Senza maschera (Capitolo V-Epiloghi-parte ventesima)



3


O forse no.
Le pasticche oramai hanno perso le loro proprietà organolettiche.
Io mi sono accorto di aver rivestito con nobili sentimenti soltanto un istinto; tante parole scritte e dette solo per portarti a letto, per un seno che forse non è nemmeno così favoloso come immagino (disse la volpe all’uva…).
Ora mi alzo e passo accanto al telefono, per la prima volta mi ritrovo a non sperare che squilli… dato che l’ho staccato; vado in bagno e comincio a rasarmi con grande cura, come per un appuntamento.
Mi lascio cadere nella vasca, chiudo gli occhi, circonfuso dal calore, e mi prometto che ci saranno altre opportunità.
 

*.*.*.*

Sono passati due anni e di occasioni me ne hai data una soltanto o forse me la sono soltanto inventata: comunque  è andata come è andata, cioè miseramente e come al solito per colpa della mia impazienza  e di qualche parola di troppo.
Ma al pensiero di te mi assale ancora una ventata di emozioni, mi pare quasi di vedere l’ombra del mio desiderio camminare in quel giorno che sai o che vorrei ricordassi.
Ecco cosa rimane dei tuoi capelli morbidi nei miei occhi impazziti, dei seni abbondanti di vitalità segreta solo apparentemente trascurata dalla t-short, del tuo passato totalmente indifferente alla mia voglia di presente.
È stato bello coltivare l’illusione, è stato dolce continuare la speranza che mutasse un accenno o che l’ombra si trasformasse in una piccola vitale promessa…
Tu sei rimasta a lungo nelle immagini di quella strada assolata dove il sudore era emozione, odore acre e forte come il timore di avvicinarti.
Ed io continuo a domandarmi se mi sarebbe bastato il coraggio di prenderti per mano a darti coraggio.
Ma avevo le mani bagnate: credo che non mi avrebbe aiutato nemmeno un ti amo ben detto e meno pauroso della risposta.
Quel che so è di non averlo mai detto, perché questo dolore non aveva e non ha il dono della sintesi e così la pena nel ritrovarmi a sorridere da solo e di me stesso, sulla strada che mi ha portato lontano.
Ma che ricordo la tua fronte corrucciata (oggi forse con qualche ruga…ma che importa…) un po’ per gioco, un po’ di risentimento, le tue labbra mature ed infantili allo stesso tempo, anche nell’indifferenza.
I tuoi occhi così cattivi alle volte e meravigliosamente teneri.
I tuoi occhi con cui giocare senza rimpianto.
I tuoi occhi per cui morire ancora un po’ per giorno.
I tuoi occhi immaginari fuori dalla mia finestra, sulla finestra di ogni casa ove i miei occhi curiosi si posano a vivere la vita degli altri.
I tuoi occhi neri ed è tutto dire.
 

*.*.*.*

Ogni appuntamento è del resto trascorso come in un cinema dove abbiamo assistito ad una proiezione di cui sono stato l’unico interprete; tu hai sempre mantenuto l’atteggiamento del critico che non vede l’ora d’uscire dalla sala per scrivere:”Che bello questo film…” o più spesso, “che delusione, così, proprio non me l’aspettavo!”
Eppure, da regista scrupoloso quale mi ritengo, so bene di averti impresso in ogni piccolo fotogramma; quindi non ho capito la ragione per cui, ogni volta che sono passati i titoli di coda dei nostri rari incontri, io abbia avuto così tanto bisogno di rivederti, quasi non fossi una bambina in carne ed ossa ma il più irresistibile dei miraggi subliminali.
Ma forse tu, al contrario, sei sempre riuscita a sfuggire alla pellicola, quasi la luce non fosse che inchiostro simpatico per la mia fantasia.
Sarà che un film d’amore deve annoverare nel cast almeno due innamorati per dar modo ai presenti di appassionarsi: in effetti non si può pretendere di avvincere per delle ore con le sensazioni di un solo protagonista, uno spettatore che, tra l’altro, non le condivide; al cinema si va per sognare e non solo per ritrovarsi sullo schermo, per quanto oggetto idolatrato; dopo un po’ sopraggiunge una noia mortale.
Probabilmente ho continuato a sbagliare l’ambientazione, la mia anima è troppo angusta per rappresentare un sentimento; talvolta faccio fatica a portar dentro persino la cinepresa e le inquadrature vengono spesso di sbieco, come se l’immagine dovesse sfuggire da un momento all’altro… ed in effetti sfugge.
Ma anche se avessi scelto come ambientazione la spiaggia più lunga ed affascinante del mondo, comunque ti avrei trovato calma e avida di sole, il mio solito, imperturbabile, crogiolo di armonie.
E chi sarebbe, se non un bambino in cerca di sua madre, il fanciullo che corre nell’afa consapevole soltanto della tua unicità; no, non farebbe certo la figura del divo, uno che pronuncia il tuo nome col fiatone e poi s’illude di sussurrare parole che una donna non abbia mai udito.
Ti ho immaginato più volte ad ascoltarmi indulgente proprio come una mamma che ami lo stupore d’un figlio per le cose più naturali; ho visto e rivisto quel sorriso che mi ha confuso e ho pensato e ripensato agli insensati discorsi in cui a volte mi sono e mi sarei lanciato, se tu lo avessi permesso.
Ho preteso sicuramente che t’accorgessi di quel nulla meraviglioso che mi circondava; ma non è accaduto e così non ho potuto aggiungere che non c’erano spiagge, né il mare con i suoi spruzzi e lo sguazzare festoso dei bimbi e nemmeno che già esistevano i baci della gioventù che si vuole bene; né soprattutto che nell’inquadratura c’eri soltanto tu: diversamente, nell’imbarazzo, avresti certamente appoggiato sui gomiti le spalle incantevoli e mi avresti confessato, aggrottando la fronte, un insopprimibile desiderio d’amare.
 

*.*.*.*

Sia come sia, concluso il primo tempo, è apparsa la pubblicità del dopobarba, quella con “l’uomo che non deve chiedere mai”; io sono passato travestito da gelataio triste, con quella lucina rossa che sa tanto di fioche speranze, e ti ho regalato, senza neppure una timida richiesta, la mia vita da sgranocchiare durante il secondo tempo.
La prima scena che ho voluto girare ci ha trovato in un comodo letto matrimoniale; naturalmente tu stavi dormendo ed è stato davvero un gioco puerile descrivere i tuoi sogni, così piani e ordinari, imbevuti d’ambizione e di grinta.
Ma, per chissà quale assurda macchinazione, io non ho pensato alla tua grettezza e ai bizzarri motivi che mi avrebbero condotto a sposare una donna totalmente priva di fantasia; no, queste idee non mi hanno sfiorato assolutamente, piuttosto mi sono ripreso a piangere come un disgraziato e a cercare, con mano insicura, la tua sagoma deliziosa, talmente avviluppata nelle lenzuola da apparire marmorea.
E dopo qualche tentativo sono pure riuscito a svegliarla, quella dolce e amata vocina che, ancora impastata di gloria e tenera indifferenza, ha chiaramente sbottato:<<Uffa, amore… lasciami dormire… domani ho una riunione importante!>>
Allora ho percepito, in tutta la sua poetica drammaticità, quel nulla meraviglioso a circondarmi e ci sono stato soltanto io, ad appoggiare i gomiti sul davanzale, mentre giungevano le prime luci d’una nuova e promettente giornata.
Mi rendo conto soltanto ora che la cosa più saggia sarebbe quella di cambiare il copione che ho scritto per te, anche se, per un regista impegnato come il sottoscritto, questa non è decisione da prendere a cuor leggero: necessitano tempo e riflessione.
Mi chiedo come si possa riconoscere dall’oggi al domani che la nostra storia non farà cassetta, né soddisferà la critica più esigente e che soprattutto non troverà nessun produttore disposto a finanziarla; e dove prenderò il coraggio per ammettere che tu non sarai mai l’attrice che avevo in mente e che io, come attore, farei meglio a darmi all’ippica.
Una soluzione però ci sarebbe: affidare a te la regia e rassegnarmi al ruolo di comparsa che, in fondo, può pure gratificare; e se desideri che io continui a recitare la parte del gelataio triste sul palcoscenico della tua vanità, non avrò poi molto da ribattere… alla fine dei conti sono un professionista.
Forse chiederò in cambio un sorriso o ancor meno: basterà immaginarti accanto, mentre sogni le meschine realtà a cui vorrei partecipare.
Ma ti prego di lasciarmi girare ancora una ripresa, tanto il cinema è finzione e lo capiscono persino gli spettatori che ti stanno così a cuore; si tratta semplicemente di inquadrare una cabina telefonica vuota.
Una cabina telefonica vuota con un telefono che squilla senza che qualcuno si prenda la briga di rispondere; della mia attività di regista voglio conservare almeno questo spezzone perché vedi, oggi rappresenta la mia vita, ma domani chissà… 
(Continua)

Senza maschera (capitolo V-Epiloghi-parte diciannovesima)



1

 -Pronto…
-Ciao.
-Ciao.
-Come va?.
-Bene… e a te?
-Bene… cosa fai di bello?
-Vado dall’estetista, a restaurarmi: ho preso l’appun-tamento ieri… se queste cose non si fanno quando si ha tempo…
-Sì, perché tu hai bisogno di restauri…
-Se ne ho bisogno non lo so… ma l’appuntamento l’ho preso ed ho quindi intenzione di andarci…
-Allora buon appuntamento…
-Sì, tra l’altro l’estetista è un ragazzo molto simpatico…
-Immagino che in questi giorni non ti troverò…
-Domani no e domenica neanche… comunque ci risentiamo.
-Ciao.
-Ciao.

*.*.*.*

Cara Francesca,

 Tu sei qui, in queste parole che troppo hanno già cercato di dire; queste parole che in fondo credo proprio mi abbiano fatto un cattivo servizio.
Eppure ti ho amato…
So bene che sarebbe inutile tornare indietro perché noi saremmo comunque gli stessi: mi accontenterei però di ripetere gli stessi errori pur di starti vicino ancora un poco e riuscire a raggranellare ancora qualche altro ricordo.
Così ti invio la conclusione di questo racconto poiché so bene che non ci risentiremo.
Difatti io non ho più la forza di chiamare e tu non l’hai mai avuta; non vedo perciò come potresti trovarla ora: l’unico, possibile, inevitabile sbocco, è il silenzio.
Appare chiaro ad entrambi che la nostra storia è finita o più esattamente non è mai iniziata, se non nella mia mente.
Di conseguenza nella mia mente vorrei terminarla, con un ulteriore pizzico di immaginazione.
Considero quello che la vita avrebbe potuto riservarci, se tu avessi accettato i miei sentimenti e in parte li avessi ricambiati, o perlomeno la felicità che avrebbe regalato a me.
Penso ai nostri figli potenziali e a ciò che avremmo insegnato loro: tu la fierezza, ed io il lato oscuro delle cose, perché quello chiaro potesse esplodere in tutta la sua vitalità.
Ma ora non è più tempo di riflessione o di fantasie, le pasticche mi attendono sul tavolo della cucina; il tubetto è aperto e si sono sparse sul piano scuro e levigato: sembrano tante piccole stelle di una notte che non mi interessa rivedere.
A dire la verità però il buio non si può vedere, ci si può soltanto immergere nell’oscurità e nulla più: potrebbe essere quindi tutta una storia, se non fosse per questa terra che gira; ma anche il suo moto in fondo sfugge alla nostra dimensione, come tutte le cose che contano del resto.

2

 Questo sarebbe l’epilogo banale e scontato di una persona mediocre e di un altro secolo; per i tuoi occhi è necessario una conclusione più originale, sono troppo grandi i tuoi occhi e troppo belle le tue labbra perché si contraggano ancora in espressioni di disgusto.
E allora ricomincio a fantasticare – le pasticche in fondo possono aspettare – e ti trovo così tra le mie braccia mentre ascolti una favola inventata per l’occasione… o meglio per l’occasione che non ci sarà mai, se non nell’immaginazione che curiosamente ormai si è fatta memoria…
<<Mille anni fa, ai tempi del gigante Forsebuono, viveva un re che si chiamava Sicuro Disé. E precisamente nel castello d’oro di Fuoridalmondo, ai confini del favoloso reame di Siamotutticontenti.
In quei tempi remoti il popolo del reame di Fuoridalmondo era spesso distratto da tristi pensieri; e così Sicuro Disé ignorava di essere re, del resto i cortigiani non gli avevano insegnato a darsi delle arie.
Secondo i folletti il nostro eroe passava l’intera giornata a pensare di non essere re, di non possedere un reame, un castello, una castellana, un cavallo, una mucca, una capra e una gallina. E le fate del Mondosuperiore aggiungono che Sicuro Disé era profondamente infelice.
Ogni sera rivolgeva al buon Dio la stessa preghiera:<<Grazie Signore, anche questa giornata è passata, aiutami ad affrontare quella che verrà, se verrà come credo, perché non so davvero che cosa fare del mio tempo>>.

E’ stupendo guardarti chiudere gli occhi abbandonata, mentre tento di raggiungerti con un bacio. <<Allora, vai avanti con la favola… che mi interessa… ma che non sia troppo triste per favore… né troppo lunga perché non vorrei dormire tutto il pomeriggio…>>
 <<Dopo questa sentita preghiera il re abbandonava lo sconforto ed apriva il grande frigorifero di corte, rifornito di tante cose appetitose.
Manco a dirlo Sicuro Disé mangiava in fretta ogni cibo succulento che si trovava davanti: formaggio della valle senz’erba, prosciutto di maiale delle ghiande d’oro, cioccolato al latte di balena e alla fine, solo per golosità, torte prelibatissime e dietetiche al cento per cento che preparavano gli gnomi pasticceri dei grandi magazzini del regno.
Tutte le notti all’arrivo del mal di stomaco si pentiva di essere stato così goloso e gli veniva il broncio, ma ormai era tardi per piangere sul latte versato (più che versato, ingoiato) e allora si addormentava di schianto con una pancia tanto piena che rischiava ogni volta di scoppiare.
Sicuro Disé russava come una ciminiera (<<Le ciminiere russano?>> si interrogano i folletti) e sognava di essere re, di combattere mille battaglie e di sconfiggere tanti nemici muscolosi e potenti. Ma erano solo sogni perché ormai era talmente grasso che non riusciva neppure a fare una breve passeggiata nel giardino delle tartarughe Senzazampe, figurarsi se poteva combattere.
Nonostante ciò le fate del Mondosuperiore avevano in serbo un’incredibile sorpresa.
In una dolce mattinata di primavera Sicuro Disé decise (chissà perché…) di avvicinarsi, non senza una po’ di fatica, ad una finestra del castello e vide con grande meraviglia  che una bellissima principessa stava per attraversare lo stretto ponte levatoio della Vitaveloce.
Ella aveva i capelli lunghi lunghi e gli occhi grandi grandi; indossava un vestito rosa morbidissimo, trapuntato con mille stelle azzurre che facevano brillare e profumavano anche il pavimento su cui camminava.
Naturalmente il re dimenticò immediatamente tutti i suoi pro-blemi: s’innamorò perdutamente della straordinaria visitatrice e senza perdere tempo – perché era diventato prezioso ai suoi occhi – volle riceverla nella sala del trono.
Sulle prime Angelica, così si chiamava la bella principessa, si sentì un po’ disorientata da tanto onore, ma era pur sempre di sangue reale e di conseguenza troppo fiera per dare peso alla cosa; così si sedette alla destra del re proprio come se fosse stata a casa sua, o meglio nel reame di suo padre, il re dei Mondiastralichenonesistono. 

 Sicuro Disé non fece molto caso ai modi confidenziali della principessa, preso com’era in un discorso che, secondo le sue previsioni, avrebbe dovuto incantarla. Pronunciò quindi queste strane parole:<<Non sono re, né possiedo un castello, un cavallo, una mucca, una capra o una gallina, non so che cosa fare del mio tempo e sono sempre più grasso>>.
Lei lo guardò con aria interrogativa, vide che in testa portava una corona che aveva certo bisogno di una lucidata, ma che era pur sempre una corona. Osservò che il re non era proprio in forma, così panciuto e ripiegato su se stesso, ma che era pur sempre seduto su di un trono.
<<Quindi>> si disse <<i casi sono due: o questo re è completamente fuori di senno, ipotesi che mi rifiuto di prendere in considerazione, oppure si tratta di un servo che si è travestito da re nell’attesa che il suo signore rientri al castello>>.
Sicuro Disé si era accorto che gli occhi della principessa luccicavano e così aveva creduto che anche Angelica si fosse innamorata di lui.
Ma la principessa dagli occhi grandi era solo e immensamente dispiaciuta e pensava:<<Non posso aver fatto tanta strada per andare sposa ad un servitore, di conseguenza aspetterò nella locanda che il signore ritorni>>.
Detto fatto, Angelica prese congedo dal re, con la scusa di riposarsi dal lungo viaggio sostenuto.  Sicuro Disé avrebbe voluto alloggiarla nel castello con il seguito reale, ma lei rifiutò con garbo.
Il motivo era semplice. La principessa era scossa da un terribile dubbio:<<E se poi il signore tornasse mentre sono a tavola con un servitore, potrebbe mai credere che io sono la sua promessa sposa, o potrebbe pensare che non sono riuscita a distinguere un re da un servo? È decisamente più saggio aspettare alla locanda…>>
Così Angelica prese in affitto l’osteria delle Futurecertezze, un albergo a cinque stelle e un pianeta, al confine del reame di Fuoridalmondo.
<<Presto verranno gli ambasciatori>> si diceva fiduciosa <<per annunciarmi che il re è giunto e che mi attende con impazienza al castello>>.

<<Senti un po’… questa storia mi sembra un tantino autobiografica… e come favola decisamente monotona oltre che impegnativa… e poi non ho più voglia di dormire…>>
<<E cosa hai voglia di fare…>>
<<Niente di quello che immagini.>>
Quando fingi di offenderti sei ancora più desiderabile, con quelle smorfie da bambina seriosa che un tempo mi mettevano in una terribile soggezione; ora invece so che è soltanto un bel gioco.<<Allora io continuo la favola?>>
<<Sì, sì continua che sono proprio curiosa di sapere come va a finire…>>
<<Tu però non interrompermi più, diversamente perdo il filo e non ricordo a che punto sono rimasto.>>
<<Va bene, va bene ma spicciati perché non voglio star qui tutto il pomeriggio!>>
<<La favola dice che nell’attesa del re la principessa non stava certo in ozio, aveva tanti affari da sbrigare: al mattino si dedicava alle letture, perché era una fanciulla istruita.
I folletti ricordano che il suo libro preferito si intitolava Diventarericcainunminuto, ma le fate del Mondosuperiore non sono d’accordo e affermano che sfogliasse soprattutto e con piacere Esistoquandovadointv, un libro finto che aveva solo una copertina molto colorata. Tutti però sono concordi, anche le rane dello stagno secco, sul fatto che Angelica avesse tanti sogni e che fino a mezzogiorno era quasi sempre felice e sorridente.
Però nel pomeriggio la principessa cambiava completamente umore perché si dedicava alle faccende di suo padre,  il re dei Mondiastralichenonesistono.
Naturalmente questi era un sovrano assai importante e quindi pretendeva che la sua regale figlia diventasse una grande dama. Così la bambina Angelica non aveva un pomeriggio libero: i maggiordomi di corte la accompagnavano a scuola di danza dei cavallucci marini, alle lezioni di yoga cibernetico delle Winx, a quelle di cinese e mongolo del nord che potrebbe diventare presto la lingua dei Siamotutticontenti, e da ragazzina si era pure iscritta all’università di Senonmiparcheggiononsonoallamoda dove frequentava le famose lezioni del professore Lavorarestancamasenonlavoromiaddormento.
La notte era invece destinata alla mondanità: ogni sera però Angelica sceglieva un accompagnatore diverso, poiché uscire due volte con lo stesso principe l’an¬noiava mortalmente. Così era arrivata sul ponte levatoio con il cuore libero e leggero, mentre i suoi innumerevoli pretendenti si struggevano d’amore per lei e speravano a breve in un suo ritorno.
Anche Sicuro Disé in gioventù avrebbe voluto movimentare un po’ la sua vita, ma la regina madre Sonoserenasenzadubbio aveva paura che si ammalasse e così non si era quasi mai mosso di casa, o per meglio dire di castello.
In verità una volta era andato alla spiaggia di Comesonoinforma, ma aveva rischiato di affogare perché non sapeva nuotare; quel giorno prese pure un’insolazione perché non aveva comprato la crema solare delle affascinanti lucertole Abbronzatedallalampada.
Un’altra volta Sicuro Disé  tentò di giocare a pallone con i terribili furetti, colpì la palla di testa e svenne mentre le fate del Mondosuperiore si coprivano gli occhi per il dispiacere.
Passò poi un secolo e Sicuro Disé si prese un brutto raffreddore: la regina lo rimproverò perché tanti anni prima aveva osato giocare al pallone; certamente questa imprudenza aveva provocato quella spiacevole malattia.
Anche il re come la principessa Angelica cercò di farsi un’istruzione, ma il primo giorno di università mangiò del formaggio avariato e gli venne la febbre per un anno intero (ma come già sappiamo rimase comunque goloso).
A quest’epoca non si spaventava tanto facilmente e anche se un poco malaticcio, si appassionò alla costruzione delle città: voleva diventare un famoso disegnatore di strade, cosa che gli sarebbe pure servita se avesse saputo di avere un regno, ma il famoso professore Costruiscotuttoio morì inseguito dai batteri del Mondosconosciuto e con lui finirono anche i sogni di Sicuro Disé.
E iniziarono gli incubi. Il re volle trovare ad ogni costo un lavoro e pure una moglie che gli piacesse almeno un poco. Non si sa bene perché gli vennero queste idee, forse perché non sapeva di essere re, ma i furetti non ne sono sicuri.
Di certo non si era mai visto prima che un re volesse lavorare, tantomeno nel reame di Fuoridelmondo: qui sgobbano solo gli gnomi, ma per ingordigia di denaro, non perché ne abbiano davvero necessità. Ed i sudditi servono il sovrano: anche questo è un modo serio di occupare il tempo, ma non si guadagna nulla.
Né era mai capitato nel reame di Fuoridelmondo che un re si fosse sposato per sua volontà: il matrimonio ai tempi lontani di Sicuro Disé era preparato con larghissimo anticipo dalla corte che pensava solo alle ricchezze della futura regina; che i promessi sposi si piacessero almeno un po’ non  interessava poi a nessuno, pare neppure a loro; o meglio importava forse alle fate del Mondosuperiore, ma  perché sono spiriti inguaribilmente romantici.
Sicuro Disé era così insistente che addirittura il giorno del Gufotriste la regina madre Sonoserenasenzadubbio chiamò a raccolta ogni servitore di corte compresi i giardinieri del Desertosecco. Pensarono che dovesse trattarsi di un’occasione importante: non era mai accaduto che a castello si facesse una riunione il 30 di febbraio; era risaputo che in quella data non uscissero dalle tane nemmeno gli Orchi delle Forestenere.
La regina madre ordinò che si scrivesse un editto col prezioso inchiostro dei Topiselezionatori e che la fine pergamena venisse consegnata al Gatto e alla Volpe che erano furbissimi e assai fidati.
Sonoserenasenzadubbio  desiderava che il suo volere andasse – con la dovuta calma – un po’ in giro per il reame, almeno fino al giorno del Gufoallegro che, come tutti sanno, giunge ogni venti anni, se giunge.
I folletti giurano che anche da lontano si potesse leggere questa frase:<<Il re Sicuro Disé vorrebbe lavorare, ma solo per finta e quindi  senza essere pagato >>.
I sudditi in verità non sapevano leggere, ma il Gatto e la Volpe si misero d’impegno con le chiacchiere e così davanti al portone del castello si formò una lunghissima processione di mendicanti che cercavano consigli gratuiti oppure che chiedevano denaro o ancora che facevano tutte e due le cose.
Sicuro Disé li ricevette nella sala del trono con tanto entusiasmo. Ma lavorare gratis lo stancava mortalmente.
Il giorno degli Allocchi si fece avanti tra la folla la Nanabaffuta. Povera donna aveva le gambe storte e contorte e una pancia quasi pari a quella del re che era ben più alto. Veniva dal paese degli Assetati, un reame vicino a quello di Fuoridalmondo. Gli abitanti di questo luogo fantastico erano perennemente ubriachi. Per la gran sete avevano prosciugato i ruscelli, i fiumi e i laghi e quindi si erano ridotti a bere vino e birra (il latte provocava loro un’intollerabile acidità di stomaco).
La Nanabaffuta non si reggeva molto bene in piedi, ma trovò comunque la forza di presentarsi:<<Io sono la principessa Nanabaffuta trasformata in donna per il bacio di un principe astemio (prima ero una coppa di spumante). Posso proporti di arrivare alle stelle e di diventare re o imperatore se mi seguirai nel reame degli Assetati>>.
Sicuro Disé rimase folgorato da tali e illuminanti propositi e in un battere di ciglio lasciò la corte – che tanto non sapeva di possedere – per correre verso il reame degli Assetati (si fa per dire “correre” visto il peso del re e le gambe malferme della Nanabaffuta).
Comunque sia l’entusiasmo durò poco. La Nanabaffuta non era una vera principessa, ma solo una convinta partecipante al concorso di Lacchédell’anno. Superfluo aggiungere che arrivò ultima e venne pure esiliata con un cappello da Asino nel paese degli Affamati. Sicuro Disé non poté che tornare a casa con la coda tra le gambe. <<Meglio fare il pensatore>>si disse<<che lavorare senza paga in un paese straniero>>.
Il termine “pensatore” gli piaceva di più rispetto alla parola “fannullone”, ma sapeva benissimo che in barba alle sottigliezze linguistiche non aveva più voglia di fare niente.
Ma torniamo alla nostra principessa Angelica. Un giorno arrivarono all’osteria delle Futurecertezze gli ambasciatori di Sicuro Disé e la pregarono di recarsi al castello con tutto il seguito; dapprima la principessa rifiutò l’offerta: le era stato, infatti, insegnato che una dama del suo rango dovesse farsi desiderare; ma in seguito ad una nuova ambasciata decise di pre¬sen¬tarsi con tutta la calma e la faccia tosta di cui disponeva, una settimana dopo il giorno pattuito>>.
 <<Ed è così che sarei io? a me non pare.>>
<<E chi ti ha detto che sto parlando di te? mi sembri un pochino egocentrica.>>
<<Non la voglio più ascoltare questa fiaba… mi sono davvero scocciata!>>
<<Dai, non ti arrabbiare, sono stato cattivo, lo ammetto… e va bene, come vuoi, resterai per sempre senza conoscere il finale.>>
<<No, dai, racconta ma veniamo velocemente al dunque!>>
<< Il re naturalmente era molto triste poiché, tanto per movimentare le solite riflessioni, cercava di spiegarsi gli strani comportamenti della principessa e ripeteva tra sé: <<Sarà perché non sono re né ho un reame, un cavallo, una mucca, una pecora, una gallina eccetera, eccetera che la mia bella fanciulla è tornata sui suoi passi? Ahimè, perché in aggiunta alla mia miseranda condizione doveva succedermi di cadere innamorato?>>
Dunque da qualche tempo aggiungeva alle sue orazioni serali pure quest’ultima considerazione; cosicché lo stesso buon Dio stava perdendo la pazienza oltre che la speranza di trovare a Sicuro Disé un’identità che fosse di suo gradimento o di cui, perlomeno, il re potesse essere consapevole.
La principessa, dal canto suo, salì al castello nella più assoluta convinzione di trovare il re finalmente ritornato dalla battaglia; entrò nella sala del trono, a occhi socchiusi, per pregustare quella che sarebbe dovuta essere di lì a poco una meravigliosa realtà: l’incontro col suo signore, un fusto palestrato alto due metri, con gli occhi azzurri, i capelli biondi e soprattutto con lo sguardo fascinoso e glaciale.
E’ superfluo descrivere la delusione di Angelica quando, aperti gli occhi, si ritrovò davanti il medesimo individuo sempre più grasso e ripiegato su se stesso e che tra l’altro non aveva nemmeno uno dei requisiti minimi da lei tanto immaginati.
<<Mia signora sono contento che siate venuta a trovarmi>> incominciò a dire il re <<ma come mai siete così giù di morale? Sarà forse perché non sono re, né possiedo un reame, un castello, un cavallo, una mucca, una pecora, una gallina eccetera, eccetera? questo è vero purtroppo, però potrebbe supplire il mio amore… sì perché io vi amo dal più profondo del mio cuore…>>
Il re si aspettava di essere ricambiato con le parole rosse di un eterno amore, ma la poverina incominciò a correre come una pazza e guadagnò l’uscita in un baleno.
Giunta sul ponte levatoio della Vitaveloce Angelica perse una scarpetta e ruppe il tacco dell’altra, così inciampò rovinosamente e cadde nel fossato dove vivevano i terribili coccodrilli reali>>.
 <<No, non puoi concludere così… sei uno scemo… e poi non mi hai detto che fine ha fatto il re!>>
<<Nessuna fine, ha continuato semplicemente a domandarsi:”Perché non sono re, non ho un reame, un castello una castellana, un cavallo, una mucca, una pecora, una gallina eccetera, eccetera”>>.
<<Non ci credo… è una fine idiota che tra l’altro non rispetta neanche la fiaba come genere letterario… Puoi fare di meglio… mi sembri un narratore di fiabe assai improvvisato!>>
<<Non ti sapevo così istruita… se proprio ci tieni allora continuo e così mi dici se ho rispettato la tradizione… non sia mai>>.
<<Ecco bravo vai avanti!>>
<<Ma i coccodrilli avevano appena mangiato e stavano digerendo: quindi non la degnarono di uno sguardo; si sa che questi feroci animali quando digeriscono hanno gli occhi pieni di lacrime.
Così Angelica, per quanto bagnata, poté risalire sul ponte levatoio con una certa facilità: le stelle del suo vestito però non luccicavano più ed il rosa era diventato grigio; i capelli sembravano quelli della regina madre dopo una tempesta tropicale e gli occhi grandi grandi erano diventati piccoli e tristi.
Sicuro Disé che nel frattempo era stato trasportato sul ponte levatoio non la riconobbe, e anzi la scambiò per la Nanabaffuta e impietosito le fece l’elemosina.
Angelica si offese molto e disse con un filo di voce al re:<<Come è possibile? Vostra maestà non mi ha riconosciuto?>>
<<A dire il vero pensavo che fossi la Nanabaffuta ritornata dal paese degli Affamati>> rispose il re che non era certo un campione di delicatezza.
<<Ma vedo che c’è una scarpetta qui sul ponte levatoio: concedimi il tuo piedino e vedrai che se la calzerai non te ne pentirai>>.
Angelica non aveva alcuna intenzione di indossare la scarpetta, e anzi voleva tornare in tutta fretta nel reame dei Mondiastralichenonesistono. Là c’erano bellissimi principi che attendevano e che, a guardare meglio, avrebbero potuto anche renderla felice.
Così disse al re:<<Maestà sono davvero lusingata per il suo regale invito, ma devo tornare al più presto nel mio regno perché mio padre, il re dei Mondiastralichenonesistono, si è ammalato gravemente insieme a tutta la corte>>.
Di solito Angelica non raccontava le bugie e quindi le crebbe il naso a dismisura con grande dispiacere delle fate del Mondosuperiore. La principessa diventò rossa e rossa e per scusarsi aggiunse:<<Un giorno tornerò in questo reame e mi piacerebbe… mi piacerebbe che nell’attesa Vostra Maestà facesse un po’ di sport; anzi al proposito avrei da consigliare la famosa palestra Chidigiunadimagriscedisicuro>>.
Dice la fiaba che i furetti erano molto contrariati per quest’altra bugia condita con un crudele consiglio e quindi inventarono il proverbio “Moglie e buoi dei paesi tuoi”.
Ma Sicuro Disé fu colto semplicemente da stupore e non seppe che rispondere, né si accorse che Angelica era stata poco sincera: il re aveva, infatti, gli occhi foderati da un delizioso prosciutto di cinghiale che aveva ingoiato a colazione.
Così, partita la principessa, a Sicuro Disé non rimase che cadere nelle meditazioni che ci vengono suggerite dagli gnomi: il re era molto triste perché aveva confuso la Nanabaffuta con una principessa e la principessa Angelica con la Nanabaffuta; le uscite dal reame erano state poi disastrose e non aveva neppure imparato a lavorare gratis, cosa che invece riusciva benissimo persino ai sudditi del reame.
Il bilancio non era insomma di conforto, ma rimaneva però il caro pensiero di non essere re, di non possedere un reame, un castello, una castellana, un cavallo, una mucca, una capra e una gallina.
Questa occupazione non lo tradiva mai e in fondo lo aiutava ad ammazzare il tempo e poi c’era sempre il fornitissimo frigorifero di corte e i successivi pentimenti che lo facevano sentire vivo.
Ma le fate del Mondosuperiore sussurrano che in realtà Sicuro Disé pensasse alla promessa della principessa. Fatto sta che si iscrisse in palestra e il frigorifero reale rimase per sempre sigillato. Così tutti vissero felici e contenti nell’attesa del ritorno della principessa>
>.
Che meravigliosa sensazione mi regala il poter chiudere con un bacio ogni possibilità di replica ed iniziare a massaggiare quelle parti del tuo golfino che mi piacciono tanto.
Ma non voglio spingere la fantasia più in là di questa immagine: salvo il file e spengo il calcolatore. Del resto tu non sei una bambolina così sciocca e capricciosa: l’immaginazione è andata al di là del consentito.

(Continua)

ODISSEO E ENEA: DUE DIVERSE DISCESE AGLI INFERI



La discesa agli inferi è un toposletterario sia nel panorama greco che in quello latino. Tra i viaggi più celebri ricordiamo il viaggio di Persefone, figlia di Demetra, rapita da Ade e trattenuta negli Inferi, dove venne costretta a vivere come Signora delle tenebre. Senza ritorno fu invece il viaggio di Euridice, l’amata sposa di Orfeo, che il poeta invano tentò di riportare in vita, voltandosi indietro per rassicurarsi sulle condizioni di salute dell’adorata moglie.
Nell’Ade scendono Teseo, Eracle e persino Dioniso si cala nell’Oltretomba per ritrovare la propria identità divina.
Di certo la più celebre catabasi rimane quella omerica di Odisseo, narrata nel libro XI dell’Odissea, che ci ricorda a sua volta la discesa di Enea tra i morti. Questo avviene non soltanto per il fatto che Virgilio ha sempre costantemente uno sguardo sul modello omerico, ma anche per le evidenti affinità narrative tra la catabasi omerica e quella virgiliana.
Ulisse scende nell’Ade per apprendere quale destino lo aspetta: vuol sapere quando terminerà il suo viaggio e quando giungerà finalmente a Itaca. Tiresia, l’indovino cieco, gli spiega che il suo viaggio alla volta della patria sarà ancora lungo e faticoso, che una volta giunto in patria dovrà combattere contro alcuni usurpatori e che infine, dopo aver riportato la pace sulla sua isola, dovrà nuovamente ripartire per un altro viaggio. Proprio questo spazio macabro ed inospitale diventa per Odisseo, e in seguito per Enea, il palcoscenico per importanti incontri con gli affetti più cari: la madre Anticlea, la cui ombra invano tenta di abbracciare; i compagni con cui aveva condiviso anni di guerra…. Agamennone, Aiace e Achille, che gli confessa che preferirebbe essere un bovaro, ma vivo, piuttosto che giacere come una vana ombra nell’Ade. Grazie a questi incontri Ulisse ha la possibilità di fare il punto della situazione, di guardare al suo passato con serenità, con altrettanta serenità guardare al futuro, consapevole della dolorosa realtà della morte.
La discesa agli inferi di Enea ricorda moltissimo quella omerica, ma l’architettura d’insieme è più complessa. Enea vuole entrare nel regno di Dite per inseguire il desiderio di rivedere e riabbracciare il padre Anchise. Enea incontra Didone, che lo guarda muta accanto all’ombra di Sicheo e incontra anche Anchise che lo guida attraversa le anime dei morti e gli mostra le anime di coloro che ancora devono nascere: Enea ha ora dinanzi a sé una schiera infinita di uomini e donne che rappresentano il futuro dell’eroe e non il suo passato. Proprio qui sta la differenza tra Odisseo e Enea: il primo si era mosso spinto dal desiderio di conoscere il destino personale ed aveva incontrato le anime di quanti già aveva conosciuto, il secondo invece cerca risposte che riguardino non solo il cammino futuro, ma le ragioni stesse del suo peregrinare. Vuol sapere cosa ci sarà dopo Troia, vuol sapere perché ha dovuto abbandonare Didone, perché ha perso tanti compagni e persino il suo amato padre. E l’ombra di Anchise è lì a rispondergli. Enea si trova dinanzi non solo il suo destino, ma a quello di tutta la sua stirpe. E questo altro non è che il destino di Roma, sino ai tempi di Virgilio!

Giulia Del Giudice

Buona Natale a tutti i lettori da Carlo Calcagno e Giulia Del Giudice

 

Scrivere di Arenzano in una giornata nevosa si addice al paese


Non tanto perché in paese nevichi frequentemente: anzi, succederà una volta all’anno.

Arenzano è un paese dal clima invidiabile: la colonnina di mercurio non scende quasi mai sotto i dieci gradi e se non ci fosse a volte quel vento di mare umido e fastidioso potrebbe fare concorrenza a qualsiasi rinomata località della Sardegna o della Sicilia.

Ma la neve si addice perché Arenzano è inzuppato da un velo, anche quando il sole splende ed i colori della natura urlano una bellezza per cui si può soltanto ringraziare Dio.

Le persone da un po’ di tempo a questa parte sembrano non vedersi, anche quando si salutano con grandi sorrisi… di circostanza.

Quando ero piccolo in Via Bocca ci passava il treno e c’era un passaggio a livello che durava un’eternità, ma nessuno si spazientiva. Nell’attesa il medico condotto scriveva addirittura poesie e la gente scambiava parole davvero cordiali mentre l’aria profumava di pane e di focaccia.

Ricordo che le persone andavano a comprare non perché avessero pressante bisogno di qualche cosa, ma in quanto il negozio – e dico “il negozio” perché gli esercizi commerciali erano pochi e gli Arenzanesi di allora erano abitudinari – costituiva un luogo di ritrovo irrinunciabile, come la Chiesa o le Opere Parrocchiali.

D’altronde i negozianti conoscevano a mena dito la lista della spesa e non mancavano di rifornire ogni sporta senza bisogno nemmeno di una parola: così si discorreva delle nascite, dei bollettini mortuari, del tempo e dei malanni. All’epoca la televisione commerciale non esisteva: i prodotti erano quelli che si trovavano sul banco o nel retrobottega; solo qualche temerario prendeva il treno per la Città.

A nessuno veniva in mente, salvo che fosse ammalato gravemente, di restare in casa per vedere il programma preferito e non solo perché l’offerta era scarsa ed i canali si accendevano solo ad una certa ora. La vita si giocava negli incontri seppure frettolosi, anche in quella parola che si scambiava sulle tasse e sul Governo.

Le tasse ed il Governo erano peraltro una cosa assai lontana e in parte poco conosciuta, se ne sentiva la presenza di solito sotto elezioni quando venivano riasfaltate le strade e l’odore di bitume nuovo si mischiava talvolta alla contentezza per il passaggio della Milano-Sanremo.

La gara ciclistica era il momento più importante dell’anno: tutti si riversavano in strada per dire sostanzialmente “io c’ero”; i ciclisti, in effetti,  non erano che una folata di vento; non si vedevano quasi tanto andavano veloci.

E se si aveva l’avventura di passare con l’automobile si rimaneva bloccati per un mare di tempo, fino a quando non passava anche l’ultimo atleta, sempre applaudito con calore, come il primo. Nessuno osava contravvenire agli ordini impartiti dai vigili con la paletta, nessuno si arrabbiava qualunque fosse l’impegno, o meglio non c’era un altro impegno che li potesse portare altrove: qualcuno al limite si dispiaceva perché non aveva potuto raggiungere la Colletta od il lungomare, punti privilegiati d’osservazione.

All’epoca non esistevano i telefonini – nemmeno i telefoni che si usavano solo a partire dalle scuole superiori e rigorosamente per i soli compiti a casa – ma non c’era pericolo: le madri non si preoccupavano per i figli ed i mariti. Tutti sapevano, erano certi che il ritardo fosse dovuto alla corsa.

E  l’attesa, quasi sempre col bel tempo, veniva ripagata: le discussioni sportive continuavano nei mesi a venire nei pochi bar, o forse nell’unico bar dove si giocava la schedina: non era tanto il dato tecnico che interessava, ma il poter dire di aver visto la maglia di qualche corridore famoso; la cosa curiosa – almeno per i tempi che corrono – è che a nessuno veniva in mente di mettere in dubbio la parola degli altri.

Ma la neve si addice perché Arenzano è inzuppato da un velo. Oggi i vicoli  cambiano faccia da un mese all’altro; chi è costretto a lasciare il paese seppure per poco tempo – perché Arenzano diversamente non si abbandona – non li riconosce più, anche se sono due o tre, almeno i principali. I negozi sempre più sofisticati ed invitanti sono desolatamente vuoti e le commesse non abitano più al piano di sopra. Ci stanno i supermercati per le urgenze e per il latte della domenica.

atterraggio
Quando mia madre mi mandava a comprare lo stracchino mi sembrava di andare in capo al mondo, ma non avevo l’assillo di controllare il borsellino, si poteva pagare con comodo e anche contestare la merce;  il formaggio, a dire il vero, era sempre fresco, perché non c’era un gran scelta – di confezionati esistevano soltanto il Belpaese ed i formaggini Tigre – ma i bottegai erano molto larghi di vedute e comprensivi. E non solo perché tanto potevi tornare soltanto lì: quando indossavano la cuffia bianca diventavano sacerdoti di uno strano culto che si chiamava e si chiama ancora oggi accoglienza.

Le cose sono un po’ cambiate solo con l’introduzione dell’I.C.I., I’I.N.V.I.M. era una imposta troppo lunga per fare paura e ancor più per ingenerare cambiamenti. Strano a dirsi, ma all’epoca gli Arenzanesi non avevano molta immaginazione nell’impiegare i loro guadagni e allora investivano sul mattone; si favoleggia che ogni anno per pagare l’I.C.I. qualcuno dovesse vendersi addirittura un appartamento, ma è soprattutto l’invidia degli altri – nata chissà come e perché – che ha portato le prime crepe in un’economia che era fondata sulla solidarietà.

Altra leggenda riguardava le case sfitte, uno degli argomenti che tenevano banco un po’ dovunque. Ma nessuno ci credeva veramente salvo forse un partito che in un paese vicino aveva parlato addirittura di una possibile requisizione. In verità ho passato la mia gioventù a cambiare casa, da Via Dante alla umbratile Pineta per poi godermi il mare dal terrazzo di Via Marconi e di qui alla Montà per finire alla Rue. La mia famiglia non ha mai avuto problemi a trovare un alloggio e soprattutto ha sempre trovato premura amorevole nei vicini di pianerottolo.

Da tempi remoti, per oscuri motivi, gli abitanti di Terralba sono considerati  “foresti” da quelli che vivono in Via Sauli, ma in fondo è solo goliardia benevola. L’emigrante che negli anni ’70-‘80 cercava lavoro e casa nel paese non ha mai ricevuto rifiuti, né lui né la sua famiglia; con un certo orgoglio si diceva che ad Arenzano di fame non era mai morto nessuno.

Ma la neve si addice perché Arenzano è inzuppato da un velo. Sino a quando sono rimaste le mattonelle rosse c’erano ben poche defezioni sulla passeggiata, anche se il terreno era spesso sconnesso e si rischiavano le storte; ogni volta che si arrivava al Pizzo o al porto, si rimaneva incantati come su una nave in crociera, solo che non c’erano le onde di un mare sconosciuto, ma gli scogli conosciuti uno ad uno e le parole piacevoli che diventavano una cosa sola con i raggi del sole.

Oggi la passeggiata a mare è forse ancora più affascinate e non si rischia più di cadere per terra, ma le persone non sanno più che cosa sia il piacere di una camminata: gli anziani stanno in silenzio, seduti sulle panchine; fingono interesse per le automobili od i rari passanti, ma sono immobili e continuano a stringere i loro bastoni. Come se incombesse qualche minaccia. Sara forse il velo che inzuppa Arenzano?

Senza maschera (capitolo IV -parte diciottesima)

Genova notturna
<<Per me è invece la conclusione più logica>> ribatti tu prontamente.
 <<No, nella realtà se uno ama una donna se la tiene ben stretta e se questa va via e poi ritorna non ci sono valutazioni morali che tengano, non c’è dignità che valga la fine di un rapporto, senza contare che se lei è tornata magari si è pentita, il pentimento per te non ha alcun valore? l’autore della commedia ha cercato secondo me soltanto una conclusione ad effetto!>>
Sono tutto infervorato e a te non importa controbattere, forse stai pensando come fare a scaricarmi definitivamente o sei talmente stanca che non hai voglia di pensare; o più facilmente tutte e due le cose.
Hai capito che non sto chiaccherando a caso, ma che ho un’idea ben precisa: quella per cui tu saresti autorizzata a far quello che ti parrebbe a condizione che volessi dividere la vita con me.
Alle donne non piace un uomo che accetti le abitudini senza colpo ferire e conceda senza combattere certe opportunità; è il solito, vecchio discorso del rapporto sadomasochistico che si deve naturalmente e necessariamente instaurare perché due persone possano stare insieme più o meno felicemente.
Che squallore e che monotonia! Perché la poca gioia debba sempre scaturire dalla sofferenza o da una pseudo indifferenza, io non riesco a capirlo e soprattutto a digerirlo; ma è forse uno dei segreti della vita, una legge non scritta a cui si deve necessariamente sottostare.
Siamo già arrivati; i soliti tornanti e fra poco scenderai, molto probabilmente per l’ultima volta… s’intende dalla mia macchina.
<<Il terzo atto mi ha davvero coinvolto, sapessi quanto l’ho cucito addosso… quel monologo del protagonista… pensa che mi sono messo anche a piangere.>>
<<Mi dispiace, non ti ho certo invitato per farti andare in crisi…>>
<<Oh, ma io non vado mica in crisi: la malinconia è per me qualcosa di creativo, di catartico…>>
<<Creativo o no, non possiamo andare avanti così, io mi devo decidere… in un senso o nell’altro…>>
<<Se è per questo non devi avere fretta, sono anni che aspetto cosa vuoi che sia un giorno in più o in meno… l’unica cosa che ti chiedo è di affrontare il discorso guardandomi negli occhi e non per telefono.>>
<<Carino… comunque non posso continuare a mettere la testa sotto la sabbia come gli struzzi…>>
<<Fai pure… tanto ho intenzione di andare avanti e ti scoverò dovunque ti nasconderai!>>
L’ho quasi gridato con patetica aria di sfida; mi guardi con un’espressione sorpresa, come per dire “ma non l’hai ancora capito, povero sciocco… tu non conti per me… chi è che vuoi scovare? fammi il piacere”; è un’espressione che sul tuo volto non avevo mai visto: mi fanno paura quegli occhi spalancati e le labbra che non sanno se aprirsi in una fragorosa risata o se serrarsi in uno stupito  ripensamento.
<<E così hai già deciso? non ti interesso vero?>>
<<Non ho detto questo.>>
<<Io lo so… non ti interesso.>>
<<Come farai a saperlo… se non lo so neppure io?>>
E voi come fareste a saperlo; dico a voi, che state leggendo queste righe sofferte e nello stesso tempo banali (la vita e le emozioni sono tali del resto…), come fareste a saperlo?
Non credo si possano conoscere le cose a priori a meno di non essere dei maghi; i rapporti vanno sperimentati, sempre che non si possa evitare di scegliere in base all’aspetto fisico; ma allora perché non essere franchi? La ragione è che di fronte a noi stessi non si vuol ammettere l’istinto che ci porta a cercare sempre il meglio, ossia la qualità della specie.
Di conseguenza, per salvare la faccia, non si può che tirare in ballo la coerenza, il non volere fare il male e tante altre bugie di cui magari giorno per giorno riusciamo pure a convincerci.
Con che coraggio rivendichiamo la nostra superiorità sugli animali che si cercano con l’olfatto; almeno loro sono sinceri dal principio, non c’è spazio per i fraintesi… la natura è matematica e soprattutto non guarda in faccia nessuno.
O forse Qualcun altro, sotto sotto, decide anche per noi, donandoci la palpabile euforia di scegliere quando i giochi sono già fatti…
<<Tu non potresti mai essere un vero amico per me…>>
<<Perché? Una persona innamorata, proprio in virtù del suo sentimento, è la più indicata a dare consigli e amicizia…>>
<<Vedi, se io fossi innamorata, non verrei certo a dirtelo…>>
<<Beh, su questo devo darti ragione… ciò nonostante ritengo che potrei aiutarti anche in questo campo.>> Messaggio ricevuto: le stai provando proprio tutte per dissuadermi, ma perché non lo dici chiaro quel che pensi e la facciamo finita.
<<Quando ci rivediamo?>>
<<Domani sono all’università, venerdì so che ho un appuntamento però non mi ricordo…>>
<<Ti chiamo venerdì?>>
<<Fai come vuoi… ciao.>>
<<Ciao.>>
Il mare è così vitreo sotto la luna: nemmeno i profili scuri delle condutture del metano, riescono a scalfirne la poesia; e le luci del promontorio ne sono i pallidi riflessi, un po’ come i sogni paragonati alla realtà.
Io sto scendendo verso la città come al solito carico di domande smaccanti e senza un brandello di risposta; ma in fin dei conti non importa, ho trascorso una bella serata anche se i tuoi capelli sono rimasti al loro posto e le tue labbra non sono più che un’illusione; anche se il domani ricomincerà da te.
(Continua)

Senza maschera (capitolo IV -parte diciassettesima)

Una porta a Cogne
Resto in piedi come una sentinella ad attendere che le luci si spengano nuovamente; poi mi siedo accanto ad un fiore di ragazza, bionda e slanciata, che sulle prime mi guarda come fossi un “portoghese”; vorrei dirle che in effetti quello non sarebbe il mio posto, ma che non sono per questo un abusivo; però non trovo il coraggio e riesco soltanto a deviare lo sguardo mentre il sipario si riapre.
In sesta fila lo spettacolo risulta assai coinvolgente; anche troppo visto che non riesco a trattenere le lacrime, eppure la mia posizione non ha molto in comune con quella del protagonista; di conseguenza il grado di immedesimazione mi preoccupa un poco: probabilmente sono sull’orlo di una crisi di nervi.
In fin dei conti non è un dramma se lei è andata via; qualche bel momento lui l’ha avuto e quindi dispone perlomeno dei ricordi; d’accordo che potrebbe risultare ancora più straziante, però è anche vero, come dice un cantautore, che “non si è soli quando un altro ti ha lasciato, si è soli se qualcuno non è mai venuto” (ma sarà poi così o è solo il testo di una canzone particolarmente ispirata?).
Non mi resta che applaudire alla solitudine che è poi anche la fine di questo spettacolo; ma sbattere le mani contro la realtà non consola, preferisco uscire all’aperto per agguantare un’altra manciata di illusioni.
Fa decisamente fresco. È divertente guardar uscire la gente da un teatro nella stagione invernale; sembrano tante formichine intirizzite, che sognano, tra un sorriso forzato, una parola smozzicata ed uno sbadiglio, il loro piccolo formicaio.
L’ultima ad uscire è proprio la bionda che rimane un istante sulla piazzetta e mi squadra con aria interrogativa; avrà forse timore che io sia il maniaco di turno? Come fare a spiegarle che a mezzanotte e venti sto aspettando un’altra persona, la quale mi è forse più estranea di lei?
Poi viene il turno di un attore, o meglio del protagonista, che ha deciso per una passeggiata nelle vie deserte della città. <<Grazie, niente taxi, vado a piedi…>>.
Vorrei ringraziarlo, ma non trovo il coraggio; mi ha regalato delle emozioni, ma non pare affatto in vena di complimenti.
Forse è stanco e ricerca anche lui un po’ di tregua dalle continue richieste della mente oppure, nella realtà è innamorato senza speranza come il sottoscritto.
Le serrande dell’entrata principale cigolano ponendo fine ad un’altra magica serata, una delle tante per te, probabilmente l’unica per me che non so abituarmi al pensiero d’una prossima gioia.
Chissà da dove uscirai… sono rimasto solo di fronte alle insegne spente ed ho quasi paura che te ne sia andata, lasciandomi alle prese con un pugno di ricordi tanto nitidi quanto malinconici.
Ma d’improvviso noto il tuo musino trafelato comparire al di qua d’una porticina a cui non avevo dato molta importanza; tutto si trasforma, la notte non è più notte ma un tempo senza tempo, se mi dicessi che è Natale o Ferragosto non mi meraviglierei.
<<Che bello lo spettacolo! grazie delle sensazioni che questa sera mi hai fatto provare.>>
<<Son contenta, ti sia piaciuto…>> e non immagini certo che io stia parlando di te.
<<Guarda, se mi proponessero di rivederlo ora… ne sarei proprio contento, anche se dura più di tre ore.>>
<<Ah, se per questo lo rivedrei pure io… ci sono alcuni passaggi che non sono ancora riuscita a mettere a fuoco, spero di poterlo fare nelle prossime serate.>>
<<Sai, questa sera ho capito perché sei così interessata a questo lavoro… ha davvero fascino, piacerebbe anche a me.>>
<Beh, allora quando cercano dei “mascherini” te lo farò sapere!>> Sei proprio infastidita che possa entusiasmarmi della tua vita; questo significa in poche parole che ti sono indifferente, oppure che mi credi un ipocrita; perlomeno rappresenta il rifiuto d’un legame mentale.
<<Non penso che mi prenderebbero… ci vuole il fisico… li ho visti quelli all’entrata.>>
<Allora li hai visti male, non è che siano una bellezza!>> Ma evidentemente bastano perché tu scelga questa pseudo libertà con le sue luci artificiali ed il continuo vociare della gente; è una ebbrezza che ogni sera si rinnova, una droga a cui non sapresti rinunciare; diciamo la verità, quel che conta nella tua vita, come del resto nella mia, è soltanto l’apparenza.
<<Trovo che la conclusione della commedia non sia giusta, è la negazione assoluta del rapporto umano; se mia moglie fosse tornata dopo avermi lasciato non le chiuderei la porta in faccia>>
(Continua)

Senza maschera (capitolo IV -parte sedicesima)

Ecomuseo arenzanese
Tra un inutile interrogativo e l’altro sto quasi per appassionarmi alla commedia; che dico, commedia, si tratta piuttosto di una tragedia: una rappresentazione del tradimento assai veritiera. 
 Perché infatti confessare ad un marito innamorato che si ha intenzione di tradirlo o di lasciarlo? Non c’è ragione al mondo… potrebbe star male… decisamente più comodo… nel suo interesse ovviamente… è mentire o ancor meglio, se possibile, tacere e far finta di niente o magari negare l’evidenza.
E’ una trafila comune che vale, con qualche ininfluente modifica, pure per l’innamorato respinto; perché soffermarsi sulle reali ragioni del rifiuto? dire vino al vino e pane al pane sarebbe troppo complicato…
Dimmi la verità, sei contenta di trascinarmi a fondo piano, piano; dove lo trovi un altro sensibile imbecille che riesce pure a scrivere dei racconti; da una parte fai anche vista di non volerli, ma dall’altra… dall’altra, se avessi uno spillo scoppieresti.
Tu mi consideri così, adorando te stessa: beh, come sai allora siamo in due.
Ma io sono talmente solo che non posso fare a meno di volerti bene? Anche.
Sai, la solitudine è un sentimento infinito, contiene tutto l’amore e la speranza che vuoi… anche di più; con la differenza che la mia continua a riempirsi dell’immagine che di te mi sono fatto, mentre la tua è soltanto colma di te o meglio, di un simulacro che gli altri ti han cucito addosso.
Non so davvero, chi tra i due, sia in posizione più conveniente… o meglio lo posso solo intuire: tu sei in vantaggio nel tempo e nello spazio perché io mi ritroverò tra vent’anni a rivedere questo racconto e ci sarai ancora dentro.
E’ finito il primo tempo, si riaccendono le luci e come d’incanto, riprende vita il tuo mondo: chissà per quale motivo mi viene in mente che col buio siamo tutti uguali, burattini e burattinai; non esistono rapporti di forza, nessuno potrebbe immaginare che io sia l’innamorato e tu, l’oggetto impossibile dei miei desideri.
La vita reale però non si gioca di notte, di notte si dorme e nella migliore delle ipotesi si sogna.
Mi guardo intorno e constato di essere probabilmente la sola persona in tutto il teatro a non avere compagnia; un patetico che s’è messo in ghingheri per intrattenere un posto vuoto.
I miei occhi di complessato egocentrico cercano invano di catturare qualche sguardo distratto; poi arrivi tu. <<Ti trovi bene, non è certo un posto dei più felici… hai gradito il primo atto?… gli atti sono tre;>> ed i tuoi capelli sembrano toccare i braccioli della poltrona, con quelle profumate sfumature che svaporano giù dalla guancia, quasi offerta, con un sorriso, alla mia attenzione.
<<Qui sto benissimo, non ti preoccupare… la commedia è molto bella… mi sto proprio divertendo.>>
Certo lo speravo, ma non credevo saresti venuta da me prima della fine dello spettacolo. <<Ora devo andare, ci vediamo dopo>> e mi lasci nuovamente solo: adesso però posso guardare in giro con fare decisamente più baldanzoso.
Mi giro e mi rigiro come fossi il birillo di un giocoliere impazzito, per carpire un’espressione di ammirazione, un lampo di approvazione o un piccolo broncio; qualcosa di tangibile insomma, che dimostri la mia vittoria… di Pirro.
Ma nulla accade: si spengono nuovamente le luci ed inizia il secondo atto. Devo avere qualcosa dentro ad un orecchio, perché continuo a grattarmi in modo indecoroso; l’avevi detto che c’erano le zanzare ed io non volevo crederlo. <<A febbraio, figuriamoci… non è possibile! ti avevo risposto;>> eppure se queste non sono zanzare mi è venuto improvvisamente un attacco d’orticaria.
O forse è il brusio degli attori tra le quinte che vanamente mi suggerisce di dimenticarti e che poi non dovrebbe essere così difficile, dato che tu non sei mai esistita, se non nella mia mente; come sarebbe bello poterlo credere davvero!
Il palcoscenico è però troppo lontano perché possano intuire che io riesco a soffrire soprattutto dell’immaginario; e allora non c’è uscita: che tu esista o meno è un fatto del tutto secondario; per risolvere i miei problemi dovrei eliminare la fantasia, cosa che appare al momento poco praticabile.
Tra l’altro farla finita per amore non denota grande originalità, dicono sia necessaria perlomeno una ragione in sintonia con i tempi; e, del resto, lo stesso protagonista di questa tragedia insegna come sia più dignitoso rinchiudersi nei propri ricordi…
E poi scusa, se mi togliessi di mezzo, dove troveresti un altro in cui credere e da cui fuggire? Perderesti completamente la fiducia negli uomini ed io non voglio assolutamente che accada… tutte storie, troveresti un altro imbecille.
Insomma ogni scusa, anche la più assurda, è buona per continuare a distruggermi… ed ogni sforzo è in fondo inutile,  perché tu da tempo hai deciso che la fiducia si ripone soltanto nella vita: lo capisco dal distacco con cui vai offrendo quei volantini, ora che un altro atto si è concluso.
Immagini patinate che illustrano viaggi da sogno a cui tu non hai nemmeno pensato: ciò che t’importa è forse soltanto di regalare queste illusioni… tanto anche gli altri non le vivranno, ma almeno tu potrai dire di averle… distribuite.
Sei proprio una bellissima vigliacca, non c’è che dire. <<Davanti, in sesta fila, c’è un posto libero… vuoi trasferirti?>>
<<Adesso? sì va bene.>> Ti seguo come un cagnolino scodinzolante che vorrebbe saltare in braccio alla padrona e non muoversi più, perché il vociare intorno lo terrorizza. <<Avevi ragione ci sono le zanzare… mi hanno messo fuori uso un orecchio.>>
<<Non me ne parlare, tra l’altro io ho un sangue che se ci fosse un solo insetto in tutto il teatro verrebbe a succhiarmi!>>
<<Immagino… sai, c’è una battuta nel terzo atto che non è originale del copione, voglio vedere se la dice…>>
<<Figurati se non la dice… vedrai che la dirà… ma tu come fai a sapere che il copione è stato modificato?>>
<<Uhm… da quella persona che hai incontrato lunedì sera>> e ho proprio paura di essermi tradito…
<<Ah… io vado perché non possiamo parlare con il pubblico… tu stai lì buono e vedrai che ti sistemi.>>
<<Allora ci vediamo all’uscita?>>
<<Sì.>>
(Continua)

Senza maschera (capitolo IV -parte quindicesima)

Teatro di Pompei 

Entrare in biglietteria è come capitare ad una festa a cui non sono stato invitato. <<Per cortesia potrebbe favorirmi il biglietto che ha lasciato per me la signorina Brunetti?>>
<<Sì, subito… ecco a lei!>>
<<Grazie.>> E sotto alle luci sfavillanti tanta gente che si trova a proprio agio come se fosse nel bagno di casa sua, gente arrivata… quanti bei vestiti… anch’io sono elegante, ma costretto a notarmi da solo: chi frequenta un certo ambiente tutto il giorno non fa molto caso.
<<Ciao, sei puntualissimo… vediamo che biglietto ti ha dato la strega… venticinquesima fila… non si è certo sprecata!>>
<<Va benissimo così…>> e non ho il coraggio di guardarti; o meglio preferisco esplorare i volti delle altre colleghe, per scoprire magari un guizzo di approvazione o almeno un piccolo indizio del fatto che tu abbia parlato di me; macché, nemmeno l’ombra: sembrano rocce di granito che non so che cosa farebbero pur di ostentare elegante indifferenza; e tu sei cresciuta alla stessa scuola, a quanto pare… ora mi spiego certi comportamenti, dettati sicuramente dall’abitudine a stare sempre sotto i riflettori… di uno spettacolo in fondo non ancora iniziato…
<<Se poi, quando si chiudono le luci, restano liberi dei posti davanti ti chiamo.>> Mi siedo e vai via con la solita fierezza che, devo dire, in platea diviene anche professionalità; mi passi davanti mille volte senza degnarmi d’un solo sguardo, dispensando sorrisi a destra e a manca con un’aria talmente naturale: dietro a te gli spettatori sembrano tanti scolaretti sperduti alla ricerca della maestra o delle boe che ondeggiano in un mare tranquillo ma ignoto.
E così da un settore all’altro, leggiadra come una farfalla che conosca a mena dito i colori ed i segreti del prato: ti muovi in modo incantevole e ad ogni tragitto regali ai miei occhi un dettaglio di più.
Una volta mi soffermo sui seni che solitamente t’illudi o forse mi fai credere di voler nascondere con il cappotto: modellano il tailleur con armonia e libertà, ben divisi, sodi come quelli di una ragazzina e nello stesso tempo imponenti quasi fosse in atto una gravidanza; il sottile rigato del giacchino non ha poi altra ragione, se non quella di esaltarne la pienezza e la sensualità.
Ad un altro passaggio mi colpisce la schiena ove danzano con incredibile leggerezza quei fili neri che le mie carezze desiderano: trame ammirate d’un velo da sposa… la sposa delle illusioni che giungono ogni sera puntualmente, appena si accendono le luci, illusioni da tenere lontane per non rimanere coinvolti e riuscire comunque ad apprezzarne fino in fondo il mistero.
Viene poi il turno dei fianchi, che inclini leggermente nell’atto di rivolgere il palmo della mano per indicare agli spettatori dove prendere posto; rimane impossibile non osservare la lunga gonna blu pieghettata che nel passo regolare si increspa per tornare immediatamente a distendersi: ogni con-trazione rappresenta fedelmente i più minuti aspetti della tua poliedrica femminilità.
Che dire ancora della radiosità del volto, della gioia che sprizza da ogni poro: lo spettacolo sei tu e null’altra emozione questa sera potrà mai superare queste immagini che doni inconsapevolmente.
Si spengono le luci e si apre il sipario, ho tanta voglia di piangere ed ignoro la ragione. Riesco a trovare sollievo in un solo pensiero che è poi l’attesa di un evento, la conclusione di questa serata, con te sulla macchina per le strade della città silenziosa e colma di atmosfere irreali.
Continuo a fissare il palco di proscenio: è un pensiero puerile, ma ti immagino ridere nel buio accanto alla console del tecnico del suono; quando stiamo insieme non sorridi mai e del resto come fare a darti torto, uscire con me il più delle volte fa tristezza anche a me stesso.
Ma io non vorrei soltanto essere brillante o simpatico, quel che mi piacerebbe è ispirarti quei versetti complici che l’oscurità non impedisce di immaginarti  sulle labbra; e poi per chi, magari per un elettricista con gli occhiali che due pulsanti riescono a trasformare in un superuomo: devo farmi furbo! Il problema sta forse nel non darmi sufficiente importanza?
No, non è soltanto questo, sarebbe rimediabile, il mio problema è che ti voglio bene… “Quel mattino capii come stavano le cose. Se vuoi bene a qualcuno, quell’altro ci ride. Mi veniva di ridere, senza averne voglia. Non glielo dissi, ma le dissi che doveva stare attenta…”
E qui Pavese parlava di te, di me, di tutte quelle nullità che in un momento della loro piccola vita divengono ragione di attrattiva per altre nullità; e sono così fiere della propria pochezza che non riescono a concepire pensiero diverso dalla fuga; si tratta di una legge di natura contro cui non si può combattere, dell’unica tra le esperienze per cui non vale neppure il senno di poi, visto che si ripete immancabilmente.
(Continua)

L’eremita (Seconda parte) (Scena unica-parte novantaseiesima)

Vicolo di Pompei

L’eremita

Tu hai soluzioni sempre sorprendenti e apparentemente semplici… vorrei avere la tua fede e la tua fiducia… mi consolo pensando che sei già tra i beati… e quindi che non posso pretendere da me stesso più di tanto… il paragone sarebbe impari per forza di cose… peraltro posso ancora migliorarmi in questa vita seguendo i tuoi insegnamenti e tenendo sotto controllo le mie molte paure… almeno lo spero.

Abelardo
Io sono soltanto una scintilla per un fuoco che deve ardere nel tuo cuore…sei disponibile ad accettare il fuoco?

L’eremita
È difficile per me sperimentare una così grande e definitiva passione… l’unica esperienza totalizzante è la paura… la paura di morire di fame in povertà…non sono ancora pronto ad affrontare la morte che pure mi è capitato di invocare.

Abelardo
Non sei ancora pronto per affrontare la vita… per capire che non sei solo nella prova… che il Cielo vigila con attenzione sul tuo capo perché nemmeno un capello vada perduto. Se tu avessi questa consapevolezza non parleresti di morte laddove ti è richiesto soltanto di vivere con un minimo di entusiasmo e di curiosità per ciò che ti circonda. Ecco tu non sei curioso di conoscere il cammino e ti guardi sempre indietro, è naturale che inciampi sempre!
È davvero faticoso il tuo percorso… se tu fossi cieco sarebbe più facile, perché almeno tasteresti il terreno che ti separa dalla meta… tu invece tasti gli errori ed i rimorsi, i peccati e le mancanze, le occasioni perdute ed i rimpianti… con tutte queste preoccupazioni il tuo cuore langue sotto un peso insostenibile e la mente non trova sbocchi, si perde in ciò che più non esiste, in ciò che devi valutare con attenzione, ma non certo adorare nell’immobilità…
Non devi mai ritenere che il cammino sia concluso, perché il cammino non finisce mai, è eterno come la tua anima… è la tua anima in fondo che si purifica sempre di più…che si fa sempre più simile al Suo creatore pur essendo dall’eternità della stessa sostanza.
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