Il motivo del tedio ricorre spesso anche in Orazio, che sembra talvolta ispirarsi proprio a Lucrezio. Di Orazio è giustamente famosa l’ossimorica strenua inertia, la smaniosa indolenza che affligge gli uomini, quel torpore che impedisce di portare a termine qualsiasi attività, ma che al tempo stesso è fonte di continua inquietudine. La iunctura è resa efficace dall’accostamento dell’aggettivo strenua che ha significato di “attivo, dinamico” ed il suo esatto contrario iners, da cui inertia che indica uno stato di inattività. Questa inquietudine esistenziale, questa insoddisfazione che spinge l’uomo a viaggiare senza mai essere appagato di una qualche stabilità è un tema ricorrente nei versi oraziani. Il poeta vi ritorna a più riprese. Esaminiamo i singoli passi insieme.
Nel II libro delle Satire Orazio afferma:
Adde quod idem,
non horam tecum esse potes, non otia recte
ponere teque ipsum vitas fugitivus et erro,
iam vino quaerens, iam somno fallere curam;
frustra: nam comes atra premit sequiturque fugacem. (Serm. II, 7, vv. 111-115)
“Aggiungi anche questa stessa cosa, che tu non riesci a raccoglierti in te stesso per lo spazio di un’ora, né a impiegare giustamente i momenti di riposo, ma eviti te stesso come un profugo o un disertore, cercando di ingannare l’angoscia col vino e col sonno; ma invano! infatti essa come una tenebrosa compagna ti opprime e, se tu scappi, ti insegue!”
Il fulcro del messaggio consiste nella denuncia del non essere capace di stare bene con se stessi; da qui la smania di cercare soddisfazione e serenità altrove, senza comprendere però che la vera “malattia” risiede in noi stessi. Da notare come a quel “tecum esse” il poeta opponga in antitesi termini come fugitivus, erro, sequitur e fugacem, insistendo ulteriormente sull’incapacità propria dell’uomo di vivere in una condizione di stasi e la sua ansia di errare alla ricerca che frustra, invano, potrà essere raggiunta. Orazio ritorna su questo motivo anche nell’Ode 16 del II libro, nella quale afferma :
[…] quid terras alio calientis
sole mutamus? patriae quis exsul
se quoque fugit? ( Carm. II, 16, vv. 18-20)
“… perché sostituiamo le terre
con quelle scaldate da un altro sole? Chi esule dalla
patria può fuggire anche se stesso?”
L’uomo in questi versi pur non essendo fugitivus come nella Satira precedente, rimane comunque un exsul che fugit se stesso.
E’ in particolar modo nelle Epistole che Orazio sviscera la tematica della noia e della conseguente commutatio loci. In molti passi della sua opera il poeta elargisce consigli di matrice epicurea, ma non sempre riusciva ad applicarli a se stesso. Infatti nell’Epistula I, 8 egli si rivela vittima del taedium vitae, a causa di quella mobilitas che ogni tanto agita il suo animo facendo in modo che egli non trovi pace in alcun luogo, sprofondato com’è in uno stato di accidiosa scontentezza (assai simile a quella che Petrarca riferisce a se stesso nel Secretum).
[…]
sed quia mente minus validus quam corpore toto
nil audire velim, nil discere, quod levet aegrum;
fidis offendar medicis, irascar amicis,
cur me funesto properent arcere veterno;
quae nocuere sequar, fugiam quae profore credam
[…] (Epist. I,8, vv. 7-11)
[…]
ma per il fatto che sono meno sano nello spirito che in tutto quanto il corpo
non voglio ascoltare, non voglio apprendere nulla che possa dare sollievo a me malato;
me la prendo con i medici fidati, mi infurio con gli amici,
perché si affannano a liberarmi dal mio funesto torpore;
inseguo ciò che mi è già stato dannoso, ciò che credo mi gioverà, lo fuggo.”
Orazio sottolinea come il suo malessere sia di origine spirituale e pertanto ancor più difficile da curare e marca la malattia con termini come aegrum e medicis. Quel veternus è un aggettivo sostantivato che indica lo stato di sonnolenza e abulia, tipica patologia degli anziani e, per traslato, l’apatia e l’inattività che denuncia il disagio psicologico di chi è scontento di tutto, di chi oggi sarebbe connotato col termine di “depresso”. Proprio questa clausola, funestus veternus, è collegabile alla strenua inertia, la stressante inoperosità alla quale prima facevamo accenno e che sta al centro dell’Epistola I, 11:
Tu quamcumque deus tibi fortunaverit horam
grata sume manu neu dulia differ in annum,
ut, quocumque loco fueris, vixisse libenter
te dicas: nam si ratio et prudentia curas,
non locus effusi late maris arbiter aufert,
caelum, non animum mutant, qui trans mare currunt.
Strenua nos exercet inertia: navibus atque
quadrigis petimus bene vivere. (Epist. I, 11, vv. 22-29)
“Tu, qualsiasi ora la divinità ti avrà resa felice,
prendila con mano riconoscente e non rimandare le gioie di anno in anno,
per poter dire di essere vissuto volentieri
in qualunque luogo; infatti se raziocinio e saggezza scacciano gli affanni,
e non un luogo che domini l’ampia distesa del mare,
mutano cielo non animo quelli che corrono oltre mare.
Ci affligge una smaniosa indolenza: su navi
e quadrighe cerchiamo la felicità.”
Ancora una volta frustra cerchiamo la felicità altrove:a nulla serve imbarcarsi per un lungo viaggio, poiché, come per Lucrezio, anche Orazio è convinto che la vera serenità risieda solo ed esclusivamente nello stare bene con se stessi.
Giulia Del Giudice