, de la Comunidad Autónoma de Cataluña, de mediación en el ámbito del Derecho Privado, y en el Anteproyecto de Ley de mediación en asuntos civiles y mercantiles, elevado al Consejo de Ministros por el de Justicia el 19 de febrero de 2010 . En todo caso, puede la mediación, como modalidad alternativa de solución de conflictos, llegar a soluciones menos traumáticas que el dilatado tiempo que se invierte en el proceso y el acuerdo a que se llega siempre será menos duro que la resolución judicial que se apoya exclusivamente en la razonada aplicación de la norma jurídica”. Tribunal Supremo. Sala de lo Civil, Sentencia 324/10, in http://www.poderjudicial.es/search/doAction?action=contentpdf&databasematch=TS&reference=5609088&links=mediacion&optimize=20100603&publicinterface=true

[26] Mediationsgesetz (MediationsG) § 5 Aus- und Fortbildung des Mediators; zertifizierter Mediator

(1) Der Mediator stellt in eigener Verantwortung durch eine geeignete Ausbildung und eine regelmäßige Fortbildung sicher, dass er über theoretische Kenntnisse sowie praktische Erfahrungen verfügt, um die Parteien in sachkundiger Weise durch die Mediation führen zu können. Eine geeignete Ausbildung soll insbesondere vermitteln:

1. Kenntnisse über Grundlagen der Mediation sowie deren Ablauf und Rahmenbedingungen,

2.Verhandlungs- und Kommunikationstechniken,

3.Konfliktkompetenz,

4.Kenntnisse über das Recht der Mediation sowie über die Rolle des Rechts in der Mediation sowie

5. praktische Übungen, Rollenspiele und Supervision.

(2) Als zertifizierter Mediator darf sich bezeichnen, wer eine Ausbildung zum Mediator abgeschlossen hat, die den Anforderungen der Rechtsverordnung nach § 6 entspricht.

(3) Der zertifizierte Mediator hat sich entsprechend den Anforderungen der Rechtsverordnung nach § 6 fortzubilden.

[27] 1. Kenntnisse über Grundlagen der Mediation sowie deren Ablauf und Rahmenbedingungen,

2.Verhandlungs- und Kommunikationstechniken,

3.Konfliktkompetenz,

4.Kenntnisse über das Recht der Mediation sowie über die Rolle des Rechts in der Mediation sowie

5. praktische Übungen, Rollenspiele und Supervision.

[28] In America nel 2001 la “Conferenza nazionale dei commissari per l’uniformazione delle legislazioni degli Stati” ha predisposto una legge uniforme sulla mediazione (Uniform Mediation Act ) emendata nell’agosto del 2003. Si tratta di uno schema su norme di principio che gli Stati americani sono liberi di accettare e di integrare.

[29] Section 2.

[30] L’ADRA l’Administrative Dispute Resolution Act (1998)  emenda il Codice degli Stati Uniti con riferimento al Capitolo 28 parte terza inerente alla procedura civile e agli organi giudiziari. In sostanza la legge introduce nel Codice il capitolo 44 dedicato alla risoluzione alternativa delle dispute. Tale capitolo 44 (sezioni 651-658) costituisce ancora oggi la disciplina vigente e di riferimento negli Stati Uniti.

[31] Si tratta di ufficiali giudiziari che assistono il giudice nell’istruire il caso e possono giudicare direttamente alcuni casi penali e civili quando le parti vi consentono.

[32] Art. 3 lett. b).

[33] Art. 4 c. 2.

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (ventiquattresima parte)

Il capo IV delle Costituzioni titola “Del segno da portarfi  dagli Ebrei”.

Questo Capo era destinato ad impedire che Ebrei e Cristiani avessero tra di loro rapporti.

Il paragrafo 1 delle Costituzioni che riprende analoga norma emanata da Carlo Emanuele I il 15 dicembre del 1603[1] prevede che “Tutti gli Ebrei, ed Ebree, toftoché faranno giunti all’età di anni quattordici, dovranno portare fcopertamente tra’ il petto, e braccio deftro un fegno di color giallo dorato di feta, o di lana, e di lunghezza un terzo di rafo, talmente ché poffano manifeftamente diftinguerli da’ Criftiani, fotto pena di lire venticinque per ciafcuno, e per ogni volta, che contravverranno”.

Il paragrafo 2 pone un eccezione al precedente. “Saranno però difpenfati dall’obbligo di portar il detto Segno in tempo, che fi ritroveranno per viaggio, finchè non ritornino alla loro abitazione”.

Abbiamo visto che le origini dei segni distintivi sono romanistiche, ma trovarono nuovo vigore a seguito di alcune vicende avvenute in Oriente[2].

Nell’831 e.V. il califfo Ali al Wathek divenne nemico degli Ebrei, a causa delle fraudolente pratiche di cui furono riconosciuti colpevoli nella gestione delle finanze, durante il regno del suo predecessore, e in seguito al loro rifiuto di ricevere il Corano come vera ed autentica rivelazione.

Tutto ciò determinò che fossero pesantemente tassati e obbligati a pagare grandi somme all’erario.

Il califfo Motavel, che gli successe nell’845 e.V. fu ancora più severo: li costrinse ad indossare cinture di cuoio a titolo di distinzione, comandò loro di andare solo su asini e muli con staffe di ferro, e li privò di tutti i loro onori, titoli e uffici.

Il suo editto si diffuse in tutti i luoghi soggetti al dominio turco e di qui all’Europa[3].

Le leggi venete del XIV secolo richiesero un segno distintivo perché gli Ebrei potessero essere riconosciuti ed espulsi dalle adunanze dei Cristiani.

Nel Regno pontificio Innocenzo III richiese agli Ebrei di portare un qualche segno distintivo[4]; nel 1464 dovevano indossare un mantello rosso: ne erano esentati soltanto i medici[5].

Carlo V prescrisse agli uomini di indossare un cappello giallo e un pezzo di tela gialla alle donne[6].

Le Costituzioni di Sua Maestà del 1770 imporranno identicamente a quelle del 1729 di portare scopertamente tra il petto ed il braccio destro un segno di color giallo dorato di seta di seta o di lana, e di lunghezza un terzo di raso.

Nel Codice estense del 1771[7] viene comandato, con poche esenzioni, ai maggiori di dodici anni di portare nel cappello un nastro rosso alto un dito.

A Venezia sin dal 1396 gli Ebrei dovevano portare sul petto una “O” gialla grande come un pane che successivamente si mutò in una berretta gialla, poi in un cappello rosso ed infine in una tela nera cerata[8].

E l’elenco potrebbe purtroppo continuare.

Il Capo IV verrà abolito in Piemonte solo nel 1816 e così accadrà anche per lo Statuto Genovese e nelle Leggi toscane, ma restrizioni simili erano ancora in vigore nel Ducato di Modena nel 1848.

(Continua)


[1] Il paragrafo 1 verrà abolito solo con la legge 1 marzo 1816.

[2] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 48.

[3] W. F. MAVOR, Universal history, ancient and modern: from the earliest records of time, to the general peace of 1801, Volume 13, The history of dispersion of the Jews, Hopkins and Seimour, New York, 1804, p. 28.

[4] G. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, p. 14.

[5] Per concessione del pontefice Paolo II. Cfr. G. LEVI, op. cit., p. 204.

[6] Simile a quello delle meretrici che però era di colore bianco.

[7] Tit. IX par. XV del Codice estense del 26 aprile 1771.

[8] Annali di Statistica Serie Terza volume 9, Tipografia dei fratelli Bencini, 1884, p. 170.

Il principe fannullone e la principessa Angelica

Mille anni fa, ai tempi del gigante Forsebuono, viveva un principe che si chiamava Sicurodisé.

E precisamente nel castello d’oro di Fuoridalmondo, ai confini del favoloso reame di Siamotutticontenti.

In quei tempi remoti il popolo del reame di Fuoridalmondo era spesso distratto da tristi pensieri; e così Sicurodisé ignorava di essere principe, del resto i cortigiani non gli avevano insegnato a darsi delle arie.

Secondo i folletti il nostro principe passava l’intera giornata a pensare di non essere re, di non possedere un reame, un castello, una castellana, un cavallo, una mucca, una capra e una gallina. E le fate del Mondosuperiore aggiungono che Sicurodisé era anche profondamente infelice.

Ogni sera rivolgeva al buon Dio la stessa orazione: «Grazie Signore, anche questa giornata è passata, aiutami ad affrontare quella che verrà, se verrà come credo, perché non so davvero che cosa fare del mio tempo».

Dopo questa sentita preghiera il principe abbandonava lo sconforto ed apriva il grande frigorifero di corte, rifornito di tante cose appetitose.

Manco a dirlo Sicurodisé mangiava in fretta ogni cibo succulento che si trovava  davanti: formaggio della valle senz’erba, prosciutto di maiale delle ghiande d’oro, cioccolato al latte di balena e alla fine, solo per golosità, torte prelibatissime e dietetiche al cento per cento che preparavano gli gnomi pasticceri dei grandi magazzini del regno.

Tutte le notti all’arrivo del mal di stomaco si pentiva di essere stato così goloso e gli veniva il broncio, ma ormai era tardi per piangere sul latte versato (più che versato, ingoiato) e allora si addormentava di schianto con una pancia tanto piena che rischiava ogni volta di scoppiare.

Sicurodisé russava come una ciminiera («Le ciminiere russano?» si interrogano i folletti) e sognava di essere re, di combattere mille battaglie e di sconfiggere tanti nemici muscolosi e potenti. Ma erano solo sogni perché ormai era talmente grasso che non riusciva neppure a fare una breve passeggiata nel giardino delle tartarughe Senzazampe, figurarsi se poteva combattere.

 Nonostante ciò le fate del Mondosuperiore avevano in serbo un’incredibile sorpresa.

In una dolce mattinata di primavera Sicurodisé decise (chissà perché…) di avvicinarsi, non senza una po’ di fatica, ad una finestra del castello e vide con grande meraviglia che una bellissima principessa stava per attraversare lo stretto ponte levatoio della Vitaveloce.

Ella aveva i capelli lunghi lunghi e gli occhi grandi grandi; indossava un vestito rosa morbidissimo, trapuntato con mille stelle azzurre che facevano brillare e profumavano anche il pavimento su cui camminava. Naturalmente il principe dimenticò immediatamente tutti i suoi problemi: s’innamorò perdutamente della straordinaria visitatrice e senza perdere tempo – perché era diventato prezioso ai suoi occhi – volle riceverla nella sala del trono.

Sulle prime Angelica, così si chiamava la bella principessa, si sentì un po’ disorientata da tanto onore, ma era pur sempre di sangue reale e di conseguenza troppo fiera per dare peso alla cosa; così si sedette alla destra di  Sicurodisé proprio come se fosse stata a casa sua, o meglio nel reame di suo padre, il re dei Mondiastralichenonesistono.

Sicurodisé non fece molto caso ai modi confidenziali della principessa, preso com’era in un discorso che, secondo le sue previsioni, avrebbe dovuto incantarla. Pronunciò quindi queste strane parole: «Non sono re, né possiedo un castello, un cavallo, una mucca, una capra o una gallina, non so che cosa fare del mio tempo e sono sempre più grasso».

Lei lo guardò con aria interrogativa, vide che in testa portava una corona che aveva certo bisogno di una lucidata, ma che era pur sempre una corona. Osservò che il principe non era proprio in forma, così panciuto e ripiegato su se stesso, ma che era pur sempre seduto su di un trono.

«Quindi» si disse «i casi sono due: o questo re è completamente fuori di senno, ipotesi che mi rifiuto di prendere in considerazione, oppure si tratta di un servo che si è travestito da re nell’attesa che il suo signore rientri al castello».

Sicurodisé si era accorto che gli occhi della principessa luccicavano e così aveva creduto che anche Angelica si fosse innamorata di lui.

Ma la principessa dagli occhi grandi era solo e immensamente dispiaciuta e pensava: «Non posso aver fatto tanta strada per andare sposa ad un servitore, di conseguenza aspetterò nella locanda che il signore ritorni».

Detto fatto, Angelica prese congedo da Sicuro, con la scusa di riposarsi dal lungo viaggio sostenuto.  Il principe avrebbe voluto alloggiarla nel castello con il seguito reale, ma lei rifiutò con garbo.

Il motivo era semplice. La principessa era scossa da un terribile dubbio: «E se poi il signore tornasse mentre sono a tavola con un servitore, potrebbe mai credere che io sono la sua promessa sposa, o potrebbe pensare che non sono riuscita a distinguere un re da un servo? È decisamente più saggio aspettare alla locanda».

Così Angelica prese in affitto l’osteria delle Futurecertezze, un albergo a cinque  stelle e un pianeta, al confine del reame di Fuoridalmondo.

«Presto verranno gli ambasciatori» si diceva fiduciosa «per annunciarmi che il re è giunto e che mi attende con impazienza al castello».

E nell’attesa la principessa non stava certo in ozio, aveva tanti affari da sbrigare: al mattino si dedicava alle letture, perché era una fanciulla istruita.

I folletti ricordano che il suo libro preferito si intitolava Diventarericcainunminuto, ma le fate del Mondosuperiore non sono d’accordo e affermano che sfogliasse soprattutto e con piacere Esistoquandovadointv, un libro finto che aveva solo una copertina molto colorata. Tutti però sono concordi, anche le rane dello stagno secco, sul fatto che Angelica avesse tanti sogni e che fino a mezzogiorno era quasi sempre felice e sorridente.

Però nel pomeriggio la principessa cambiava completamente umore perché si dedicava alle faccende di suo padre, il re dei Mondiastralichenonesistono. Naturalmente questi era un sovrano assai importante e quindi pretendeva che la sua regale figlia diventasse una grande dama. Così la bambina Angelica non aveva un pomeriggio libero: i maggiordomi di corte la accompagnavano a scuola di danza dei cavallucci marini, alle lezioni di yoga cibernetico delle Winx, a quelle di cinese e mongolo del nord che potrebbe diventare presto la lingua dei Siamotutticontenti, e da ragazzina si era pure iscritta all’università di Senonmiparcheggiononsonoallamoda dove frequentava le famose lezioni del professore Lavorarestancamasenonlavoromiaddormento.

La notte era invece destinata alla mondanità: ogni sera però Angelica sceglieva un accompagnatore diverso, poiché uscire due volte con lo stesso principe l’annoiava mortalmente. Così era arrivata sul ponte levatoio con il cuore libero e leggero, mentre i suoi innumerevoli pretendenti si struggevano d’amore per lei e speravano a breve in un suo ritorno.

Anche Sicurodisé in gioventù avrebbe voluto movimentare un po’ la sua vita, ma la regina madre Sonoserenasenzadubbio aveva paura che si ammalasse e così non si era quasi mai mosso di casa, o per meglio dire di castello.

In verità una volta era andato alla spiaggia di Comesonoinforma, ma aveva rischiato di affogare perché non sapeva nuotare; quel giorno prese pure un’insolazione perché non aveva comprato la crema solare delle affascinanti lucertole Abbronzatedallalampada.

Un’altra volta Sicurodisé tentò di giocare a pallone con i terribili furetti, colpì la palla di testa e svenne mentre le fate del Mondosuperiore si coprivano gli occhi per il dispiacere.

Passò poi un secolo e Sicurodisé si prese un brutto raffreddore: la regina lo rimproverò perché tanti anni prima aveva osato giocare al pallone; certamente questa imprudenza aveva provocato quella spiacevole malattia.

Anche il principe come la principessa Angelica cercò di farsi un’istruzione, ma il primo giorno di università mangiò del formaggio avariato e gli venne la febbre per un anno intero (ma come già sappiamo rimase comunque goloso).

A quest’epoca non si spaventava tanto facilmente e anche se un poco malaticcio, si appassionò alla costruzione delle città: voleva diventare un famoso disegnatore di strade, cosa che gli sarebbe pure servita se avesse saputo di avere un regno, ma il famoso professore Costruiscotuttoio morì inseguito dai batteri del Mondosconosciuto e con lui finirono anche i sogni di Sicurodisé.

E iniziarono gli incubi. Il principe volle trovare ad ogni costo un lavoro e pure una moglie che gli piacesse almeno un poco. Non si sa bene perché gli vennero queste idee, forse perché non sapeva di essere re, ma i furetti non ne sono sicuri.

Di certo non si era mai visto prima che un principe volesse lavorare, tantomeno nel reame di Fuoridelmondo: qui sgobbano solo gli gnomi, ma per ingordigia di denaro, non perché ne abbiano davvero necessità. Ed i sudditi servono il sovrano: anche questo è un modo serio di occupare il tempo, ma non si guadagna nulla.

Né era mai capitato nel reame di Fuoridelmondo che un principe si fosse sposato per sua volontà: il matrimonio ai tempi lontani di Sicurodisé era preparato con larghissimo anticipo dalla corte che pensava solo alle ricchezze della futura regina; che i promessi sposi si piacessero almeno un po’ non interessava poi a nessuno, pare neppure a loro; o meglio importava forse alle fate del Mondosuperiore, ma perché sono spiriti inguaribilmente romantici.

Sicurodisé era così insistente che addirittura il giorno del Gufotriste la regina madre Sonoserenasenzadubbio chiamò a raccolta ogni servitore di corte compresi i giardinieri del Desertosecco. Pensarono che dovesse trattarsi di un’occasione importante: non era mai accaduto che a castello si facesse una riunione il 30 di febbraio; era risaputo che in quella data non uscissero dalle tane nemmeno gli Orchi delle Forestenere.

La regina madre ordinò che si scrivesse un editto col prezioso inchiostro dei Topiselezionatori e che la fine pergamena venisse consegnata al Gatto e alla Volpe che erano furbissimi e assai fidati.

Sonoserenasenzadubbio desiderava che il suo volere andasse – con la dovuta calma – un po’ in giro per il reame, almeno fino al giorno del Gufoallegro che, come tutti sanno, giunge ogni venti anni, se giunge. I folletti giurano che anche da lontano si potesse leggere questa frase: «Il principe Sicurodisé vorrebbe lavorare, ma solo per finta e quindi senza essere pagato».

I sudditi in verità non sapevano leggere, ma il Gatto e la Volpe si misero d’impegno con le chiacchiere e così davanti al portone del castello si formò una lunghissima processione di mendicanti che cercavano consigli gratuiti oppure che chiedevano denaro o ancora che facevano tutte e due le cose.

Sicurodisé li ricevette nella sala del trono con tanto entusiasmo. Ma lavorare gratis lo stancava mortalmente. Il giorno degli Allocchi si fece avanti tra la folla la Nanabaffuta. Povera donna aveva le gambe storte e contorte e una pancia quasi pari a quella del re che era ben più alto. Veniva dal paese degli Assetati, un reame vicino a quello di Fuoridalmondo. Gli abitanti di questo luogo fantastico erano perennemente ubriachi. Per la gran sete avevano prosciugato i ruscelli, i fiumi e i laghi e quindi si erano ridotti a bere vino e birra (il latte provocava loro un’intollerabile acidità di stomaco).

La Nanabaffuta non si reggeva molto bene in piedi, ma trovò comunque la forza di presentarsi: «Io sono la principessa Nanabaffuta trasformata in donna per il bacio di un principe astemio (prima ero una coppa di spumante). Posso proporti di arrivare alle stelle e di diventare re o imperatore se mi seguirai nel reame degli Assetati».

Sicurodisé rimase folgorato da tali e illuminanti propositi e in un battere di ciglio lasciò la corte – che tanto non sapeva di possedere – per correre verso il reame degli Assetati (si fa per dire “correre” visto il peso del principe  e le gambe malferme della Nanabaffuta).

Comunque sia l’entusiasmo durò poco. La Nanabaffuta non era una vera principessa, ma solo una convinta partecipante al concorso di Lacchédell’anno. Superfluo aggiungere che arrivò ultima e venne pure esiliata con un cappello da Asino nel paese degli Affamati. Sicurodisé non poté che tornare a casa con la coda tra le gambe. «Meglio fare il pensatore» si disse «che lavorare senza paga in un paese straniero».

Il termine “pensatore” gli piaceva di più rispetto alla parola “fannullone”, ma sapeva benissimo che in barba alle sottigliezze linguistiche non aveva più voglia di fare niente.

Ma torniamo alla nostra principessa Angelica. Un giorno arrivarono all’osteria delle Futurecertezze gli ambasciatori di Sicurodisé e la pregarono di recarsi al castello con tutto il seguito; dapprima la principessa rifiutò l’offerta: le era stato, infatti, insegnato che una dama del suo rango dovesse farsi desiderare; ma in seguito ad una nuova ambasciata decise di presentarsi con tutta la tranquillità e la faccia tosta di cui disponeva, una settimana dopo il giorno pattuito.

Il principe naturalmente era molto triste poiché, tanto per movimentare le solite riflessioni, cercava di spiegarsi gli strani comportamenti della principessa e ripeteva tra sé: «Sarà perché non sono re né ho un reame, un cavallo, una mucca, una pecora, una gallina eccetera, eccetera che la mia bella fanciulla è tornata sui suoi passi? Ahimè, perché in aggiunta alla mia miseranda condizione doveva succedermi di cadere innamorato?» Dunque da qualche tempo aggiungeva alle sue orazioni serali pure quest’ultima considerazione; cosicché lo stesso buon Dio stava perdendo la pazienza oltre che la speranza di trovare a Sicurodisé un’identità che fosse di suo gradimento o di cui, perlomeno,  Sicuro potesse essere consapevole.

La principessa, dal canto suo, salì al castello nella più assoluta convinzione di trovare il re finalmente ritornato dalla battaglia; entrò nella sala del trono, a occhi socchiusi, per pregustare quella che sarebbe dovuta essere di lì a poco una meravigliosa realtà: l’incontro col suo signore, un fusto palestrato alto due metri, con gli occhi azzurri, i capelli biondi e soprattutto con lo sguardo fascinoso e glaciale.

E’ superfluo descrivere la delusione di Angelica quando, aperti gli occhi, si ritrovò davanti il medesimo individuo sempre più grasso e ripiegato su se stesso e che tra l’altro non aveva nemmeno uno dei requisiti minimi da lei tanto immaginati.

«Mia signora sono contento che siate venuta a trovarmi» incominciò a dire il principe «ma come mai siete così giù di morale? Sarà forse perché non sono re, né possiedo un reame, un castello, un cavallo, una mucca, una pecora, una gallina eccetera, eccetera? questo è vero purtroppo, però potrebbe supplire il mio amore… sì perché io vi amo dal più profondo del mio cuore…»

 Sicuro si aspettava di essere ricambiato con le parole rosse di un eterno amore, ma la poverina incominciò a correre come una pazza e guadagnò l’uscita in un baleno. Giunta sul ponte levatoio della Vitaveloce Angelica perse una scarpetta e ruppe il tacco dell’altra, così inciampò rovinosamente e cadde nel fossato dove vivevano i terribili coccodrilli reali.

Ma i coccodrilli avevano appena mangiato e stavano digerendo: quindi non la degnarono di uno sguardo; si sa che questi feroci animali quando digeriscono hanno gli occhi pieni di lacrime.

Così Angelica, per quanto bagnata, poté risalire sul ponte levatoio con una certa facilità: le stelle del suo vestito però non luccicavano più ed il rosa era diventato grigio; i capelli sembravano quelli della regina madre dopo una tempesta tropicale e gli occhi grandi grandi erano diventati piccoli e tristi.

Sicurodisé che nel frattempo era stato trasportato sul ponte levatoio non la riconobbe, e anzi la scambiò per la Nanabaffuta e impietosito le fece l’elemosina. Angelica si offese molto e disse con un filo di voce al principe: «Come è possibile? La vostra maestà non mi ha riconosciuto?»

«A dire il vero pensavo che fossi la Nanabaffuta ritornata dal paese degli Affamati» rispose  Sicuro che non era certo un campione di delicatezza.

«Ma vedo che c’è una scarpetta qui sul ponte levatoio: concedimi il tuo piedino e vedrai che se la calzerai non te ne pentirai».

Angelica non aveva alcuna intenzione di indossare la scarpetta, e anzi voleva tornare in tutta fretta nel reame dei Mondiastralichenonesistono.  Là c’erano bellissimi principi che attendevano e che, a guardare meglio, avrebbero potuto anche renderla felice.

Così disse a Sicuro: «Maestà sono davvero lusingata per il suo regale invito, ma devo tornare al più presto nel mio regno perché mio padre, il re dei Mondiastralichenonesistono, si è ammalato gravemente insieme a tutta la corte». Di solito Angelica non raccontava le bugie e quindi le crebbe il naso a dismisura con grande dispiacere delle fate del Mondosuperiore. La principessa diventò rossa e rossa e per scusarsi aggiunse: «Un giorno tornerò in questo reame e mi piacerebbe… mi piacerebbe che nell’attesa Vostra Maestà facesse un po’ di sport; anzi al proposito avrei da consigliare la famosa palestra Chidigiunadimagriscedisicuro».

Dice la fiaba che i furetti erano molto contrariati per quest’altra bugia condita con un crudele consiglio e quindi inventarono il proverbio “Moglie e buoi dei paesi tuoi”.

Ma Sicurodisé fu colto semplicemente da stupore e non seppe che rispondere, né si accorse che Angelica era stata poco sincera: il principe aveva, infatti, gli occhi foderati da un delizioso prosciutto di cinghiale che aveva ingoiato a colazione.

Così, partita la principessa, a Sicurodisé non rimase che cadere nelle meditazioni che ci vengono suggerite dagli gnomi: il principe era molto triste perché aveva confuso la Nanabaffuta con una principessa e la principessa Angelica con la Nanabaffuta; le uscite dal reame erano state poi disastrose e non aveva neppure imparato a lavorare gratis, cosa che invece riusciva benissimo persino ai sudditi del reame.

Il bilancio non era insomma di conforto, ma rimaneva però il caro pensiero di non essere re, di non possedere un reame, un castello, una castellana, un cavallo, una mucca, una capra e una gallina.

Questa occupazione non lo tradiva mai e in fondo lo aiutava ad ammazzare il tempo e poi c’era sempre il fornitissimo frigorifero di corte e i successivi pentimenti che lo facevano sentire vivo. Ma le fate del Mondosuperiore sussurrano che in realtà Sicurodisé pensasse alla promessa della principessa. Fatto sta che si iscrisse in palestra e il frigorifero reale rimase sigillato. Così tutti vissero felici e contenti nell’attesa del ritorno della principessa.

Ma la principessa Angelica non ritornò.

In effetti lo sanno anche le frivole cicale del Pratosempreverde che le principesse ritornano solo nelle favole.

E dunque  Sicurodisé  e tutti gli altri (tutti chi poi?) non vissero poi così felici e contenti.

Il nostro principe continuava come solito a ripetere:  <<Non sono re, né pos­sie­do un castello, un cavallo, una mucca, una capra o una gallina, non so che cosa fare del mio tempo, sono sempre più grasso ed ora pure disilluso>>.

Il frigorifero era senza lucchetto ormai dal giorno dei Buonipropositi che veniva tutti i giorni e anche nelle notti buie.

Il medico di corte non gli prescriveva nemmeno più le analisi del sangue, perché la regina madre  Sonoserenasenzadubbio era fortemente depressa e si era convinta di avere un figlio di 15 anni e di 60 chilogrammi:  Sicurodisé di anni ne aveva 50 e ne dimostrava 80, pesava 200 chili ad essere ottimisti come lo sono le Fate del Mondosuperiore.

Così non si poteva andare avanti, ma nemmeno indietro in verità perché Sicurodisé ormai usciva dal palazzo solo in portantina ed il falegname del regno doveva fare il doppio lavoro per costruirne sempre di più imponenti.

In compenso i portantini facevano quasi sempre sciopero perché ricevevano lo stipendio solo quando il re digiunava, cosa che non accadeva ormai da mille anni  e dunque Sicurodisé rimaneva lunghe ore ripiegato sul trono sempre più instabile: il poveraccio attendeva che qualcuno passasse sul ponte levatoio e venisse a omaggiarlo.

Si era fatto pure installare un monitor di sessanta pollici  per controllare la posta elettronica e si era ammalato di epicondilite a forza di schiacciare il tasto di ricezione.

Ma arrivavano solo messaggi che lo facevano arrabbiare: c’era chi voleva vendergli una quota della vita eterna, chi un lavoro da un milione di dollari che però lui doveva anticipare, chi le pillole miracolose dei famosi Ciccionisnelli che fanno dimagrire i magri ed ingrassare i grassi e così via.

La tecnologia insomma non faceva per lui, era meglio tornare alle lettere scritte a mano, sì, ma a chi scrivere?

Forse alla principessa Angelica nel reame dei  Mondiastralichenonesistono?

Poteva essere un’idea in fondo, una come tante altre: “Cara principessa Angelica, da quando sei partita sento un grande vuoto che solo il frigorifero mi aiuta a colmare e gli gnomi pasticceri dei grandi magazzini del regno. Le torte sono molto buone in realtà, ma io mi sento un po’ triste e non ne conosco il motivo, forse  perché non sono re, né possiedo un castello, un cavallo, una mucca, una capra o una gallina, non so che cosa fare del mio tempo, sono sempre più grasso ed ora pure disilluso? Non te lo so dire, ma fatto sta che anche la posta elettronica mi annoia a morte, vogliono sempre spillarmi dei quattrini e come tu ben sai io sono pure disoccupato, oltre che grasso. A proposito in palestra non ci sono proprio andato, ci va un paggetto al posto mio,  ma ora sono venuti tempi di crisi e mi sa che dovrò disdire l’abbonamento. P.s. Quando torni da me?”.

La lettera fu naturalmente scritta col prezioso inchiostro dei Topiselezionatori e venne consegnata al Gatto e alla Volpe che erano sempre  furbissimi, ma non così fidati come prima, visto che Sicurodisé non era riuscito a trovare un impiego nemmeno dopo aver chiesto di lavorare gratis, ma forse era colpa del giorno del Gufoallegro che giunge ogni vent’anni se giunge.

Comunque sia la reale pergamena partì dal reame di Siamotutticontenti e per una serie di combinazioni fortuite raggiunse davvero la principessa Angelica che però, come sanno pure i folletti ciechisenzaorecchie, era troppo indaffarata a postare video su  Pontelevatoio.king e non aveva tempo di leggere le lettere, a dire il vero era pure diventata allergica alla carta e quando doveva annotare qualche cosa di importante preferiva scattare una foto col telefonino reale.

La lettera di Sicurodisé rimase quindi circa un secolo sulla scrivania e gli acarindisturbati fondarono sulla busta  una nuova  e proliferante città, poi avvenne un fatto strano: la  principessa starnutì a 160 chilometri all’ora imprecando contro l’aumento ingiustificato degli I-POD, vide che la lettera era così impolverata che ormai aveva cambiato colore e la buttò nel fuoco.

Dobbiamo dire che lo Spirito del focolare si impietosì e decise apparire in sogno al principe fannullone,  naturalmente al posto della principessa.

Sicurodisé una notte si addormentò dopo aver trangugiato un cosciotto di montone fritto e sognò appunto di ricevere un dispaccio dallo Spirito del focolare che si era travestito da playstation giapponese taroccata e diceva: ”Sono lo Spirito del focolare della principessa Angelica, purtroppo la sua lettera, regale Maestà, è andata perduta, ma non disperi perché l’increscioso incidente è successo per caso, in verità la principessa è allergica alla carta; Ella dovrebbe  avere la pazienza di trovare un metodo di comunicazione più sterile: le consiglierei di riprovare con un social network, magari Pontelevatoiopuntoking”.

Quando si sveglio  il principe convocò subito l’oracolo di corte per sapere se il sogno nascondesse un triste presagio.

Dopo lungo consulto l’oracolo svelò, non senza qualche timore, il complicato enigma: ”Maestà la nostra risposta non piacerà alle sue orecchie regali: per accedere a Pontelevatoiopuntoking  ci vuole la carta di credito”.

Il responso gettò Sicurodisé nello sconforto più assoluto, perché non si era mai visto un principe con la carta di credito:  i reali a quel tempo mica andavano a fare shopping…

“Caro oracolo, ma sei certo di questo responso? Nemmeno Angelica possiede una carta di credito…ne sono sicuro”.

“Certo che non ce l’ha, ma le donne su  Pontelevatoiopuntoking non pagano come in discoteca…” replicò l’oracolo fattosi più baldanzoso.

“Va bene, magari mi iscriveranno a credito, in fondo tra qualche secolo potrei anche diventare re…”pensò il principe fannullone, ormai già sulla pagina dell’iscrizione.

Una scritta sembrava donare una qualche speranza: ”Per iscriverti gratis clicca qui”.

Sicurodisé non se lo fece chiedere due volte e cliccò:  si aprì una pagina con 570 domande.

Pensò che si trattasse di una altro test psicologico: ne aveva appena compilato uno, si vede che andavano di moda. Ma le domande erano assai più complicate.

Ascolti abbastanza o spesso la musica tirolese?” Lo mandò subito in crisi perché non sapeva decidersi sugli avverbi.

Di fronte ai quesiti “Ti piacerebbe fare il giardiniere?” e “Sei appassionato di riviste di modellismo?” si chiese se il mondo stesse cambiando e se anche i nobili dovessero avere certe inclinazioni.

Ma anche “Sei magro o falso magro?” proponeva un dilemma niente male. In assenza di specchi a palazzo optò per il falso magro.

La domanda numero 570 fu quella di svolta, stranamente aveva pure la spiegazione: “Hai la carta di credito? Pigia sì se vuoi conoscere tante belle principesse, pigia no se vuoi rimanere iscritto ”.

A lui interessava solo la principessa Angelica, e dunque cliccò no.

Comparve allora una scritta: “Complimenti, sei iscritto a  Pontelevatoiopuntoking. Digita il numero di carta di credito se vuoi accedere al database, contattare qualcuno o essere contattato”.

Lunga è la strada e stretta la via, viva Sicuro che si mangiò pure sua zia.

Un rettilineo infinito

Ero ed ora sono

per sempre esisto

in fondo all’ultima

curva un rettilineo

ancora infinito

gelato od infuocato

che sia poco importa

se posso proiettarci

questo mio silenzio

che esce dagli occhi.

Dio mi ritroverà

piccola luce

curiosa dell’eternità.

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (ventitreesima parte)

Il Capo III è intitolato “Che non poffano gli Ebrei Acquiftare Beni ftabili”.

Sua Maestà Vittorio Amedeo II non desiderava che gli Ebrei acquistassero beni immobili, sotto pena in contrario della confisca; se per caso ne venissero in possesso perché il loro debitore non fosse solvibile dovevano rivenderli entro un anno a persone capaci di acquisto[1].

Il paragrafo 2 del Capo III stabilisce inoltre che “

Saranno altresì fotto la fteffa pena tenuti ad alienare que’ Beni, che prefentemente poffedono un’anno dopo spirate, che fieno le loro rifpettive condotte[2].

 Abbiamo detto che i rapporti col potere erano regolati da una condotta che era a tempo determinato e dunque questa norma conferma l’idea che gli Ebrei stanziati sul territorio dovessero continuare ad essere considerati stranieri.

Già presso i Romani il divieto di possedere beni stabili dipendeva dal fatto che esclusivamente il cittadino che godesse dei pieni diritti civili e politici poteva appropriarsene.

I popoli delle invasioni barbariche ritenevano poi che solo l’arimano, ossia l’uomo libero (e giammai la donna) poteva possedere beni immobili.

Con l’affermarsi delle grandi Monarchie che si basavano sul feudalesimo e sulla teocrazia, si ritenne che la proprietà fondiaria potesse acquistarsi solo con una investitura data dalla pubblica autorità; la padronanza assoluta del territorio in capo al sovrano era principio del diritto pubblico.

Poi si corresse un poco il tiro per evitare l’arbitrio, e si  considerò in capo al Principe il solo dominio eminente[3], ma esso bastava allo stesso per concedere o negare discrezionalmente agli stranieri la facoltà di possedere terreni od altri beni immobili nel suo territorio.

I sovrani sabaudi peraltro addussero anche una ragione insuperabile per non concedere il possesso di beni immobili ai Giudei: essi restavano stranieri e non potevano diventare cittadini perché non osservavano la religione di Stato che era quella cattolica.

E non potevano avere diritti perché non possedevano beni immobili.

Come appartenenti ad una nazione nomade estranea alla società cristiana,  anche quando  divennero sudditi, ebbero sempre diritti limitati come la plebe o i clientes romani che seppure considerati membri dello Stato non possedevano alcuni diritti[4].

Solo con un editto del 1572 venne concesso agli Ebrei di possedere beni immobili nei domini sabaudi, ma poi questa facoltà venne ristretta ai soli Ebrei di Nizza e poi anche tra loro solo ad alcune famiglie[5].

Si tenga però presente che l’interdizione dall’acquisto dei beni stabili non valeva per la categoria dell’Ebreo di Corte (hofjude) e ciò rientra nella mentalità che appunto conservava al Principe discrezionalità sul concedere o meno beni stabili. Benché l’Ebreo di corte appartenesse per sangue, per convinzione e per confessione al genere ebreo, formava tuttavia una specie a parte e assai distinta.

L’hofjude poteva, infatti, abitare ovunque vi fossero ebrei, comprare case d’abitazioni, vendere merci all’ingrosso e al minuto, formare con altri una Comunione, scegliersi il rabbino, avere Sinagoga e cimitero: tutte facoltà che per gli altri ebrei erano sottoposte a mille ostacoli e inceppate da mille restrizioni. L’hofjude inoltre era dispensato di portare sugli abiti il distintivo imposto agli altri ebrei[6].

Il divieto di acquisto e l’obbligo in ogni caso di rivendita verranno confermati con le leggi e le Costituzioni di Sua maestà del 1770, con le leggi patenti  del 1° marzo 1816[7] e 15 febbraio 1822[8] e con l’art. 28 del Codice civile sardo del 1837.

La ragione ottocentesca del divieto di acquisto risiederà nel fatto che i sovrani temevano il potere economico degli Ebrei, e che in particolare avrebbero potuto acquistare buona parte del territorio determinando uno squilibrio sociale.

La regola inerente la rivendita del bene immobile ipotecato venne posta invece perché i proprietari che ricorrevano all’usuraio sapendo di non poter rimborsare il debito preferivano lasciarli incolti e quindi ne scapitava l’economia e del resto gli Ebrei, non sapendo quanto tempo sarebbero rimasti su un dato territorio, non avevano alcun incentivo a far coltivare beni di possesso precario [9].

Sta di fatto che ancora nel 1848 i Giudei piemontesi non potevano acquistare beni immobili pena per alcuno la nullità[10] del contratto e comunque la confisca[11] trascorso il termine per la rivendita.

Era però loro lecito ricavare dagli immobili l’usufrutto, i diritti di albergamento, avere l’investitura dei diritti enfiteutici, effettuare locazioni[12] perpetue o trentennali, acquistare diritti reali (ipoteca)[13], redigere compromessi di vendita perché esso non trasferisce né il possesso, né il dominio ed acquistare[14] ai pubblici incanti beni immobili in nome e per conto di altri con dichiarazione per persona da nominare.

Agli Ebrei si riconosceva infine il diritto di kasagà in base a cui il padrone di una casa affittata ad un ebreo non era libero di locare ad altri israeliti. Ciò però poteva portare ad abusi ed allora ad un certo punto si ritenne solidalmente responsabile l’università locale ebraica per le pigioni che l’ebreo non avesse voluto corrispondere dopo aver impedito al padrone una successiva locazione[15].

Meno di cent’anni dopo con l’art. 10 del regio decreto 17 novembre 1938, n. 1728[16] Vittorio Emanuele III, ribadirà tristemente lo stesso divieto di acquisto e decreterà che “I cittadini Italiani di razza ebraica non possono… d) essere proprietari di terreni che, in complesso, abbiano un estimo superiore a lire cinquemila; e) essere proprietari di fabbricati urbani che, in complesso, abbiano un imponibile superiore a lire ventimila. per i fabbricati per i quali non esista l’imponibile, esso sarà stabilito sulla base degli accertamenti eseguiti ai fini dell’applicazione dell’imposta straordinaria sulla proprietà immobiliare di cui al R. decreto-legge 5 ottobre 1936-XIV, n. 1743>>.

Inascoltata fu dunque la invocazione della dottrina ottocentesca che nel 1848 prendeva come modello Pio IX perché aveva emancipato gli Ebrei dalle antiche interdizioni[17] e che si augurava che Carlo Alberto avesse da preparare all’Italia più splendide sorti[18].

Del resto anche l’Inghilterra aveva concesso agli Ebrei in quegli anni di diritti politici e la stessa Prussia era sulla buona strada:  quindi c’era ottimismo.

L’unità della nazione era considerata cosa necessaria poiché solo in “un patto di Concordia che produce l’UGUAGLIANZA avanti la legge tra i cittadini, sta il RISORGIMENTO d’ITALIA[19].


[1] Il paragrafo 1  stabilisce che “Non farà lecito agli Ebrei di far acquifto de‘ Beni ftabili ne’ Noftri Stati, fotto pena della confifcazione di effi, e se in occafione di qualche efecuzione fopra i Beni del Debitore saranno aftretti a prenderne in pagamento, vogliamo, che paffato il termine del rifcatto, fieno tenuti alienarli a Perfone capaci un’anno dopo, fotto la medefima pena”.

[2] Meno rigoroso era il re di Sardegna Carlo Felice con riferimento alla Liguria aveva fissato nelle Regie Patenti del 1816 un termine quinquennale per la restituzione. Cfr. Gazzetta di Genova n. 20 di Sabbato 22 marzo 1822.

[3] Facoltà di far uso e di disporre del territorio, ma non in modo vietato dalla legge.

[4] Non quelli di cittadinanza attiva, né il connubium.

[5] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 100 e ss.

[6] G. LEVI, Op. cit., p. 267.

[7] Che estese a cinque anni il termine per la rivendita dei beni ipotecati

[8] Con cui si dispose che i beni immobili rimasti invenduti al 1824 (ossia acquistati durante il dominio francese) dovevano consegnarsi allo Stato perché li mandasse all’incanto. Le prescrizioni del 1816 e del 1822 invece non si estenderanno alla Liguria perché si trattava di leggi reali e quindi del territorio del solo Piemonte.

In Liguria, infatti, il territorio da occupare era così trascurabile che sarebbe stato sciocco preoccuparsi degli acquisti ebraici.

[9] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 82.

[10] Secondo questa dottrina non poteva però essere invocata dalle parti contrattuali, ma solo dal Fisco perché vi era una lesione di un principio di ordine pubblico. Tuttavia né nelle Regie Costituzioni, né nella normativa successiva vi è qualche riferimento alla nullità.

[11] C. CATTANEO, Ricerche economiche sulle interdizioni della legge civile agli Israeliti, op. cit., p. 15. Peraltro il principio era così radicato anche negli altri paesi che ancora nel 1836 gli Ebrei dimoranti in Svizzera che avessero voluto acquistare un terreno in Basilea avevano come unica scelta quella di diventare cittadini francesi.

[12] Si aggiunge però che siccome i Cristiani non potevano abitare nel ghetto dovevano locare gli immobili di cui eventualmente fossero proprietari in esso agli Ebrei stessi.

[13] Dai beni stabili andavano distinti i diritti stabili che erano di libera appropriazione per gli Ebrei, così si potevano ottenere le piazze dei farmacisti o dei causidici. L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 107. In Modena era invece possibile acquistare i siti per i cimiteri e filatoi per lavorare la seta. Tit. IX par. XVII del Codice estense del 26 aprile 1771.

[14] Per la dottrina, ma non per la giurisprudenza.

[15] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 121 e ss.

[16] In Gazz. Uff., 29 novembre, n. 264). – Provvedimenti per la difesa della razza Italiana. Il decreto verrà abrogato dall’articolo 1 del R.D.L. 20 gennaio 1944, n. 25.

[17] Il papa aveva stabilito che potessero vivere nei rioni contigui al ghetto e che potessero anche far parte della Guardia cittadina.

[18] “Ora l’astro di Carlo Alberto e di Pio IX è sull’orizzonte”. L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 170.

[19] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 167.

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