INDICE DEGLI AUTORI CONSULTATI
F. CALASSO, Bartolo da Sassoferrato, in Dizionario biografico degli italiani, vol. VI, Roma, 1964, pp. 640-669.
F. CALASSO, Gli ordinamenti giuridici del Rinascimento medievale, Giuffré, 1953.
E. CORTESE, La norma giuridica. Spunti teorici nel diritto comune classico, II, Milano, 1964 (< Ius nostrum >, VI, 2) p. 388 e nota 56.
EMERTON, Humanism and Tiranny. Studies in the Italian Trecento, Cambridge (Mass.) 1925, p. 126.
ERCOLE Il “Tractatus de Tyranno” di Coluccio Salutati, in Da Bartolo all’Althusio. Saggi sulla storia del pensiero pubblicistico del Rinascimento italiano, Firenze, 1932, p. 2481.
D. QUAGLIONI, Il “De Tyranno” di Bartolo da Sassoferrato (1314-1357), in Politica e Diritto nel trecento italiano, LEO S. OLSCHKI, 1983.
VANECEK La leggenda di Bartolo in Boemia, in Bartolo da Sassoferrato, studi e documenti per il IV centenario, I, 1962, Giuffré ed., p. 372 e ss.
3. Motivi dell’opera. Il Proemio.
Molti avvenimenti storici[1], che danno vita ad una intensa polemica in quegli anni[2] e più in generale la linea di condotta politica dell’Impero che del Papato[3], fanno quasi certamente da proscenio al De Tyranno.
Tutto ciò si evincerebbe soprattutto dal Proemio al De Tyranno che si legge in margine alla colonna 192r del cod. Vaticano latino 10726, di mano del giurista GIOVANNI DI ACCUMOLI[4].
In tale Proemio, qualora si consideri autentico, si possono trovare la genesi e i fini che il Tractatus si proponeva: Bartolo lo avrebbe scritto in un momento in cui i suoi trattati erano già conosciuti dagli studenti perugini e con riluttanza, vista la scabrosità del tema e del particolare momento politico che vedeva “la perfidia tirannica espandere le sue forze”; il fine che si prefiggeva non era didattico ma eminentemente politico: “perché tutti quanti abbiano la forza di liberarsi interamente dai nodi del vincolo di quella orrenda perversità, cioè della schiavitù tirannica”; in sostanza avremmo una rievocazione ed invocazione del potere imperiale a difesa delle tradizionali forme di governo della civitas come era accaduto per le Glosse alle Costituzioni pisane di ARRIGO VII (c.d. Costituzioni egidiane)[5].
4. Il Tractatus.
Il De Tyranno si compone di una invocatio e di dodici quaestiones che si possono raggruppare nel modo seguente[6]: a) etimologia e definizione di tiranno (qq. I e II); b) la tirannide nelle comunità inferiori: vicinia e domus (qq. III e IV); c) la tirannide nella civitas: i suoi caratteri manifesto ed occulto e la loro ulteriore distinzione (q. V); d) le due forme o modi di essere della tirannide flagrante e manifesta: ex defectu titoli ed ex parte exercitii, ed il problema degli atti emanati durante tale dominio (qq. VI e VIII, VII e XI); e) le due forme di tirannide mascherata ed occulta, propter titulum e propter defectum tituli (q. XII); f) l’azione contro la tirannide e la condizione del tiranno vicario (qq. IX e X).
Già dalle prime due questioni emerge il carattere oppressivo di un governo che non si fondi sul diritto (< proprie tyrannus dicitur qui in communi re publica non iure principatur >) e il suo aspetto duplice di antigiuridicità, da una parte per mancanza di titolo giuridico e dall’altra per esercizio perverso del potere acquisito legittimamente; inoltre a Bartolo preme sottolineare (qq. II, III, IV) che vi può essere tirannide solo laddove si eserciti una giurisdizione[7]; ancora il nostro giurista mette in luce che la principale caratteristica del tiranno è quella di affliggere i sudditi (q. II, 103-106)[8].
Dalla prima quaestio veniamo a conoscenza che Il termine tyrannus deriverebbe dalla città greca di TIRO[9]; nella seconda quaestio troviamo l’interpretazione della lettera di un celebre passo di GREGORIO MAGNO[10]ove si definiscono cinque tipi di tirannide: quella propriamente detta, nella respublica Romanorum; quella esercitata nelle comunità inferiori (provincia, civitas, domus); quella che può atteggiarsi nella coscienza di ciascuno quando si desideri l’altrui oppressione.
Il tiranno propriamente detto è dunque colui che contro il diritto occupa la dignità e l’ufficio imperiale: contro il diritto, vale a dire illegittimamente e illegalmente, a causa dell’originaria e manifesta mancanza di titolo o del successivo venir meno di questo, che consiste nella regolare elezione, approvazione, unzione ed incoronazione secondo le norme contentenute nelle decretali Venerabilem e Ad Apostolicae dignitatis; norme che ci indicano (q. II, 71-75) essere esercitata contra ius la potestà imperiale quando il soggetto: a) non è stato eletto; b) è stato eletto irregolarmente c) è stato eletto regolarmente ma riprovato dalla Santa Sede; d) è stato eletto regolarmente, approvato e incoronato, indi privato del titolo e deposto con giusta sentenza a causa dell’uso illegale del potere, per infedeltà alla Chiesa, ratione peccati.
Facendo leva sulla riprovazione di SAMUELE per SAUL (1 Rg 13, 13-14; nella q. II, 76-79) simbolo dell’esercizio sfrenato di un potere conferito da Dio Bartolo trova un collegamento tra imperium e sacerdotium nel senso che l’obbedienza alla Chiesa sarebbe indispensabile per l’imperatore.
Lo stesso schema che vale per l’Imperatore può ripetersi (q. II; 95-100) per il praeses della provincia, con l’aggiunta del fatto che, se il praeses giunto alla fine del suo mandato impedisce l’insediamento del successore legittimo, incorre nelle pene previste per i rei di lesa Maestà.
Anche in domo propria (q. II, 103) può manifestarsi la tirannide poiché il paterfamilias esercita una giurisdizione sul coniuge, figli e servi (q. IV, 174-175); se tale paterfamilias abusa di tale potestà è assimilato al tyrannus propriamente detto (q. IV, 178); se perciò costringe metu un membro della famiglia a contrarre un’obbligazione onerosa, essa è nulla di pieno diritto e quindi rescindibile.
La semplice volontà di oppressione degli altri non spetterebbe per Bartolo al foro civile, ma a quello della coscienza (q. II, 105-106) perché Bartolo si sforza di dare una valenza giuridica al concetto gregoriano di latens nequitia; e proprio in questo sforzo il giurista ammette che vadano puniti anche gli atti preparatori della instaurazione di un regime tirannico come se il loro autore sia effettivamente pervenuto all’atto sedizioso (q. II, 107-109).
Nella vicinia[11]non può esservi, sempre sulla base di quanto affermato da GREGORIO MAGNO, tirannia perché essa non sarebbe una entità naturale come la famiglia ove si può esercitare un comando o una giurisdizione; si parla qui genericamente di <potentes qui alios opprimunt >; gli stessi officiali preposti nella civitas a compiti esattivi o di polizia non esercitano giurisdizione, ma sono sottoposti ai reggitori della città; perciò qualora abusino del pur limitato potere conferitogli non sono detti tiranni ma <potentiores ratione officii > e sono puniti <de concussione> senza ricorso ad un superior (q. III, 138-151).
Al contrario può esservi tirannide da parte dell’abate[12] di un monastero a causa di un difetto di titolo (q. IV, 201-202) o a causa dell’esercizio tirannico del suo ufficio (q. IV, 203-204).
La quaestio V[13] costituisce il punto di arrivo ove si condensano i risultati e delle precedenti disquisizioni atte a fornire la substantia del fenomeno[14] e si creano sulla base della primaria distinzione tra tiranno manifesto e tiranno occulto due nuove sottodistinzioni che danno spunto per una nuova discussione: per alcuno Bartolo cercherebbe, nel suo sforzo dogmatico, sempre più di dare sostanza giuridica al passo di GREGORIO MAGNO precedentemente analizzato ove la tirannia acquistava semplice valore morale; regnare non iure significava per GREGORIO regnare con crudeltà e con oppressione: il gran merito di Bartolo sarebbe proprio quello di dare una valenza giuridica a questa espressione senza tuttavia disconoscerne il significato etico[15].
Il tiranno apertus et manifestus (q. V, 199)[16] (in nuce tale concetto come abbiamo già rilevato, è presente nel De Represalis) acquista più specificatamente il carattere dell’antigiuridicità (qq. I, II, V) in quanto manchi di titolo (ex defectu tituli; q. V, 201; q. VI)[17].
Così accadrebbe qualora una città o un castello non abbia il diritto di eleggere il rettore (si pensi ad es. al caso della signoria dei MALATESTA a RIMINI del 1334) e nonostante ciò alcuno si prenda tale incarico (q. VI, 210-213); e anche se tale città abbia il diritto di elezione e possa trasferire la giurisdizione ad alcuno non sarebbe lecito acquistarla con la forza poiché la giurisdizione va trasferita voluntarie cioè con il consenso (q. VI, 215-220).
Nel testo del Tractatus si giunge poi all’analisi delle varie forme di acquisto violento del potere (q. VI, 221-250):
Se l’esercito viene condotto contro la città senza un ordine del superior (q. VI, 225-226; v. anche la nota n. 42); o si espugni la città con l’aiuto di combattenti forestieri (q. VI, 227-228); o se con l’aiuto degli uomini della stessa città si faccia tanto clamore e sedizione da farsi eleggere dell’iniquità non potrebbe dubitarsi soltanto perche l’azione fosse sotto gli occhi di molta gente (q. VI, 228-231); se il potere fosse ottenuto attraverso l’appoggio del “popolino” anche se esso avesse la maggioranza numerica della città, non sarebbe legittimo poiché tale maggioranza sarebbe formata da uomini <viles et abiecte condicionis> che non rappresentano la vera maggioranza della città (q. VI, 236-240); lo stesso dicasi se il potere sia preso con l’appoggio di poche persone in ispecie se la maggioranza sia divisa: poiché pochi uniti prevalgono su molti separati (q. VI, 242-244); ancora se con l’aiuto di poche persone si eliminino le persone più importanti della città, perché è scritto che percotendo il pastore il greggie si disperde (q. VI, 245-248).
I problemi dell’eversione cittadina e della violenza pubblica sono centrali anche nella VII quaestio ove si indica quando il tiranno caret titula e il valore dei suoi atti:
Manca di titolo giuridico il dominio del rettore della città qualora egli prolunghi, senza farne mistero, il suo mandato oltre la scadenza stabilita, impedendo l’accesso alla magistratura al suo successore legittimo; o qualora, come già detto, la città ove egli venga eletto manchi del privilegio di darsi autonomamente un rettore; o qualora, come si è visto, un atto di violenza o di intimidazione pubblica intervenga a viziare l’elezione. Le ordinanze e gli atti emanati durante tale dominio sono dichiarati nulli secondo la l. Decernimus, C. De sacrosantis ecclesiis (q. VII, 270-278), sia per quel che risulta ordinato in prima persona dal rettore, sia per quello che risulta ordinato dal suo seguito. Eguale sorte spetta a quanto disposto dagli ufficiali eletti dalla città <patiente tiranno>, poiché <nullus actus fit in civitate libere quando est ibi tyrannus, et sic videtur factus ab ipso tyranno> (q. VII, 277-285). Per quel che riguarda i processi, quelli celebrati contro i fuoriusciti (extrinseci) sono nulli di diritto conformemente al disposto della Clementina Pastoralis Cura (C. 2, Clem., II, 11) per la quale nessuno può essere tenuto a comparire davanti al giudice che sia a lui notoriamente ostile o in luogo notoriamente nemico (q. VII, 296-300). I processi celebrati contro gli intrinseci sono validi ma solo se si può provare che si sarebbero svolti nello stesso modo se non vi fosse stato a giudicare il tiranno (q. VII, 303-316). Ugualmente sono nulle di diritto le obbligazioni contratte dalla città con lo stesso tiranno, perché come non ha valore la promessa del recluso al suo carceriere, così non ha valore il contratto celebrato tra il popolo e il tiranno <captivatum et quodammodo carceratum>. Tali obbligazioni sarebbero comunque nulle per la l. Quicumque, C. De contractibus iudicium (C. 1, 53, 1): se infatti non è valida la donazione fatta al iustus iudex a maggior ragione non può ritenersi valida quella fatta allo iniuste iudicans. Lo stesso può dirsi dei contratti celebrati tra il tiranno ed i singoli a lui soggetti, e nulle sono anche le obbligazioni contratte da tale tiranno a nome della città, quand’anche esse fossero <in favorem civitatis tyrannizate> (q. VII, 330-365).
Altra forma di tirannide manifesta si ha qualora i modi di esercizio del dominato (ex parte exercitii; q. V, 201; q. VIII) <non tendunt ad bonum commune, sed ad proprium ipsius tiranni > (q. VIII, 449-450), ovvero si svolgano con abuso di potere, prevalenza del privato interesse sulla cosa pubblica.
Gli indizi della tirannide ex parte exercitii (q. VIII, 455-482), secondo la tradizione aristotelica[18] che ispira in parte il nostro giurista, si riducono in Bartolo a due (q. VIII, 540-545)[19]: il mantenimento della città nelle lotte di parte (q. VIII, 511-512)[20] e l’immiserimento dei sudditi colpiti <gravaminibus realibus vel personalibus> (q. VIII, 517-520); se invece il fine dell’azione fosse il bonum commune sarebbero leciti, ovvero avrebbero una iusta causa: la repressione delle attività ritenute sediziose (q. VIII, 485-490); la proibizione di insegnamento di alcune discipline (q. VIII, 494-499)[21]; lo scioglimento di associazioni che si propongono di turbare l’ordine pubblico (q. VIII, 501-503), l’istituzione di un regolare servizio di spionaggio interno (q. VIII, 605-610) < ut corrigant delicta et alia quae iniuste fiunt in civitate>; il promovimento di una guerra alle condizioni che fanno di essa una guerra giusta (q. VIII, 522-525)[22] la costituzione di truppe mercenarie a propria difesa qualora <populus ita esse indomitus et ita perversus >(q. VIII, 526-530).
Circa la validità degli atti compiuti dal tyrannus ex parte exercitii si rimanda a quanto detto più sopra circa l’altra forma di tiranno manifesto, con l’aggiunta che in tal caso le ordinanze e i contratti non direttamente lesivi del pubblico interesse sono validi finché il tiranno <in dignitate toleratur >.
Il tiranno velatus et tacitus (q. V, 200; q. XII) acquista in dettaglio il carattere antigiuridico in due modi (q. XII, 656-657): 1) qualora eserciti propter titulum (q. V, 203) cioè nel caso in cui si eserciti il potere sotto la maschera del rispetto delle forme costituzionali[23], ma con la sostanziale alterazione di queste sia per la durata della carica (se ad es. un podestà rimanga nel suo ufficio oltre il periodo stabilito dallo statuto comunale; q. XII, 662-665), sia per la violazione dei suoi limiti (ad es. un podestà si arroghi di fare statuta al posto del Parlamento); 2) propter defectum tituli (q. V, 204), ossia quando abbia una carica a cui nessun potere è congiunto, e nonostante ciò <viene in tanta potenza, da costringere il governo a fare quello che egli vuole> (q. XII, 696-699)[24].
Carlo Alberto Calcagno
[1] Tali avvenimenti si ritrovano nelle pieghe dell’invocatio e soprattutto della quaestio IX del De Tyranno e così sintenticamente li ricordiamo: la discesa di CARLO IV in ITALIA già ricordata (alla nota n. 15) che specie i populares ritenevano essere avvenuta per far cadere il signore di MILANO e delle altre città lombarde e che invece si rivelò essere fatta soltanto per mercanteggiare la propria incoronazione; la vendita di BOLOGNA all’arcivescovo GIOVANNI VISCONTI nel 1349 per duecentomila fiorini da parte di GIOVANNI e IACOPO della famiglia dei PEPOLI e il conseguente fatto della sua non regolare elezione a signore di Bologna nel 1350 in seguito ad una occupazione militare da parte di BERNABÒ VISCONTI appunto per conto di GIOVANNI; l’ambigua politica pontificia in relazione a questa elezione, l’interdetto e la scomunica ritirati in seguito alla minaccia viscontea di attaccare AVIGNONE e soprattutto al pagamento di centomila fiorini; il conferimento del vicariato apostolico (1352) allo stesso GIOVANNI da parte di CLEMENTE VI e il conferimento di quello imperiale da parte di CARLO IV (1354) ai suoi successori e nipoti, figli del fratello premorto STEFANO: MATTEO II (1319-1355), BERNABO’ detto IL FEROCE (1323-1385), e GALEAZZO (1320-1378), che si spartirono le terre sotto al dominato visconteo e condussero una politica di grande ferocia; politica che porterà dopo la morte di MATTEO II ad un’altra spartizione con la quale GALEAZZO II avrà la parte occidentale del dominio e BERNABÒ quella orientale, e a molte lotte contro una serie di leghe anti-viscontee di ESTE, GONZAGA, SCALIGERI, CARRARESI, MONFERRATO; l’assurgere a signori di RIMINI nel 1334 di GALEOTTO e MALATESTA, con il conseguente scioglimento dei due dall’osservanza dell’ordinamento statutario e soprattutto la mancata richiesta dell’approvazione pontificia (sappiamo infatti, F. CALASSO, Gli Ordinamenti giuridici cit., p. 190, che con INNOCENZO III si tolse ai comuni assoggettati al dominato pontificio la libera elezione del podesta e ai primi del ‘300 si arrivò ad un sistema ove la elezione comunale aveva il solo valore giuridico di proposta e solo dopo la conferma pontificia l’eletto poteva assumere la carica); fatti che porteranno ad una lunga guerra, al conferimento del vicariato imperiale da parte di LUDOVICO IL BAVARO, all’invio da parte di INNOCENZO VI del legato pontificio, cardinale ALBORNOZ (1353-1357 e 1358-1367) per la restaurazione del potere pontificio, invio che invece si risolse in un patteggiamento, coi tiranni della MARCA (a cui l’ALBORNOZ chiede soltanto un generico atto di sottomissione) fino alla concessione ai MALATESTA (1355) del vicariato apostolico per RIMINI, FANO (che i MALATESTA avevano occupato nel 1342), PESARO e FOSSOMBRONE, fatto quest’ultimo che per Bartolo significò l’avvio della < generalizzazione a sistema > del vicariato apostolico; la situazione romana dopo la fine del sogno umanistico, vagheggiato anche dal PETRARCA, di COLA DI RIENZO di restaurazione della respublica (1354).
[3]In linea generale possiamo dire che a Bartolo (D. QUAGLIONI, op. cit., p. 57) non pare che l’Impero e il Papato svolgano una politica di riforma dei regimi corrotti (nella q. X del De Tyranno si spiegano le ragioni di tale scelta politica).
[6]D. QUAGLIONI, op. cit., p. 39. Nella presente trattazione non verranno comunque analizzate per intero, ma soltanto nei punti più significativi.
[7]Unica eccezione sarebbe quella in cui vi sia il prepotere dei singoli a danno ed impedimento della legittima iurisdictio nel territorio della civitas, come nella particolare situazione di ROMA ove vi sarebbero più tiranni locali oppure se il signore di una villa o di un vicus o di un castrum compresi nel comitatus della citta si dichiari ad essa ribelle o contro di essa opponga resistenza, in modo tale che tali delitti possano punirsi soltanto con grave difficoltà (q. II, 155-165).
[8]Come sottolinea anche il BELLOMO, in Società e istituzioni in Italia dal Medioevo agli inizi dell’età moderna, Giannotta, 1982, p. 317.
[9]Per l’autorità di UGUCCIONE DA PISA (q. I, 44) di ISIDORO (q. I, 45-46) e forse Bartolo fa anche riferimento alla PATRISTICA, in particolare a SAN GIROLAMO, anche se parla semplicemente di interpretazioni bibliche (q. I, 45). A sua volta la PATRISTICA avremme mediato questa idea dalla filosofia PLATONICA (F. CALASSO, Gli Ordinamenti giuridici cit., p. 202).
[11]< At in vicinia non consuevit esse rex vel regimen aliquod per modum iurisdictionis, ideo ibi non cadit tyrannus. Vicinia non regitur per unum, sed per eum totam civitatem regit >(q. III, 125-128).
[12]La distinzione di cui appresso nel testo è tratta dal commento di INNOCENZO IV alle Decretali Nihil est quod Ecclesiae e Cum iniuncto; la risposta qui contenuta al quesito circa la validità degli atti emanati dagli indigni promoti alle cariche ecclesiastiche e poi rimossi dal loro ufficio, costituisce tra l’altro il modello della q. VII sulla validità degli atti emanati dal tiranno manifesto ex defectu tituli.
[13]Bartolo (D. QUAGLIONI, op. cit., p. 44) disquisisce in essa intorno alla tirannide cittadina ma in realtà pone le basi per una definizione generale del fenomeno tirannico. Le distinzioni di cui nel testo trovano fondamento nella fusione della tradizione romanistica imperiale (che vedeva l’imperatore lex animata in terra e legibus solutus) di cui Bartolo era il massimo rappresentante, con la tradizione aristotelica-tomista il cui modello era per Bartolo, GREGORIO MAGNO e inoltre con la sistemazione canonista (v. a questo proposito anche la nota precedente); in particolare due canoni Neque enim e Principatus che hanno la loro base nel De bono coniugali, di AGOSTINO e nell’Epistula XIII di LEONE MAGNO costituiscono la fonte normativa sia della distinzione espressa nella quaestio V sia di altri passi del Tractatus.
[15] F. CALASSO, Gli Ordinamenti giuridici cit., p. 262. Per l’ERCOLE (Il “Tractatus de Tyranno” di Coluccio Salutati, in Da Bartolo all’Althusio. Saggi sulla storia del pensiero pubblicistico del Rinascimento italiano, Firenze, 1932, p. 248) in Bartolo sarebbero presenti due distinti concetti della tirannide, uno filosofico-morale ed uno schiettamente giuridico; il primo sarebbe rappresentato dalla tirannide ex parte exercitii (corrispondente alla tradizione da ARISTOTELE in poi e mediata da GREGORIO MAGNO, che vedeva appunto la tirannide come esercizio dannoso alla comunità di un potere comunque acquistato) mentre il secondo sarebbe da inquadrarsi nel tiranno ex defectu tituli (corrispondente alla tradizione fino a PLATONE che vedeva nella tirannia soltanto l’anticostituzionalità e l’illegalità dell’acquisto del potere). Ribatte il QUAGLIONI (op. cit., p. 47) che più in generale per non iure principatur deve intendersi sia la situazione in cui caret titula sia quella in cui un soggetto sia privato del titolo in seguito all’esercizio tirannico del potere. La concezione morale e quella giuridica sarebbero infatti intrecciate anche nel commento di TOMMASO alle Sentenze di PIETRO LOMBARDI ove la tirannide è vista come inordinato amore del potere, vuoi per l’indebito acquisto vuoi per l’esercizio perverso e tale concetto coincide con la distinzione Bartoliana (che nasce quindi su terreno consolidato) tra tirannide ex defectu tituli ed ex parte exercitii.
[16]Il quale (F. CALASSO, Gli ordinamenti giuridici cit., p. 263) non avrebbe bisogno di far mistero del suo stato in quanto ha conquistato il potere con la forza o con l’astuzia.
[17] Nel tratteggiare questa figura tirannica (come la successiva) Bartolo cerca di punteggiare di riferimenti effettuali la sua costruzione giuridica (D. QUAGLIONI, op. cit., p. 50-51) < introducendo una positiva preoccupazione di “realismo” nella cultura giuridico-politica >; di questo “realismo” sono espressioni sia la VII che la VI quaestio, ove si dà una fenomenologia della sovversione delle forme costituzionali della civitas e quindi si lega il De Tyranno alla realtà comunale in modo tangibile.
[18]Le dieci cautelae tyrannicae del libro V della Politica di ARISTOTELE, consisterebbero per sommi capi nell’uccisione degli uomini potenti della città, nella eliminazione dei sapienti e nella soppressione delle loro opere, nel divieto delle associazioni e congregazioni anche lecite, nell’assoldamento di molte spie, nella conservazione delle divisioni cittadine, nell’immiserimento dei sudditi, nel provocare guerre ingiuste, nella tutela non dei cittadini ma dei forestieri, nell’adesione ad una fazione cittadina in modo da affliggere l’altra.
[19] Riduzione derivante dal fatto che la tradizione aristotelica che giunge a Bartolo attraverso il De regimine principum di EGIDIO ROMANO, è largamente mediata dalla definizione gregoriana e dal concetto tomista di iusta causa (così come risulta dalla q. VIII, 453-454).
[20]E quindi il dispregio per la pace cittadina; < quiex et pax civium > che per Bartolo (q. VIII, 539-540) sono i fini supremi della comunità urbana (V. anche BELLOMO, op. cit., p. 317).
[22] Mentre nella Roma antica (F. CALASSO, Gli ordinamenti giuridici cit., p. 266) per iustum bellum si indicava la guerra che veniva indetta conformemente alle regole del diritto sacrale, nel medioevo iustum indica una valutazione d’ordine morale, ossia si parla della giustizia della guerra; i giuristi medievali del XII e XIII secolo fanno riferimento ad un testo di ERMOGENIANO contenuto nei Digesta ( 1, 1, 5) per cui la guerra sarebbe un istituto dello ius gentium; di conseguenza si pone non un problema di rispetto delle forme ma di chi è legittimato ad intraprenderla; AZZONE lo risolve ammettendone la titolarità (salvo il caso di resistenza ad un’aggressione) solo in capo ad un potere universale ( <a principe vel a populo romano>); questa ideologia come sappiamo (v. anche l’inizio del presente lavoro: nata n. 5 e testo a fronte) era in stridente contrasto con la realtà dei fatti ed un secolo dopo CINO DA PISTOIA in due passi del Super Digestus vetus ne darà una definizione più elastica e realistica. Egli distinguerà tra bellum illicitum e bellum licitum; la prima costituirebbe la regola e la seconda l’eccezione riconoscibile solo nei casi seguenti: a) in caso di aggressione; b) ovvero quando è prevista da una legge scritta; c) o quando è condotta contro i nemici dell’Impero d) infine <quando fit in defectu iudicis>. Il giudice in difetto del quale i popoli sarebbero legittimati a scendere in guerra è il superior, cioè l’Imperatore, come unica potenza sovranazionale capace di dirimere le controversie tra i popoli e di conservare tra di essi la pace e il diritto; la guerra lecita di cui parla il Digesto sarebbe per Cino soltanto quella < in defectu iudicis >; Bartolo aderisce in toto a quello che è stato l’insegnamento del suo maestro.
[23]Come annota il CALASSO (Gli Ordinamenti giuridici, op. cit., p. 151) già dalle origini, il trapasso alla signoria non è dovuto ad una crisi di legalità; esso si compì con forme legalissime: colui che di fatto si era impadronito delle leve del potere fu nominato secondo tutte le regole, capitaneus generalis, potestas generalis, dominus generalis. < Proprio quelle forme legali agirono da anestetico sul popolo stanco, che quasi non s’accorse lì per lì del trapasso; ma all’occhio del giurista quella generalitas apparve per quella che era. < Hodie Italia est tota plena tirannis > disse Bartolo da Sassoferrato nel suo Tractatus de Regimine civitatis. >.