I poeti siciliani

Qui riposa Federico II

S. Re- L. Simoni. L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001

R. Luperini-P. Cataldi-L. Marchiani-F. Marchese. La scrittura e l’interpretazione. Dalle origini al manierismo. Volume primo. Palumbo editore. Firenze. 2000.

AA. VV., La letteratura italiana in Cd-Rom, G. D’Anna editore- La repubblica Edizioni.  Milano. 1999.

S. Guglielmino-H. Grosser. Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994

E. Gioanola, Storia della Letteratura italiana. Dalle origini ai giorni nostri. Librex editore, Milano, 1992.

A. Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento, Giuseppe Principato editore. Messina-Milano, 1937.
C. A. Calcagno, I Poeti Siciliani, in I Grandi Classici della Poesia Italiana, Duecento, A.L.I. Penna d’Autore, Torino, 2006

             

La poesia lirica italiana nasce in Sicilia intorno alla metà del secolo XIII, con un secolo e mezzo di ritardo rispetto alla poesia occitanica, modello ineludibile per i nostri poeti, tutti funziona­ri della Magna Curia (la Corte imperiale di Palermo[1] di Federico II[2] e dei suoi figli Manfredi ed Enzo).

 

            Il grande imperatore promosse ogni forma culturale[3], ma perché nascesse la poesia era necessario il concorso di un autentico talento, quello appunto di Jacopo (Giacomo) da Lentini, protonotario di corte, ossia primo segretario o cancelliere di Corte[4].

            Dal momento che quest’ultimo forse scrisse le sue liriche fra il 1233 e il 1240, si attribuisce a questo periodo l’inizio della scuola dei poeti siciliani.

            Altri poeti vicini o della scuola siciliana tuttavia sono sicuramente da ricordare.  

            Il primo è Cielo d’Alcamo che si ritiene fosse un giullare campano o uno studente siciliano della scuola salernitana (pochissime ed incerte notizie si hanno comunque sul suo conto)[5].

            Secondo una nota dell’umanista Angelo Colucci appartiene a Cielo D’Alcamo il famoso contrasto (dialogo) Rosa fresca aulentissima, ricordato da Dante nel De vulgari eloquentia, scritto in un dialetto meridionale tra il 1231 e il 1250.

            Composto di 32 strofe di cinque versi, pare un testo destinato alla rappresentazione scenica, ed è il dialogo tra un giullare seduttore e una ragazza che, dopo qualche resistenza, finisce per capitolare.

            Segue un modello consueto della letteratura popolare del tempo, ma con una notevole consapevolezza della rappresentazione psicologica.

            Il componimento Rosa fresca aulentissima ch’apari inver’ la state riprende modelli tematici e stilistici già presenti nella letteratura provenzale, che ci testimoniano la familiarità del poeta con la cultura del suo tempo.

            Tuttavia, a differenza di altri, Cielo inserisce nel testo forme e battute proprie del linguaggio popolare, che hanno una forte connotazione realistica. Ciò induce a supporre che con lui sia cambiato, almeno in parte, il pubblico cui l’opera è destinata: non solo uomini di corte, e dunque di cultura, ma anche uditori di ceti più bassi, di fronte ai quali il dialogo può essere cantato o, tra l’altro, sceneggiato.

            L’abilità con cui stile alto e stile umile sono alternati e fusi esclude, tuttavia, che si possa pensare ad un autore “popolare”: siamo di fronte, semmai, ad un accorto uso di modi popolareggianti da parte di un letterato, di un uomo colto che si compiace di sperimentare diverse forme espressive.

            Si deve menzionare ancora Giacomo Pugliese di cui ci resta il canzoniere più nutrito.

            Segue poi Rinaldo d’Aquino: personalità di rilievo, forse parente di San Tommaso. È autore sia di testi in stile elevato, sia di poesie di tono popolaresco come la celebre canzonetta Già mai non mi conforto, o “lamento del crociato“.

            La critica, soprattutto quella romantica, ha attribuito a lungo la presenza di questa vena popolare a una presunta spontaneità del poeta, ma essa appare oggi piuttosto il frutto di una meditata scelta stilistica, che rispetta i canoni retorici del tempo e testimonia la formazione dotta dell’autore.

            Ma ancora si segnala Odo delle Colonne[6], il più vicino ai provenzali.

            In ultimo, ma non ultimo, Pier della Vigna da Capua che si dedicò invece con maestria alla prosa aulica, un genere di discorso tipicamente diplomatico e fu anche autore di pregevoli opere in latino.

            Ma ci furono anche poeti delle regioni settentrionali che ci avvertono che l’attributo siciliano va preso come un semplice riferimento topografico.

            In ogni caso la fioritura della poesia siciliana fu intensa ma breve, essendo già terminata nel 1250, quando Federico morì (anche se di vera e propria fine della scuola siciliana si può parlare solo con la morte di Manfredi nel 1266).

            Federico voleva che i suoi poeti creassero poesia d’amore in volgare siciliano anche perché egli desiderava sganciarsi del tutto dalle influenze ecclesiastiche e pontificie: la corte doveva essere il luogo della gioia oltre che del sapere, centro produttivo di cultura, non soltanto strumento di una concezione del mondo e di un potere trascendenti.

            Lo stesso imperatore ed i figli (Enzo, Federico D’Antiochia, Enrico e Manfredi) furono autori di versi[7], dando per primi l’esempio di quel dilettantismo che caratterizza i poeti siciliani a differenza di quelli provenzali[8]: i primi infatti erano funzionari, notai o magistrati della corte che facevano poesia come attività di ricreazione rispetto alla loro reale attività.

            Per tale motivo i siciliani non sono affatto, in quanto poeti, al servizio di un sovrano, e per questo non trattano mai argomenti politici: della lirica trovadorica cercano e interpretano soltanto il tema amoroso e l’amor cortese.

            La scelta tematica comporta anche una scelta di stile: è una poesia monostilistica, senza concessioni al trobar clus e alle sperimentazioni di vario genere: la mira fondamentale è quella dell’armonia, della perfezione tecnica, della musicalità.

            Si direbbe che questa poesia, scritta per la lettura e non per il canto[9], abbia assorbito in sé le esigenze armoniche della musica, perfettamente equilibrata nella scansione regolare delle quartine e delle terzine.

            Vocaboli e costrutti latini, francesi, provenzali, scelti tra i più raffinati, furono innestati sul tronco del dialetto siciliano e certo giovarono al fine di quell’aulicità di dettata che permise ai testi della Scuola di imporsi, come modelli esemplari di stile, anche in aree culturali lontane: soprattutto in Toscana.

            Anche nella poesia siciliana, come nella poesia trovadorica, l’amore è presentato nella forma idealissima dell’omaggio del poeta alla donna, non più, però, domina nel senso feudale di signora della corte, a cui l’ossequio d’amore è rivolto come da vassallo a padrona, ma signora in senso interiore[10], oggetto altissimo di una mira senti­mentale assoluta, senza riferimenti concreti: per cui si può dire che sia l’Amore stesso[11], più che la donna, il vero argomento di questa poesia.

            Dal momento che questi poeti sono funzionari di alto livello, assimilati per grado e funzioni alla nobiltà di sangue, la tematica amorosa riguarda spesso gli effetti dell’amore sull’animo del soggetto: e sono effetti, appunto, di nobilitazione, di innalzamen­to dell’ani­mo, di accostamento ai privilegi della “virtù”, e della “fortuna” (due termini largamente presenti, di netta anticipazione rispetto allo stilnovismo).

            Siamo anche qui in presenza di una poesia molto stilizzata e convenzionale[12], ma ciò non toglie che questi poeti, a cominciare da Jacopo Da Lentini, danno vita ad una ricca fenomenologia degli effetti amorosi sull’animo, con invenzioni metaforiche di grande efficacia.

            Giacomo Pugliese e Rinaldo D’Aquino hanno però anche tratti di poesia non riconducibili al greve intellettualismo della Scuola e certamente rilevatori di nativa sensibilità alla vita reale.

            Ma l’importanza autentica della scuola siciliana, al di là di ogni giudizio di valore sulla consistenza di questa poesia, sta nell’invenzione di un linguaggio letterario: il volgare passa di colpo dall’uso parlato alla più raffinata organizzazione della scrittura poetica.



Jacopo da Lentini

Amor è uno desio che ven da core[13]

Amor è un[o] desio che ven da core

per abondanza di gran piacimento;

e li occhi in prima genera[n] l’amore

e lo core li dà nutricamento.

 

Ben è alcuna fiata om amatore

senza vedere so ’namoramento,

ma quell’amor che stringe con furore

de la vista de li occhi ha nas[ci]mento:

 

ché li occhi rapresenta[n] a lo core

d’onni cosa che veden bono e rio,

com’è formata natural[e]mente;

 

e lo cor, che di zo è concepitore,

imagina, e [li] piace quel desio:

e questo amore regna tra la gente.

L’amore è un desiderio che proviene dal cuore

per eccesso di piacere;

e sono gli occhi a generarlo

ed il cuore lo nutre.

 

È vero tuttavia che un amante

ama senza vedere l’oggetto del suo innamoramento[14],

ma l’amore che avvince con la stretta della passione

ha origine dalla vista degli occhi:

 

perché gli occhi riportano al cuore

l’immagine d’ogni cosa buona e cattiva,

così come essa è al naturale;

 

e il cuore, che accoglie tale immagine,

la rielabora, e si compiace di quello che è ormai un desiderio:

e le persone sono dominate da questo amore.

 




[1]Punto d’incontro tra civiltà diverse (araba, cristiana, ebraica) e precorritrice del fenomeno, destinato ad avere rigoglioso sviluppo durante il 1400 e il 1500, del mecenatismo, ossia della protezione e dell’incoraggiamento dato dai Signori agli “intellettuali”, e quindi dello sviluppo della cultura.

[2] Imperatore del Sacro Romano Impero e re di Germania.

[3] Si interessò vivamente di filosofia, di diritto, di scienze naturali, di astronomia; inoltre parlò correttamente sette lingue.

[4] Jacopo da Lentini, visse fra il 1210 e il 1260 circa (per alcuno morì fra il 1246 e il 1250), fu notaio imperiale di Catania e poeta considerato da molti il caposcuola del cenacolo poetico siciliano.

Si dice che sia stato l’inventore del sonetto.

Dante ne cita una canzone nel De Vulgari Eloquentia come se egli fosse un caposcuola. 

Lo chiama “‘Il Notaro” per antonomasia e lo considera l’esponente tipico della poesia di corte (Divina Commedia, Pg. XXIV, 56).

I versi del Lentini, pur imbevuti di manierismo cortese, sono pieni di ampiezza espressiva e tematica e nelle liriche amorose esprimono ardore e spontaneità.

Di Jacopo ci restano una quarantina di componimenti: numerose le canzoni, di varia struttura, talora unissonaus, al modo provenzale, cioè con rime costanti.

I suoi temi si raccolgono intorno a un sentimento amoroso pur nella ispirazione di moduli e strutture provenzali (come nel sonetto Meravigliosamente o Amore è un desio che ven da core) ma sa trovare anche personali accenti (si legga in particolare il sonetto Io m’agio posto in core a Dio servire).

[5] Cielo sarebbe il diminutivo di Michele (Celi) mentre Alcamo, che è una cittadina siciliana, indicherebbe la provenienza del poeta.

[6] Rarissime e incerte sono le notizie biografiche. Molto apprezzato nel XIX secolo perché meno legato ai canoni della scuola siciliana più incline ai motivi naturali del canto popolare, mostrò vivacità ritmica nei versi.

[7] Federico coltivò sia la versificazione volgare sia quella latina.

[8] Che erano poeti di mestiere e vivevano come cortigiani del frutto del trobar.

[9] La poesia provenzale, come quella in lingua d’oil, era invece sempre accompagnata dalla musica.

[10] È interessante notare, però, che in Provenza la situazione descritta idealmente nella poesia era davvero simile a quella reale, poiché quella regione era suddivisa in tanti piccoli feudi, ciascuno retto da un Signore, che stabiliva con i suoi fedeli un rapporto di vassallaggio corrispondente a quello che la donna stabiliva nei confronti dei suoi innamorati; ma questo non è il caso della corte di Federico II, assai più centralizzata. Il modello feudale appare qui fittizio: è, più che altro, spunto e terreno per sperimentare nuove forme poetiche, per esercitare e raffinare lo stile; contemporaneamente, offre agli scrittori l’occasione per affermare la propria collocazione di intellettuali che si dedicano all’esercizio letterario per passione, e in tale esercizio mostrano la loro abilità e sapienza. Così essi rivendicano, insomma, il prestigio legato ad una precisa condizione socioculturale.

 [11] Svuotato dell’aura religiosa che esso ebbe in origine ma arricchito di molte implicazioni dottrinali.

[12] La donna ha sempre gli stessi tratti fisici e psicologici: testa bionda, chiaro viso, distaccata alterezza, enigmatica chiusura alla pietanza (pietà) per l’amante.

[13] Si tratta di un sonetto (schema ABAB ABAB CDE CDE) che fa parte di una “tenzone poetica” intervenuta tra il Lentini ed altri due poeti della scuola siciliana. Il tema su cui si dibatte concerne la natura, l’essenza e gli effetti dell’amore. Il Mostacci sostiene che si tratti di un’entità invisibile di cui però il poeta si chiede l’origine. Pier Delle Vigne è d’accordo sulla invisibilità, ma ritiene che l’amore si faccia comunque sentire nel cuore; il Lentini nella lirica qui riportata afferma invece che sia un’esperienza dei sensi e soprattutto visiva: penetra proprio dagli occhi e trova nutrimento nel cuore che rielabora il desiderio fino a che questo non si trasforma in furore e domina l’innamorato con un pensiero fisso. È questo un topos che rimarrà nella poesia lirica fino al Petrarca, ma che poi si ritroverà anche nell’epica (si pensi all’Orlando Furioso dell’Ariosto) e che trova i suoi fondamenti nel notissimo trattato De amore di Andrea Cappellano, ed in particolare nell’asserzione sull’amore: “Si muove per veduta e per grandissimo pensiero di persona ch’abbia altra natura”. 

[14] Qui Lentini cita la tesi del cosiddetto “amore da lontano” che viene portata avanti in modo sublime dal trovatore provenzale Jaufre Raudel (vedasi ad esempio la lirica “Poiché il getto della fonte”).

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