Ciascuno di noi aspira a coltivare la pace nei propri rapporti, ma spesso ciò si rivela complicato. Un conflitto, una controversia nascono tra due o più persone in ragione del fatto che esse possono non andare esenti da pregiudizi ed inoltre perché spesso si assiste ad una comunicazione imperfetta dei concetti sebbene venga utilizzato lo stesso linguaggio.
Per superare almeno il pregiudizio – ossia la rappresentazione di idee ingiustificatamente negative o anche positive nei confronti del nostro prossimo – si sono perseguite nel tempo diverse strategie[1], ma quella che pare aver dato i migliori risultati è il semplice contatto, perché esso dà modo agli uomini di conoscersi e la conoscenza è medico di tanti mali.
Perché la comunicazione possa raggiungere lo scopo che ognuno si prefigge, anche il più fugace contatto richiede perlomeno il perseguimento di alcune semplici regole, ma vi sono occasioni in cui le regole che si adottano non portano ad un dialogo che possa essere proficuo e quindi rimane il problema della comunicazione.
In tal caso potrebbe essere opportuno rivolgersi ad un soggetto terzo, esperto nelle dinamiche dei conflitti, perché faciliti il dialogo ovvero lo ripristini.
Facilitare il dialogo non significa di certo imporre una scelta.
L’essere umano sopporta, infatti, le imposizioni solo quando non ne può fare a meno.
Non è un caso dunque che sin dai tempi antichi in presenza di una controversia che non riuscissero a risolvere vis-à-vis, gli uomini pensassero in primo luogo ad un amichevole componimento tramite amici, vicini e parenti e solo in seconda battuta ad un arbitrato o ad un giudizio.
Persino un accordo in extremis era considerato migliore del giudizio; testimonianza eloquente di ciò ci viene dalle parole del Cristo come ci ricorda l’Evangelista: “Quando vai con il tuo avversario davanti al magistrato, lungo la strada cerca di trovare un accordo con lui, per evitare che ti trascini davanti al giudice e il giudice ti consegni all’esattore dei debiti e costui ti getti in prigione. Io ti dico non uscirai di là finché non avrai pagato l’ultimo spicciolo.”[2].
Nel mondo greco e romano gli accomodamenti a maggior ragione tra consanguinei avvenivano più che altro attraverso conciliazioni e arbitrati[3]che spessoerano effettuati appunto con l’ausilio di vicini e familiari.
Vista la delicatezza delle questioni lo stesso Digesto giustinianeo mantenne il principio per cui le cause tra i parenti dovessero ottenere l’autorizzazione da parte del praetor[4].
In conformità a questa norma cautelativa col passare dei secoli si crearono per i più stretti congiunti dei tribunali di famiglia le cui attribuzioni sono assai ben esplicitate ad esempio dall’art. 12 del decreto dell’Assemblea costituente francese 16-24 agosto 1790: “Elevandosi qualche contestazione tra marito e moglie, padre e figli, avo e nipoti, fratelli e sorelle, nipoti e zii, o altri congiunti negli stessi gradi, come anche tra i pupilli ed i loro tutori per affari relativi alla tutela, le parti dovranno eleggersi parenti, o in difetto amici e vicini, per arbitri, davanti ai quali i contendenti esporranno le loro differenze, e che, dopo averli sentiti ed aver preso le informazioni necessarie renderanno una decisione motivata”.[5]
Di un rapporto tra conciliazione, seppure non nel senso da noi concepito, e la materia delle successioni troviamo accenno sempre nella codificazione giustinianea con riferimento all’istituto della diseredazione dell’erede necessario: colui che diseredava un discendente od un ascendente poteva, in altre parole, riconciliarsi, ma ciò aveva solo una valenza etica, serviva cioè solo a manifestare il perdono in relazione all’ingratitudine ricevuta; dunque la diseredazione rimaneva sino a nuovo testamento[6].
Gli accenni alla conciliazione in epoca giustinianea non furono molti forse per il fatto che a partire da Onorio[7] e Arcadio[8] la procedura venne affidata in mano dei Vescovi, proprio in virtù del passaggio evangelico precedentemente citato.
Vi era per la per la verità, a partire dall’imperatore Valente, anche un organo dell’amministrazione romana, il Difensore di città[9], che svolgeva compiti di conciliazione, ma la codificazione giustinianea che ribadì come prima funzione appunto quella conciliativa[10], fu più interessata a normare gli aspetti contenziosi.
Presso i Longobardi che in genere non conoscevano se non l’accomodamento pecuniario e di solito gli preferivano di gran lunga la faida[11] e quindi la decisione delle armi[12], gli affari più intimi delle famiglie, quando approdavano al processo e non erano giudicati dal tribunale di famiglia[13], erano però sottratti al duello giudiziario e si regolavano di solito per giuramento dei sacramentali[14].
In Francia nel 1796[15] si stabilì che tutte le contestazioni tra coeredi e altre parti aventi interesse, fino alla divisione, dovessero portarsi in via di conciliazione, innanzi al giudice di pace del luogo ove la successione si fosse aperta[16].
Nel 1806 il Codice napoleonico di procedura civile riprese il predetto principio e stabilì che la successione e la divisione fossero oggetto di conciliazione preventiva obbligatoria come prevede l’attuale art. 5 c. 1 del nostro decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28.
L’art. 50 stabiliva in particolare che “Il convenuto sarà citato in conciliazione… III. In materia di successione, sulle domande tra eredi sino alla divisione inclusivamente; sulle domande che venissero intentate dai creditori del defunto prima della divisione; sulle domande relative all’esecuzione delle disposizioni a causa di morte, sino a giudizio definitivo, davanti al giudice di pace del luogo in cui la successione è aperta”.
Il Codice dispensò però dal tentativo quelle procedure che, per qualsiasi materia, vedessero coinvolte più di due convenuti, anche se questi nutrissero il medesimo interesse (art. 49); conseguentemente i conflitti multi parte che intervenissero nei confronti di più di due soggetti litiganti non erano condizione di procedibilità del giudizio nel diritto francese.
E ciò, si diceva, stante la difficoltà di una siffatta conciliazione e per le spese e le noie di viaggio che all’epoca si dovevano sostenere per partecipare ad una conciliazione[17].
A proposito degli eredi poi si riteneva in aggiunta che non ci fosse obbligo di conciliazione, perché ciascun erede non poteva che essere considerato personalmente obbligato per la “sua parte e posizione virile” non avendo gli altri coeredi qualifica di litisconsorti[18].
La regola non si applicava però se la citazione era svolta da più attori e quindi, se i convenuti erano due e gli attori più di due, restava comunque l’obbligo di conciliazione preventiva.
Dunque chi non voleva partecipare ad una conciliazione coinvolgeva spesso più persone estranee come convenute[19], oppure se, al contrario, era preso dall’afflato conciliativo, citava un solo erede, anche se essi erano molti e la giurisprudenza riteneva in tal ultimo caso obbligatorio il tentativo.
La dispensa dal tentativo non comportava ovviamente che non si potesse tenere una conciliazione volontaria o che il suo svolgimento determinasse una nullità[20].
Analoga situazione riscontriamo nei domini napoleonici. Così ad esempio ildecreto di Napoleone 15 Mietitore anno 13 (15 luglio 1805), emesso in Genova relativamente al sistema giudiziario[21], all’art. 126 stabiliva come competente alla conciliazione il giudice di pace della successione per le “dimande fra eredi, ed altre parti interessate sino alla divisione inclusivamente, e sopra quella a termine d’esecuzione di disposizioni per causa di morte sino al giudizio”; la norma aggiungeva però ladispensa dalla conciliazione il caso di soggetti che fossero tre o più[22].
Bisogna però dire che la citazione in conciliazione davanti al “Burò[23]di Pace e Conciliazione” vedeva, per espressa disposizione (art. 36), la chiamata deldifensore del convenuto: quindi veniva effettuata nei confronti delle parti i cui difensori erano già stati individuati; a differenza pertanto della coeva legislazione austriaca del 1803[24] che escludeva in Veneto[25] gli avvocati ed i faccendieri dalla conciliazione[26] e che quindi si imperniava su una conciliazione “effettiva” con le parti, la codificazione napoleonica valorizzava più che altro l’apporto dei procuratori.
Prova ne è che all’udienza il convenuto e l’attore (o meglio i loro legali) potevano modificare la domanda e le eccezioni prima di procedere a tentativo di conciliazione; in definitiva si era in presenza di un tentativo di conciliazione “tra tecnici” che peraltro non era reso neanche tanto appetibile dal momento che il verbale aveva il valore di una semplice scrittura privata (art. 137).
In linea con questa tendenza l’anno successivo il codice di procedura civile della madre patria stabilì il principio secondo cui il difetto di citazione in conciliazione doveva essere eccepito dalle parti e non rilevato d’ufficio dal giudice: in un certo senso dunque la Liguria fu considerata un’esperienza pilota per approntare successivamente un deciso ammorbidimento della condizione di procedibilità.
Nel Sud della penisola il Codice per lo Regno delle Due Sicilie del 1819 non poneva invece limiti soggettivi alla conciliazione in materia di successione: l’art. 25 stabiliva semplicemente che “Gli eredi presuntivi, ed altri che trovansi nel possesso provvisionale dei beni degli assenti possono sperimentare la conciliazione per le liti che non riguardino beni o dritti immobiliari”.
Quindi a patto che non si trattasse di immobili assegnati a titolo provvisorio, la conciliazione che era volontaria, si esperiva in materia ereditaria qualunque fossero le parti ed anzi giova qui ricordare che il conciliatore in Sicilia poteva intervenire motu proprio per spegnere odi ed inimicizie[27]; si può quindi presumere che i tentativi di amichevole composizione fossero abbastanza frequenti.
Sotto il vigore del codice di procedura italiano del 1865 lo erano di certo.
Troviamo qui un consiglio di famiglia sull’esempio francese, ligure ed etneo[28] per le questioni attinenti ai minori e agli incapaci: dunque qualsiasi conciliazione ovvero il promovimento di divisione e transazione, stragiudiziale e non che li riguardasse, doveva passare necessariamente attraverso l’autorizzazione di questo organo.
A parte ciò, quando non ci avesse già pensato il testatore, la divisione che il Codice del 1865 privilegiava era quella amichevole[29].
Capitava però che, specie nelle campagne o nei paesi, coloro che volessero dividere i beni non fossero in grado di operare e si recassero in conciliazione preventiva davanti al conciliatore.
La conciliazione preventiva, allora come oggi[30], non aveva, infatti, limiti di valore o di materia[31], salvo si trattasse di materia nella quale fosserovietate le transazioni[32].
Se non c’era una controversia in atto, ma l’intervento era solo richiesto per la incapacità delle parti di gestire la questione o purtroppo frequentemente per la volontà di aggirare le disposizioni fiscali, il conciliatore più avveduto inviava le parti dal mediatore commerciale, qualora si trattasse di questioni routinarie di poco conto, oppure dal notaio se si trattava di redigere atti complessi.
Se invece sussisteva una vera e propria divergenza di interessi, si teneva la conciliazione e se la proposta di accomodamento non veniva accettata, il conciliatore faceva rimostranze sui guai, sulle spese e l’incerto esito di qualsivoglia lite[33], e se gli rimaneva la speranza di conciliazione, poteva proporre di rimettere la definizione dell’affare in arbitrato ad una terna ovvero a un notaio o a un ragioniere oppure ad un avvocato[34]: in tal caso redigeva egli stesso il compromesso.
Qualora non fosse stata perseguita la via amichevole o fosse fallita, l’ordinamento apprestava la sola via del giudizio in cui si poteva chiedere l’attribuzione dei beni mobili ed immobili in natura e se ciò non fosse stato possibile non c’erano che i pubblici incanti[35] che potevano seguire davanti ad un notaio scelto dalle parti, se tutte fossero maggiorenni[36].
I patti e le condizioni della vendita venivano stabilite d’accordo tra le parti od in difetto dall’autorità giudiziaria[37] che per valore poteva essere il pretore[38] o il tribunale[39].
A questo punto la conciliazione che all’epoca si denominava “ufficiale” veniva svolta dal notaio. Non quindi dal tribunale perché nei giudizi ad esso pertinenti non era prevista, non davanti al pretore perché davanti a quest’ultimo era radicata l’opinione che non si formasse un titolo esecutivo.
Compiuta la stima e la vendita l’autorità giudiziaria rimetteva le parti davanti ad un giudice delegato o ad un notaio che procedeva alla resa dei conti, alla formazione dello stato attivo e passivo dell’eredità, alla determinazione delle rispettive porzioni ereditarie e dei conguagli o rimborsi che si dovessero tra condividenti[40].
In questa fase, qualora fosse stato necessario, veniva utilizzato anche l’istituto dell’esame dei conti di cui all’art. 402 C.p.c.[41], per cui il tribunale nominava degli arbitri conciliatori che procedevano alla conciliazione e se questa falliva essi recavano al tribunale o al giudice delegato un parere meramente consultivo[42].
Anche il pretore ai sensi dell’art. 432 C.p.c. poteva rimettere le parti davanti ad un arbitro conciliatore per la discussione dei conti.
Sia per la legislazione etnea sia per quella italiana, peraltro, non vi era limite alla conciliazione legato al numero delle parti come nella legislazione francese.
Ha dunque una lunga tradizione l’art. 5 c. 1 del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28 che prevede la mediazione come condizione di procedibilità in materia di divisione e successione ereditaria, a partire dal 20 di marzo 2011.
Anche oggi non si sono poste limitazioni legate al numero delle parti e quindi che ciascun erede debba considerarsi o meno singolarmente non ha più alcuna importanza; sono inoltre cambiati i tempi ed i problemi che avevano gli uomini dell’Ottocento in merito alle noie del viaggio e le spese sono attualmente meno pressanti.
Ed infine noi conosciamo tecniche di mediazione facilitativa che possono aiutare ad affrontare efficacemente anche i conflitti multi parte più complessi.
Si deve però aggiungere che la conciliazione che si vorrebbe approntare con il nuovo decreto non ha le caratteristiche della conciliazione ottocentesca.
L’antico conciliatore svolgeva una procedura di conciliazione durante la quale consigliava le parti.
Non si limitava dunque a facilitare la comunicazione, né aveva problemi di sorta ad anticipare con le buone maniere quello che aveva in animo di decidere nel caso in cui le parti fossero tornate da lui in sede contenziosa.
Il limite era che in sede preventiva il giudice di pace non poteva emettere una sentenza perché avrebbe commesso un eccesso di potere[43].
Ma la situazione poteva cambiare in sede giudiziale tosto che, ad esempio, per la giurisprudenza austriaca una transazione giudiziale non cessava d’essere valida per la circostanza che il giudice potesse avervi indotto una parte colla minaccia che, non transigendo, esso avrebbe deciso a favore della parte avversaria[44].
Questo aspetto che noi moderni assertori della mediazione facilitativa consideriamo negativo rimaneva però in ombra nel caso di divisioni perché, come abbiamo accennato, la competenza era ripartita tra il pretore (v. art. 883 C.p.c. – r.d. 25 giugno 1865) ed il tribunale e quindi una sentenza del conciliatore non sarebbe stata nemmeno astrattamente concepibile.
Ma qualche pallida possibilità di condizionare il successivo giudizio con il consiglio poteva forse sussistere in relazione alle successioni, perché il conciliatore del 1892 aveva una competenza per valore sino a 100 lire e quindi le parti avrebbero potuto ritrovarsi di fronte a lui in successivo giudizio, anche se restava teoricamente possibile la ricusazione.
Il campo peraltro era assai ristretto, direi prettamente teorico, perché il conciliatore conosceva entro il valore predetto di tutte le azioni personali e civili e commerciali relativi a beni mobili[45].
Valutate dunque le modeste controindicazioni il parere del conciliatore poteva rivelarsi davvero prezioso per le parti.
In un tempo in cui la maggioranza delle persone apponeva il crocesegno il conciliatore spiegava ai contadini e agli artigiani, che le transazioni operate con dolo e violenza potevano essere oggetto di rescissione[46], che un verbale sancente la lesione di un coerede per oltre un quarto[47] aveva “le gambe corte”, potendo essere rescisso, che prima della divisione qualsiasi atto, e quindi anche un verbale di conciliazione, che avesse fatto cessare tra i coeredi la comunione ereditaria (vendita, permuta, transazione, testamento invalido, ecc.) era del parisoggetto di rescissione, e che invece si doveva riflettere molto bene sulla transazione successiva alla divisione, perché in tal caso poteva non esserci una tutela[48].
Conseguentemente in materie così particolari come quelle della divisione e della successione le parti godevano comunque di una guida per l’accomodamento e potevano muoversi con sicurezza senza perdere per questo il controllo della loro questione.
Con tutte queste cautele era inoltre abbastanza improbabile che il consiglio di famiglia non autorizzasse la conciliazione di un tutore nelle materie in discorso, e pur tacendo che tale organo era convocato dallo stesso giudice che aveva conciliato le parti, sebbene su delega del pretore[49].
La cosa si fa più complessa forse oggi in sede appunto di mediazione facilitativa perché il mediatore non suggerisce alcunché alle parti.
La nostra disciplina in materia è peraltro analoga a quella ottocentesca e gli errori possono essere davvero dietro l’angolo, se le parti ed il mediatore ad esempio ignorino banalmente che le transazioni o conciliazioni precedenti alla morte sono considerati patti successori nulli e non convertibili in un testamento[50]; che si possono realizzare divisioni transattive e quindi conciliazioni rescindibili qualora il valore delle attribuzioni patrimoniali sia proporzionale alle quote di ciascuno dei partecipanti alla comunione[51]; che la transazione divisoria, non è annullabile per errore, né rescindibile in caso di lesione oltre il quarto, qualora pervenga alla formazione delle quote senza il ricorso a criteri aritmetici, ma in maniera bonaria e senza corrispondenza tra entità delle porzioni e misura delle quote spettanti ai comunisti[52] e così via.
A prescindere dunque dalla possibilità che arrivi al presidente del tribunale un processo verbale non omologabile, è possibile che si possa raggiungere un accordo squilibrato, anche qualora detto accordo sia, in fondo, migliore di qualsiasi alternativa rappresentabile dalle parti.
Certo vi sono dei controlli in mediazione, se non all’inizio con la verifica dei poteri, in sede di applicazione dei filtri alle alternative e alle opzioni.
Ma ciò presuppone una padronanza in capo al mediatore della materiaoggetto di mediazione che non è di poco conto.
Il nuovo decreto legislativo prevede che si possa supplire ad eventuali lacune del mediatore con la nomina di un co-mediatore ausiliario o di un consulente tecnico[53], ma ci si può chiedere nel secondo caso se sia davvero il caso, anche alla luce delle prescrizioni comunitarie[54], di sovraccaricare ulteriormente le parti di spese imponendogli per giunta uno sconosciuto, per quanto illustre e preparato, in questioni ove la fiducia è di fondamentale rilievo.
Ci si può domandare se non sia forse più saggio ed anche naturale che la legge incentivi un cammino preventivo di preparazione alla conciliazione con i consulenti di fiducia.
In oggi pare che un’altra risposta sia quella della specializzazione degli organismi nelle differenti materie previste come oggetto di mediazione: questa potrebbe rivelarsi una soluzione vincente, perché ad esempio i tribunali commerciali napoleonici, composti da coloro che avevano fatto commercio, riscossero in Italia una certa fortuna[55], ma è altrettanto vero che più recentemente le conciliazioni camerali nate dalla riforma delle Camere di Commercio del 1993 e quindi in una sede istituzionale, non hanno avuto poi un grande riscontro perlomeno in termini numerici.
Se diamo a volo d’uccello uno sguardo alla disciplina attuale si può qui ribadire, come peraltro già fece il servizio studi parlamentare, che il termine “divisione” è forse troppo vago perché può ricomprendere fenomeni che non sono omogenei[56].
Dobbiamo inoltre sottolineare che comunque la mediazione materia di divisione e successione, come del resto in qualunque altra, fa salvi i provvedimenti urgenti e cautelari[57] e che ci possono essere fasi di procedimento[58] o procedimenti[59] che in qualche modo interagiscono con la materia delle successioni e della divisione e che in ogni casonon richiedono lo svolgimento della procedura.
Il decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28 ha comunque bisogno, a sommesso giudizio di chi scrive, di un raccordo con la disciplina prevista dal Codice civile a tutela degli incapaci, a prescindere dalle materie di cui qui si discute in questo contributo.
Questa era stata la prima preoccupazione del legislatore post-unitario, nel momento in cui aveva pensato alla conciliazione come al cardine del sistema processuale.
L’art. 2 C.p.c., dopo aver disposto in generale che <<La conciliazione può aver luogo quando le parti abbiano la capacità di disporre degli oggetti su cui cade la controversia, e non si tratti di materia nella quale siano vietate le transazioni>>, al comma secondo stabilì che la conciliazione fatta da un tutore o altro amministratore, o da chi non potesse liberamente disporre degli oggetti su cui cadeva la controversia, “aveva soltanto effetto quando fosse approvata nei modi stabiliti per le transazioni”.
La precisazione normativa era fondamentale sotto due profili: a) permetteva di perfezionare il verbale di conciliazione e di sottoporlo successivamente all’autorizzazione; b) consentiva al tutore che nel 1865 avesse voluto conciliare[60] di sapere che doveva sottoporre il verbale di accordo al consiglio di famiglia, perché la transazione abbisognava appunto della autorizzazione di questo organo (art. 296 C.c.[61]).
In altre parole il conciliatore non si fermava mai di fronte all’incapacità personale delle parti: poteva svolgere la conciliazione e poi sospenderla al momento dell’accordo, in attesa di approvazione ovvero stendere il verbale il quale aveva pieno effetto, salva omologazione dell’autorità competente.
Allo stato invece la mancanza di una norma espressa di raccordo sembra prefigurare dal 20 di marzo 2011 un altro scenario.
Se il tutore vuole promuovere un giudizio di divisione dovrà ottenere il parere positivo del giudice tutelare e l’autorizzazione del tribunale[62], ma tali organi non potranno sindacare la partecipazione alla mediazione perché essa è obbligatoria; e questo è già un primo limite; se, infatti, il regolamento dell’organismo adito non prevede espressamente che la procedura di mediazione non generi alcun tipo di affidamento, per il tutore potrebbero nascere difficoltà: non a caso i paesi che storicamente hanno considerato la conciliazione come condizione di procedibilità hanno di solito esentato le tutele e le curatele dal tentativo.
Tuttavia il problema reale che si pone è quello di mettere in grado gli organi preposti di valutare l’esito della mediazione, ossia il contenuto dell’accordo.
Il nuovo decreto legislativo non sembra consentirlo perché stabilisce che raggiunto l’accordo amichevole, il mediatore forma processo verbale al quale è allegato il testo dell’accordo medesimo[63] ed è tale processo verbale che è oggetto di omologazione da parte del presidente del tribunale[64]: dunque non sembra potersi valutarsi, almeno ai fini dell’esecutività, un’integrazione successiva dei poteri del tutore.
E d’altronde non si può pensare di ”fare la spola” tra organismo e tribunale per richiedere autorizzazione durante la procedura, poiché gli organi della tutela o della curatela devono essere in grado di valutare ed integrare con i prescritti provvedimenti il raggiunto accordo.
Se il tutore è chiamato in mediazione in relazione ad una successione o ad una divisione è anche qui obbligato a parteciparvi e quindi non richiederà autorizzazione, ma resta il problema della valutazione da parte delle autorità preposte.
Dunque i casi sono due: o si fa una scelta di politica legislativa che consideri le vicissitudini relative agli incapaci sottratte al regime della mediazione civile e commerciale e lo si dispone espressamente[65], ma ciò potrebbe cozzare contro il nostro attuale ordinamento civile che non stabilisce la nullità degli atti compiuti in difetto di integrazione[66], oppure si prende atto che la tutela degli incapaci richiede regole e cautele particolari per la mediazione ed in particolare la possibilità di una valutazione ex post dell’accordo raggiunto da parte degli organi preposti.
In questo spirito si potrebbe anche pensare ad una mediazione modellata sulle situazioni in cui siano in discussione gli interessi di un incapace.
Ordinariamente la mediazione si compone, ma non è una regola fissa, di alcune sessioni congiunte tra le parti e di altre separate.
Non è una regola fissa perché la procedura di mediazione è per sua natura flessibile, muta da caso a caso e così pure da paese a paese: ad esempio in Giappone si tiene una riunione congiunta iniziale di carattere informativo relativamente alle regole di procedura e poi delle sessioni private, per cui le parti non hanno ulteriori contatti. L’accordo peraltro si basa su reciproche concessioni richieste alle parti dai mediatori e quindi non propriamente sulla soddisfazione degli interessi[67].
Si potrebbe dunque pensare, essendo qui in gioco interessi superiori, ad una procedura nella quale il mediatore alla fine delle sessioni private raccolga l’opzione o le opzioni comuni alle parti e rinvenute dalle stesse e le formalizzi in una sua proposta non vincolante, ove dunque possano essere anche raccolte delle comuni alternative.
Non è un’ipotesi nuova per il mondo della conciliazione: ad esempio in India la conciliazione pre-coloniale (pañcâyat) veniva rimessa ad un collegio di saggi che proponeva una soluzione del conflitto non vincolante in base agli interessi dei due litiganti e all’interesse della comunità[68].
In merito alla proposta il decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28 prevede forse una disciplina favorevole all’ipotesi ventilata, perché stabilisce che <<la proposta di conciliazione sia comunicata alle parti per iscritto. Le parti fanno pervenire al mediatore, per iscritto ed entro sette giorni, l’accettazione o il rifiuto della proposta. In mancanza di risposta nel termine, la proposta si ha per rifiutata >>[69].
In tal modo, anche se il termine è molto stretto, gli organi della tutela potrebbero valutare la convenienza delle opzioni rinvenute e fornire il parere e l’autorizzazione per l’opzione eventualmente prescelta.
A questo punto ed in un successivo incontro si potrebbe stendere l’accordo in tutta tranquillità.
Si dovrebbe però anche prevedere che nel caso in cui il tutore ottenesse un diniego di autorizzazione non vi fossero quelle conseguenze in tema di spese processuali che sono paventate dall’art. 13 del nuovo decreto.
Il decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28 prevede ancora altri conflitti potenzialmente multi parte, ad esempio le controversie in materia di condominio e patto di famiglia.
Tecnicamente tutte queste procedure possono comportare, a seconda dei partecipanti, una lunga e complessa istruttoria (ad esempio le sessioni private preventive) ed oltre ad essere insuscettibili di una definizione in tempi brevi richiedono uno sforzo organizzativo degli organismiche non è certo irrilevante.
I conflitti multi parte sono, infatti, gestiti nella maggior parte dei casi da una o più coppie di mediatori che peraltro non possono essere scelti dall’organismo se non in base al loro affiatamento.
Tralasciate le complicazioni organizzative che dovranno affrontare gli organismi dal marzo prossimo si deve aggiungere qui che la mediazione facilitativa attuale potrebbe, se ben supportata dai consulenti dei medianti e risolti i problemi in relazione all’incapacità delle parti, costituire un’ottima alternativa al giudizio visto che i controvertenti mantengono il controllo della procedura e riescono a chiarire in primo luogo a se stessi quelli che sono i loro interessi, cosa che in materia di divisione e successione potrebbe essere di rilevanza non trascurabile.
Avv. Carlo Alberto Calcagno
Altro metodo che troviamo riprodotto è quello della fusione dei gruppi da cui ci si aspetta un migliore risultato rispetto al dato di partenza, nella convinzione che si aggreghino solo le parti più buone di ciascun gruppo.
Ancora si è attuata una strategia di pluralismo culturale, che mira a valorizzare le differenze come risorse preziose da cui può scaturire un confronto arricchente.
Iidem aaa. Potamio praefecto augustali.
Defensores nihil sibi insolenter, nihil indebitum vindicantes, nominis sui tantum fungantur officio: nullas infligant mulctas, nullas exerceant quaestiones. Plebem tantum vel decuriones ab omni improborum insolentia et temeritate tueantur, et id tantum, quod esse dicuntur, esse non desinant.
(“I difensori non punendo nulla contrariamente alla loro abitudine e nulla ingiustamente, si tengono tanto lontani dal ruolo che gli proviene dal loro stesso nome: non infliggono multe, non istruiscono processi. Proteggono la popolazione ed in particolare i decurioni da ogni eccesso e sconsideratezza dei malvagi, e a tal punto ciò che sono detti essere, non smettono di essere”).
Dat. III. non. mart. Constantinopoli, Arcadio a. ii. et Rufino v.c. coss.
Interpretatio. Defensores secundum suum nomen curiam vel plebem sibi commissam cum omni iustitia et aequitate defendant; nullum de innocentibus aut condemnare aut verberare praesumant.
“Interpretazione. I difensori secondo il ruolo che gli proviene dal loro stesso nome proteggono la curia o la popolazione a loro affidata con ogni giustizia ed equità; non hanno la presunzione di condannare o di castigare nessuno tra gli innocenti”.