Un chicco di luce

chicco di luce


Tu sei
mentre
t’apri
con
lo sguardo
a fecondare
la mia
disperazione
e
a poco a poco
balugina
in germoglio
la tenerezza
inquieta.

Fior da Fiore (Prima parte)

Luna dantesca

Spero di farvi cosa gradita con questa pubblicazione tratta dalla prefazione all’antologia letteraria “Fior da Fiore”, una miscellanea di prose e poesie scelte ed anche tradotte, in qualche caso, da Giovanni Pascoli per le scuole secondarie inferiori.

Personalmente ne ritengo utile la lettura ad esempio per comprendere fino in fondo la poetica espressa precedentemente ne “Il Fanciullino”.

E qui dunque mi rivolgo in special modo agli studenti universitari e a quelli delle scuole secondarie, magari a coloro che fra pochi mesi dovranno sostenere l’esame di maturità…

Pascoli ha curato questa antologia nel momento in cui era professore all’Università di Messina e precisamente nell’anno in cui aveva affittato la casa di Castelvecchio presso Barga, dove  scriverà le opere più mature.

Ve la propongo (a puntate) perché non è facile trovarla nelle antologie di oggi: L’edizione è infatti del 1902  e l’Editore è Remo Sandron di Milano-Palermo.  

Fior da Fiore

Aveva pernottato sur un gradino d’una ripida scala tagliata nel masso. L’aveva lì sorpreso la notte quasi all’improvviso, con togliergli d’avanti i piedi l’ombra sua che lo  precedeva; ché camminava e saliva verso l’oriente. S’era dunque sdraiato sur un gradino e s’era addormentato. Era stanco. Aveva fatto molto e aspro e strano cammino. Era disceso in un baratro immenso; s’era poi arrampicato per un monte altissimo. Quel baratro,  pieno d’urli e di maledizioni; questo monte, pieno di canti e preghiere; e l’uno e l’altro gremiti di pene e di martiri indicibili, sopportati là con feroce disperazione, qua con rassegnazione soave.
Era stanco. Dormiva. Vegliavano su di lui due Ombre, due Ombre di poeti morti mille e più anni prima. Dormiva e sognava. Ciò che sognava (era una donna che cantava e coglieva fiori), diceva al suo spirito che ci sono due vite per gli uomini buone e sante, sebbene l’una meno e l’altra più: quella che si spende nell’operare il bene e quella che si esercita nel contemplare il vero. Il sogno sparisce, il sonno si rompe. È il crepuscolo del giorno.
Di chi parlo? Voi avete già capito : di Dante. Non può essere che Dante, un così fatto viatore che compie con Ombre di morti la sua via.
Dante! Non c’è nome che in Italia sia più noto. Esso nome significa per noi e per altri, col solo risonare delle sue sillabe, il <<non più là>> dell’ingegno umano. Per questo, per essere una gloria insuperabile, più che per un altro fatto, vero anch’esso, d’essere stato il primo ed il sommo autore di nostra lingua, Dante è per noi segnacolo in vessillo. Noi siamo la nazione di Dante: possiamo dire e diciamo. E nessun’altra nazione potrebbe pronunziare così un nome di un suo poeta, e né di poeta né di guerriero né d’artefice né d’altrettali, né fare intendere tutto ciò ch’essa è e vuol essere. A noi, quando diciamo di essere i figli di Dante, si può rimproverare di dir troppo, non di dir poco. Ma noi diciamo quella parola soverchia non per vantazione, sì per augurio e conforto e voto e promessa e, magari strazio, sì, strazio a noi medesimi di non essere più quel che fummo e che potremmo tuttavia essere.
Quando poi prendiamo in mano il poema di Dante…. Allora diciamo parole strane. Alcuni dicono: – Questo poema è il più grande sforzo che abbia fatto nel passato e sia per far fare nell’avvenire l’ingegno umano. Contiene non solo tutta la vita, ma anche ciò che è di là della vita, non solo la terra ma il cosmo, e non solo il mondo ma l’oltremondo, tutto lo scibile e per giunta tutto il mistero. Ma chi può intendere questo poema? Esso ha nelle sue profondità di tempio o di catacombe tutto il sensibile e il soprasensibile; ma chi può penetrare in quel tempio e scendere in quelle catacombe? La porta è chiusa: il poeta portò la chiave con sé. –
E altri dicono: – La vita che Dante rappresenta è estinta. Il mondo che Dante figura non è quello che noi conosciamo e sappiamo. Il suo poema è sì un grande tempio, ma è crollato e non è più se non una rovina. Giova, sì, passeggiare tra le macerie. Pur piene di polvere e bronchi; giova; ché qua e là spuntano bellissimi fiori di poesia, e qua e là si leggono piccole scritte preziose per la conoscenza di quei tempi…-
E io dico, o fanciulli, che il tempio è ancora in piedi e che è bello dentro e fuori, e più bello nel suo complesso che ne’ suoi particolari che sono pur bellissimi, e che nel tempio e si gode molto, per la grande bellezza, e s’impara molto, per la ingegnosa verità: e che vi si può entrare, perchè la chiave s’è trovata. E se soggiungessi che l’ho trovata io, questo povero io, mi direste superbo? Quanti trovano, figliuoli miei, una chiave in questo mondo, e non sono detti superbi se dicono d’averla trovata e la riportano! E poi, sapete dove l’ho trovata? Nella serratura. Era nella toppa, la chiave del gran tempio! Era lì, e bastava appressarsi un poco per vederla e girarla ed entrare! Ma nessuno s’era, a quanto pare, appressato assai.
Perchè dico questo? Non certo per spiegarvi la Divina Commedia, a capo di questo vostro libretto; ma per darvi un saggio dell’esattezza del pensiero Dantesco, e della bellezza delle immagini con le quali è espresso.
Torniamo, dunque, a Dante che si sveglia  sull’alba presso la cima del monte che sorge solitario sull’emisfero delle acque.
Il poeta vivo sale coi due poeti morti. Egli si sente leggero e gagliardo come non mai: è sulla cima della scala, come in un volo. Perché? Perché non ha più in sé alcun impedimento, alcun peso: le passioni umane che ci fuorviano e ci ritardano, non sono più in lui. Ciò che egli farà, sarà il bene; ciò che egli vedrà, sarà il vero. È puro, perciò è libero.
Voi dovete andare a scuola. Perdonatemi, o fanciulli, questi paragoni fanciulleschi, i quali del resto erano cari al nostro grande padre, Dante. Voi  dovete andare. Codesto voi considerate una mancanza di libertà: non è vero? Voi dite: noi non siamo liberi d’andare e non d’andare: siamo in ciò schiavi della nostra dolce mamma, del nostro buon babbo. Sì? Davvero?
Considerate. Perché non siete in ciò liberi? Perché voi dite: se fossimo liberi, non andremmo. E perché non andreste? Perché vorreste piuttosto andare a caccia con la civetta e i panioni, andare a vendemmiare tra i contadini, andare in giro per le vie e per le piazze; o che so io.  Se in voi cessasse del tutto quel desiderio d’uccellare, di vendemmiare o di girellare, se voi smetteste affatto di volere quelle tali cose contrarie all’andare a scuola, ecco che andreste a scuola volentieri, cioè liberamente; ci andreste d’un buon passo, ilari, senza sentire il peso de’ vostri libri, senza dondolarvi per via, senza fare, all’ingresso, un passo avanti e due indietro. Vorreste; cioè sareste liberi. E sareste liberi e vorreste, perché vi avrebbe lasciato quel contrario volere, quell’opposto desiderio, quella passione della caccia e della campagna e dell’ozio; perché, insomma, sareste puri.
Dunque Dante era puro, perciò libero. Non poteva volere che il bene. Sicché saliva  la ripida scala leggiero leggiero come sull’ali del suo volere stesso. E quando fu sull’ultimo gradino, una di quelle Ombre, la più angusta, quella che l’aveva accompagnato e guidato nel gran viaggio per il baratro e per il monte, glielo disse. Ch’era libero, e che d’or innanzi poteva seguire i suoi gusti che non potevano essere che buoni. Il sole gli batte sulla fronte: avanti ed intorno agli occhi, gli si stende un paese felice. Egli potrebbe percorrerlo per lungo e per largo, se non fosse un fiumicello che gli traversa la strada. Quel fiumicello si chiama Lete o oblio. Chi lo passa, tuffandovisi, perde sin la memoria d’ogni trascorso e d’ogni passion sua. E chi lo passa si trova di là, sapete dove? Nell’Eden, nel luogo dell’innocenza, nel luogo dove si opera senza fatica e con somma dilettazione, e dove non si opera se non il bene.
Ogni uomo (non è vero, fanciulli?) deve desiderare di vivere in così fatto luogo; cioè, di operare solo il bene e di operarlo senza fatica e anzi con piacere. Essere felici è già una bella cosa, ma far felici gli altri, nell’atto e col fatto di essere felici noi, è la più bella cosa del mondo. Ebbene dimorare in quel luogo val quanto essere felici noi e far felici gli altri, perché vale fare il bene e farlo con sua gioia.
Dante guarda di là del fiumicello, che è mondo e bruno.
Ed ecco egli vede di là
            Una donna soletta che si gia
cantando, ed iscegliendo fior da fiore…

Ce n’era tanti, di fiori: fiori per dove la donna andava: ed essa, dunque, li coglieva cantando. Qual operazione meno faticosa e più dilettevole che cogliere fiori? Tanto è vero che la donna canta. Ma pure è un operare, quello. Il poeta a quel modo ci ha voluto significare questa idea, dell’operar giocondo.
La donna come si chiama? Matelda. Ma il nome propriamente di ciò ch’ella significa, qual è? Quel nome, o fanciulli, è ARTE.
Voi volete o fanciulli, che io discenda dall’altezza di quel monte e mi faccia più presso a voi, che siete costaggiù, terra terra… Ebbene, no: voi siete sulla cima e io, se mai, sono alle radici. Voi, voi, siete vicini a Matelda, perché siete tuttavia innocenti, ed ella è nel luogo dell’innocenza; e siete per ora  (oh! Siatelo a lungo!) felici, ed ella è nel luogo della felicità. Siete nella divina foresta, voi; e vedete Matelda che canta e sceglie i fiori.

Giovanni Pascoli

(continua)

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