1. Introduzione
Nella concezione Bartoliana del potere pubblico e quindi del rapporto tra stato e diritto l’Impero universale sarebbe custode della pace e del diritto stesso[1] e l’Imperatore quale executor iustitiae, avrebbe il dovere di riformare i regimi corrotti[2].
Tutta la dottrina politica di Bartolo è tesa a dimostrare questi concetti e ad affermare che fino al momento in cui l’Impero universale ed il suo dominatus rimasero in piedi determinati fenomeni antigiuridici non avrebbero potuto verificarsi o comunque vi sarebbe stato posto un freno[3]: in particolare il nostro giurista si riferisce a fenomeni quali la guerra, la rappresaglia e la tirannide[4].
Nel Trecento italiano questa concezione del potere, pur essendo ancora ben vivo nella coscienza giuridica il tradizionale concetto di maiestas imperiale, è nei fatti più che mai in crisi[5] a seguito dei <nuovi modi di esercizio>[6] del potere stesso da parte delle signorie italiane.
Conseguentemente si poneva la problematica specie per parte dei populares[7] di parte Guelfa[8] della legittimità e della legalità dell’esercizio del potere, ossia della conquista arbitraria del potere (tirannide ex defectu tituli), e dell’esercizio arbitrario del potere (tirannide ex parte exercitii)[9].
2. Sulla composizione dell’opera. La tirannide nei Trattati.
La sovraesposta tematica è oggetto del Tractatus De Tyrannia o Tyrannidis, ovvero De Tyranno o De Tyrannis[10], opera giuridico-politica avente quindi natura pratica[11] (v. anche infra) forse composta su commissione; e che, menzionata già da BALDO nel commento alla Lex Decernimus, C. De Sacrosantis Ecclesis (C. 1, 2, 16), appartiene al periodo più maturo della produzione bartoliana.
Si tratta di una composizione successiva al Tractatus De Represalis[12], al Tractatus Tyberiadis o De fluminibus[13] ed al suo coevo Tractatus De Guelphis et Gebellinis[14], forse contemporanea al De regimine civitatis[15] e precedente di poco la composizione delle glosse alle costituzioni pisane di Arrigo VII.
Il De Tyranno nasce in definitiva[16] nel lasso di tempo tra l’incoronazione di CARLO IV di BOEMIA e la morte del nostro giurista[17]; si deve però preliminarmente sottolineare che in altre opere precedentemente citate o non, Bartolo aveva toccato il problema della tirannide.
In particolare, sulla natura e i poteri degli organismi politici, sopra la loro corruzione, le forme di illegittimità e dell’illegalità, resta ampia testimonianza[18]in buona parte dell’ultima produzione bartoliana: già intorno al 1344 o 1346 a commento delle costituzioni (richiamate pure nella II e nella VII quaestio del De Tyranno) Omni innovatione e Decernimus ut antiquitatis (C. 1, 2, 6 e 16) il nostro giurista aveva da una parte enunciato la regola generale per cui <<spiritualia per saeculares non deciduntur >>; dall’altra aveva esteso a tutti gli atti emanati sotto ingiusto dominio la prescrizione della nullità, che nella lettera della legge era limitata alle ordinanze del tyrannus universalis contrarie ai privilegi ecclesiastici[19].
Nel De Represalis già si distingue tra il tiranno che acquisisce ex sua auctoritate il potere ed il tiranno apparentemente in possesso di giusto titolo ma eletto con l’intimidazione e la cui condizione di illegittimità, può rimanere celata; gli atti compiuti dal tiranno manifesto sarebbero nulli per la l. Decernimus, mentre nella seconda ipotesi di tirannia gli atti sarebbero tollerati per la l. Barbarius.
Nel De regimine civitatis, abbiamo però il primo tentativo di dare una sistematica trattazione al fenomeno della tirannide: essa è intesa come corruzione del regime monarchico e come conseguenza della instabilità giuridica del governo a popolo, poiché tale corruzione avverrebbe di necessità quando si tenti di introdurre il regimen unius nelle realtà politiche ad esso per natura avverse; come vi sarebbe antitesi tra rex e tyrannus così nella civitas sussisterebbe antinomia tra lo iudex e il tirannus.
Vengono prese ad esempio le Sacre Scritture: Samuele (8, 11-17) ove si afferma che spiace a Dio che Israele chieda un re, rifiutando per l’avvenire il governo dei giudici, il governo di Dio stesso; gli italiani che mutino regime rinnoverebbero in questo senso il peccato del popolo ebraico.
Per quel che riguarda i limiti del potere del rex Bartolo fa riferimento al Deuteronomio (17, 16-20): in primo luogo egli deve possedere un giusto titolo nel senso che deve derivare ab alio i suoi poteri, diversamente non sarebbe re ma tiranno (si preannuncia già qui sia quanto previsto nella II q. del De Tyranno sia il tyrannus ex defectu tituli della q. V e VI); in secondo luogo deve possedere qualità politiche e morali, di fedeltà alla chiesa e di moderazione della propria condotta di vita ( bonus et rectus rex antitesi di quello che sarà il tyrannus ex parte exercitii) anche se ciò non riguarderebbe nelle Scritture la vita pubblica, ma la vita privata del re; e quindi per Bartolo non basterebbe che il re fuggisse da peccati quali la lussuria, la superbia e la cupidigia.
Per determinare il potere pubblico del re si dovrebbe fare riferimento ai leges foeudorum e al Digesto; ma siccome nelle Pandette si parla di omnis potestas la situazione sembrerebbe complicarsi anziché risolversi e quindi sarebbe facilissima la degenerazione in tirannide[20].
Nel De Guelphis et Gebellinis si pone in primo luogo il problema della esistenza e della liceità delle fazioni cittadine e secondariamente della loro resistenza al regime tirannico (di cui Bartolo non parlerà nel De Tyranno forse per la sua visione dell’imperatore come riformatore dei regimi corrotti); la pars sarebbe legittima in quanto la sua azione sia tesa all’ottenimento del bene comune e alla sua difesa; diversamente sarebbe illegittima se perseguisse il proprio interesse esclusivo o cercasse di deporre con la forza i legittimi signori della città; il tentativo di deposizione (e quindi l’appartenenza alla secta) non si configura come sedizioso qualora si voglia abbattere un potere tyrannicus et pessimum e sussistano l’impossibilità di far ricorso al superior e una iusta causa (in questo caso una ragione di publica utilitas, poiché il tiranno ha ottenuto il potere strappandolo con la violenza alla pubblica autorità e non ad un privato: per questa ragione non è lecito ad un privato tentare di abbattere il tiranno per fini personali). Ancora, se la pars deponente avesse intenzione di instaurare una nuova tirannide, la resistenza al tiranno illegittimo sarebbe essa stessa illecita.
Nelle Glosse alle costituzione enriciana Qui sint rebellis, accenna forse al tirannicidio ed in quelle Ad reprimendum afferma che non v’è nessuna iusta causa per la resistenza all’Imperatore; si indica in queste ultime anche cosa si debba intendersi per tentativo di ribellione e si tratta della liceità del tirannicidio stesso.
[1]F. CALASSO, Gli ordinamenti giuridici del Rinascimento medievale, Giuffré, 1953, p. 261.Tale concezione deriva a Bartolo anche dagli insegnamenti di CINO DA PISTOIA su cui v. anche la nota n. 42.
[2]D. QUAGLIONI, Il “De Tyranno” di Bartolo da Sassoferrato (1314-1357), in Politica e Diritto nel trecento italiano, LEO S. OLSCHKI, 1983, p. 32. Questo dovere di riforma del superior emerge chiaramente dalla q. IX del De Tyranno.
[3]Dal Tractatus super Constitutio ad Reprimendum: <Hoc patet. nam quum Imperium fuit in statu et tranquillitate: ut tempore Octauiani Augusti. Et cum Imperium fuit prostratum, insurrexerunt dirae tyrannides>.
[5]Consapevole di questa crisi un giurista come BALDO distinguerà quindi tra una potestas de iuri civili che si estende a tutto il mondo e la voluntas principi che si estende ai soli sudditi.
[6]E. CORTESE, La norma giuridica. Spunti teorici nel diritto comune classico, II, Milano, 1964 (<Ius nostrum >, VI, 2) p. 388 e nota 56.
[7]Poiché il populus come specificherà anche Bartolo (nel De Regimine civitatis e nella quaestio VI del De Tyranno) e le “Arti” si pongono come base e limite alla nascita del sistema signorile e in quanto limite il populus usa infatti lo stesso termine “tirannide” in funzione antisignorile; ma vi è anche da rilevare che da lungo tempo la locuzione stava ad indicare la condizione di perversità (v. infra la concezione di GREGORIO MAGNO e prima di lui di ARISTOTELE) di ogni regimen che violi la legge umana e quella divina (di cui la prima è specchio se è lex e non legis corruptio); tiranno era cioè l’usurpatore del potere civile o religioso, ossia l’imperatore eletto in discordia e non confermato o il pontefice che oltrepassava la potestà conferitagli o ancora i baroni riottosi.
[10]La cui attribuzione a Bartolo deriverebbe oltre alla testimonianza di BALDO addotta dal DIPLOVATACCIO anche dal fatto che l’autore del De Tyranno cita come proprio il primo libro del Tractatus Tyberiadis.
[12] Opera composta a Parigi il 27 febbraio del 1354 secondo la Bartoli Vita del DIPLOVATACCIO; il SAVIGNY la attribuiva invece a GIOVANNI DI LEGNANO. Le brevi notizie circa quest’opera e le successive sono enucleate da F. CALASSO, Bartolo da Sassoferrato, in Dizionario biografico degli italiani, vol. VI, Roma, 1964, pp. 640-669.
[13]Trattato che Bartolo avrebbe composto, forse in un breve periodo di vacanza (BELLOMO, op. cit., p. 461), a Perugia nel 1355 e che consta di tre libri; il primo reca il titolo di Tractatus de insula e il terzo Tractatus de alveo; per il DIPLOVATACCIO questo trattato sarebbe autentico per communis opinio. Per i rapporti col De Tyranno v. tuttavia l’opinione del CALASSO alla nota n. 16.
[15]Che fu composto dopo il 1355, se si deve dar peso al fatto che Bartolo vi fa menzione dell’incontro con CARLO IV. Nell’ottobre del 1354 infatti CARLO IV di LUSSEMBURGO, eletto re di BOEMIA nel 1346 da parte di cinque elettori come conseguenza della riunione di RENSE del 1338, intraprese il suo viaggio in Italia, come rileva il VANECEK (La leggenda di Bartolo in Boemia, in Bartolo da Sassoferrato, studi e documenti per il IV centenario, I, 1962, Giuffré ed., p. 372 e ss.) per ricevere la sua corona imperiale; il 6 gennaio del 1355 venne incoronato a MILANO con la Corona di ferro lombarda e il 6 aprile dello stesso anno, alla domenica di Pasqua, si fece incoronare imperatore dei romani in SAN PIETRO. Durante il viaggio di ritorno CARLO IV si fermò a PISA e subito dopo aver sventato il complotto che qui lo minacciava, ricevette un’ambasciata dalla città di PERUGIA, uno dei comuni più importanti e a lui più fedeli. Nell’occasione dell’udienza concessa ai perugini, CARLO IV accordò a Bartolo una serie di privilegi, che vennero inclusi in due diplomi in data 18 e 19 maggio 1355. Per l’imperatore l’incontro con Bartolo fu di lieve importanza ma così non si può dire per Bartolo per cui significò il più alto riconoscimento che ebbe in vita sua; e ciò è testimoniato appunto da molti passi delle sue opere posteriori.
[16]Secondo il CALASSO, Bartolo da Sassoferrato cit., p. 665, il Tractatus dovrebbe nascere nell’intervallo di tempo che seguì alla stesura del De verborum expositio e precedette quella del De alveo.
[17]Per alcuno avvenuta il 10 o il 12 luglio del 1357; per altri nel 1355 e per altri ancora nel 1359 (F. CALASSO, Bartolo da Sassoferrato cit., p. 643).
[19]BALDO parlò a questo riferimento di profezia perché nel 1346, come abbiamo visto anche alla nota n. 15 CARLO IV fu eletto come iustus dominus mentre nel 1347 furono dichiarati nulli gli atti di LUDOVICO IL BAVARO per difetto di giurisdizione.
[20]Del resto (F. CALASSO, Gli Ordinamenti giuridici cit., p. 244 e ss.) come sappiamo, tra il XII e il XIII secolo si era fatto strada il principio: <Rex superiorem non recognoscens in regno suo est imperator> ovvero si sosteneva, pur riconoscendo il ruolo paradigmatico dei poteri dell’Imperatore, che il re che non riconosce altro potere sopra di sé, ha, nell’ambito del proprio regno, gli stessi poteri che ha l’imperatore su tutto l’impero. I precedenti di questo principio che avrà grande fortuna sino al diciassettesimo secolo si ritrovano: in una Glossa (seconda metà del XII secolo) alla Summa di STEFANO TORNACENSE del Decreto di GRAZIANO, ove si trova la definizione di costituzione come di un editto che l’imperatore o il re possono emanare in regno suo; sempre che non si ritenga che la parola rex sia usata in senso atecnico; in un Decretale di INNOCENZO III del 1202 ove è presente appunto la frase <<rex superiorem non recognoscens in regno suo est imperator>>, per cui si diffuse in Francia, forse fraintentendendo l’opinione del Pontefice, che il re non dipendesse da nessuno tranne che da Dio e da se stesso; in una Glossa (1208) ad un Decretale di ALESSANDRO III ove ALANO un glossatore canonista afferma che il potere dell’Imperatore deriva da quello del Pontefice e lo stesso vale per i sudditi dell’Imperatore (non basta l’elezione da parte dei principi, principio che invece verrà sancito nel 1356 da CARLO IV con la Bolla D’oro) poiché <<Unusquisque enim tantum iuris habet in regno suo quantum imperator in imperio>>; altro riferimento ci perviene da AZZONE che disputando una quaestio su chi aveva il potere di delega feudale in una argomentazione a favore del dominus rex stabilisce:<<Ita quilibet (rex) hodie videtur eandem potestatem habere in terra sua, quam imperator, ergo potuit facere quod sibi placet>>; nello Speculum iudiciale, di GUGLIELMO DURANTE (sec. metà del sec. XIII) è già presente il concetto dell’assimilazione del Re di Francia all’Imperatore; in una Glossa (sec. metà del sec. XIII) di MARINO DI CARAMANICO al liber Augustalis di FEDERICO II dove già si assume che il Re di Sicilia non è assoggettato all’Imperatore.