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Al costituirsi di una poesia d’arte nell’Italia romanza giovò, probabilmente molto più dell’epica francese, la lirica provenzale, fiorita in Provenza ed in altre regioni del sud della Francia (Aquitania, Limosino, Alvernia) fra i secoli XI e XIII.
Nata nelle corti[1], la lirica occitanica ne rispecchiò gli ideali <<cortesi>>, ossia quel complesso di valori che l’alta società feudale compendiava nel termine cortesia: <<la lealtà, la liberalità, la misura o discrezione, il valore delle armi e, loro coronamento, l’amore inteso come passione irresistibile, dedizione assoluta, che non conosce limiti nelle distinzioni sociali, né quelli della morale religiosa, che è anzi esso stesso fonte e supremo criterio di morale>> (Accame Bobbio).
Si trattava di un vero e proprio codice di comportamento che regolerà la relazione tra gli amanti nell’Europa occidentale durante tutto il Medioevo. Influenzato dagli ideali della cavalleria, l’amor cortese fu celebrato tra l’XI e il XIII secolo nelle canzoni dei Trobadours[2], che ne codificarono le norme principali.
I trovatori appartengono a ceti diversi, ma la comunanza di vita nella corte e i riconoscimenti ottenuti grazie alla fama poetica finiscono col minimizzare le differenze dovute alla nascita, creando una specie di integrazione sociale.
La produzione cortese è ricchissima, e non è esclusivamente maschile: si contano infatti almeno diciassette poetesse in lingua d’oc.
In base al codice cortese la lirica che ha prevalentemente carattere amoroso[3] (pur senza escludere i temi dell’impegno politico e morale), trae modelli di comportamento e di linguaggio dall’ambiente feudale.
Il poeta è un “vassallo” che si sottomette alla donna amata[4], la serve e attende da lei il beneficio[5]. I suoi ideali sono ancora la fedeltà, il coraggio, l’eroismo, ma altra diventa la loro destinazione: il poeta si consacra alla dama, la onora e le è devoto fino al sacrificio.
Questo sentimento abbraccia ogni aspetto della sua personalità, lo coinvolge profondamente e si traduce in un continuo impegno a migliorare se stesso.
In tal modo il poeta ingentilisce il suo animo e lo guida verso la conquista della perfezione morale.
L’amore cortese, è anche inteso come insieme umano di passioni, desideri, sofferenze e frustrazioni. Attraverso la lirica il poeta impara a conoscere se stesso e ad analizzare la propria anima. All’eroe che la tradizione epica aveva innalzato, il trovatore insegna l’umiltà, la generosità, la devozione e il rispetto umano.
I princìpi di questa concezione dell’amore sono tanto precisi che si trovano definiti in veri e propri trattati (come le trentuno tesi del “De Amore” del francese Andrea Cappellano[6]): l’amore può vivere solo in animi nobili, esenti da meschinità o vizi, e deve restare “segreto” (una volta che gli amanti si sono dichiarati); l’innamorato ha il dovere di nasconderlo, di “schermarlo”, così l’identità della donna viene celata con un nome fittizio (il cosiddetto senhal); il matrimonio è inconciliabile con l’amore[7], che si nutre di ostacoli e riceve maggior forza dall’impossibilità di possedere la donna amata.
Su questi motivi di fondo si sviluppa una vastissima gamma di ramificazioni tematiche e formali.
Alla lode della donna e alle riflessioni del poeta sui propri turbamenti amorosi si accompagna l’uso metaforico del linguaggio feudale, l’insistenza su allusioni oscure, che rivelano l’identità dell’amata solo a chi è in grado di decifrarle.
Addirittura a volte questa poesia, per eccesso di sottigliezze intellettualistiche, si fa contorta ed oscura, configurando il trobar clus (=<<poetare chiuso, ermetico>>) in opposizione al trobar leu (“poetare chiaro, aperto”)[8].
Per la mancanza di un autentico palpito umano la lirica amorosa dei provenzali dà quasi sempre la sensazione dell’artificio, e risulta monotona e fredda sia nelle stilizzazioni della donna e del paesaggio, sia nella resa degli stati d’animo dell’amante: del resto a livello di contenuto essa non ha mai uno sbocco concreto[9], perché la conquista della “domina” significherebbe un soverchiamento delle gerarchie feudali.
Le va però riconosciuto il merito di aver fornito per prima all’Europa un esempio di poesia romanza costruita con propositi di alta raffinatezza formale, secondo il concetto dell’arte come operazione tanto più nobile quanto più sensibile agli strumenti di un ricco obrador (laboratorio) tecnico.
Bisogna ancora rilevare che alcuni suoi rappresentanti (Bertrand De Ventadorn[10], Bertrand De Born[11], Arnaut Daniel[12], Guglielmo IX di Aquitania, Giraut De Bornelh, Jaufre Rudel[13]) talvolta riuscirono ad immettere nel convenzionale repertorio della scuola accenti di schietta poesia, che risuoneranno nella migliore lirica italiana, dagli stilnovisti a Petrarca.
In altre parole, in quest’ultimi poeti (ricordati in parte anche da Dante), l’abilità formale giunge ad una straordinaria perfezione tecnica, grazie alla quale lo schematismo delle situazioni passa in secondo piano, e il riferimento al rituale di vassallaggio perde di concretezza e si trasforma in uno spunto per raffinate sperimentazioni di stile.
La poesia occitanica fu presto conosciuta in Spagna, in Germania[14] e nelle corti del nord Italia attraverso l’opera dei trovatori tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII, dopo che sulla Provenza si fu abbattuta la crociata promossa da Innocenzo III contro gli Albigesi.
I poeti italiani tuttavia non ottennero grandi risultati dall’imitazione, anche se alcuni anticipano temi e forme di successive e più adulte esperienze.
Si ricorda qui soprattutto Sordello da Goito[15] ed il suo <<sirventese>> In morte di Ser Blacas, in cui risuonano vigorosi accenti polemici contro la cupidigia e la faziosità dei signori d’Italia.
Carlo Calcagno
[2] <<Trovatori e trovieri>> detti dal verbo trobar, indicante la ricerca poetica e quindi equivalente al nostro <<poeta>>.
[3] Di fin’amor come si diceva in lingua provenzale. Nel sistema ideologico che sta alla base del romanzo l’amore non è invece elemento imprescindibile.
Tale canone risale forse alla saison del 1174, presieduta da Maria di Champagne (figlia di Eleonora di Aquitania), ove si asserì che l’amore “tra marito e moglie è impossibile, poiché i coniugi hanno il dovere di prestarsi ai reciproci desideri e non rifiutarsi scambievolmente nulla, mentre gli amanti si concedono favori liberamente e non spinti da necessità legale”.
[8] Intorno al 1170 alcuni trovatori cominciano a prediligere una lingua difficile, fatta di espressioni complicate, spesso ellittiche e contrastanti, a volte fin nelle sonorità. Si tratta di una vera e propria forma di ermetismo che prende il nome di trobar clus, ovvero creazione “chiusa”, “oscura”. Emblematica, a questo proposito, la definizione che il trovatore Raimbaut d’Aurenga dà della propria attività poetica: “Cars, bruns et teinz motz entrebesc, / pensius pensanz” (Parole preziose, scure e cupe, io intreccio, pensosamente pensoso). Al trobar clus si contrappone lo stile più accessibile del trobar leu il cui massimo rappresentante è Guiraut de Bornelh. C’è poi, infine, il trobar ric, che si ispira al trobar clus e che predilige la sontuosità della lingua e il virtuosismo della versificazione; il rappresentante più significativo di questa tendenza è Arnaut Daniel. Tutti questi termini sono stati poi spesso utilizzati anche per parlare della lirica dei secoli successivi.
[10] Trovatore del sec. XII, attivo alla corte di Eleonora d’Aquitania. Ha lasciato una quarantina di componimenti poetici.
[11] Bertrand de Born è un famoso cavaliere trovatore che istigherà il giovane re Enrico III contro il fratello Cuor di Leone che era entrato in gran pompa a Limoges e, per volere della madre Eleonora, vi aveva contratto matrimonio simbolico con la Santa protettrice Valeria, patrona di Aquitania: nella chiesa di Saint-Etiènne Riccardo, in segno di legame con i suoi vassalli, si mise al dito l’anello della Santa.
[12] Poeta provenzale nato in Dordogna (Francia), nel vescovado di Périgord, e fiorito tra il 1180 e il 1210. Fu tra i maggiori seguaci di quel genere di poesia ermetica e tecnicamente ardua (trobar clus) che ebbe in Marcabruno il proprio iniziatore. Considerato da Dante, nel De vulgari eloquentia (II 2, 9), come il trovatore più importante dopo Giraut de Bornelh e senz’altro il maggior compositore in lingua d’oc di poesie d’amore, Arnaut Daniel è celebrato in Purg. XXVI 115-26 come il principe non solo dei poeti (compreso lo stesso Giraut), ma anche dei prosatori volgari. I termini con i quali, per bocca di Guido Guinizzelli, viene espresso questo primato (“Versi d’amore e prose di romanzi / soverchiò tutti …”, Purg. XXVI 118-19) hanno indotto in passato alcuni studiosi a ritenere possibile che Arnaut abbia composto anche alcuni romanzi, andati poi perduti (ipotesi oggi completamente accantonata). Al virtuosismo metrico-stilistico della poesia arnaldiana Dante rende un esplicito omaggio anche in De vulgari eloquentia II ix-x, dove dichiara di aver derivato la tecnica compositiva della sua sestina Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra da quel tipo di stanza, usato da Arnaut in quasi tutte le sue canzoni, indivisa e priva di rime al suo interno (cobla dissoluta), nella quale ogni verso rima con il suo corrispettivo della strofa successiva (coblas unissonans).
[13] Trovatore provenzale, morto prima del 1164. Originario del Sanitonge e principe di Blaye, fu in relazione con Alfonso Giordano di Tolosa e Ugo Bruno VII di Lusignano. Secondo l’autore della sua Vida, Jaufre Rudel prese parte alla seconda crociata (1147) per raggiungere in Siria la contessa di Tripoli Melisenda, figlia del conte Raimondo I, della quale si era innamorato per fama, senza averla mai vista. Ammalatosi durante il viaggio, morì, appena arrivato, tra le braccia dell’amata. A questo episodio della biografia di Jaufre si riferisce la citazione di Petrarca in TC IV 52-53 “Giaufrè Rudel, ch’usò la vela e ‘l remo/a cercar la sua morte…”. Alla leggenda rudeliana dell‘amor de lonh Petrarca sembra alludere anche in RVF 53, 103 “se non come per fama uom s’innamora”.
[15] Poeta assai amato e stimato da Dante Alighieri che lo celebra con accenti altissimi nel canto VI del Purgatorio. Nato a Goito vicino a Mantova nei primi decenni del secolo XIII fu buon trovatore e raggiunse i suoi maggiori successi poetici intorno alla metà del secolo.
Visse presso numerose corti: a Ferrara presso Azzo d’Este, a Verona presso Riccardo di San Bonifacio; qui si invaghì della moglie di lui Cunizza, sorella di Ezzelino da Romano, con pericolose conseguenze perché poi la rapì o ne agevolò la fuga.
Trovò cortese ospitalità presso la corte provenzale di Raimondo Berlinghieri IV, dove operò come poeta ma soprattutto come politico, dimostrando abilità ed energia.
Fu presso Carlo I d’Angiò, che accompagnò nella discesa in Italia, ottenendo alcuni castelli in Abruzzo.
Fu poi imprigionato dal re e liberato per la mediazione di Clemente VI. Morì nel 1269 o poco dopo. Nella sua permanenza in Provenza perfezionò la conoscenzadella lirica, egli aderiva alla scuola tolesana per quanto riguarda la poesia d’amore, scuola che considerava la donna come una necessaria guida all’elevazione dell’uomo.
Non abbiamo documenti della sua poesia in volgare. D. fu forse attratto dalla sua poesia politica dove si evidenziano fierezza di sentimenti e indipendenza di pensiero, con le quali egli polemizza contro la corruzione e l’ignavia di tanti potenti del tempo. In particolare D. conobbe un poemetto didascalico “Ensegnamen d’onor” (un trattato di cortesia ed etica cavalleresca che contiene fiere invettive contro i potenti che hanno perso le vere doti del signore) e specialmente il “Compianto in morte di Ser Blacas” in cui Sordello dà una rassegna politica dei signori d’Europa (Federico II, i re di Francia, di Navarra e di Spagna, i signori di Provenza) cui unisce sarcasmo per la loro codardia, invitandoli a cibarsi del cuore di Ser Blacas per acquistarne la virtù ed il coraggio. Non sappiamo perché D. lo ha inserito in questo canto, non è un pigro né un “morto per forza”; forse è semplicemente un tardi-pentito (solo nella maturità infatti abbandonerà la spregiudicatezza dell’avventuriero per dedicarsi all’austerità).