Sulle origini della lingua e della letteratura italiana (Prima parte)

Valnontey
– S. Re-L. Simoni,  L’invenzione letteraria. Volume primo. Carlo Signorelli editore. Milano. 2001

– Lingua francese,”Microsoft® Encarta® Enciclopedia Online 2009 http://it.encarta.msn.com © 1997-2009 Microsoft Corporation. Tutti i diritti riservati.
– R. Luperini – P. Cataldi – L. Marchiani – F. Marchese, La scrittura e l’interpretazione. Dalle origini al manierismo. Volume primo. Palumbo editore. Firenze. 2000.
– AA. VV., La letteratura italiana in Cd-Rom. G. D’Anna editore- La repubblica Edizioni.  Milano. 1999.
– S. Guglielmino – H. Grosser, Il Sistema Letterario. Duecento e Trecento. Giuseppe Principato editore. Milano. 1994
– E. Gioanola, Storia della Letteratura italiana. Dalle origini ai giorni nostri. Librex editore. Milano.1992.
– A. Momigliano, Antologia della letteratura italiana. Volume primo. Dalle origini al Quattrocento. Giuseppe Principato editore. Messina-Milano. 1937.

La lingua italiana deriva per trasformazione dal latino parlato dal popolo; ma occorre precisare che è il latino parlato a trasformarsi con più duttilità, mentre il latino scritto, quello usato per finalità letterarie e culturali, è di gran lunga più statico, tende, grazie soprattutto all’opera dei chierici, ad autoriprodursi e a cristallizzarsi[1]:ciò è molto importante perché determina il mantenimento di una cultura unitaria in Europa ma nello stesso tempo determina anche l’allontanamento della lingua parlata da quella scritta.

         Nelle varie aree (Italia, Francia, Spagna ecc.) che avevano fatto parte dell’Impero romano e avevano avuto come lingua ufficiale ed imposta il latino, sorgono per una serie di fattori[2] quelle lingue che vengono chiamate neo-latine o romanze[3].
         Per l’Italia bisogna tener conto dell’influsso che esercitano in questa trasformazione del latino parlato le dominazioni dei popoli germanici (i Goti di Teodorico[4], i Longobardi[5], i Franchi che peraltro coltivano anche il latino scritto[6]) nell’area settentrionale e quella degli Arabi soprattut­to in Sicilia[7].
         Tenendo conto della differenza – per così dire, istituzionale – tra la lingua scritta (di destinazione culturale) e lingua parlata (di destinazione pratico-comunicativa) si arriva via via ad una situazione di “bilinguismo”; vale a dire: il popolo, il volgo parla una lingua che è risultato della trasformazione plurisecolare del latino, e che viene appunto detta “volgare”, mentre per le destinazioni ufficiali (editti, liturgia, ecc.) viene usato appunto il latino.
         Ad un certo punto (IX-X sec.) però si ha la chiara consapevolezza sia della distanza che c’è fra latino scritto e volgare sia – e soprattutto – del fatto che il volgare è una lingua “completa” e funzionalmente autosufficiente; e ciò grazie all’apporto dei dotti che ne pongono le regole per l’uso scritto: l’utilizzazione tuttavia inizialmente ha una ragione pratica o religiosa[8], solo in un secondo tempo, come già abbiamo accennato più sopra, nascerà quella che noi chiamiamo letteratura.
         È importante sottolineare come le considerazioni sopradette smentiscano la tesi cara alla critica romantica, secondo cui la nascita delle lingue volgari fu il frutto di un’autonoma e spontanea elaborazione “dal basso”, sorta dal profondo della coscienza popolare senza la mediazione della cultura classica e degli intellettuali di professione: insomma, una specie di slancio vitale che spazzò via una tradizione ormai fiacca e isterilita, sostituendola con forme più libere e pronte ad accogliere la sensibilità di un mondo nuovo.
         Al contrario, la mediazione e il filtraggio ci furono, fino a produrre, soprattutto nell’area romanza, un bilinguismo in cui latino e volgare non si configuravano come opzioni alternative, ma come soluzioni complementari e integrate da utilizzare di volta in volta a seconda dei contesti, dei generi e dei destinatari.
         In questo ordine di idee va collocato il cosiddetto Indovinello veronese risalente ad un giorno imprecisato tra la fine del secolo VIII e del secolo IX: un chierico della cattedrale veronese scrive tre righe sul margine superiore del manoscritto che aveva davanti (un libro liturgico spagnolo).
         La terza riga è una breve formula di invocazione in latino, ma le altre due sono di altro genere e contengono dei versi spiritosi (una specie di indovinello per gli altri monaci), un’analogia tra il lavoro dei campi e quello dello scrittore.
Se pareba boves, alba pratalia araba,
 
(lo scriba) si spingeva davanti i buoi (le dita che reggono la penna), arava un campo bianco (il foglio di pergamena)
albo versorio teneba, et negro (?) semen seminaba 
reggeva un bianco aratro (la penna d’oca), e seminava nero seme (l’inchiostro)
Gratia tibi agimus, potens sempiternus Deus.
ti ringraziamo, potente sempiterno, Dio.
 
I primi due versi dunque contengono caratteristiche che non sono più latine ma rimandano ad un linguaggio della vita di tutti i giorni, un linguaggio <<neolatino>> per la prima volta fissato nella scrittura.
       Il passaggio dal latino all’italiano si nota dalla mancanza di desinenze (il sistema è andato ormai in crisi): albo versorio sta per album versorium; negro sta per nigrum (qui la i latina è sostituita dalla é); sono cadute le desinenze verbali di terza persona singolare, pareba, araba, teneba, seminaba, sostituiscono le forme parebat, arabat ecc.; boves e semen sono forse  latinismi o piuttosto forme neolatine proprie dell’area friulana.

[1] Fenomeno questo che è proprio di tutte le lingue letterarie.
[2] Venir meno dell’autorità centrale, scambi commerciali, contatti o dominazioni straniere.
[3] E il termine sottolinea il ceppo originario; si tratta del portoghese, del ladino, del catalano, del castigliano, del provenzale, del francese d’oil, del sardo e dei volgari italici.
[4] Forse il primo esempio di convergenza tra ideale monastico e vocazione letteraria era stato Aurelio Cassiodoro, discendente di una famiglia dell’antica nobiltà romana colta, che dopo aver servito come ministro a Ravenna il goto Teodorico, aveva abbandona­to la sua carica per ritirarsi nella natia Calabria e dare vita alla comunità di preghiera e di studio del Vivarium; qui Cassiodoro scrisse, fra le altre cose, quelle Istituzioni che costituirono un vero ponte di collegamento tra la cultura classica e quella cristiana medievale, con la spiegazione delle cosiddette “arti liberali” del Trivio e del Quadrivio, fondamento per molti secoli dell’istruzione scolastica. Con Cassiodoro a Ravenna ritroviamo il grande filosofo Severino Boezio che ha scritto il De consolatione philosophiae, uno dei testi più famosi del Medio Evo.
[5] Questo popolo fu progressivamente conquistato da quella civiltà che aveva sopraffatto, accettando in parte la lingua ed il diritto dei latini. A Pavia, capitale del regno, fu addirittura fondata una scuola di grammatica latina, mentre furono stretti i collegamenti con il monastero di Bobbio: presso la Corte di Desiderio operò Paolo Diacono; anche Verona vide fiorire un importante scriptorium presso la sede episcopale.
[6] In ambito culturale Carlo Magno capì l’importanza dell’i­struzio­ne nonostante non fosse, come i suoi conti e funzionari del resto, nemmeno in grado di scrivere correttamente; favorì soprat­tutto la cultura dei religiosi, poiché voleva valersi del clero per incivili­re i popoli barbari dell’impero; negli scriptoria dei monasteri, protetti e arricchiti dall’imperatore, venivano riprodotti testi sacri e profani dell’an­tica Roma, miniati con grande maestria e trascritti nelle nitide lettere latine che si usano ancora oggi. Si tratta della limpida ed elegante scrittura carolina, in sostituzione della brutta ed illeggibile scrittura merovingia. Ma l’imperatore non disdegnò nemmeno l’acculturamento dei laici dal momento che aprì nella stessa sua corte una scuola, detta Accademia palatina, alla quale chiamò dotti da tutta Europa, come il monaco Alcuino, autore di notevoli opere teologiche e poetiche, che diresse l’Accademia predetta; lo storico longobardo Paolo Diacono; il tedesco Eginardo, biografo dell’impe­ratore e molti altri. Sul modello della Palatina sorsero altre scuole presso arcive­scovadi e monasteri, per l’istruzione degli ecclesia­stici e dei laici; l’insegnamento era ordinato nelle sette arti liberali del Trivio (grammatica, retorica, dialettica) e del Quadrivio (aritme­tica, geometria, musica e astronomia).
[7] Ma l’influenza araba attraverso i commerci e i traffici si estende comunque ben al di là dei territori conquistati.
[8] Con il concilio di Tours dell’813 si fa obbligo agli ecclesiastici di rivolgersi ai fedeli nella loro stessa lingua.
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