Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (ventiduesima parte)

La Costituzioni piemontesi prevedevano dunque il divieto di costruire nuove sinagoghe, restando possibile il solo restauro.

Il paragrafo 1 Capo II riprende la regola degli Statuti Sabaudi del 1430: “Non potranno gli Ebrei edificare, né in veruna forma fondare nuove Sinagoghe, o ampliare, quelle, che aveffero, ed in ogni cafo contrario gli Uffiziali Noftri far demolire fubito quanto si foffe ampliato, e nuovamente edificato, permettendo loro nondimeno di riftaurare, e riparare quelle, che si trovano in effere”.

È Teodosio II nel 438 e.V.[1] a stabilire il divieto di costruire nuove sinagoghe o di abbellirle: in caso di trasgressione la sinagoga era trasformata in chiesa e a ciò si sommava un’ammenda di 50 libbre[2].

Anche Giustiniano riprese il principio “…ordiniamo che alcuna giudaica sinagoga non sorga per novella fabbrica: dato il permesso di rifare le antiche che minacciano ruina[3].

Le sinagoghe dovevano apparire in altre parole trasandate, vecchie, repellenti[4], in stridente contrasto con la maestosità e la bellezza delle chiese.

Chi al tempo di Giustiniano avesse costruito nonostante il divieto una sinagoga, avrebbe lavorato in realtà a favore della Chiesa cattolica, venendo adibito il manufatto a chiesa, anziché a sinagoga; e chi non si fosse limitato a riparare una sinagoga preesistente sarebbe stato privato dell’edificio e punito con una multa di 50 libbre[5].

Sino al 423 e.V. per la verità non poteva mutarsi la destinazione delle sinagoghe né in senso pagano, né in senso cristiano e lo stesso Giustiniano poi deciderà di mutare personalmente la destinazione a due sinagoghe.

Il divieto di edificazione nella storia non è stato però così rigido perché con il permesso del Papa o del Re era stata possibile anche la fondazione.

Si provvedeva all’edificazione per gli stessi motivi per cui ciò avvenne nella Palestina giustinianea: se gli Ebrei in un dato luogo erano molti e se soprattutto si potevano permettere l’edificazione.

Dato che si trattava di culto tollerato non si poteva alzare strepitosamente la voce durante il culto.

Il paragrafo 2 del Capo II limita in altre parole le modalità dei loro riti.

Si guarderanno d’alzare ftrepitofamente le voci nell’efercizio de’ loro Riti, ma faranno obbligati ad efercitarli con tuono modefto, e sommeffo”.

Già Gregorio Magno riteneva che fosse lecito occupare le sinagoghe quando l’eco dei canti si sentisse nelle Chiese vicine[6].

La legislazione che regge in casa sabauda a distanza di più di mille e trecento anni  cercava dunque pur sempre di rendere la religione ebraica poco allettante e di spingere i Giudei ad abbracciare non più il culto dell’Imperatore, ma comunque la religione cattolica[7].

Questi principi che vigevano anche a genova domineranno ancora la legislazione dell’Ottocento che richiamava gli usi ed i regolamenti sotto i quali l’osservanza del culto era tollerato[8].

Agli Ebrei in Genova si vietava però di partecipare ai culti cristiani in forza di una Bolla di Clemente XI del 1703, ma in Piemonte non vigeva tale osservanza[9].

Inoltre in osservanza delle prescrizioni del Consiglio di Trento si riteneva che gli Ebrei potessero avere diritto di asilo nelle chiese cattoliche, nei casi in cui era concesso ai Cristiani[10].

(Continua)


[1] Novella 3 del 31 gennaio.

[2] Anche se si poteva ricostruire la sinagoga distrutta (C.TH. XVI. 8. 25 e 27 del 423 e.V.) e rinforzare quella che stava per crollare (con Teodosio II e Valentiniano nel 39. C. I. 9. 18)

[3] C. 1. 9. 18. (19)

[4] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, Giuffré, Milano, 1988, p. 783.

[5] C. 1. 9. 18. (19)

[6] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, Giuffré, Milano, 1988, p. 691.

[7] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, Giuffré, Milano, 1988, p. 40.

[8] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 57.

[9] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 61.

[10] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 62.

[11] Il paragrafo 1  stabilisce che “Non farà lecito agli Ebrei di far acquifto de‘ Beni ftabili ne’ Noftri Stati, fotto pena della confifcazione di effi, e se in occafione di qualche efecuzione fopra i Beni del Debitore saranno aftretti a prenderne in pagamento, vogliamo, che paffato il termine del rifcatto, fieno tenuti alienarli a Perfone capaci un’anno dopo, fotto la medefima pena”.

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (ventunesima parte)

Il Capo II è intitolato “Che non poffano gli Ebrei fabbricare nuove Sinagoghe, né alzare la voce nelle loro Uffiziature.”

Ancora nel 1848 si riteneva che il mosaismo fosse un culto tollerato.

Si considerava tollerato un culto di cui non era lecito l’esercizio in pubblico, ma che si permetteva perché ciò consentiva di evitare maggiori danni.

Così dove non c’erano sinagoghe si permetteva che gli Ebrei potessero raccogliersi in case private[1]: ciò corrispondeva del resto ad un uso antico, visto che sino al III secolo e.V. non esistevano le sinagoghe in quanto edifici.

Ma questo permesso era concesso a patto che non partecipassero alle cerimonie Cristiani o Cristiane.

L’interdetto relativo ai Cristiani affonda le sue ragioni nel Concilio di Antiochia convocato da Costantino nel 341 e.V.

Nacque dall’intento di impedire che la comunità giudaica di Antiochia che era una delle tre comunità ebraiche maggiori del mondo antico, potesse continuare ad attrarre i Cristiani.

All’epoca questi ultimi si rivolgevano al tribunale della sinagoga perché ritenuto più giusto; pronunciavano giuramenti nella sinagoga perché li ritenevano maggiormente vincolanti.

Gli Ebrei erano ritenuti abili medici ed esorcisti. Le cerimonie ebraiche erano accompagnate dalla musica, incenso e cerimonie di grande effetto che avevano presa sui Cristiani i quali sostanzialmente si recavano nella sinagoga come se andassero a teatro.

I Cristiani partecipavano anche ai digiuni ebraici e mangiavano il pane azzimo[2].

Sia il concilio di Antiochia, sia quello di Laodicea impongono la scomunica per chi partecipa a pratiche giudaiche o alle feste degli Ebrei[3].

Siccome poi gli Ebrei dovevano rispettare il sabato, accadeva spesso che i Cristiani accendessero i lumi in questo giorno nella sinagoga o nelle case ebraiche, cosa che la Chiesa non poteva tollerare tanto che li considerò gesti di superstizione[4] che comportavano l’allontanamento dalla Comunione.

Già nel Concilio di Nicea del 325 si era peraltro stabilito il divieto di celebrare la Pasqua con gli Ebrei[5].

In virtù di queste tradizioni e precetti il paragrafo 3 del CAPO II dispone: “Gli Ebrei, che abiteranno in quelle Città, nelle quali non abbiano Sinagoga, potranno recitare nel modo di fopra[6] i loro Uffizi nelle Cafe da effi abitate, ma non avranno libertà di introdurre, sì nelle Sinagoghe, che nelle dette Cafe verun Criftiano, o Criftiana per il tempo, che tali efercizi dureranno, fotto pena di Scudi dieci d’oro”.

Chi però turbasse e impedisse l’esercizio del rito in Piemonte poteva però essere  multato o nei casi più gravi incarcerato (art. 169 Codice penale sardo).

Nemmeno la forza pubblica poteva arrestare gli Ebrei durante il culto o comunque in sinagoga (così stabiliva lo Statuto ligure).

Ma il furto nelle Sinagoghe non poteva godere dell’aggravante per ragione del luogo[7]: questa regola avrebbe fatto storcere il naso ai Romani che consideravano le sinagoghe loca religiosa e dunqueil furtodi oggetti sacriera considerato sacrilego sin dal tempo di Cesare e di Augusto; alcune sinagoghe sino a che non venne riconosciuto alle Chiese dagli imperatori cristiani, mantennero anche il diritto di asilo.

Nel diritto romano giustinianeo invece le Sinagoghe non erano considerate cose sacre, sante o religiose: vigeva il solo divieto di bruciarle e ai soldati di acquartierarsi in esse[8]: la mentalità sabauda era  avvicinabile alla giustinianea perché la religione di stato era quella cattolica; del resto ed in prospettiva storica quelli sulle sinagoghe sono stati insieme agli interventi sulle dignità e sul divieto della leva militare, i primi provvedimenti con cui la dottrina cristiana entra nel diritto romano.

C’è da aggiungere però che i governi in generale quando le casse erano vuote, specie dopo la Rivoluzione francese, non si facevano soverchio scrupolo a requisire sia gli argenti e gli ori non destinati al culto della Chiesa, sia gli argenti presenti nelle Sinagoghe: né è un solare esempio quanto accadde nella Repubblica  Ligure nel 1798[9].

Aggiungiamo qui ancora qualcosa sugli ufficiali del culto per quanto le norme delle Costituzioni non se ne occupino.

I rabbini erano gli ufficiali del culto: quelli delle università maggiori avevano un potere gerarchico sui rabbini delle università minori comprese nel circolo delle maggiori.

Il titolo di rabbino si conferiva da un collegio di professori di teologia rabbinica, dopo opportuna frequentazione universitaria, anche se il rabbino doveva essere nominato ed approvato dal Regio Governo ed essere suddito, salvo eccezioni approvate, di Sua Maestà.

Mentre in Francia, almeno dal 1831, potranno godere anche di pubblica pensione e il pubblico tesoro si farà carico anche delle spese per la scuola rabbinica, non così avveniva in Piemonte che stipendiava solo i ministri dei culti protestanti e quindi le spese del culto venivano sopportate dalla Corporazione israelitica.

Il rabbino era inoltre rimuovibile per giusta causa dall’università israelitica. Nel 1837 diventerà anche ufficiale dello Stato civile. Poteva infliggere la scomunica e ciò, abbiamo detto, si verificava di sicuro se non veniva pagata l’imposta sul reddito presunto.

(Continua)


[1] Il paragrafo 3 riprende analoga norma emanata da Carlo Emanuele I il 15 dicembre del 1603:”Gli Ebrei, che abiteranno in quelle Città, nelle quali non abbiano Sinagoga, potranno recitare nel modo di sopra i loro Uffizi nelle Case da essi abitate, ma non avranno libertà di introdurre, sì nelle Sinagoghe, che nelle dette Case verun Cristiano, o Cristiana per il tempo, che tali esercizi dureranno, sotto pena di Scudi dieci d’oro”.

[2] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 520 e 534.

[3] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 550.

[4] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 535.

[5] A. M. RABELLO, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, op. cit. p. 529.

[6] Ossia senza alzare la voce e recitando in tono modesto e sommesso (v. par. secondo)

[7] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 56-57.

[8] Codex. L. 9. 1.9.4. Imperatori Valentiniano e Valente a Remigio, Maestro di cerimonie.

Devi comandare che chi entra in una Sinagoga ebraica come se si sistemasse per acquartierarsi, si abitui per questa ragione ad entrare in case private, e non in luoghi di culto”.

Data a Trieste il 6 maggio del 365 o 370 o 373. La disposizione è stata ripresa anche nel Codex Theodosianus (7.8.2).

[9] Cfr. A. RONCO, Storia della Repubblica Ligure 1797-1799, Fratelli Frilli editori, 2005, p. 264.

Tu sei una vela bianca

Seguono il vento

I tuoi occhi mobili

come le nubi scure

i tuoi occhi nobili

come antiche dimore

che videro fiamme incontrollabili

e ceneri leggere in fondo.

Tu sei una vela bianca

che sorride e intimidisce

prepotente la bonaccia.

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (ventesima parte)

3. La condizione degli Ebrei nelle Leggi e Costituzioni del 1729 di Sua Maestà Vittorio Amedeo II

Nel 1723 venne messa a punto una compilazione di Costituzioni ma fu ravvisata imperfetta, ed un’altra se ne promulgò nel 1729, ovvero quella che si commenterà qui di seguito.

Le Costituzioni sono divise in sei libri; il primo riguarda  l’osservanza del culto cattolico e le soggezioni imposte agli Ebrei ed è propriamente oggetto del presente contributo; il secondo attiene alla giurisdizione dei magistrati supremi e dei tribunali inferiori; il terzo riguarda il procedimento da tenersi nelle cause civili; il quarto le leggi penali ed il procedimento in materia criminale; il quinto investe varie materie speciali, come le successioni, i fidecommessi, le tutele , le subastazioni[1] e le gride per le vendite dei beni, le enfiteusi, le prescrizioni, il privilegio per l’ampliamento delle fabbriche ed il passaggio delle acque, le transazioni, la celebrazione e la conservazione degli atti notarili; il sesto investe in ultimo la giurisdizione camerale, i feudi, i diritti regali, i privilegi fiscali e la legge d’Ubena[2].

Queste Costituzioni all’epoca non potevano considerarsi leggi generali; ma costituivano eccezione al sistema del diritto romano, che formava la base della legislazione del paese.

All’epoca si osservavano ancora come leggi particolari gli statuti locali approvati dal sovrano, e le decisioni dei magistrati.

Si vietava invece severamente agli avvocati di citare nelle loro allegazioni i pareri della dottrina[3].

Le disposizioni che commenteremo rimasero in vigore per secoli a partire almeno dal 1430[4], senza contare il fatto che sono per la maggior parte di derivazione romanistica: alcune verranno sostituite con discipline di analogo tenore da quelle codicistiche civili e penali emanate per il Regno di Sardegna tra il 1837, il 1839 ed il 1859 e transiteranno poi nella codificazione post-unitaria: la differenza più marcata tra le Costituzioni e le norme codicistiche risiede forse nel fatto che queste ultime non si riferivano ad una determinata etnia, ma regolavano solo una fattispecie a prescindere da chi la ponesse in essere: e ciò perché nell’Ottocento gli Ebrei divengono sudditi di Sua Maestà e nel 1848 con lo Statuto Albertino ottengono la pienezza dei diritti civili e politici.

Alcune disposizioni delle Costituzioni al contrario verranno specificamente e tristemente riprese dalle leggi razziali in epoca fascista, proprio con riferimento agli Ebrei: si pensi alle disposizioni sul divieto di famulato e sulla proprietà dei beni stabili.

Il Titolo VIII Capo I delle Leggi e costituzioni del 1729 è intitolato “Della segregazione degli Ebrei dai Cristiani”.

Gli Ebrei dovevano abitare obbligatoriamente in un ghetto che però non si trovava in tutte le città, ma solo in quelle ove gli Ebrei fossero tollerati; gli Ebrei che si trovassero in altri luoghi avrebbero dovuto recarsi entro un anno dalla pubblicazione delle Costituzioni, nei ghetti delle città ove erano appunto tollerati[5]. La norma era già presente negli Statuti Sabaudi del 1430.

La parola ghetto deriva dalla parola ebraica ghuoter che suona in italiano chiostro, o forse dai termini ghuazara o ghurororet che si possono tradurre con il vocabolo congrega.

La consuetudine già romana di assegnare case separate ai Giudei venne adottata anche nello Stato pontificio dal pontefice Paolo IV[6] in Roma ove una zona chiamata propriamente ghetto, ossia una strada separata, ma contigua alla città presso il Teatro di Marcello, venne istituita dal Pontefice il 26 luglio 1556 e Pio V provvide poi nel 1566 all’assegnazione delle case che stavano in quel perimetro[7]: la disposizione fu ripetuta da tutti i Papi sino a Pio IX che nel 1847 riaperse le porte di Roma agli Israeliti.

Regole simili si trovavano nella legislazione di Modena[8] ed in quella Toscana.

La ratio della segregazione stava nel fatto che si voleva evitare che i Cristiani abitando con gli Ebrei venissero a contaminarsi dei loro errori[9].

Durante la notte gli Ebrei dovevano restare dentro al ghetto pena una multa ovvero otto giorni di carcere[10], salvo il caso di incendio[11] sopravvenuto.

A Modena erano invece più “liberali” perché l’uscita era consentita in occasione di pubblici, o privati spettacoli, urgenze di traffico, e altri casi di necessità”[12].

Gli Israeliti dovevano inoltre tenere le porte chiuse e sotto la stessa pena non potevano far entrare o ricevere Cristiani[13].

A Modena addirittura nessun Ebreo poteva avere porta o finestra da cui si potesse uscire dal ghetto, a meno che la stessa apertura non fosse custodita con chiave da portinaio cristiano.

Le finestre che avessero il prospetto fuori dal ghetto dovevano avere la ferrata oppure essere alte da terra almeno sette od otto braccia.

Ogni Università ebraica doveva predisporre un’abitazione vicina al ghetto ove potesse risiedere il portinaio cristiano che doveva chiudere  i portoni pubblici al tramontar del sole e ad certi orari sigillare tutte le porte particolari[14].

Quanto alla ricezione di cristiani invece essa si riteneva possibile in Modena se fossero stati “medici, chirurghi, o levatrici in caso di bisogno, o altri assistenti in casa di malattia…”[15]

Nessun ebreo in Piemonte poteva abitare fuori del ghetto o prendervi bottega, pena una multa anche in capo all’affittuario[16]: il divieto non varrà però durante le pubbliche fiere e nei dieci giorni precedenti e successive ad esse[17].

Illustre dottrina annoterà nel 1834 che le regole sull’abitazione e sulle attività economiche erano insufficienti perché non si vietava agli Ebrei di dimorare o di aprire bottega nelle campagne[18].

Questa triste condizione muterà in parte solo in seguito. Le regie patenti del 24 maggio 1743 stabiliranno tuttavia che si potessero affittare terreni per porvi filature e locare stanze fuori dal ghetto per riporvi granaglie[19].

Un regolamento napoleonico stabilirà poi che un Ebreo debba avere “un negozio stabile ed aperto o che altrimenti non eserciti una professione”, pena il bando o la chiusura in una casa di lavoro a spese della Università ebraica sino a che egli non abbia imparato un mestiere che gli consenta di mantenersi[20].

L’art. 5 delle Regie Patenti 1° marzo 1816 disposero che “È agli Ebrei permesso di uscire per lo esercizio della mercatura e delle arti o dei mestieri, dai rispettivi ghetti, anche di notte tempo, con che però debbano rientrarvi prima delle ore nove di sera ed abbiano a munirsi perciò di una carta di pemissione[21] dell’Ufficio di Vicariato… da spedirsi loro gratuitamente[22].

(Continua)


[1] I procedimenti di vendita all’asta.

[2] Essa prevedeva, derogando alle leggi generali, che si potesse disporre per testamento dei propri beni a favore degli stranieri e che succedessero i viciniori di sangue in caso di successione ab intestato.

[3] V. F. SCLOPIS, Storia della legislazione italiana, volume secondo, op. cit., p 450.

[4] Si consideri che le prime norme in tutto rispettose del popolo ebreo giungeranno in Italia solo con la  Legge 8 marzo 1989, n. 101 (in Suppl. ordinario alla Gazz. Uff., 23 marzo, n. 69). – Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e l’Unione delle Comunità ebraiche italiane.

[5] Il paragrafo 1 stabilisce che “Nelle città, nelle quali sono tollerati gli Ebrei, si stabilirà un Ghetto separato, e chiuso per l’abitazione di essi, e quelle famiglie, che si trovano sparse negli altri luoghi, dovranno un anno dopo la pubblicazione delle presenti andar’ ad abitare nelle dette Città, proibendo loro d’introdursi senza nostra licenza in quelle, nelle quali non sono per anco stati ammessi”.

[6] A dire la verità la Chiesa stabilì che i Giudei dovevano essere rinchiusi nel Ghetto in due concili del 694 tenuti in Toledo (il XVII ed il XVIII); per la precisione si dichiarò che gli Ebrei dovevano essere ridotti in schiavitù, rinchiusi nei ghetti, spogliati di ogni privilegio, soggetti alla confisca di ogni bene e messi nella condizione di non poterne più acquistare.  JEWS, Dissertazione sopra il commercio, usure, e condotta degli Ebrei nello Stato pontificio, op. cit. p. 6.

[7] V. G. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, p. 38.

[8] V. il Titolo IX  del Codice estense del 26 aprile 1771.

[9] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 119.

[10] A Modena la multa era di 25 scudi (Tit. IX par. II del Codice estense del 26 aprile 1771).

[11] Il paragrafo 2 delle Leggi e costituzioni del 1729 parimenti presente nel 1430 recita: “Non usciranno dal Ghetto dal cadere sino al sorgere del Sole, se per avventura non si svegliasse in esso, o nelle di lui vicinanze qualche improviso incendio, o che altra simile giusta causa non li costringesse ad uscire, sotto pena di lire venticinque per ogni uno, e per ciascuna volta, e non avendo da pagarle, di giorni otto di Carcere”.

[12] Tit. IX par. VII del Codice estense del 26 aprile 1771.

[13] Il paragrafo 3 inasprisce la segregazione: “Nel predetto tempo, che resta ad essi proibito il poter uscire dal Ghetto. Dovranno tenerne le Porte chiuse, e non ardiranno introdurvi, o ricevere alcun Uomo, o Donna Cristiana, sotto la pena sudetta”.

[14] Tit. IX par. V-VI del Codice estense del 26 aprile 1771.

[15] Tit. IX par. VIII del Codice estense del 26 aprile 1771.

[16] Il paragrafo 4 è attribuito a Rex Vitt. Amed.:Non potrà verun Ebreo prendere Casa, o Bottega fuori del Ghetto, né verun Cristiano potrà loro affittare, o subaffittarne, sotto pena per gli uni, e per gli altri di Scudi dieci d’oro”.

[17] Il paragrafo 5 pone dunque un’eccezione al paragrfo 4: “Ne’ luoghi però, ne’ quali si faranno le pubbliche Fiere, potranno i Padroni delle Case dare, e gli Ebrei prender’ in affitto Case, e Botteghe fuori del Ghetto senza incorso di pena alcuna per il tempo che dureranno esse Fiere, a anche per dieci giorni prima, che comincino, e dopo che saranno quelle terminate”.

[18] F. GAMBINI, Della Cittadinanza giudaica, op. cit. p. 87.

[19] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 91.

[20] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 56-57.

[21] Che ricorda tristemente l’attuale permesso di soggiorno per gli extracomunitari.

[22] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 120.

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (diciannovesima parte)

Nel 1348 durante il periodo della peste nera alcuni Giudei furono accusati come peraltro in Spagna, Francia e Germania[1], di avvelenare le acque ed impiccati[2]. Nel 1358 Amedeo IV, detto il Conte Verde, concedette loro di fare dimora in Bressa[3].

Sappiamo che nel 1424 furono ammessi a stabilirsi in Torino perché prestavano il denaro a tassi d’interesse ritenuti convenienti e qui poterono, oltre a vivere in mezzo i Cristiani, anche esercitare la professione di beccaio (macellaio). Ma il Comune nel 1457 li costrinse a dimorare in luogo appartato[4].

Il primo nucleo corposo di norme di cui gli studiosi hanno rinvenuto traccia è costituito dagli Statuta Sabaudiae, due decreti[5]del duca Amedeo VIII[6] del 17 giugno 1430 da cui apprendiamo peraltro che diversi predecessori[7] avevano a loro volta concesso agli Ebrei privilegi, indulti e statuti.

Nel primo libro del decreto si prescrivono in particolare i limiti della tolleranza in funzione dei quali si lasciavano risiedere gli Ebrei negli Stati del Duca.

Si vieta pertanto la comunanza degli Ebrei e Cristiani: si proibiscono in particolare i rapporti tra Ebrei e Cristiani nei giorni festivi e negli altri si considera lecito soltanto il commercio, non si permette la coabitazione nemmeno per ragioni di lavoro; s’impone la segregazione nel ghetto; si vieta l’esercizio dell’usura, e si stabiliscono le regole con cui i convertiti dal giudaismo debbano essere trattati, riconoscendosi però nello stesso tempo il principio per cui nessuno può essere convertito forzatamente al Cristianesimo[8].

Si proibisce ancora la costruzione di nuove sinagoghe; il canto a voce alta nelle funzioni religiose; si minacciano pene severissime contro i bestemmiatori; si interdice l’uscita dal ghetto negli ultimi giorni della settimana santa[9].

La maggior parte di questi principi che provengono dal diritto giustinianeo si ritroveranno, come vedremo, anche nella legislazione dell’Età dei Lumi.

Come in età romana la vita degli Ebrei era regolata da condotte[10] che duravano in media dieci anni: gli Ebrei non erano, in altre parole, sudditi dei Savoia, ma si consideravano appartenenti a colonie di una nazione nomade a cui veniva accordato dal sovrano il diritto temporaneo a soggiornare in un dato territorio alle condizioni che il potere riteneva più vantaggiose.

Tale situazione cesserà solo con il Codice civile sardo del 1837 con cui si stabilì (art. 18) che “Ogni suddito gode dei diritti civili, salvo che per proprio fatto ne sia decaduto. I non cattolici ne godono secondo le leggi, i regolamenti e gli usi che li riguardano. Lo stesso è degli Ebrei”.

Quest’ultima norma è di sommo rilievo perché con essa viene a cessare in Piemonte l’autonomia ebraica (universalità ebraica)[11] e l’impossibilità di diventare proprietari di beni stabili[12], ma ciò non conferirà agli Israeliti i diritti politici strettamente collegati presso i Savoia con la religione dello Stato che era al tempo quella cattolica: quindi essi non potevano comunque concorrere ad impieghi pubblici o professare in pubblico il loro culto.

Il che è, si fa per dire, comunque un salto di qualità se si pensa che un secolo prima ci si domandava tra i  giuristi se chi uccidesse un Ebreo dovesse o meno essere soggetto alle pene ordinarie per omicidio e si considerava ancora presunzione legale la condizione di malvagità in capo agli Ebrei[13].

Un illustre giurista, già collaboratore di Napoleone e membro del Corpo Legislativo francese durante l’Impero, considerava il giudaismo come un morbo asiatico, “come la peste bubonica ed il vaiuolo entrato una volta in Europa, non fu più possibile spegnere quel germe, né si poté far altro che limitare l’espansione e moderarne la malignità[14] e a metà del secolo si sottolineava[15] che fosse credenza generalmente ammessa anche se contrastata, che il Talmud fosse contro natura[16] e avesse finalità anticristiane e antisociali[17].

(Continua)


[1] Parecchie migliaia furono in questi paesi bruciati vivi. Clemente VI allora li ospitò ad Avignone per sottrarli al massacro.

[2] E ciò perché morivano in pochi di peste: ma ciò era dovuto al fatto che gli Ebrei vivevano lontano dagli altri, avevano per religione una scelta più accurata dei cibi e delle bevande (bevevano il vino solo se era prodotto da loro) e conducevano una vita sobria.

Si pensa che la credenza fu alimentata anche dal fatto che gli Ebrei usavano lavarsi le mani anche nelle acque pubbliche dopo aver accompagnato i defunti al cimitero: e ciò perché le Sacre Scritture ritenevano impuro il contatto con il corpo dei defunti. Cfr. G. LEVI, op. cit., p. 23-24. Cfr. Cfr. Mishnà, VI ordine (Tahoròt) ed in particolare il trattato secondo Ohalòt ed il trattato undicesimo Jadàim. A.M. RABELLO, Introduzione al diritto ebraico, Fonti, Matrimonio e Divorzzio, Bioetica, op. cit. p. 32-33.

[3] V. L. CIBRARIO, Origini e progresso delle instituzioni della Monarchia di Savoia: specchietto cronologico, Stamperia Reale, Torino, 1855.

[4] V. L. CIBRARIO, Storia di Torino, vol I, Alessio Fontana, Torino, 1846, p. 592.

[5] Divisi in cinque libri perché vi si raffigurassero le principali virtù; nel primo le tre cardinali; nel secondo la prudenza; e nei tre ultimi la temperanza. V. F. SCLOPIS, Storia della legislazione italiana, volume secondo, Unione-Tipografico-Editrice, Torino, 1863, pp. 194 e ss.

[6] Bisogna dire che questo Duca prima di emanare i decreti (1426), su consiglio del provinciale dei domenicani, e del ministro dei Francescani di Chamberì, perseguitò dapprima i Giudei, ne fece ardere i libri, e ne costrinse un buon numero ad abiurare. L. CIBRARIO, Origini e progresso delle instituzioni della Monarchia Savoia, op. cit., p. 419 e ss.

[7] Il conte Edoardo nel 1319 ad esempio fece emanare alcune norme per correggere il vizio dell’usura.

[8] V. F. SCLOPIS, Storia della legislazione italiana, op. cit., pp. 194 e ss.

[9] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 13.

[10] L’utilizzo delle condotte rimase praticato sino al 1814. L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 13.

[11] Gli Ebrei da questa data non sono più tali, ma sudditi piemontesi, genovesi ecc.

[12] Impossibilità che era stata ribadita con una legge del 1822.

[13] Così per J. SESSA, Tractatus de Judaeis, Augusta Taurinorum, 1717.

[14] F. GAMBINI, Della cittadinanza giudaica, 1834, Tipografia di Giuseppe Pomba & C., Torino, p. 17 e 22.

[15] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 32.

[16] JEWS, Dissertazione sopra il commercio, usure, e condotta degli Ebrei nello Stato pontificio, Tipografia Perego Salvoniana, Roma, 1826, p. 3.

[17] G.B. DE-ROSSI, Dizionario storico degli autori Ebrei e delle loro opere, v. voce Talmud, Vol II, Della Reale Stamperia, Parma, 1802, p. 138 e ss.

IMITATIO, AEMULATIO ET VARIATIO NEI CLASSICI

C’è una leggera brezza che aleggia per il recinto sacro…tutto intorno meli e roseti sprigionano la loro fragranza e laggiù, in lontananza, si erge maestosa la bella statua di Afrodite: un blocco bianco di pregiato marmo lungo le cui venature un artista ha modellato le forme sinuose della venerata dea dell’amore…più a destra una colonna ai piedi della quale alcune fanciulle innalzano inni di preghiera alla dea al ritmo della musica, il capo cinto di ghirlande di viole e i morbidi colli adorni di corone intrecciate di fiori. E’ questa l’immagine di ciò che noi oggi definiremmo la “Lesbo bene”, l’ambiente aristocratico del tìaso che Saffo dirigeva con immensa passione, impegnata com’era ad educare alla vita matrimoniale le ragazze che le erano state affidate per renderle splendide mogli e future madri di uomini valorosi e degni di lode.

Proprio là, sotto quel porticato, Saffo scorge un uomo seduto accanto alla donna da lei amata[1]: è talmente fortunato quell’uomo a godere del sorriso della fanciulla che la poetessa lo paragona per beatitudine agli dei, mentre lei, là nell’angolo, così lontana dai due e così lungi dall’aurea beata che appartiene agli immortali, si strugge  e si consuma per una gelosia che viene espressa in tutta la sua sintomatologia. A poco a poco la vista di tanto graziosa ma dolorosa scenetta le fa sbalzare il cuore nel petto, provando il classico “tuffo al cuore” che le impedisce di parlare e le spezza la lingua (èaghe, dal verbo àgnumi che significa “rompere”, “spezzare”; àgma è infatti il “frammento”). Contemporaneamente un fuoco sottile le scorre sotto la pelle per lasciar poi spazio ad un freddo sudore che la possiede insieme ad un tremore, mentre la vista le si annebbia e le orecchie rimbombano ( Saffo utilizza un hapax onomatopeico con epirrhòmbeisi, “rombano”, “rimbombano”) lasciando sul volto un pallore verde erba: davvero è vicina a morire, mentre l’uomo che ammira la fanciulla che parla e ride, lo ripetiamo, è davvero simile agli dei immortali! E’ come se Saffo fosse consapevole di essere affetta dalla malattia d’amore, è vittima di Eros, un morbo incurabile dinanzi al quale non si può che chinare il capo…ricordate quel famoso esametro della decima egloga virgiliana? Omnia vincit Amor et nos cedamus Amori. In una concitata climax ascendente, la maestra del tìaso descrive la patologia amorosa contro cui nulla può, neppure parlare le è più possibile, eppure le sue parole sono diventate un vero e proprio topos letterario e Saffo ha fatto del suo dolore un esempio per quanti si siano cimentati a dare espressione all’aegritudo amoris: si pensi ad Apollonio Rodio che nel III libro delle Argonautiche (vv. 962-965) si ispira a questo celebre frammento di Saffo e nel ritrarre Medea alla vista di Giasone non può che sottolineare come “… il cuore le cadde dal petto, gli occhi si offuscarono ed un rossore caldo s’impossessò delle gote”; ed ancora il frammento viene richiamato da Teocrito, nell’idillio intitolato L’incantatrice (vv. 106-110), nel quale l’autore fa dire a Simeta “… diventai più fredda della neve, un sudore mi scorreva giù come gocce di rugiada e non potevo parlare…”; e non bisogna dimenticare  Longo Sofista che  nel romanzo Dafni e Cloe, nel descrivere la passione amorosa in Dafni (I 17,4), si rifà all’ode della poetessa di Lesbo e ne riprende i sintomi “… il volto era più verde dell’erba dell’estate…”.

Ma c’è anche un grande filosofo che aveva ben in mente i versi di Saffo: si tratta di Platone che, nell’elaborare le riflessioni contenute nel Fedro, tenne sicuramente conto di tutta quella tradizione lirica che lo aveva preceduto e che aveva definito l’eros come lusimelés (che scioglie le membra) e la riprende nella descrizione dei sintomi psicofisici provati dall’anima. Nel Fedro, infatti, Socrate si sofferma sull’irrazionalità del sentimento amoroso e, nel definire i quattro tipi di manie concesse agli uomini dagli dei come grandissimi beni, afferma che la mania amorosa è la più alta ed eccelsa, è il più alto degli invasamenti divini (249 E). Per caratterizzare la mania amorosa Platone insiste su sintomi ben precisi: colui che si trova dinanzi ad un bel volto che gli ricordi la Bellezza contemplata nell’Iperuranio dapprima rabbrividisce, poi un sudore (idròs, stesso termine usato da Saffo!) e un calore insolito lo invadono tutto e contemplando quel volto lo venera come un dio!( 251 A) E’ chiaro che Platone doveva avere ben presente la “patologia”amorosa enunciata da Saffo.

Anche la letteratura latina fornisce esempi di imitatio ed aemulatio nei confronti dell’ode di Saffo.

Non siamo più calati nell’ambiente elegante e raffinato del tìaso, ma siamo probabilmente all’interno di una domus romana dove un uomo, curvo su un rotolo di papiro che definirà libellum arida pumice expolitum, pensa a Clodia, la donna amata che chiamerà con il nome fittizio di Lesbia, con evidente riferimento alla grande poetessa di ambiente eolico. E proprio per espimere la sua sofferenza d’amore Catullo sceglie la via della traduzione, riprendendo dal modello anche il metro: la strofa saffica.[2]

Notevoli sono però le differenze tra i due testi. Innanzitutto nel carme LI di  Catullo viene celebrato un amore eterosessuale, a differenza di quanto descritto da Saffo. Quell’ille non ben definito, in posizione enfatica e in anafora, che siede dinanzi a Lesbia e spectat et audit supera iperbolicamente addirittura gli dei:  la sfera divina è presente per ben due versi con i termini deo e deos, quasi che il poeta volesse accentuare maggiormente grazie al poliptoto e alla variatio la beatitudine di quell’uomo rispetto alla sua condizione di miser…certamente anche Saffo doveva sentirsi misera, ma non si attribuisce alcun aggettivo, mentre Catullo si autocommisera per dar maggior rilievo alla sua posizione di inferiorità rispetto al rivale in amore. Fugaci pennellate dipingono Lesbia come dulce ridentem ed al poeta basta guardarla (simul aspexi) perché in lui si manifestino gli effetti del mal d’amore: la lingua s’inceppa (torpet, che letteralmente significa “irrigidirsi”, “perdere di sensibilità”), un fuoco sottile scorre sotto la pelle, le orecchie rombano (tintinant, con allusione all’onomatopea utilizzata da Saffo) e gli occhi sono annebbiati…troppo forse per un uomo. Catullo riconosce che  Eros  dolceamaro  (come l’aveva definito Saffo!) colpisce nel medesimo modo uomini e donne, non risparmiando le sue prede dai pathèmata irreparabili, ma in qualità di vir sente la necessità di alzare il capo, di sollevarsi da quell’otiosa frustrazione ed ecco che nell’ultima strofa tenta di trovare la forza di sottrarsi dal torpore spirituale, da quell’otium,  prettamente romano e lontanissimo dal modello greco, che lo avrebbe condotto a perdere, cioè a perire: chiaro riferimento al tethnàken saffico!…ma con la dovuta variatio: tale tematica non è infatti presente nell’ode greca, anche se essa è mutila dell’ultima parte e il frammento papiraceo non ci permette di leggere il componimento per intero.

Sempre a Roma, questa volta però non in strofa saffica ma nell’epico esametro, un altro autore contemporaneo di Catullo riflette sui devastanti effetti dell’amore sull’animus e sulla mens umana: è Lucrezio, che nel III libro del suo celeberrimo De Rerum Natura (vv. 152-156) osserva che “…quando la mente (mens) è scossa da un più forte timore, notiamo che tutta l’anima (animus) vi partecipa attraverso le membra ed in tal modo da tutto il corpo appaiono sudore e pallore (sudores palloremque), la lingua si spezza (infringi linguam) e la voce viene meno, gli occhi si annebbiano (caligare oculos), le orecchie rombano (sonere aures), le gambe si piegano…” e così dicendo spera, da buon epicureo, di allontanare dalla passione amorosa tutti coloro che volessero raggiungere la vera felicità! Ma purtroppo aveva ragione Virgilio e quando Eros colpisce non c’è rimedio per l’essere umano, la sua potenza è tale che l’uomo non può contrastarla in alcun modo.

Ed ora, dopo aver visitato il tìaso di Lesbo ed aver sbirciato nella domus di Catullo, spostiamoci in un luogo a noi più familiare, spulciamo  all’interno del labirinto della nostra esperienza, del nostro passato  fino a riportare alla luce  quel ricordo apparentemente sbiadito in cui Cupido scagliava le sue frecce inclementi in direzione del nostro cuore  facendolo bruciare di passione… fermiamoci un istante e riflettiamo su come il tema saffico dello sconvolgimento d’amore riaffiori nel nostro  quotidiano, inevitabilmente, così da farci tremare come accadeva a Guido Guinizelli che dinanzi al saluto a lui rivolto dalla donna amata non poteva che riconoscere “… Amor m’assale …parlar non posso, ché ‘n pene io ardo/ sì come quelli che sua morte vede [3]…”

                                                                                                             Giulia Del Giudice

 SAFFO fr. 31 Voigt

A me pare uguale agli dei

chi a te vicino così dolce

suono ascolta mentre tu parli

 

E ridi amorosamente. Subito a me

il cuore si agita nel petto

solo che appena ti veda, e la voce

si perde sulla lingua inerte.

 

Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle,

e ho buio negli occhi e il rombo

del sangue alle orecchie.

 

E tutta in sudore e tremante

come erba patita scoloro:

e morte non pare lontana

a me rapita di mente.

 

(Trad. S. Quasimodo)


CATULLO carme LI

Ille mi par esse deo videtur

ille, si fas est, superare divos

qui sedens adversus identidem te

spectat et audit

dulce ridentem, misero quod omnis   

eripit sensus mihi: nam simul te,

Lesbia, aspexi, nihil est super mi

<vocis in ore>

Lingua sed torpet, tenuis sub artus

flamma demanat, sonitu suopte

tintinant aures, gemina teguntur

lumina nocte.

Otium, Catulle, tibi molestum est:

otio exsultas nimiumque gestis:

otium et reges prius et beatas

perdidit urbes.


[1] Non deve stupire che nell’antica Grecia l’amore avesse valenze spiccatamente omosessuali. Saffo evidenzia bene nei suoi frammenti superstiti come fosse forte il legame spirituale tra lei e le sue allieve e come tale legame avesse una innegabile componente sessuale, come accadeva nelle eterie maschili tipiche della Grecia arcaica e classica.

[2] Quando parliamo di traduzione poetica dobbiamo pensare ad una vera e propria sfida del poeta traduttore che tenta di trasferire nella sua lingua, nel suo mondo, nel suo animo ed in quella che è la sua esperienza personale le emozioni e le vibrazioni di un altro animo: tutto ciò implica chiaramente una difficoltà di natura linguistica (non è facile la scelta lessicale, la fedeltà sintattica, il richiamare determinate figure retoriche!) ma il presupposto è quello di aver scelto un modello in cui il traduttore riflette il proprio stato d’animo e cerca con ogni espediente di renderlo personale e originale. Solo in tal modo si potrà parlare di traduzione poetica come vera e propria creazione artistica.

[3] Versi tratti  da Lo vostro bel saluto e ‘l gentil sguardo

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (diciottesima parte)

2. Gli Ebrei in Piemonte sino al XVIII secolo

Il modello romanistico descritto e la condizione or ora esposta si protrassero nei tempi seguenti in modo più o meno marcato nelle diverse città e luoghi; secondo i testi dell’Ottocento il trattamento in Italia fu però complessivamente più mite[1] rispetto a quello che gli Ebrei ricevettero purtroppo in Francia, in Germania[2] in Spagna[3]  e Portogallo.

Possiamo affermare in generale e con buona approssimazione che almeno nella seconda metà dell’Ottocento c’erano in Italia località favorevoli all’insediamento degli Israeliti (Lombardia, Parma, Venezia, Pisa e Livorno[4]), luoghi dove la legislazione era più mite (tra cui Genova, lo Stato Pontificio[5], il Regno delle Due Sicilie[6], il Ducato di Parma[7]) e dove invece era in vigore una normativa più severa (Ducato di Modena[8])[9].

Stimo di particolare rilievo quanto avvenne in Piemonte nei secoli precedenti perché la dottrina ottocentesca (nel particolare D’AZEGLIO) considerava la legislazione sabauda come la più dura e le pagine che seguiranno ne daranno debito conto.

Sull’insediamento degli Ebrei in Piemonte non si sono rinvenute molte notizie; è probabile che molti fossero profughi dalla Francia a cominciare dal 1180.

Filippo Augusto, come abbiamo già detto, per far fronte ai costi delle Crociate aveva, infatti, confiscato agli Ebrei tutti i beni immobili ed i preziosi e li aveva cacciati dalla Francia.

Abbiamo notizia che nel 1300 i Giudei pagarono alla monarchia sabauda lire 3481, 16 soldi e 6 danari viennesi.

E nel 1344 gli Ebrei dello Stato del Conte di Savoia pagavano l’annuo censo di 116 fiorini d’oro di Firenze alla fine di ogni mese.

Ciò accadde perché i Giudei nei tempi medi per entrare in un dato territorio, per dimorare su terra o prestare su pegno dovevano pagare al Principe un tributo annuo detto stagio che inizialmente era individuale e poi divenne collettivo. Si calcolava in ogni caso sempre per testa e i capi famiglia dovevano corrispondere una somma maggiore.

In paesi diversi dal Piemonte esistevano anche le decime ed un’imposta detta pretatico che l’universalità israelitica doveva pagare ai parroci limitrofi al ghetto.

In Toscana si pagava una tassa per l’esenzione dal servizio militare; nel Ducato di Modena una tassa sulla tolleranza.

In Germania si pagavano anche le tasse di abitazione, pigione e protezione che saranno abolite solo nel XVIII  secolo.

Quando poi gli Ebrei ricchi morivano, onde evitare noie alla progenie, facevano dei legati al Principe oppure effettuavano in vita ricchi donativi quando il Principe li richiedeva[10]: non acconsentire, infatti, comportava la persecuzione, il tormento, il bando e la confisca.

Anche se in Piemonte l’arbitrio fu limitato: abbiamo notizia che dal 1430 sino almeno al 1848 gli Ebrei furono sottoposti soltanto al tasso regio ed a un donativo che doveva effettuarsi al rinnovamento della condotta, ai tributi e gabelle comunali che andavano pagati al Podestà ed al Vescovo per la tolleranza della Santa Sede, a donativi una tantum[11] ai magistrati (primo magistrato ed avvocato fiscale della provincia) e alle Università per evitare che gli studenti li molestassero  nell’esercizio del commercio e del prestito.

Il Tasso regio era ad esempio a Torino di 17 mila lire antiche di Piemonte, e non poteva variare per tutto il tempo della condotta, mentre l’importo del donativo era variabile.

Però certamente nel 1714 potevano godere del sussidio di povertà di 250 franchi dopo il dodicesimo figlio, sempre che il parroco redigesse certificato di moralità[12].

Gli Ebrei erano poi soggetti ancora nell’Ottocento al pagamento ad ogni Università di una imposta sul patrimonio presunto[13].

Ogni Giudeo era tenuto a formare un inventario delle sue sostanze ogni 3 anni e poi ogni 5 e doveva pagare presso l’Università di suo domicilio  una tassa proporzionale che variava secondo la qualità e quantità del patrimonio.

Chi frodava l’Università o si sottraeva al contributo incorreva nella scomunica che veniva irrogata nella sinagoga e comportava una pubblica affissione: il contributo versato da ognuno rimaneva segreto, ma non per l’intendente e l’esattore nel caso l’inventario venisse ritenuto inveritiero; il debitore contribuente che avesse voluto opporsi al ruolo avrebbe però comunque dovuto pagare la metà della quota attribuita[14].

(Continua)

[1] M. D’AZEGLIO, Dell’emancipazione civile degli Israeliti, op. cit. p. 21.

[2] All’opposto furono molto tolleranti la Polonia e l’Olanda. In Polonia erano consentiti i matrimoni misti ed in entrambe i paesi si poteva abbandonare la fede cattolica per abbracciare quella giudaica. Cfr. G. LEVI, Op. cit., p. 294-295.

[3] Durante il Regno di Isabella e Ferdinando il Torquemada espulse dal Regno dopo averli depredati 80.000 Ebrei che furono per lo più condannati a morire di fame o a diventare schiavi. Solo Genova li accolse benevolmente. In Siviglia in quel mentre si giunse a violare i cimiteri ebraici per cercare oggetti preziosi. M. D’AZEGLIO, Dell’emancipazione civile degli Israeliti, op. cit. p. 16.

[4] A Livorno gli Ebrei non potevano essere molestati per debiti o delitti anteriori alla presa del domicilio (cosiddetta Livornina), né potevano essere attaccati dall’Inquisizione per eresia, nemmeno se prima di abbracciare l’ebraismo fossero stati cristiani.

[5] Le leggi pontificie assicuravano il godimento dei diritti civili.

[6] Al Sud in particolare gli Ebrei non erano tenuti a dimorare nel ghetto. Tuttavia dopo il 1745 furono cacciati e quindi la loro presenza nel regno delle Due Sicilie non era legale.  Lo stesso accadeva a Lucca. L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 119.

[7] Qui potevano essere soldati, avvocati, impiegati pubblici e consiglieri municipali. M. D’AZEGLIO, Dell’emancipazione civile degli Israeliti, Le Monnier, Firenze, 1848, p. 23.

[8] Qui ancora nel 1831 gli Israeliti pagavano un tributo per rimanere nel Ducato e dovevano usare come segno distintivo un nastro giallo.

[9] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 8.

[10] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 93 e ss.

[11] In occasione del Natale. Vennero aboliti solo nel 1822, perché in quanto sudditi gli Ebrei non dovevano omaggiare più nessuno.

[12] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 98. E ciò grazie alle regie patenti del 15 dicembre del 1603 (“Né parimenti che possano essere astretti a far prestiti di denaro per cause di sussidio meno per spontanea volontà loro…”)

[13] Era pure riscossa una tassa di fogaggio che veniva pagata da tutti gli individui ad eccezione dei rabbini e dei poveri, nel caso in cui non fosse possibile determinare l’effettivo patrimonio.

[14] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 140 e ss.

Appunti sulla condizione degli Ebrei nei secoli (diciassettesima parte)

Nel 1348 durante il periodo della peste nera alcuni Giudei furono accusati come peraltro in Spagna, Francia e Germania[1], di avvelenare le acque ed impiccati[2]. Nel 1358 Amedeo IV, detto il Conte Verde, concedette loro di fare dimora in Bressa[3].

Sappiamo che nel 1424 furono ammessi a stabilirsi in Torino perché prestavano il denaro a tassi d’interesse ritenuti convenienti e qui poterono, oltre a vivere in mezzo i Cristiani, anche esercitare la professione di beccaio (macellaio). Ma il Comune nel 1457 li costrinse a dimorare in luogo appartato[4].

Il primo nucleo corposo di norme di cui gli studiosi hanno rinvenuto traccia è costituito dagli Statuta Sabaudiae, due decreti[5]del duca Amedeo VIII[6] del 17 giugno 1430 da cui apprendiamo peraltro che diversi predecessori[7] avevano a loro volta concesso agli Ebrei privilegi, indulti e statuti.

Nel primo libro del decreto si prescrivono in particolare i limiti della tolleranza in funzione dei quali si lasciavano risiedere gli Ebrei negli Stati del Duca.

Si vieta pertanto la comunanza degli Ebrei e Cristiani: si proibiscono in particolare i rapporti tra Ebrei e Cristiani nei giorni festivi e negli altri si considera lecito soltanto il commercio, non si permette la coabitazione nemmeno per ragioni di lavoro; s’impone la segregazione nel ghetto; si vieta l’esercizio dell’usura, e si stabiliscono le regole con cui i convertiti dal giudaismo debbano essere trattati, riconoscendosi però nello stesso tempo il principio per cui nessuno può essere convertito forzatamente al Cristianesimo[8].

Si proibisce ancora la costruzione di nuove sinagoghe; il canto a voce alta nelle funzioni religiose; si minacciano pene severissime contro i bestemmiatori; si interdice l’uscita dal ghetto negli ultimi giorni della settimana santa[9].

La maggior parte di questi principi che provengono dal diritto giustinianeo si ritroveranno, come vedremo, anche nella legislazione dell’Età dei Lumi.

Come in età romana la vita degli Ebrei era regolata da condotte[10] che duravano in media dieci anni: gli Ebrei non erano, in altre parole, sudditi dei Savoia, ma si consideravano appartenenti a colonie di una nazione nomade a cui veniva accordato dal sovrano il diritto temporaneo a soggiornare in un dato territorio alle condizioni che il potere riteneva più vantaggiose.

Tale situazione cesserà solo con il Codice civile sardo del 1837 con cui si stabilì (art. 18) che “Ogni suddito gode dei diritti civili, salvo che per proprio fatto ne sia decaduto. I non cattolici ne godono secondo le leggi, i regolamenti e gli usi che li riguardano. Lo stesso è degli Ebrei”.

Quest’ultima norma è di sommo rilievo perché con essa viene a cessare in Piemonte l’autonomia ebraica (universalità ebraica)[11] e l’impossibilità di diventare proprietari di beni stabili[12], ma ciò non conferirà agli Israeliti i diritti politici strettamente collegati presso i Savoia con la religione dello Stato che era al tempo quella cattolica: quindi essi non potevano comunque concorrere ad impieghi pubblici o professare in pubblico il loro culto.

Il che è, si fa per dire, comunque un salto di qualità se si pensa che un secolo prima ci si domandava tra i  giuristi se chi uccidesse un Ebreo dovesse o meno essere soggetto alle pene ordinarie per omicidio e si considerava ancora presunzione legale la condizione di malvagità in capo agli Ebrei[13].

Un illustre giurista, già collaboratore di Napoleone e membro del Corpo Legislativo francese durante l’Impero, considerava il giudaismo come un morbo asiatico, “come la peste bubonica ed il vaiuolo entrato una volta in Europa, non fu più possibile spegnere quel germe, né si poté far altro che limitare l’espansione e moderarne la malignità[14] e a metà del secolo si sottolineava[15] che fosse credenza generalmente ammessa anche se contrastata che il Talmud fosse contro natura[16] avesse finalità anticristiane e antisociali[17].

(Continua)


[1] Parecchie migliaia furono in questi paesi bruciati vivi. Clemente VI allora li ospitò ad Avignone per sottrarli al massacro.

[2] E ciò perché morivano in pochi di peste: ma ciò era dovuto al fatto che gli Ebrei vivevano lontano dagli altri, avevano per religione una scelta più accurata dei cibi e delle bevande (bevevano il vino solo se era prodotto da loro) e conducevano una vita sobria.

Si pensa che la credenza fu alimentata anche dal fatto che gli Ebrei usavano lavarsi le mani anche nelle acque pubbliche dopo aver accompagnato i defunti al cimitero: e ciò perché le Sacre Scritture ritenevano impuro il contatto con il corpo dei defunti. Cfr. G. LEVI, op. cit., p. 23-24. Cfr. Cfr. Mishnà, VI ordine (Tahoròt) ed in particolare il trattato secondo Ohalòt ed il trattato undicesimo Jadàim. A.M. RABELLO, Introduzione al diritto ebraico, Fonti, Matrimonio e Divorzzio, Bioetica, op. cit. p. 32-33.

[3] V. L. CIBRARIO, Origini e progresso delle instituzioni della Monarchia di Savoia: specchietto cronologico, Stamperia Reale, Torino, 1855.

[4] V. L. CIBRARIO, Storia di Torino, vol I, Alessio Fontana, Torino, 1846, p. 592.

[5] Divisi in cinque libri perché vi si raffigurassero le principali virtù; nel primo le tre cardinali; nel secondo la prudenza; e nei tre ultimi la temperanza. V. F. SCLOPIS, Storia della legislazione italiana, volume secondo, Unione-Tipografico-Editrice, Torino, 1863, pp. 194 e ss.

[6] Bisogna dire che questo Duca prima di emanare i decreti (1426), su consiglio del provinciale dei domenicani, e del ministro dei Francescani di Chamberì, perseguitò dapprima i Giudei, ne fece ardere i libri, e ne costrinse un buon numero ad abiurare. L. CIBRARIO, Origini e progresso delle instituzioni della Monarchia Savoia, op. cit., p. 419 e ss.

[7] Il conte Edoardo nel 1319 ad esempio fece emanare alcune norme per correggere il vizio dell’usura.

[8] V. F. SCLOPIS, Storia della legislazione italiana, op. cit., pp. 194 e ss.

[9] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 13.

[10] L’utilizzo delle condotte rimase praticato sino al 1814. L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 13.

[11] Gli Ebrei da questa data non sono più tali, ma sudditi piemontesi, genovesi ecc.

[12] Impossibilità che era stata ribadita con una legge del 1822.

[13] Così per J. SESSA, Tractatus de Judaeis, Augusta Taurinorum, 1717.

[14] F. GAMBINI, Della cittadinanza giudaica, 1834, Tipografia di Giuseppe Pomba & C., Torino, p. 17 e 22.

[15] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 32.

[16] JEWS, Dissertazione sopra il commercio, usure, e condotta degli Ebrei nello Stato pontificio, Tipografia Perego Salvoniana, Roma, 1826, p. 3.

[17] G.B. DE-ROSSI, Dizionario storico degli autori Ebrei e delle loro opere, v. voce Talmud, Vol II, Della Reale Stamperia, Parma, 1802, p. 138 e ss.

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