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-Alex R. Falzon, Re Artù in Toscana. Inchiesta sul ciclo arturiano in Toscana dal XII secolo ad oggi, Nuova immagine editrice, 1996
Contemporaneamente alle <<Canzoni di geste>> del <<ciclo carolingio>>, nacquero nella Francia settentrionale, i poemi del <<ciclo bretone>>, che, in versi[1], e più spesso in prosa, elaborarono le leggende celtiche della Bretagna inglese e francese. Si tratta di un complesso intreccio di antica mitologia celtica e tradizioni successive incentrate sul nucleo storico della resistenza dei Britanni all’invasione anglosassone.
A seguito di tale invasione alcuni Britanni si stanziarono nell’Armorica (V e VI secolo)[2] e si portarono dietro la tradizione delle popolazioni delle isole britanniche e dell’Irlanda. Ed in Armorica nacquero dunque da un popolo bilingue[3] i poemi del <<ciclo bretone>>, a cui diede un grande e decisivo contributo Chretien De Troyes[4], vissuto nella seconda metà del XII secolo.
Tali opere sono anche dette della Tavola rotonda o arturiane, perché si ispirano alle vicende dei <<cavalieri erranti>> del mitico re Artù[5], i quali per bandire ogni distinzione gerarchica generatrice di invidie e contrasti, sedevano, quando erano a Corte, intorno ad una tavola rotonda (“nessuno poteva vantarsi di stare seduto più in alto del suo compagno”[6]).
Mentre i cavalieri carolingi lottavano esclusivamente per sentimenti religiosi e patriottici[7] quelli arturiani (Lancillotto, Tristano, Calvano, Percevalle ed altri) si aprivano anche ad ideali meno austeri: la bellezza della donna[8], la gentilezza, la cortesia e talvolta l’avventura per l’avventura[9].
I cavalieri arturiani vivono in un mondo misterioso nel quale incantesimi e magie vengono spesso affrontati e sciolti, si combatte e si sfidano pericoli soprattutto per acquistare merito presso la donna amata: sono tutte prove[10] che servono al contempo per raggiungere il successo mondano e la perfezione morale.L’ufficio più alto[11] che però i cavalieri assegnano a se stessi è la ricerca del santo Graal, ossia il calice dove avrebbe bevuto Gesù durante l’ultima cena e in cui Giuseppe di Arimatea avrebbe raccolto il sangue del Cristo crocifisso[12].
Secondo la tradizione medievale, Giuseppe d’Arimatea[13] trasferì il Graal in Britannia, dove i suoi discendenti lo conservarono per generazioni.
Al Graal erano attribuite proprietà miracolose, fra cui il potere di fornire cibo a chi era senza peccato e quello di accecare l’impuro di cuore[14] o di rendere muto chi si mostrava irriverente in sua presenza.
Nelle leggende successive, il Graal divenne oggetto di una ricerca costante, in cui assunse un ruolo fondamentale Sir Galahad, uno dei cavalieri di Re Artù. Molti cavalieri tentarono di ritrovare il calice sacro, ma l’impresa venne portata a termine solo da Bors, Parsifal e Galahad che peraltro non riuscirono a impadronirsene.
Le composizioni bretoni si distinguono da quelle carolinge per una maggiore articolazione tematica ed una maggiore attenzione alla materia psicologica; esse esprimono un raffinato ideale di vita cortese e cavalleresca.
Ciò spiega perché non incontrarono grande fortuna tra il popolo (che preferiva le descrizioni guerresche), ma piuttosto negli ambienti raffinati delle Corti, della nobiltà e della borghesia in ascesa.
Al seguito dei conquistatori normanni i menestrelli e conteurs bretoni diffusero poi ovunque si parlasse francese (in Italia settentrionale, Campania, Puglia e Sicilia) le proprie tradizioni culturali che ebbero grande e duratura fortuna sino al XVI secolo.
La prima diffusione su suolo italico fu però orale e se ne trova eco nell’uso dei nomi: il primo Artusius (Artù) viene citato in un documento padovano del 1114; tra il 1169 e 1170 troviamo in Toscana diverse persone con il nome di Artù e Galvano ed in un documento del 1128 si cita un tal Merlino che viveva a Pistoia nel secolo precedente.
Il primo documento scritto che accenna al ruolo di Merlino e alla vita fantastica di Artù è stato scritto in latino (Pantheon) da Goffredo di Viterbo tra il 1186 e il 1191.
Successiva è una lirica elegiaca (Elegia de diversitate fortunae et philosophia consolatione) scritta nel 1193 dal sacerdote toscano Arrigo da Settimello che contiene il primo riferimento a Tristano che in Italia rimarrà l’eroe più popolare.
Ma anche i poeti siculo-toscani non si esimono dall’utilizzare riferimenti agli eroi del Ciclo: così Guittone d’Arezzo per Lancillotto, Ruggieri Apuliesi per l’intero Ciclo arturiano.
Nell’ambito della lirica amorosa ricordo Bonagiunta Orbicciani e Chiaro Davanzati accennano a Morgana e ad Isotta. In seguito Folgore da San Giminiano paragonerà in un sonetto alcuni nobili senesi ai cavalieri di Camelot.
Nel XIII secolo riprende il personaggio di Tristano niente meno che Brunetto Latini nel Tesoretto.
Dante stesso probabilmente si ispirerà nella rappresentazione delle tre fiere ad un poemetto Detto del Gatto Lupesco che narra dell’incontro tra il menestrello Gatto Lupesco e due cavalieri della Tavola rotonda.
Altri riferimenti danteschi si ritrovano nel De Vulgari Eloquentia, nel V e nel XXXII canto dell’Inferno, nel Convivio (IV,XXVIII,7-8).
Petrarca richiama il ciclo arturiano nel primo e nel terzo dei sei Trionfi.
Boccaccio prende a prestito l’epopea arturiana in diverse opere: nella novella del Decamerone Alatiel (II,7), nella Teseida, nell’Amorosa visione, nel De casibus e nelle Esposizioni sopra la Comedia.
Nel XIV secolo viene scritto in francese il primo romanzo arturiano (Compilazione) da Rustichello da Pisa che però si sofferma sulle vicende degli avi di Artù (che sedevano intorno alla “Tavola vecchia”).
Qualche anno dopo compare il primo romanzo arturiano scritto in italiano: si tratta del Tristano Riccardiano, così chiamato per essere presente nella Biblioteca Riccardiana di Firenze; l’autore è un anonimo della regione umbro-toscana. In tale ultima opera Tristano appare come il più importante cavaliere della Tavola rotonda, cosa che non corrisponde alla storia originale ove Tristano è ricordato principalmente per la storia d’amore con Isotta. In questo Tristano si ha uno dei pochi accenni italiani alla ricerca del Graal.
Diversi episodi del Novellino sono dedicati agli eroi arturiani (capitoli 26,45,63, 82) e così i cantari del XIV e XV secolo.
In merito alla lirica ricordiamo ancora L’intelligenza di Dino Compagni e il Dittamondo di Fazio degli Uberti.
Il più originale e maturo romanzo del ciclo arturiano italiano è però stato scritto da un anonimo toscano nel XVI secolo (Il libro della storia della Tavola ritonda, e di messere Tristano e di messere Lancillotto e di molti altri cavalieri): tale opera cerca di mettere insieme i rami più vari della materia.
Nel Rinascimento italiano il ciclo arturiano vedrà la fusione nei temi e motivi tra ciclo bretone e ciclo carolingio. Tale fusione può farsi risalire all’Entrée di Spagna, ma raggiunse il culmine un secolo dopo con l’Orlando innamorato del Boiardo che ispirò l’Orlando Furioso, massimo capolavoro della letteratura rinascimentale italiana.
Segnalo ancora qui l’Avarchide (pubblicata nel 1570) di Luigi Alamanni che provò a fondere il ciclo arturiano con quello omerico (Artù fu modellato su Agamennone, Lancillotto su Achille e così via): tale opera è importante perché ispirerà la Gerusalemme Liberata del Tasso con cui si chiude, salvi sporadici richiami successivi (in Strozzi, Parini, Leopardi, Berchet, Carducci, Moscrino, Tumiati, Calvino) l’esperienza del ciclo arturiano in Italia.
Carlo Calcagno
[1] Il metro utilizzato è il couplet di octosyllabes non accompagnato dalla musica e destinato quindi alla lettura veloce e non al recitativo.
[6] Così scrive Robert Wace, un monaco normanno, nel Roman De Brut (1155), traduzione ampliata dell’Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth. Brut per il suo autore è nipote di Enea ed eroe eponimo del popolo brettone.
[7] Tanto che alcuni critici ritengono che il Ciclo carolingio fosse stato concepito in origine per esaltare le vite dei santi o dei crociati.
[8] La donna di solito è di rango superiore all’uomo, di solito una regina. La relazione è inoltre adultera (v. la vicenda Tristano ed Isotta).
[9] Soprattutto gli elementi della tradizione celtica sono spesso in aperta opposizione ai valori dominanti.
[10] Tali prove sono dette aventure (dal latino adventura = le cose che devono accadere) che in origine e non certo nei miti arturiani indicavano i segni premonitori del giorno del giudizio.
[11] L’idea di una superiore missione viene coltivata soprattutto in ambito cistercense su ispirazione di S. Bernardo; i monaci cercarono di riscrivere e purificare (La Queste del Saint-Graal) il Ciclo arturiano adattandolo al proprio punto di vista nel senso dell’abbandono degli ideali della cavalleria che appesantiscono l’anima e dell’abbandono dell’amor cortese che impedisce la spiritualizzazione dell’amore umano nell’amore di Dio.
[13] Colui che per i Vangeli richiese a Pilato il corpo di Cristo, lo avvolse nel sudario e lo depose nella tomba. nel XII secolo Giuseppe fu collegato al ciclo arturiano come primo custode del Santo Graal; il primo riferimento è presente nel Joseph d’Arimathie di Robert de Boron che esplicitamente identifica il Graal con la coppa ove Gesù aveva bevuto nell’ultima cena e in cui poi Giuseppe avrebbe appunto raccolto il sangue del crocefisso. Secondo quest’opera Gesù, apparso in sogno a Giuseppe carcerato, gli consegna il Graal con la missione di portarlo in Britannia. In opere successive si giunse ad affermare che una volta liberato Giuseppe si recò appunto in Britannia diventandone il primo vescovo.